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#la sostanza del canto poetico
francesco-nigri · 2 years
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Poesia e vita
Poesia e vita La poesia vive in uno spazio frequentato da tutti, quello dell’anima. Per questo la sua realtà è spesso confusa con l’irragionevolezza. Il sogno è il verso del primo e dell’ultimo canto quotidiano ma non per questo è la sostanza del canto bensì il suo anelito a sperare e a ricercare il definito nell’indefinito. Perchè per il poeta nulla è indefinibile. Egli vive la tensione del…
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#al poeta importa solo ciò che da dio sentì dire tramite un suo amico ama e fa ciò che vuoi#alcuni dicono che poeta è intimamente avversario di dio#altri leggono poesia e si avvicinano a dio#anelito poesia a sperare ricercare definito nell indefinito#il poeta non è nè isola nè terra mare cielo#il sogno è il verso del primo e dell ultimo canto quotidiano#la poesia vive un uno spazio frequentato da tutti quello dell anima#la sostanza del canto poetico#la verità poetica si arricchisce della visione tensione di tanti#metafore poeta parabolano il segreto senza svelarlo#per il poeta nulla è indefinibile#Poesia e vita di Francesco Nigri | La poesia vive in uno spazio frequentato da tutti e il poeta vive la tensione del sapere e del sentire#poeta conosce compie solletico del biricco mano soffice setosa dell amante#poeta conosce lo sguardo bambino di chi sa slanciare sè stesso sempre e sa anche piangere sorridere#poeta è il più grande giocatore nell amare#poeta ha solo colpa unica dell autenticità coraggio di osarla vivendo speranza talvolta incomprensibile incompresa dolce mai mielosa tenera#poeta nel suo sporcarsi è tutta la sua pelle di cuore#poeta non accenna ma pennella di parole la musica#poeta non conosce bische nè si avvale di trucchi#poeta sa che verità è non nel colmare spazi ma nello sforzo di trascenderli#poeta vive difficoltà del fare storia della visione#poeta vive tensione del sapere sentire ciò a cui anela#realtà poesia spesso confusa con irragionevolezza#tensione del poeta voler rendere certo ciò in cui è troppo facile non sperare#tutto attraversa umanità del poeta e tutto riempie d anima#visione poeta narra dipinge di profumi che hanno sapore
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pangeanews · 4 years
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“Morte, amore, desolazione, angoscia: di Pablo Neruda puoi buttare metà dell’opera, resterebbe comunque uno dei poeti più grandi. Ora vi parlo del suo libro più bello, del lupo taciturno”. Un saggio di Abelardo Castillo
9 febbraio 2003
Domenica. Sylvia a San Pedro. Le ultime due settimane non ho fatto altro che leggere e rileggere Neruda: quasi tutta la sua opera. Salvo le Odi, che mi sono parse sempre artificiali. Ho già cominciato, a mano, la bozza del prologo per Residenza sulla terra; mi è tutto chiaro quello che voglio dire ma temo che tradurlo in parole, in appena 10 pagine, risulterà così complesso come immaginavo. Poeta immenso, disuguale, copioso. Avrebbe potuto buttare nella spazzatura metà delle sue opere e sarebbe stato comunque uno dei più grandi poeti del XX secolo. Per fortuna, ora devo pensare soltanto a Residenza, quel libro ipnotico.
Lo stesso abbagliamento di quando avevo diciassette o diciotto anni. Un attimo in questi giorni, dovrà interrompere con Neruda e intercalo un capitolo a Gli angeli. Non lo rileggo.
