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#narrativa italiana del '900
gregor-samsung · 11 months
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“ L'ultimo giorno di scuola, mentre li attendeva, pensava all'opportunità di fare un discorso di congedo, prudente, intonato al suo stato d'animo. Ma convinto che la sua fredda chiarezza, la sua mancanza d'entusiasmo, erano in relazione con la sua decadenza fisica di cui notava giorno per giorno i progressi, non gli parve giusto riversare le sue tristezze nell'anima degli scolari. Né voleva, d'altra parte, lasciare un ricordo che non fosse aderente all'immagine che i giovani s'erano fatta di lui. Comprendeva che, se avesse parlato seguendo le sue vere idee, quel senso di lieve distacco da loro, che egli aveva già notato, si sarebbe accentuato, forse sarebbe divenuto definitivo. Nella loro mente sarebbe rimasto il ricordo del loro vecchio maestro, morto non solo fisicamente, ma morto nell'anima. Sarebbe stato troppo triste. Allora parlò cosí: – Chiudiamo con oggi, venti giugno, il nostro anno di scuola, ultimo forse per il vostro vecchio maestro. So che avvenimenti gravi si stanno preparando, che giornate luminose per l'avvenire del nostro paese metteranno a prova quanti hanno saldezza d'animo, bellezza d'ideali, fermezza di propositi. Bisogna credere: profondamente credere, – e qui si arrestò un momento perché il suono della sua voce lo aveva ingratamente sorpreso, – che il mondo va verso un destino migliore. – Io sono certo che tutti voi troverete nella prossima lotta il vostro posto; che il mio insegnamento avrà avuto il potere di rinsaldare in voi la giovanile fede nell'avvenire della vostra opera e che, comunque e dovunque, voi mi considererete presente in mezzo a voi, con gli stessi sentimenti... ma con migliori gambe. Si volse intorno sperando di avere acceso un sorriso sulla faccia dei suoi scolari. Ma si accorse che era riuscito solamente a commuoverli. Si alzò lentamente; e fece per andarsene, ma di colpo, come per una intesa precedente, i suoi scolari gli furono tutti intorno ansiosi. Egli si arrestò stupito: poi dopo averli guardati negli occhi li abbracciò tutti. Si allontanò con la maggiore rapidità possibile, perché sentiva un tremito in mezzo al petto: un tremito infantile. «Non si sa mai, – pensò, – la vecchiaia fa scherzi molto curiosi». “
Francesco Jovine, Signora Ava, Einaudi, 1958; pp. 170-172.
[1ª edizione originale: 1942]
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lamilanomagazine · 10 months
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Lecco: A Palazzo delle Paure "Novecento: il ritorno alla figurazione da Sironi a Guttuso".
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Lecco: A Palazzo delle Paure "Novecento: il ritorno alla figurazione da Sironi a Guttuso". Prosegue a Lecco il ciclo espositivo di Percorsi nel Novecento, programma ideato dalla Direzione del Sistema Museale Urbano Lecchese e affidato per la sua progettazione e realizzazione a ViDi Cultural che, fino a novembre 2024, analizzeranno la scena culturale italiana del XX secolo. Il nuovo capitolo di questa narrazione, dopo la rassegna che ha esplorato l’universo futurista, è in calendario al Palazzo delle Paure, dal 22 luglio al 26 novembre 2023, con NOVECENTO. Il ritorno alla figurazione da Sironi a Guttuso. La mostra, curata da Simona Bartolena, prodotta e realizzata da ViDi cultural, in collaborazione con il Comune di Lecco e il Sistema Museale Urbano Lecchese, travel partner Trenord, presenta oltre 60 opere di artisti quali Mario Sironi, Carlo Carrà, Giorgio Morandi, Felice Casorati, Arturo Martini, Giacomo Manzù, Mario Mafai, Renato Guttuso e molti altri che, nel periodo tra le due guerre, sostennero il Ritorno all’ordine, ovvero il richiamo alla figurazione senza rinnegare lo spirito delle avanguardie d’inizio secolo di cui erano stati fautori. Il percorso è punteggiato da approfondimenti sulle altre espressioni creative coeve, dal design all’architettura, con l’affermarsi dell’Art Déco e del Razionalismo, dal teatro alla letteratura. Come le altre mostre del progetto di Palazzo delle Paure, l’esposizione sarà corredata da un importante apparato didattico-narrativo, con cenni storici, informazioni e spiegazioni dal taglio divulgativo. “Ritorna una grande mostra a Palazzo delle Paure proposta da ViDi - dichiara Simona Piazza, assessore alla Cultura del Comune di Lecco -, con cui con piacere, ormai da diversi anni, promuoviamo grandi mostre nel polo espositivo d’eccellenza della nostra città. Questa nuova mostra dedicata al Novecento segue quella dei Futuristi, che si è appena conclusa con un grande successo di pubblico e, pur ricalcando un analogo arco temporale, propone un percorso artistico più figurativo, classico. L’obiettivo è quello di proporre un excursus negli secoli 800 e 900 in grado di legarsi anche ai temi e alle opere ospitate presso la nostra galleria di arte moderna, per un percorso artistico di scoperta e conoscenza che arriva fino alla prima metà del secolo scorso”. “Dopo la mostra Futuristi - afferma Simona Bartolena -, che indagava l’evoluzione dell’Avanguardia fondata da Marinetti, destinando particolare attenzione al secondo periodo del movimento, si apre ora Novecento, che ne prosegue idealmente il racconto. Gli anni sono i medesimi – dal primo dopoguerra agli anni Quaranta –, ma questa volta il focus è sugli artisti che hanno scelto un ritorno alla figurazione classica. Una tendenza che presenta un ventaglio di possibilità espressive e molteplici possibili sfumature. La complessità del periodo preso in esame si riflette nell’esperienza artistica dei protagonisti della scena culturale del tempo, tra contrasti, contraddizioni e interpretazioni possibili dell’idea di recupero della tradizione figurativa. I colori accesi, la dinamicità, la fantasia e il piglio provocatorio che caratterizzavano le opere della mostra precedente lasciano il passo a composizioni impostate sulla plasticità, la sintesi e la solidità della forma e su tavolozze che prediligono i colori della terra”. “Come di consueto - prosegue Simona Bartolena - l’allestimento e il percorso sono studiati con una precisa idea narrativa che, opera dopo opera, sviluppa il tema, raccontandone i diversi aspetti e le diverse espressioni. Per rendere più fruibile la lettura, abbiamo immaginato oltre alle più classiche sezioni di inquadramento generale dei vari linguaggi, anche sezioni dedicate a specifici generi iconografici, che permettono confronti tra personalità e stili differenti”. Il Ritorno all’ordine ha rappresentato un desiderio comune a gran parte degli ambienti culturali del primo dopoguerra, che urlava l’esigenza di rientrare nei canoni consacrati dalla tradizione, senza perdere di vista lo spirito avanguardista e di rinnovamento culturale promossi dalle generazioni precedenti. In Italia questa sfida venne raccolta da Margherita Sarfatti che fondò il movimento Novecento italiano di cui facevano parte Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi, Mario Sironi, accumunati dalla volontà di rappresentare un’epoca con la loro pittura e di recuperare lo stile dei grandi maestri del passato. Attorno al gruppo di Novecento gravitavano altri autori quali Felice Casorati, Massimo Campigli, Filippo de Pisis, Giorgio Morandi che, pur sposando gli stessi ideali, non vi aderirono mai del tutto. Particolarmente suggestiva è la sala dedicata a Mario Sironi con opere che ben rappresentano lo stile dell’artista nel periodo preso in esame. Ma in mostra non mancano altri capolavori, quali un raro paesaggio di Giorgio Morandi o l’altrettanto straordinario Rovine dipinto da Afro negli anni trenta. Un ruolo particolare lo occupa il cosiddetto Realismo Magico, di respiro più europeo, che partendo dal recupero di stilemi espressivi classici, si fa tuttavia espressione di una tensione emotiva ben distante dall’esibita monumentalità e solennità di tanta pittura novecentesca. Accanto alle opere riferibili al Realismo Magico, si indagano anche diverse possibili declinazioni oniriche e visionarie della pittura del vero, dagli episodi di matrice surrealista ai retaggi metafisici ancora visibili in alcuni lavori. La rassegna si chiude idealmente con la ricognizione su quegli autori che si posero all’opposizione, anche politica, dell’arte ufficiale, dal gruppo di Corrente di Milano, alla romana Scuola di via Cavour. Accanto ai grandi nomi del tempo, la mostra propone anche, come di consueto, dipinti e sculture di artisti meno noti, che sapranno sorprendere i visitatori. Costruita quasi esclusivamente da opere provenienti da raccolte private (con l’eccezione degli importanti prestiti dal Museo della Permanente di Milano e dalla collezione BPM), l’esposizione offre la possibilità di ammirare lavori ben raramente esposti, talvolta proposti al pubblico per la prima volta.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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westeggediting · 7 years
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Leonardo Colombati: La scorsa settimana mi hai confidato che solo ultimamente hai trovato il tempo di rileggere tutte le tue opere. Che effetto ti ha fatto? Raffaele La Capria: Mi sono approvato.