Abelardo Castillo (Diarios 1992-2003)
*
Abelardo Castillo, L’abitante di se stesso
Nell’opera di qualsiasi scrittore c’è un libro decisivo che va oltre le parole: nell’opera di Pablo Neruda, quel libro è Residenza sulla terra. Non so di nessuno, incluso lo stesso Neruda, che abbia potuto spiegare in modo soddisfacente il suo senso essenziale o il suo essenziale enigma. Né Amado Alonso, il precursore, né Hernán Loyola, opposto in tutto alle opinioni di Alonso, né Rodríguez Monegal che non si trova d’accordo con nessuno dei due. Ovviamente, io, quasi organicamente estraneo alla critica e alle teorie letterarie, sono molto lontano dal riuscire a farlo. Questi appunti non hanno la pretesa di risolvere un problema poetico, né vogliono sollevarlo: vogliono semplicemente testimoniare il mio stupore di lettore mano a mano che i versi di Neruda ripiombano in me come vi piombarono, torrenziali e ipnotici, quando ero un adolescente e rimasero per sempre nella mia memoria.
Verso il 1950 la casa editrice Nascimento pubblicò una selezione della sua opera. Neruda cominciava già a essere il poeta epico del Canto generale, aveva già rinnegato le due prime Residenze ed era il militante perseguito per le sue idee politiche. Per quelli della mia età, tuttavia, continuava a essere l’armonico uomo in lutto di Crepuscolario, Venti poesie d’amore e una canzone disperata e, soprattutto, il poeta maledetto ed ermetico di Residenza sulla terra. Questo lupo taciturno che entrava negli uffici e nei cinematografi stanco di essere uomo, che aveva amato donne nei cui occhi litigavano le fiamme del crepuscolo, che voleva uccidere le suore con un colpo d’orecchio e vedeva la scopa delle morte spazzare a ogni angolo, presto avrebbe compiuto cinquant’anni, è vero, ma aveva scritto i sui primi tre libri prima di compierne venti. In altre parole, la sua adolescenza dialogava con noi, era un nostro contemporaneo.
Morte, amore, desolazione, angoscia; queste parole erano più che semplici parole, erano le nostre. Come Walt Whitman, come quasi nessun altro poeta, Neruda parlò sempre di sé stesso e addirittura continuò a farlo quando immaginò rinnegare ogni sorta di soggettività e si propose di erigere il catasto generale del mondo; solo che l’io di Neruda era così sconfinato da comprenderci tutti. Il fatto stesso che d’ora in avanti fosse comunista stava indicando, almeno per alcuni, una strada: ho sempre sospettato che i quadri scomunicati di Picasso, il primo surrealismo di Aragon e i versi sepolcrali ed ermetici di Neruda fecero più per il marxismo di quanto fecero molti entusiasti partiti stalinisti del XX secolo.
Quello che cerco di dire forse, o ricordare, è questo: nella mia adolescenza, per la nostra generazione, Neruda non rappresentò nessun problema letterario da risolvere. Ci dimostrava semplicemente che, se uno è Neruda, può scrivere poesie d’amore, Solo la morte, Il generale Franco all’Inferno, Alture di Machu Picchu o una storia in prosa su un ladro di cavalli. Per dirlo con le parole della Terza residenza, se uno è un poeta, può affermare senza arroganza: Io metto la mia anima dove voglio.
I problemi ermeneutici comparvero più tardi o, visto che sto scrivendo sulle due prime Residenze, cominciano a manifestarsi ora.
I migliori lettori di Neruda sono d’accordo su questo: Residenza sulla terra è il suo libro chiave. Per molti, il più grande. Ignoro se questo sia vero e non c’è bisogno che lo sia. È difficile stabilire delle gerarchie in un’opera totale che, da Crepuscolario a Le pietre del cielo, racchiude più di mezzo secolo di inesauribile scrittura ed è formata da tre libri come Canto generale, Memoriale di Isla Negra, le tre Residenze, le Venti poesie d’amore e una canzone disperata e, secondo me, riconoscendo il dovuto a Sabat Ercasty, Il fromboliere entusiasta. So, invece, che Residenza sulla terra è alla fine il suo libro chiave. Ma, qual è quella chiave?