Si è chiuso così l'intenso incontro con l'autore di "Ferito a morte" che, quasi sorpreso dal fatto che volessimo dedicare un Book Club al suo capolavoro, con la sua presenza ci ha fatto un regalo che difficilmente dimenticheremo. Cogliamo quindi l'occasione per ringraziare ancora Raffaele La Capria per il suo emozionante intervento e tutti gli amici che  hanno deciso di sfidare il caldo torrido per inseguire la bella giornata insieme a noi.
www.westegg.it
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debhornet-blog · 6 years
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Sabato 31 marzo ha preso il via Spritz con gli autori, una simpatica iniziativa ideata e promossa da Isabella Borghese presso la libreria Sinestetica, che sarà replicata sabato 14 aprile con Massimo Torre e Luca Ricci, rispettivamente autori di La dora dei miei sogni (Giulio Perrone Editore) e Gli autunnali (La nave di Teseo). 
Sorseggiando uno spritz, Isabella Borghese ha presentato Romana Petri e Nadia Terranova e ha chiacchierato con loro cercando di scoprire dettagli e particolari sulle loro modalità di scrittura e sui loro luoghi di ispirazione. Poi la parola è passata a Giulia Peci, del gruppo Leggo Letteratura Contemporanea, che ha presentato Il mio cane del Klondike, appena pubblicato da Neri Pozza. Nadia Terranova, di cui uscirà a ottobre il nuovo romanzo sempre per Einaudi, è stata, invece, raccontata da Simona Mangiapelo dell’Associazione Culturale Caffè Corretto che ha commentato Gli anni al contrario. 
È stata una mattinata frizzante e coinvolgente dove si è parlato di libri e di scrittura, dove si è riso  e sorriso in un’atmosfera rilassata, con Isabella Borghese che ha dettato i tempi e ha rotto gli indugi chiedendo a Romana e Nadia di raccontare il loro esordio letterario.
“Come ho cominciato?” Nadia Terranova ci pensa un attimo e poi inizia a raccontare: “Sono arrivata a Roma 15 anni fa per frequentare un corso di editoria dopo essermi laureata in filosofia. Volevo scrivere ma sapevo di dovermi fare le ossa e sentivo che mi avrebbe aiutato di più studiare editoria che non scrittura creativa. La mia palestra è stata scrivere le bandelle, le quarte di copertina, perché ho capito che il magma di un libro doveva essere narrabile e seducente. Mi sembrava come quando da piccola scrivevo le lettere a mio padre, che non viveva più con me essendosi separato da mia madre, e dovevo scegliere i fatti salienti della settimana per renderli divertenti e commoventi. Dopo aver imparato tantissimo, sono andata via, ho preso un dottorato, ho fatto altri lavori e mi sono presa un paio d’anni sabbatici per scrivere e pubblicare Gli anni al contrario. Essendo un esordiente, Einaudi mi ha parcheggiata per 5 anni e io, in attesa che venisse pubblicato, ho scritto dei libri per ragazzi perché dovevo sfogare la mia voce narrativa che ormai premeva per esprimersi. Ora scrivo indistintamente per adulti e per ragazzi, dipende dal destinatario che mi viene in mente quando immagino una storia”.
Gli inizi di Romana Petri sono invece molto diversi: “Avevo 22 anni e non sapevo a chi far leggere i miei scritti fino a quando mia madre mi consigliò di proporli al mio scrittore preferito e cosi feci. Contattai Giorgio Manganelli, dopo aver trovato il suo numero sull’elenco telefonico e dopo tre settimane mi chiamò: Signora Pezzetta (ancora non avevo un nome d’arte, chiarisce) lei ha scritto un gran bel libro e vorrei incontrarla. Mi prese un collasso a sentire che Manganelli in persona, il mio idolo letterario, si complimentava con me. Mi armai di coraggio e andai a casa sua. Lui era seduto su una specie di trono mentre io ero in basso, ma non mi sono scoraggiata e dopo aver superato a pieni voti un vero e proprio interrogatorio sulla letteratura inglese, mi disse che avrebbe proposto il libro alla Rizzoli. Poi passarono forse due anni di silenzi, fino a quando finalmente squillò il telefono, inizialmente non capii cosa diceva il tizio dall’altra parte del telefono, poi lentamente realizzai che quello che parlava era un agente letterario e mi stava proponendo un contratto. È iniziata cosi. Poi purtroppo Manganelli scrisse una recensione meravigliosa che segnò il mio destino. Fece il mio nome insieme a quello di Michele Mari definendoci le due promesse della letteratura italiana e mi ha fregato… perché mi sono sposata proprio con Mari”.
Isabella Borghese incalza e chiede a Nadia e a Romana se quando scrivono hanno delle abitudini particolari, magari come Balzac che non poteva fare a meno di bere 50 tazze di caffè al giorno o Schiller che doveva avere un cesto di mele marce sotto la scrivania o come Hugo che scriveva nudo con i vestiti chiusi a chiave nell’armadio per non avere la tentazione di uscire. Ridendo, Romana Petri ci assicura che lei scrive assolutamente vestita perché ha sempre freddo e anche con 40 gradi deve avere lo stomaco coperto. Ma svela di avere un’abitudine particolare: “Quando finisco di scrivere un libro segno il giorno, il mese, l’anno, l’ora e i minuti della prima stesura. Se il numero che esce non mi piace resto inquieta perché ho una certa ossessione per i numeri. Per il resto, giuro, di essere una persona molto normale. Mi dedico alla scrittura creativa quando non lavoro e io lavoro come una pazza, perché questo non è uno sport da signorine”. 