Amado Alonso vide in Residenza sulla terra una confessione apocalittica e surrealista dove il poeta spezzava, dal punto di vista formale, i suoi legami con la poesia precedente della nostra lingua e, dal punto di vista del senso, i vincoli con la vita. Vide quello che c’era, in effetti. Per questa ragione tutta l’opera successiva di Neruda fu per lui una conversione poetica e per molti altri, chissà, un’apostasia. Hernán Loyola, refutando questa interpretazione dal marxismo, sostiene che l’onnipresenza della Vita, anche se appiattita e larvale, è al centro di Residenza e prefigura la sua opera militante. Mette come esempio Introduzione al legno dei Tre canti materiali. (“In modo particolare la poesia Introduzione al legno … ha documentato il momento in cui Neruda ebbe accesso al riconoscimento di un modo obiettivo dell’esistenza nella natura, indipendente dalla coscienza del poeta e della sua angoscia”). Anche questo sembra vero. Ma convince meno. I canti materiali appartengono all’edizione definitiva di Residenza, non al libro iniziale: furono scritti in Spagna quando Neruda aveva già incontrato García Lorca, Miguel Hernández, Rafael Alberti e Manuel Altolaguirre ed era da questi riconosciuto come uno dei più grandi poeti in lingua spagnola. I versi di Introduzione al legno sono successivi, e molto lontani, dallo spirito lugubre e disgustato che diede origine alle prime Residenze, uno spirito che verso il 1934 gli dettava ancora poesie così cupe come Walking around o Disincartamenti. I canti materiali e le poesie che aggiunse nell’edizione definitiva non appartengono tanto a Residenza sulla Terra quanto alla volontà architettonica di Neruda. Come si sa, Neruda riorganizzava le sue opere e vi intercalava poesie e persino interi libri; l’inclusione di quei canti materiali cerca di correggere o attenuare il tono apocalittico del libro e stabilisce, a ritroso, un collegamento con una storia che già si stava avvicinando.
Vediamo la data: 1935. Neruda scrive il suo manifesto Intorno a una poesia senza purezza: “(cerchiamo) una poesia impura come un abito, come un corpo, con macchie di nutrimento e atteggiamenti vergognosi. Con rughe, osservazioni, sogni, veglie, profezie, dichiarazioni d’amore e d’odio (…), credenze politiche, negazioni, dubbi, affermazioni, tasse”. Una poesia, ha detto prima, “consunta come da un acido dai doveri della mano, costellata dalle diverse professioni che si esercitano all’interno e al di fuori della legge”. E se qui riecheggia Walt Whitman (“Foglie d’erba è un libro per le classi al margine della legge; le altre classi non necessitano alcun poeta”), tutto il resto è come un piano caotico dove già risuona l’opera futura di Neruda. Vediamo più da vicino quella data: ottobre 1935. Franco ha trattato con Hitler e con Mussolini, qualche mese più tardi scoppierà la guerra civile spagnola e nessuno nel circolo di Neruda, nessuno in Spagna, ignorava questo fatto. Detto in altre parole, quei versi ci sono oggi in questo libro perché, verso il 1935, il poeta maledetto della Residenza sulla terra, e il suo mondo, erano rimasti indietro.
Questo pare confermare l’interpretazione nera: distruzione, morte, sconforto, ermetismo, una deliberata mancanza di comunicazione, sconcerto, tedio di vivere sono l’amara sostanza poetica con cui venne scritta Residenza sulla terra. È vero. Sono qualcosa di simile a questo ma non sono la sostanza di cui è fatto Neruda.