Nadia ribatte e confessa di vivere da anni su una poltrona viola e spera di concludere i suoi libri in posti suggestivi. “Sono con la stessa persona da 15 anni e la relazione non finisce perché lui mi fa scrivere e non mi disturba mai. La mia casa è molto piccola, ho provato a scrivere a letto, alla scrivania, mentre cucino, ma solo quando mi sono costruita il mio angolo con la poltrona viola, ho capito di aver trovato il mio posto. La mia scrivania è il computer sulle ginocchia; il mio studio è la libreria che mi fa angolo e mi circonda. Quando non sono a casa, scrivo in albergo e in treno. Ho finito la prima stesura del prossimo romanzo, che uscirà a ottobre per Einaudi, in treno, mio malgrado, perché  speravo di finirlo sulla mia poltrona o davanti al Partenone dove sono stata per il mio compleanno, ma purtroppo non è andata cosi: l’ho finito sulle rotaie, entrando in stazione”. 
Romana racconta invece di come ha perso il suo studio a casa, piccolo e umido ma pur sempre suo. Il fattaccio è accaduto quel giorno in cui “mio figlio è tornato a casa con due piccioni senza piume, in fin di vita, che non solo sono sopravvissuti, ma hanno preso possesso dello studio. Cosí mi sono trasferita in camera da letto, anzi proprio nel letto, circondata da cuscini. Ora i piccioni sono volati via ma non so se tornerò nel mio studio, forse quando casa sarà ripulita, ma non ne sono sicura. Mi trovo bene a letto tra i cuscini, mi auto-coccolo e ho la mia routine di scrittura: la mattina mi alzo, bevo il caffè, faccio colazione e poi mi rimetto a letto e inizio a scrivere. Vivo con pezzi di carta ovunque, dove fermo le idee che mi vengono e spesso scrivo al buio durante la notte, mentre cerco di dormire, e poi la mattina decifro con molta fatica quello che ho scritto con una scrittura da medium. Quando scrivo un romanzo ho invece un metodo collaudato: scrivo, lo rileggo e poi lo abbandono per almeno un anno. Quando lo riprendo, deve essere ormai lontano da me, tanto da averlo quasi dimenticato, cosí da non ricordarmi alcuni passi e poter iniziare a fare l’editing, indispensabile ma per niente piacevole”.
Nadia scrive anche in biblioteca, dove va “quando sento che al libro manca aria, lo porto a fare una passeggiata come fosse il mio cagnolino. Quando vado a Messina mi porto il computer ma non scrivo neanche una riga. Poi torno a Roma e inizio a scrivere romanzi che sono sempre ambientati a Messina. È come se tornassi a casa per saccheggiare i ricordi, e una volta a Roma apro il bottino e inizio a scrivere”.
Ma scrivere per voi è un mestiere, chiede Isabella Borghese?
Con la consueta e affascinante impulsività Romana non fa finire la domanda che subito risponde: “Un mestiere c’è quando sei pagata a fine mese. Sarebbe molto bello poter vivere di scrittura e in parte ci vivo perché scrivo anche articoli, faccio delle traduzioni, insegno letteratura, ma sarebbe un’altra cosa potersi dedicare esclusivamente alla lettura e alla scrittura. Oggi siamo inondati di libri, ma pochi sono quelli validi. Siamo di fronte a un ossimoro pazzesco: tutti vogliono scrivere, ma nessuno vuole leggere e quindi inevitabilmente i risultati sono mediocri. Bisognerebbe frequentare più corsi di lettura che di scrittura. Come si può prescindere da alcune letture, come Don Chisciotte, Oblomov, come puoi scrivere se non ami leggere? Ecco perché spesso si leggono cose banali che con la letteratura non hanno nulla in comune. La letteratura è altro dalla vita reale, deve essere qualcosa che quando la leggi vai da un’altra parte, perché se rimani qui è inutile quel libro”. 
Nadia Terranova interviene con la sua dolcezza siciliana, perché tra le altre cose tiene anche corsi di scrittura e si dice d’accordo con Romana: “anche io vivo di scrittura ma non esclusivamente di romanzi. Mi occupo anche di cose collaterali come le collaborazioni con i giornali e i corsi di scrittura a proposito dei quali, come giustamente dice Romana, spingo molto sull’importanza del leggere che non prescinde dallo scrivere. Bombardo gli aspiranti scrittori di consigli di lettura, assegno compiti e dissemino libri, perché è impossibile scrivere se non si ha un orizzonte in cui anche solo idealmente collocarsi. Quando scrivo sento l’obbligo di sapere che sto compiendo un gesto che prima di me ha compiuto Dostojevski, Steinbeck… io devo pormi l’obiettivo di essere alla loro altezza, poi non ci riuscirò, scriverò magari dei libri mediocri, ma l’importante è tenere alta l’asticella. Non posso scrivere la prima cosa che mi viene in mente, quella non è letteratura, gli scivoloni non sono ammessi, come le frasi scontate e banali…Lo scrittore deve fermarsi  e pensare che magari c’è un altro modo di dire una cosa senza essere scontati e che è proprio quell’altro modo di dirla che rende un testo letterario, senza arrivare al virtuosismo. Per esempio la poesia italiana del ‘900 è per lo più scritta con parole di uso comune ma poste in un contesto altro che quando le leggi capisci di non aver pensato a quel verbo o a quella parola in quei termini. Non deve essere la ricerca dell’originalità a tutti i costi, ma neanche la fiera della banalità”.
E la Petri rincara il concetto: “Tabucchi per esempio aveva il dono del togliere, del non detto, usava parole semplici che creavano la magia, che procuravano quello strappo nelle viscere che fa la grande narrativa.
E quindi come scegliete i libri contemporanei da leggere, considerando che ogni giorno gli scaffali delle librerie si riempiono di testi?
Nadia confessa di aver escogitato un trucco: “cerco di non farmi influenzare dalle conoscenze, perché spesso ai festival si incontrano gli scrittori e non sono sempre incontri piacevoli. Allora cerco di scindere perché molti mi sono antipatici e quindi finirei per non leggerli preferendo solo libri di persone gentili e carine, ma spesso le due cose non coincidono. Se si scrive per rivelare un segreto nascosto, per raccontare una parte di noi intima, allora quella voce non coincide sempre con quella persona e smontando questo pregiudizio ho avuto delle belle sorprese, ho letto libri molto belli scritti da persone che nella vita non frequenterei mai. Inoltre mi sforzo di trattare i contemporanei come classici e viceversa, con un classico mi piace capire cosa ci sta dando ancora oggi e faccio lo stesso con un contemporaneo.
Romana Petri invece non ci rivela alcun criterio di scelta ma come un simpatico ciclone passa direttamente e senza indugi a consigliare L’estate del ’78 di Roberto Alajmo e David Machado (autore tra l’altro di Indice medio di felicità) di cui sta leggendo, in portoghese, il suo ultimo romanzo Sottopelle, sperando di riuscire a farlo pubblicare in Italia.
A questo punto Isabella Borghese si vede costretta a interrompere la chiacchierata per motivi di tempo, ma il dispiacere viene subito compensato dall’intervento di Giulia Peci del gruppo Leggo Letteratura Contemporanea.
“Sono felice di aver letto Il mio cane del Klondike di Romana Petri. Non mi sono voluta far influenzare dalla rete e condizionare dalle recensioni e ho deciso di non leggere niente che ne parlasse . Quindi quando ho aperto il libro non avevo idea di cosa avrei trovato. Ammetto che mi ha emozionata tantissimo, l’ho sentito molto vicino, perché è un libro carico di emozioni. La storia racconta il salvataggio di un cane e di un riconoscimento tra un cane e una donna: lei lo incontra per caso davanti alla scuola dove insegna, lui è in fin di vita e lei decide di salvarlo. In un momento storico in cui soccorrere viene considerato un crimine, questo elemento rende questo libro estremamente attuale, perché il cane del romanzo è in un certo senso un immigrato con problemi d’integrazione. È lui il vero protagonista, è l’unico non a caso che ha un nome, Osac, e un cognome e ha una voce tutta sua. Osac è l’anagramma di caos e di caso e questo dice tanto sul personaggio. Tra Osac e la donna nasce un fortissimo rapporto d’amore, esclusivo, totalizzante e travolgente, forse anche esagerato, e l’evolversi di questa storia permette alla salvatrice di fare una serie di riflessioni sui sentimenti, sulla vita e su quello che accadrà. È un libro sull’abbandono, ma anche sulla maternità e su come questa cambia il rapporto tra i due.
“I cani sanno amare, lo sanno fare in modo coraggioso, buono e disinteressato ed è per questo che non si trasformeranno mai, come è successo a Pinocchio, in esseri umani veri.”(Il mo cane del Klondike, ed. Neri Pozza)
È anche un libro di ricordi, e di affetti che perdurano nel tempo, a dispetto della perdita di una persona che rimane talmente presente nel nostro cuore da essere a tutti gli effetti viva.
Talvolta ci si innamora degli uomini sbagliati, tutti ci avvisano che ci farà del male, che sarebbe meglio lasciarlo perdere ma spesso noi donne abbiamo la sindrome da crocerossina e ci immoliamo. È quello che accade alla protagonista umana del libro, capisce subito che sarà un cane difficile, inizialmente vuole salvarlo per poi darlo a qualcun altro, anche il veterinario la mette in guardia, ma sarà travolta da un amore travolgente per un cane travolgente che le sconvolgerà la vita e per il quale sarà pronta a rinunciare anche alle relazioni sociali. È un cane difficile da gestire, un bipolare, un malato psichico. 
“Allora ci guardavamo, e insieme recitavamo la miracolosa frase: io sono le mie paure, e dunque non posso avere paura di me. Continuo a usarla ancora, e ogni volta mi ricordo di lui, deluso temperamento d’assalto che nascondeva pero delle paure antiche, contro le quali gli tocco combattere per la vita intera. Cose sue profonde, dell’anima, ferite che, per quanto mi abbia raccontato nel suo lapidario linguaggio in cui le y venivano usate al posto di tutte e cinque le vocali, rimasero per mucosa mai sapute per intero. intuite, certo, a volte addirittura sentite mie, per quanto mi turbavano tutti suoi tormenti”.  
Questo libro è un potente concentrato di emozioni e sentimenti diversi: dalla paura dell’abbandono a ciò che prova una donna scoprendo per la prima volta sulla propria pelle la maternità, per arrivare a tutti quegli affetti profondi che spesso ci legano a dei nostri cari scomparsi da anni, siano costoro esseri umani o “disumani”. C’è un’immagine a tal proposito che ho molto amato, ed è quella di “rimestare con un cucchiaio nel proprio cuore per far spazio a tutti i propri affetti … dividendoli e moltiplicandoli”. Inoltre ha una prosa coinvolgente, attenta alle parole e alle lingue in generale, persino a quella del cane, cui alla fine è dedicato addirittura un omaggio .. particolare. Mi ha molto colpito la riflessione che fai sul linguaggio, che è diverso per ognuno di noi, anzi per ogni creatura vivente e che bisogna solo saperlo interpretare per imparare a relazionarsi, usandone uno che sia comprensibile a entrambi.  È cosi Romana?
Si, ho inventato un linguaggio gutturale per dare voce a Osac, perché a lui non manca la parola, bisogna solo aver voglia di capirla e non a caso Osac arriva dopo il ciclone (Le serenate del ciclone, Neri Pozza), perché sono stati due i cicloni della mia vita. Ho scritto questo romanzo perché Osac è fascino puro. Quando ci portiamo a casa un animale ci portiamo dentro la natura, basta pensare a un gatto che salta senza fare rumore sulla spalliera e sta con una zampa ciondoloni, lo guardi e vedi la savana. Osac mi è entrato dentro casa e mi ha portato mezzo Klondike e in questo romanzo, che è un esplicito omaggio a Il richiamo della foresta (di Jack London – ndr) io mi sono identificata con Osac, non con la donna che lo salva. Alcuni hanno criticato la fine, ma io credo che i libri che consolano siano spesso da buttare, mentre i libri che danno inquietudine sono da conservare. È un libro che parla di inquietudine, ma c’è anche tanto amore e alla fine tutto si ricompone. Come nella vita, che se ci fermiamo alla baionetta che abbiamo davanti agli occhi, non comprendiamo la battaglia, per parafrasare Stendhal.
È ora il turno di Simona Mangiapelo (autrice del romanzo Di nessuno, Alter Ego edizioni) dell’Associazione culturale caffè corretto che introduce Gli anni al contrario al pubblico in sala per poi porre alla scrittrice alcune domande sul testo. 
Questo libro arriva al cuore, chiarisce subito Simona Mangiapelo, anche se in alcuni punti fa male, e la scelta narrativa è puntuale, sai trovare la parola giusta per imprimerti nel cuore e nel ricordi di chi ti legge e proprio per questo ho avuto difficoltà a scegliere solo pochi brani per oggi. I protagonisti sono due ragazzi, Aurora e Giovanni, così determinati a prendere le distanze dai loro genitori al punto da non capire cosa davvero vogliono per loro stessi. S’incontrano e s’innamorano. Nel giorno del ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro e di quello di Peppino Impastato nasce la figlia di Aurora e Giovanni. Si avvicinano lentamente e grazie alla struttura delle pagine lentamente e inesorabilmente si allontanano. Giovanni è tormentato, si sente parte dell’importante movimento storico che vive, ha un’ansia cieca di rivoluzione che si rivela distruttiva e lo porta fino a far uso di eroina. In questo romanzo c’e la lotta armata degli anni settanta, la piaga dell’eroina e il dramma di due persone che vivono insieme, ma che possono essere lontane e profondamente sole. 
“Nessuno dei due aveva il coraggio di ammettere la solitudine. La casa, per quanto in miniatura, certi giorni sembrava fin troppo grande e vuota. Si specializzarono in silenzi opportuni, divennero complici e conniventi. Una sera si sedette accanto al marito con una siringa in mano: Non abbiamo mai fatto niente insieme…” (Gli anni al contrario, Einaudi) 
Simona Mangiapelo chiede a Nadia Terranova da quale desiderio narrativo è nata questa storia?