C’è dell’altro, qualcosa di essenziale che – se stessimo parlando in prosa – potremmo chiamare il punto di vista di queste poesie. In effetti, Neruda non celebra la disperazione, non corteggia la morte e i suoi fasti, non abbellisce la disintegrazione e il caos: li vede. Li vede e li annota con la minuziosità di un cronista pazzo. Vago da un punto all’altro, assorbo illusioni/ converso con i sarti nei loro nidi (“Cavallo dei sogni”). Sono solo tra materie sconnesse/ la pioggia cade su di me, e mi appare, / mi appare, col suo vaneggiare, solitaria nel mondo morto, /ricacciata al cadere, e senza forma ostinata (“Debole dell’anima”). Spio, dunque, l’inanimato e il dolente (“Sonata e distruzioni”). Io lavoro di notte, circondato di città, /di pescatori, di vasai, di defunti bruciati (“Sepoltura dell’est”). Questo sguardo maniacale è come quello di un pesce insonne che nuotasse lentamente attraverso l’aria morta, un pesce teratologico con un occhio di mosca che registrasse al tempo stesso parrucchieri atroci, case umide, intestini appesi alle porte, occhiali senza faccia, ombrelli, ascensori di spavento. Lo sguardo di Neruda è un immondezzaio incessante dove, senza l’intervento della sua volontà, va a finire tutto ciò che viene distrutto. Lo dice lui stesso: Come una palpebra atrocemente sollevata a forza / sto guardando (“Acqua sessuale”).
Tuttavia, come atteggiamento poetico di fronte alle cose reali, questo sguardo differisce da quello che anni più tardi gli farà lodare la zuppa di grongo, i treni del sud, la patata, gli uccelli, gli scarafaggi e le pietre. Neruda bracca il mondo e dice quello che vede. Solo che in Residenza quello che vede del mondo è sempre atroce. Acque stagnanti, letti orrendi, dentature dimenticate in una caffettiera e attorno a tutto questo, la morte. Che la vita non valga sempre la pena essere vissuta è un luogo comune e frequente della filosofia e della poesia. Nietzsche ha già detto che le peggiori idee suicide permettono di sopportare più di una brutta notte e Goethe ha già detto che di solito hanno come risultato alcuni bei versi. Ma nella Residenza sulla terra Neruda non anela la morte, né la cerca né la celebra. La guarda agire. Non è più il poeta ferito ed eloquente de Il fromboliere entusiasta (Ah, il mio dolore, amici, non è più dolore umano, / Ah, il mio dolore, amici, non sta più nella mia vita). Il suo dolore è diventato criptico, quasi murato nel silenzio. Se non sapessimo che in Malattie nella mia casa parla di sua figlia Malva Marina che nacque idrocefalica ed è segnata dalla morte, non potremmo indovinarlo, sentiamo persino, dal suo titolo distante ed elusivo, che Neruda non ha nessun interesse nel farcelo indovinare.
Non so se si sia riflettuto abbastanza su un altro fatto: c’è pochissimo amore in questo libro. Il memorabile Tango del vedovo è, in realtà, una poesia sulla stanchezza dell’amore. Neruda ci dice: Son giunto di nuovo ai dormitori solitari, / (…) e di nuovo getto in terra i pantaloni e le camice, / non ci sono attaccapanni nella mia stanza, né ritratti di alcuno sulle pareti. / Quanta ombra di quella che v’è nella mia anima darei per recuperarti. Ma sappiamo che questi versi li scrisse in una cabina della nave che lo portava via da Rangoon, poche ore dopo aver abbandonato Josie Liss, o meglio, mentre fuggiva da lei. In “Angela adonica” (Oggi mi son disteso presso una giovane pura) non solo non c’è amore ma c’è a malapena una donna. Quando uno pensa a “Anima mia! Anima mia! Radice della mia sete errante” o ad “Amica, non morire” del Fromboliere quando ricorda il “Farewell” del Crepuscolario o qualsiasi di quei versi imperiosamente erotici dei Venti poesie, “Angela adonica” sembra la favola provenzale di un poeta che gioca, bellamente, all’amor cortese. Un dato curioso e chissà non meramente stilistico: delle cinquantasei poesie di Residenza, questa è, insieme a “Alberto Rojas Giménez viene volando” una delle due uniche poesie ritmiche. La sua struttura di ode saffica (strofe simmetriche di rima assonante, con tre endecasillabi rifiniti