“È sempre difficile parlare di questo libro senza parlare del finale, non lo farò neanche oggi, ma è nell’ultima pagina che è depositata la mia necessità di scrivere questa storia. Non è un romanzo autobiografico o biografico, anche se i due protagonisti raccontano i miei genitori e io sono Mara che, per una distorsione narrativa, nasce il 9 maggio. Dopo aver compiuto un lungo percorso personale, per accettare la storia tormentata di Giovanni che si interrompe nel 1989, quando io ero una bambina, ho sentito il bisogno di raccontare la storia di quest’uomo, per liberarla dal tabù di silenzio assoluto che vigeva a casa mia. Mi interessava portare in salvo il destino di Giovanni e capire cosa aveva portato nella mia vita e con chi si confondeva, con quante storie comuni in quel decennio cosi particolare. Mi sono documentata su quegli anni, ma non avevo intenzione di scrivere un romanzo storico, e non volevo dare una parola decisiva. Volevo solo raccontare la storia di una persona che era uno tra tanti, uno come tanti, uno di quelli che, se fosse sopravvissuto, a distanza di anni avrebbe detto, con forte senso di appartenenza, quella è la mia generazione. Un desiderio di appartenenza che noi non abbiamo, ma che per lui rappresentava quell’immaginario che aveva condizionato profondamente le sue scelte private. Se fosse vissuto a Roma avrebbe fatto politica, ma invece viveva a Messina e quello che accadeva in Italia lo viveva in modo sconvolgente per la sua vita privata. Era un’epoca in cui la messa in gioco era personale, fisica direi, anche se Aurora e Giovanni non fanno nulla di eroico. Questa è la cifra dell’anti-eroismo di Giovanni, il contrario di quello che accade ne La Meglio gioventù (film di Marco Tullio Giordana – ndr) dove i protagonisti sono persone comuni, ma sempre in prima linea. I protagonisti de Gli anni al contrario agiscono invece per sottrazione, per quello che non riescono a fare, ma a cui sentono di appartenere. Nelle domande che mi sono fatta scrivendo, mi sono chiesta quando far iniziare la storia di Giovanni. Con la tossicodipendenza, con la malattia, con la decisione di fare politica? Ho deciso di far cominciare la storia con il concepimento di Giovanni, perché tutto nasceva da quel momento. Nato dieci anni dopo gli altri fratelli, ha fin da subito un marchio addosso di differenza e di costante ritardo, per cui Giovanni sa di essere nato per sbaglio, di essere l’ultimo e proprio per questo ha l’esigenza di afferrare qualcosa, ma di non riuscirci.
Cara Aurora… non abbiamo mai usato lo stesso dizionario, parole uguali, significati diversi. Dicevamo famiglia, io pensavo a costruire e tu a circoscrivere. Dicevamo politica, io ero entusiasta e tu diffidente. Io combattevo, tu ti rifugiavi. Se non ci fosse stata Mara ci saremmo persi subito…(Gli anni al contrario, Einaudi)
Una volta hai detto: I grandi non sono che bambini sopravvissuti, e ho pensato a Mara che sembra dirci che malgrado un passato ingombrante e tormentato, nonostante due genitori senza gli strumenti per crescerla, Mara sopravvive malgrado tutto ciò. È questo il messaggio che volevi dare?
“Sì, mi accorgo che sono ossessionata dai sopravvissuti e dal sopravvivere. Infatti il prossimo romanzo è dedicato proprio a loro, perché credo che ognuno di noi lo sia, non c’è nessuno che possa ritenersi immune da questa definizione. Nello scrivere il nuovo libro avevo la tentazione di dedicarlo a qualcuno che non c’è più ma poi ho realizzato che quello che facciamo è sempre dedicato a qualcuno che non è più con noi. La letteratura serve anche a tenere in piedi i fantasmi, a chiamarli vicino, a farli vivere intorno alla poltrona viola, ma poi la storia è letta da chi vive e da chi cerca continuamente un senso per esserci. Io ho vissuto la prima parte della mia vita segnata dal non avere più un padre, dall’averlo visto andare via molto presto, quando è morto era più giovane di me adesso e quindi ogni anno della mia vita, ancora di più dopo aver compiuto 37 anni, è un anno da sopravvissuta. Nella prima parte della vita viviamo in una dimensione mitica, soprattutto noi che siamo cresciuti senza Internet e il mio collegamento con il mondo erano i libri, Diventavo di volta in volta Il richiamo della foresta, Delitto e castigo e tutto quello che leggevo. Ero felice di questa immersione in altri mondi. Non a caso il mio scrittore preferito è Bruno Schulz perché racconta un’infanzia mitica ma non mitizzata e neanche non idealizzata perché l’infanzia è anche un luogo terribile, dove tutto succede in modo atroce, anche perché tutto quello che ci succede, accade per la prima volta: la perdita, la morte di qualcuno, l’abbandono, la paura dell’abbandono, l’amore, il perdersi. Per un bambino è molto importante la prima volta in cui si perde, è quasi una tappa di passaggio della crescita, sia per il figlio che per la madre. Quindi si, credo proprio che tutta la letteratura sia di chi sopravvive, tanto che alla fine di ogni libro potrebbe esserci la frase “sono sopravvissuto per raccontarlo”. 
E noi siamo sopravvissuti per leggerlo sottolinea Giulia Peci, un attimo prima che questa splendida iniziativa termini. 
Il prossimo appuntamento è per il 14 aprile alle 10 presso la libreria Sintetica con Isabella Borghese, Massimo Torre e Luca Ricci. A presto
  Spritz con gli autori: Romana Petri e Nadia Terranova si raccontano e ci raccontano Sabato 31 marzo ha preso il via Spritz con gli autori, una simpatica iniziativa ideata e promossa da Isabella Borghese presso la libreria Sinestetica, che sarà replicata sabato 14 aprile con Massimo Torre e Luca Ricci, rispettivamente autori di La dora dei miei sogni (Giulio Perrone Editore) e Gli autunnali (La nave di Teseo). 
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gregor-samsung · 3 months
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L'uomo che decise di fingersi un altro
“ Avevo deciso di fingermi un altro, non nel senso di cambiare nome o connotati. O tutti e due; no, fingermi un altro «dentro». Non pensavo a un suicidio psicologico, non intendevo cancellare la mia identità per sostituirla, pretendevo di mantenerla, ma di nasconderla; inventandomi, per convenienza, una natura diversa. Sì che gli altri, parlandomi, si riferissero a questa e non a me. Avrei potuto fare di tutto, senza sentirne rimorso o vergogna. Chi parla con te non sa mai chi sei: conosce un viso, un nome, anche un carattere, qualche pensiero, ma «chi» sei non lo sa; lo sai soltanto tu che dici «io» e ne hai coscienza perché guardi dalle finestre dei «tuoi» occhi, odori dai buchi del «tuo» naso; ma per gli altri questo «io» è un «lui» e un «lui» può essere chiunque. Perché, allora — mi dicevo — non sfruttare questa impossibilità d'identificazione profonda, per sfuggire, non soltanto al male che gli altri potevano arrecarmi, ma anche a quello stesso che io potevo procurarmi per errore o incapacità? Ecco, dunque, il tema: nascondersi dietro un altro che non esiste, reinventare sé stesso finto, per proteggere quello vero. Mostruoso? non più della vita che ci espone a continui travagli. E, comunque, non si trattava di sembrare un altro agli altri, ma di sembrarlo a me stesso; chè, anzi, per il mondo dovevo continuare come se nessuna sostituzione o, meglio, sovrapposizione fosse mai avvenuta al mio interno. Cominciava un'altra vita.
Avevo rimosso me stesso e sarebbe stato un altro a subire umiliazioni, dolori, delusioni al posto mio. E potevo cambiarlo, a seconda delle circostanze, con un altro ancora, con vari altri, quanti volevo. E diversi tra loro. Condussi un'esistenza che il mondo giudicò scombinata e incoerente. E io, invece, stavo lì coerente ma irraggiungibile, ridacchiando nel mio nascondiglio per tanta invulnerabilità. Continuavo il mio lavoro, conservavo la mia posizione sociale, i miei titoli; ma consentivo all'altro che mi rappresentava, tutte le libertà possibili. Nei primi tempi le cose andarono felicemente. Il discredito che mi circondava non mi riguardava, addirittura mi divertiva. Ma, poco alla volta, presi a mal sopportare questi altri che m'inventavo, con i quali convivevo e che non stimavo. Mi accorsi come non sia vero che la vergogna, la sofferenza, i sentimenti degli altri non ci tocchino. E mi accorsi che questi altri, che m'illudevo di controllare e dirigere, diventavano sempre più autonomi e padroni. Sentivo che, continuando, avrebbero fatto di me il loro burattino. La corazza s'indeboliva, al punto che non mi distinguevo più dai fantasmi che avrebbero dovuto proteggermi. Dovevo liberarmene o non mi sarei più ritrovato. Ma non era quello che avevo voluto? No! avevo preteso di restar vivo, fingendomi morto. E non c'è, invece, finzione che duri così a lungo senza mutarsi in realtà. Decisi di ritornare in me, prima che fosse tardi. Ma era tardi: non sapevo più chi ero. E non in senso universale. Chi siamo non c'è chi lo sappia o, se c'è, tace ostinatamente. No, io mi chiedevo, più semplicemente: sono un immorale, un cinico, un vigliacco, un coraggioso? Sepolto da finzioni diverse, m'ero smarrito. Ricordavo tutte le vite vissute, ma non riuscivo più a distinguere quale fosse la mia, per potermela riprendere. Né avrei risolto nulla a scegliermi la vita che più mi sentivo di vivere. Anche se il caso m'avesse portato a scegliere la mia; non saperlo, mi sarebbe costato vivere dubitando continuamente di me. «Essere sé stessi» non è un dato oggettivo, l'interessato deve esserne informato. So io cosa significa cercarsi e non trovarsi. È come confidare i propri pensieri ad un estraneo. O come non sapere con chi conversare. O, nella migliore delle ipotesi, non sapere con «chi» si sta conversando. È come non avere mai la certezza di essere soli con sé stessi. Nessuno può aiutarmi. E non lo chiedo a nessuno. Aspetto. Chissà che un giorno io non venga a trovarmi! “
Pino Caruso, L'uomo comune, Palermo, Edizioni Novecento (collana Il liocorno), 1986¹, pp. 71-74.
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gregor-samsung · 4 months
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" Dopo un’assenza quasi totale di cinquanta anni il senatore conservava un ricordo singolarmente preciso di alcuni fatti minimi. «Il mare: il mare di Sicilia è il più colorito, il più aromatico di quanti ne abbia visti; sarà la sola cosa che non riuscirete a guastare, fuori delle città, s’intende. Nelle trattorie a mare si servono ancora i ‘rizzi’ spinosi spaccati a metà?» Lo rassicurai aggiungendo però che pochi li mangiano adesso, per timore del tifo. «Eppure sono la più bella cosa che avete laggiù, quelle cartilagini sanguigne, quei simulacri di organi femminili, profumati di sale e di alghe. Che tifo e tifo! Saranno pericolosi come tutti i doni del mare che dà la morte insieme all'immortalità. A Siracusa li ho perentoriamente richiesti a Orsi. Che sapore, che aspetto divino! Il più bel ricordo dei miei ultimi cinquanta anni!» Ero confuso ed affascinato; un uomo simile che si abbandonasse a metafore quasi oscene, che esibiva una golosità infantile per le, dopo tutto mediocri, delizie dei ricci di mare! Parlammo ancora a lungo e lui, quando se ne andò, tenne a pagarmi l’espresso, non senza manifestare la sua singolare rozzezza («Si sa, questi ragazzi di buona famiglia non hanno mai un soldo in tasca»), e ci separammo amici se non si vogliono considerare i cinquanta anni che dividevano le nostre età e le migliaia di anni luce che separavano le nostre culture. "
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, La sirena. Prima pubblicazione nel volume Racconti, Prefazione di Giorgio Bassani, Collana Biblioteca di Letteratura: I Contemporanei n.26, Milano, Feltrinelli, 1961.
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gregor-samsung · 1 year
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Nascere
Nascere, non so se l'avete provato, è avvilente: si avverte subito una sensazione d'impotenza. È come perdere la memoria e trovarsi in un paese dove anche gli altri sono smemorati. Ho cercato in vari modi di evitarmi questa avventura. Appena arrivato, ho finto di non essere nato. Dormivo sempre, sperando che non si accorgessero della mia presenza. Fatica sprecata! quando mi svegliavo, stavano tutti lì, enormi e sorridenti. Provai a protestare: strillavo e stringevo continuamente i pugni. Forse si stancano — pensavo — e mi rimandano indietro. Sorridevano, invece, e dicevano che ero carino. Non mi prendevano sul serio. Ma non mi scoraggiai. Ritenendo che, per considerarmi irreversibilmente nato, occorresse anche il mio assenso cercai di negarlo. Se non rispondo — m'illudevo — sospetteranno d'essersi sbagliati, crederanno a una gravidanza isterica, ad un'illusione ottica, a qualunque cosa fuorché ad una nascita. Ma era gente senza fantasia, capace di pensare soltanto a quello che aveva in testa e a null'altro. E in testa aveva la certezza che fossi nato. Impossibile convincerla del contrario. Tanto insistettero a chiamarmi che, un giorno, vinto dalla fatica, risposi. E fu così che nacqui irrimediabilmente. E dovetti imparare a parlare, a leggere e a scrivere. «Per capire la vita», mi dicevano. Ma era una bugia o un'ingenuità: le parole non aiutano, alcune non dicono nulla e altre dicono quello che, sino ad ora, è stato possibile fargli dire — e non è un granché. Per cui, discussioni... In un primo momento, avevo creduto al potere delle parole; ne accumulai tante. Ma a che cosa mi è servito? che so io della vita? e che ne sanno gli altri? ché, altrimenti, me lo sarei fatto dire. Non sono nemmeno in condizione di rispondere, come Socrate, che so di non sapere nulla. Non ho la sua sapienza; quindi, al contrario di lui, qualcosa io so di sapere. Ma poco sapere è male e, sapere molto, è anche peggio, se serve poi a concludere che non si sa nulla. La faccenda è complicata, io sono confuso. E non è quello che ci vuole per condurre serie indagini. Certo è che, al momento, nessuno sa o vuol parlare. La polizia non se ne occupa, sostiene che è compito dei filosofi; ma i filosofi, in questo, sono peggio della polizia: indagano, indagano e non scoprono mai nulla.