da un pentasillabo), la sua inattesa chiarezza, ne accentuano la rarità: è come se Neruda, per una volta, e nel più scuro e infernale dei libri, si fosse proposto di essere poetico. “Insieme noi”, invece, nonostante la sua irritata libertà formale, è un poema congelato. Qua, né l’amore né il sesso, neppure la poesia esistono. Neruda, il cui flusso metaforico è il più sorprendente della nostra lingua, dà l’impressione di non trovare nessuna figura convincente per descrivere questa donna. Mese di stella, la chiama, e non le crediamo, bacio fisso, e non sappiamo cosa significhi, la trova simile al più lungo bacio, e questo bacio già ci risulta poeticamente sospettoso; alla fine, con una sola metafora schiacciante, riesce a cancellare la donna intera: fatta di onda in lingotti, le dice. Onda in lingotti. Questa onda è metallica, questa compagna di letto è pietrificata: non possiamo nemmeno immaginare che abbia un sesso. Perché quello che c’è in Residenza è l’abominazione e quasi l’orrore del sesso. E probabilmente non è neppure esistito un solo poeta, prima o dopo Neruda, capace di raggiungere con un soggetto simile una poesia così elevata. Se tra le grandi poesie di questo libro “Walking around” è la più amara, se “Solo la morte” è la più sconvolgente, “Acqua sessuale” è la più feroce. Rotolando a goccioloni soli, /a gocce come denti, /a densi goccioloni di marmellata e di sangue, /rotolando a goccioloni, /cade l’acqua, / come una spada in gocce, / come uno straziante fiume di vetro, / (…) vedo sangue, pugnali e calze da donna, / e peli d’uomo, / vedo letti, vedo corridoi dove grida una vergine, /vedo coperte e organi e hotels. / (…) È come un uragano di gelatina, / come una cateratta di spermi e di meduse. / Vedo correre un arcobaleno torbido. / vedo passare le sue acque attraverso le ossa. Ma non solo l’amore e l’erotismo sono stati cancellati dal mondo. Insieme a questi è scomparsa un’altra manifestazione della realtà: il movimento.
Il vortice della vita, quell’anelante girare di braccia come pale impazzite, quelle scorrerie da geografo sessuale che contrassegnava con cartografie di fuoco la mappa dei corpi, quella mareggiata di astri e di venti che cantavano nella notte, tutto si è fermato in una fitta quiete da serra: È un giorno di domenica trattenuto sul mare, /un giorno come una nave sommersa (…). / Vi sono mesi seriamente accumulati su un vestito (“L’orologio caduto nel mare”). Ore di una sola stagione rotolano ai miei piedi, e un giorno di forme diurne e notturne è quasi sempre fermo su di me (“La notte del soldato”). Infine la materia del mondo ha perduto la sua unità panica, ha smesso di essere sacra: è mera disintegrazione. Quando Neruda vede l’unità essenziale delle cose è per dirci che tutto, per il lavoro del tempo, è la stessa cosa, che c’è una sola sostanza per la distruzione. Illustrare con esempi questo argomento equivarrebbe a copiare, parola per parola, le migliori pagine di Residenza.
Tuttavia, questo libro nelle tenebre non è un libro funereo: è un libro disgustato. Il poeta semplicemente confessa: avviene che mi stanco di essere uomo (“Walking around”). Il che significa, non per Neruda, cercare la quiete nella morte. Rilke poté scrivere: O Signore, concedi a ciascuno la sua morte e persino Whitman: Vieni, leggiadra consolatrice morte, / ondeggia intorno al mondo, arrivando serena. Neruda si è stancato solamente di essere questo uomo.
Dalla Birmania, a ventiquattro anni, aveva inviato la seguente lettera: “Attualmente non sento niente che io possa scrivere, tutte le cose mi sembravano, non senza senso ma molto abbondanti di quello: sento che tutte le cose hanno trovato la loro espressione da sole e che non faccio parte di loro né ho il potere di penetrarle” (A Hector Eandi). Qualche mese più tardi, questo poeta senza niente da dire ha concluso quasi tutte le poesie della prima Residenza. Tre anni dopo, a Java, si rettifica: “Uno pensa di aver finito ma c’è qualcosa che si accumula sempre più dentro di noi, goccia a goccia. Io morirei se non potessi più scrivere …”.