Pino Caruso, L'uomo comune, Palermo, Edizioni Novecento (collana Il liocorno), 1986¹; pp. 47-49.  
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gregor-samsung · 2 years
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Elogio dell'ignoranza
“ Non sono ignorante in un settore specifico, sarebbe un limite: la mia ignoranza spazia in vari campi, io non so un po' di tutto. Ma non è stato facile: ignoranti non si nasce, si diventa. E bisogna anche pensarci a tempo, dopo può essere tardi: quando una conoscenza è assimilata, ignorarla diventa quasi impossibile. È allora che nessuno si fida più di te, che nessuno ti offre più un lavoro: puoi morire di fame. Ed è inutile, o richiede sforzi sovrumani, cercare di porvi rimedio. So di un mio collega, rovinato dalla sua sapienza, costretto a fare due, anche tre ore al giorno di esercizi per dimenticare; ma ottiene risultati modesti. Non mi sono fatto da solo ignorante, la scuola ha avuto un peso decisivo; se non l'avessi frequentata, sarebbe stato certamente più difficile. Pensare che non costi fatica o che non occorrano studi particolari per raggiungere un buon livello d'ignoranza significa non aver capito che ignorante non è chi non sa nulla (sarebbe impossibile come sapere tutto) ma chi ha avuto l'accortezza di non farsi danneggiare da quel poco che sa. E come? impedendogli di arrivare al cervello. Non solo, ma operando sulle materie stesse della conoscenza: facendo ignorare alla storia la geografia, alla filosofia la matematica, alla grammatica la letteratura e così via. In altre parole, isolando le varie conoscenze in modo che nessuna interferisca con l'altra ponendo domande. Un'ignoranza che sia profondamente convinta, non deve fare domande, altrimenti sarebbe l'ignoranza di Socrate, un'ignoranza inutile, anzi perniciosa. Tanto che gli ateniesi furono costretti a difendersene, condannando a morte il loro concittadino. La conoscenza, dunque, è pericolosa a sé e agli altri: Adamo ci ha rimesso il paradiso e molti, oggi, ci rimettono l'impiego. È per evitare simili inconvenienti che mi sono dato un'ignoranza enciclopedica; a qualunque genere di domanda, io rispondo; chè bisogna dimostrarla la propria ignoranza, il silenzio sarebbe sospetto. Io tranquillizzo, rassereno, conforto gli animi feriti dalle cattive intenzioni della cultura, che ha sempre cattive intenzioni e che è perfidamente ambigua, curiosa, maldicente e, soprattutto, dubitativa. È il dubbio il suo sicario più feroce: qualcuno ne ha avuto il cervello sconvolto e Carlo Alberto la perdita di un regno. Come evitare tanti mali? L'unico rimedio sinora conosciuto è la prevenzione. E in questo senso siamo già a buon punto, ma si può fare di più: istituire, per esempio, vere e proprie scuole di analfabetismo. Il resto verrà da sé. “
Pino Caruso, L'uomo comune, Palermo, Edizioni Novecento (collana Il liocorno), 1986¹; pp. 55-57.
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gregor-samsung · 2 years
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“ Non è stato un affare lungo, certo, il matrimonio è durato dieci volte meno del fidanzamento, e mi vengono ancora in mente certi giorni quelle befane madri delle sue amiche dove mi tirava quando la faccenda era diventata ufficiale, e come si scioglievano a parlare di coppia felice e di fausti presagi. Che profetesse del cavolo, non ne hanno azzeccata neanche una per caso. Ci siamo visti l’ultima volta qualche anno fa quando il divorzio è diventato esecutivo in Italia, mi era sembrato che lei avesse voglia di stare un po’ insieme a parlare, ma è stata tutta una cosa frettolosa e incolore, a me poi per il freddo scappava di andare al gabinetto, e quindi sono venuto via subito. Non riuscirò mai a dimenticare il suo contegno da schiaffi con mia madre ammalata. Noi da fidanzati avevamo finito per diventare una coppia quasi proverbiale, sempre insieme, era cominciato a scuola, e ripensandoci adesso mi accorgo di tutto quel che ha fatto quella vedovona cavallona di sua madre per sbatterci insieme a qualunque costo. Il grosso errore è stato di sposarla subito dopo la laurea; eppure non avevo aspettato altro per anni, ma poi è stata la solita storia: credevo di conoscerla. Lei probabilmente ci aveva sopravalutati; però io allora non potevo mantenerla, dovevamo per forza stare tutti insieme con la mamma paralizzata sulla sua carrozzella e mia sorella inacidita curandola che accumula accumula e ogni tanto scatta. Lei aveva la pretesa di mettersi subito nel gruppo delle signore di piazza Viscontina e vivere come loro, ma quelle avevano una certa età, più di noi, mariti avviatissimi, una posizione finanziaria solida; che se lo levasse dalla testa. Per di più il vecchio padre è mancato poco dopo, e quando muore un professionista che non ne ha molti è un disastro per chi rimane. Respinto lontano sempre più lontano il giorno in cui avremmo potuto vivere in una casa solo nostra, con una certa larghezza di mezzi, sono cominciate le scene interminabili, i voglio vivere la mia vita. Le piace troppo quello che piacerebbe a tutti: viaggiare, i vestiti, bella casa, far niente e uscire alle undici e mezza. Col suo carattere duro e forte picchiare non era più sufficiente, si sarebbe dovuto ammazzarla, come si fa a cambiare la testa alle persone. Così se ne andava, ma sì, che se ne andasse, separazione legale, e che facesse la troia non mi importava certo più, a un certo punto fatti tutti i calcoli mi è convenuto piantarle lì un bel divorzio estero, e ci sono riuscito appena in tempo. Adesso qui civilmente mi potrei risposare. “
Brano tratto da I blue jeans non si addicono al signor Prufrock, dalla raccolta di racconti:
Alberto Arbasino, Le piccole vacanze, Einaudi (collana Nuovi Coralli n° 5), 1971² [1ª ed.ne 1957]; pp. 54-55.