Insomma, se c’è una chiave in Residenza sulla terra, non appartiene alla poesia né alla stilistica. La chiave ultima di questo libro occorre cercarla fuori dalle parole: occorre cercarla in Neruda.
Pablo Neruda era il poeta che si uccideva e rinasceva con la stessa naturalità ciclica con cui uomini e animali dormono, sognano, si svegliano e si riaddormentano e si risvegliano. Questo sembrava sbalordirlo fino a che all’età di 65 anni alcuni pescatori gli rivelarono la verità: Voglio sapere, fratelli miei, / dissi all’Unione dei pescatori, / se tutti amano come me. / La verità — mi risposero — / è che noi peschiamo pesci /e tu peschi te stesso, / poi torni a ripescarti / e a gettarti di nuovo in mare. (“Sempre io”: Le mani del giorno).
In quanto alla conversione di Neruda a partire da Residenza sulla terra, probabilmente è quello che la nostra generazione avrebbe chiamato “scelta esistenziale”. La storia della letteratura ne registra più di una. Ne annoto due soltanto: quella di Goethe, che rinnegò le burrasche del Romanticismo e si fece apollineo; e quella di Rimbaud, che semplicemente smise di scrivere. Nessuno, naturalmente, si azzarderebbe ad accostare i nomi di Goethe e Rimbaud e per rendersene conto del perché basta immaginarli seduti uno di fronte all’altro allo stesso tavolo. Neruda, incomprensibilmente assomiglia a entrambi. Non c’è, al di fuori di Neruda, un solo caso di precocità poetica analogo a quello di Rimbaud; non c’è, al di fuori di quella di Goethe, una trasformazione spirituale simile a quella di Neruda. Nello stesso senso in cui Goethe scrisse “chiamo classico quel che è sano, romantico quel che è malato”, Neruda verso il 1950 avrebbe detto: “Reputo nocive le poesie di Residenza sulla terra. Queste poesie non devono essere lette dai giovani dei nostri paesi. Non aiutano a vivere, aiutano a morire”. Nessuno dei due aveva ragione ma questa abdicazione del passato permise loro di invecchiare scrivendo. E c’è ancora un’altra confessione, per nulla drammatica, piuttosto irresistibilmente umoristica che probabilmente lo spiega meglio: “Ricordo”, raccontò Neruda all’Università di Cile nel 1954, “quando a Parigi abitavo assieme a Rafael Alberti. Dicevamo che la nostra epoca era quella del Realismo, quella dei poeti grassi. ‘Basta con i magri!’, mi diceva Rafael con la sua voce allegra di Cadice, ‘Ne abbiamo avuto abbastanza dei magri del Romanticismo’. Volevamo essere grassi come Balzac e non magri come Bécquer. Al pianterreno del nostro appartamento c’era una libreria e lì, attaccate alla vetrina c’erano tutte le opere di Victor Hugo. Quando uscivamo di casa, ci fermavamo e ci misuravamo. ‘Fino a dove arrivi in larghezza?’. ‘Fino a I lavoratori del mare, e tu?’. ‘Io solo fino a Notre-Dame de Paris’”.
Sul tavolo ho tre fotografie di Pablo Neruda. Due furono pubblicate in quel volume indimenticabile che la casa editrice Nascimento pubblicò verso gli anni Cinquanta; la terza appare sulla copertina de una delle sue biografie. In una, si vede un ragazzo che non può essere se non un poeta; mezzo volto alla luce e mezzo in penombra: è l’autore di Venti poesie. Se si dovesse materializzare con una effigie il volto ignorato di Lautréamont, io sceglierei questa. Nella seconda il poeta è cresciuto ma continua ad essere il nostro contemporaneo dell’adolescenza, conserva la stessa aria affilata e taciturna, gli stessi capelli cupi: sta scrivendo Residenza sulla terra. L’ultima fotografia è quella di un signore più che salutare, calvo, sorridente, con pappagorgia, simile a qualsiasi altro e probabilmente più brutto e antipoetico di parecchi altri. Un uomo tra gli uomini. È il poeta balzachiano di Spagna nel cuore, di Canto Generale, del Memoriale di Isla Negra.