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gregor-samsung · 2 years
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 La seminagione era terminata, ma Anania andava spesso in campagna per osservare se il grano spuntava, e per estirpare le male erbe dal seminato: nelle ore di riposo, invece di coricarsi, egli diroccava il nuraghe, con la scusa di costruire un muro con le pietre divelte dal monumento, ma in realtà per cercare il tesoro. "Se non qui altrove, ma lo troverò!", diceva ad Olì. "Ebbene, a Maras un servo come me trovò un fascio di verghe d'oro. Egli non si avvide che erano d'oro e le consegnò ad un fabbro. Stupido! Ma io mi accorgerò bene... Nei nuraghes", raccontava poi, "abitavano i giganti che usavano le masserizie d'oro. Persino i chiodi delle loro scarpe erano d'oro. Oh, si trovano sempre dei tesori, cercandoli bene! A Roma, quando io ero soldato, vidi un luogo dove si conservano ancora le monete d'oro e gli oggetti nascosti dagli antichi giganti. Anche ora, del resto, nelle altre parti del mondo, vivono ancora i giganti, e sono così ricchi che usano gli aratri e le falci d'argento." Egli parlava sul serio, con gli occhi splendenti di sogni aurei; se però gli avessero chiesto che avrebbe fatto dei tesori che sperava ritrovare, forse non avrebbe saputo dirlo. Per allora progettava soltanto la fuga con Olì: all'avvenire non pensava che in modo fantastico. Verso Pasqua la fanciulla ebbe occasione di recarsi a Nuoro, e domandate notizie della moglie di Anania seppe che costei era una donna anziana, ma niente affatto benestante. "Ebbene", egli disse, appena Olì gli rinfacciò la sua menzogna, "sì, ella adesso è povera, ma quando la sposai era ricca. Dopo le nozze io andai al servizio militare, mi ammalai, spesi molto; anche mia moglie si ammalò. Oh, tu non sai cosa vuol dire una lunga malattia! Poi prestammo dei denari e non ce li restituirono. Poi credo un'altra cosa; che mia moglie tenga i denari nascosti. Ecco, ti giuro che è così." Egli parlava seriamente, ed Olì credeva. Credeva perché aveva bisogno di credere e perché Anania l'aveva abituata a ritener vere le cose più inverosimili, suggestionato egli stesso dalle sue fantasie. Così, verso i primi di giugno, zappando in un orto del padrone, egli trovò un grosso anello di metallo rossiccio e lo credette d'oro. "Qui ci deve essere certamente un tesoro", pensò, e subito andò a raccontare le sue nuove speranze ad Olì. La primavera regnava nella campagna selvaggia; il fiume azzurrognolo rifletteva i fiori del sambuco, i narcisi esalavano voluttuose fragranze; nelle notti rischiarate dalla luna o dalla via lattea, tiepide e silenti, pareva che nell'aria ondeggiasse un filtro inebbriante. Olì vagava qua e là, con gli occhi velati di passione; nei lunghi crepuscoli luminosi e nei meriggi abbaglianti, quando le montagne lontane si confondevano col cielo, ella seguiva con uno sguardo triste i fratellini seminudi, neri come idoletti di bronzo, e mentre essi animavano il paesaggio con le loro grida di uccelli selvatici, ella pensava al giorno in cui avrebbe dovuto abbandonarli per partire con Anania. Ella aveva veduto l'anello ritrovato dal giovine, e sperava e aspettava, col sangue arso dai veleni della primavera.
Grazia Deledda, Cenere.
[ Prima edizione a puntate nell’anno 1903 sulla rivista culturale Nuova Antologia; l’anno seguente in volume per lo stesso periodico ]
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gregor-samsung · 2 years
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“ Ada, la bambinaia di Marco, non dette, a dire il vero, segni di una vera e propria pazzia. Ogni tanto se ne andava senza salutare i padroni e rimaneva lontano intere settimane. Un giorno, proprio nel mezzo della cucina, preso Marco, che era ancora in gonnellino, lo lanciò in alto verso il soffitto lasciandolo cadere senza riprenderlo a tempo. Per poco il bimbo non morì di colpo. Quando Marco fu più grande, Ada, che era rimasta nella casa come donna di servizio, lo divertì leggendogli libri d'avventure e raccontandogli fatti meravigliosi. Fu lei a narrargli la storia di suo fratello Ardito, l'altro pazzo. Ardito era fuggito di casa quando il padre era ancora in vita, e aveva girato il mondo. Perfino in Africa e a Pechino, era stato. Portava sul corpo le testimonianze del suo eterno vagabondare : tatuaggi raffiguranti draghi, case, palazzi, negri e cinesi. In verità Ardito era uno di quegli avventurieri creati, come spesso accade, dalla immaginazione dei concittadini e le sue avventure si riducevano a parecchie truffe, le sue peregrinazioni alle conseguenti permanenze in carcere. Marco però se lo era raffigurato quale glielo aveva descritto Ada : bizzarro viaggiatore col corpo dipinto come un pappagallo. Quando Marco andò ad abitare in città dai nonni, nella casa dei pazzi viveva soltanto la vecchia madre. Cercò di sapere dove fossero Ada, che si era licenziata da due anni e che non aveva più veduta, e Ardito, ma nessuno, neppure la loro madre, lo sapeva. Fantasticò a lungo su questa misteriosa, lontananza. Parlava spesso di Ada e di Ardito anche con la mamma ed essa gli raccontava di loro cose a lui sconosciute. Un giorno mentre si divertiva in giardino vide nel profondo e piccolo cortile dei pazzi un uomo ancor giovane, vestito dei soli pantaloni di tela e sdraiato in terra a prendere il fresco ; aveva la pelle del torace bruna con le più strane figure. Non c'era alcun dubbio : quel giovane era Ardito. Marco cominciò ad osservarlo attentamente, incuriosito : poteva infine conoscere la persona che, più di ogni altra, aveva occupato e occupava i suoi pensieri. A un tratto Ardito balzò in piedi e, rapidamente, arrampicandosi su per il muro, arrivò all'altezza del giardino, a pochi metri da Marco. Il ragazzo scoprì sul suo dorso il disegno di un lungo pugnale. Ardito ripiombò nel cortile e si sdraiò di nuovo in terra. Egli era stato veramente il protagonista delle innumerevoli avventure narrate da Ada ; la sua prodigiosa agilità e la figura del pugnale sembrarono a Marco le prove più certe. Però egli n'ebbe una pungente paura. La notte Ardito apparve costantemente in un sogno in cui si tentava di rapirgli la mamma. Da quella sera, prima di andare a letto, volle accertarsi che la porta del giardino fosse bene sprangata. “
Romano Bilenchi, Dino e altri racconti, Vallecchi editore, Firenze, giugno 1944²; pp. 58-61.
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gregor-samsung · 2 years
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“ Tacemmo per un po', poi il mio compagno mi chiese il permesso di fumare. Frugò in una borsa che teneva vicino al letto e nella stanza si sparse l'odore di quei sigaretti indiani piccoli e profumati, fatti di una sola foglia di tabacco. «Una volta lessi i Vangeli», disse, «è un libro molto strano». «Soltanto strano?», chiesi. Ebbe un'esitazione. «Anche pieno di superbia», disse, «sia detto senza cattiveria». «Temo di non capire molto bene», dissi io. «Mi riferivo a Cristo», disse lui. L'orologio della stazione batté la mezzanotte e mezzo. Sentivo che il sonno si stava impossessando di me. Dal parco dietro i binari arrivò il gracchiare dei corvi. «Varanasi è Benares», dissi, «è una città santa, anche lei va in pellegrinaggio?». Il mio compagno spense la sigaretta e tossì leggermente. «Vado a morire», disse, «mi restano pochi giorni di vita». Si sistemò il cuscino sotto la testa. «Ma forse è opportuno dormire», continuò, «non abbiamo molte ore di sonno, il mio treno parte alle cinque». «Il mio parte poco dopo», dissi. «Oh, non tema», disse lui, «l'inserviente verrà a svegliarla per tempo. Suppongo che non avremo più occasione di vederci secondo le sembianze sotto le quali ci siamo conosciuti, queste nostre attuali valigie. Le auguro un buon viaggio». «Buon viaggio anche a lei», risposi. “
Antonio Tabucchi, Notturno indiano, Sellerio Editore (collana La memoria n° 93), 2002³³ [1ª ed.ne 1984]; pp. 42-43.
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