Per dirla di una buona volta: se tra i sedici e i diciannove anni uno ha scritto Crepuscolario e Il fromboliere entusiasta, se a vent’anni si è l’autore di Venti poesie d’amore e una canzone disperata e a ventuno di Tentativo dell’uomo infinito, molto probabilmente è impossibile andare oltre. Ma se a quella età, e avendo scritto quei libri, si può ancora scriverne ancora un altro, quel libro sarà in un certo senso, l’ultimo. Sarà questo libro. Con Residenza sulla Terra, Neruda giunge all’unico luogo dove possa giungere un poeta: al precipizio del silenzio, all’inferno da cui non è riuscito a far ritorno Rimbaud.
Quello che è accaduto dopo Residenza sulla terra, quello che Amado Alonso denominò conversione poetica, altri apostasia e noi scelta, potrebbe denominarsi anche risurrezione o miracolo; ma visto che tale risurrezione ha avuto luogo, occorre ammettere che era l’unico miracolo possibile.
*Il testo di Abelardo Castillo, raccolto in “Desconsideraciones”, è stato tradotto da Mercedes Ariza; i versi in italiano sono tratti dal libro “Tre Residenze sulla terra” del 1971, edizioni Accademia, a cura di Giuseppe Bellini
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francesco-nigri · 2 years
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La Casa Editrice di Alda Merini pubblicherà Francesco Nigri
La Casa Editrice di Alda Merini pubblicherà Francesco Nigri
La Casa Editrice di Alda Merini pubblicherà Francesco Nigri Sarà la Casa Editrice del Gruppo Albatros a pubblicare il prossimo libro di poesie di Francesco Nigri. Presidente Onorario dal 2006 di Albatros, Alda Merini pubblicò con Il Filo il la sua ultima raccolta di versi inediti, intitolata Le madri non cercano il paradiso. Con distribuzione Messaggerie Libri SpA, Albatros Il Filo raggiunge…
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francesco-nigri · 2 years
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Francesco Nigri pubblica a breve un nuovo libro di poesie d'amore
Francesco Nigri pubblica a breve un nuovo libro di poesie d’amore
Francesco Nigri pubblica a breve un nuovo libro di poesie d’amore Esattamente dopo dieci anni dalla sua ultima pubblicazione, Francesco Nigri torna a pubblicare. Uscirà a breve il nuovo e decimo libro di poesie dell’autore conosciuto come il Poeta dell’Amore. E si tratterà di un libro di poesie d’amore. La nuova Opera di Francesco Nigri sarà corposa: oltre 200 pagine di immersione in versi…
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pangeanews · 4 years
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“Nel momento più terribile è bene affidarsi a Rilke”. Un saggio di W. H. Auden
Cosa ci cattura subito di Rilke? La vita o l’opera? Francamente non c’è scampo. È la poesia. Anni fa rimasi inguaiato in un caso di email rubata: mi avevano sottratto l’indirizzo e la password e avevano diffuso un messaggio dove dicevano che leggevo cose che facevano schifo anche ai maiali. Quella sera in particolare cercavo di capire Rilke nel 1907, Nuove poesie. Quello del Lamento di fanciulla (secondo la Lavagetto): “D’un tratto è come se fossi respinta / e un peso troppo grande / mi diventa questa solitudine, / quando, alta sui colli / dei miei seni l’anima gridando / invoca ali o una fine”.
*
Perciò quando mi metto a fare il doppio infuso di tè e scelgo erba Rilke ed erba Auden sono pronto a vederne delle belle. C’è una congiunzione. Due saggi netti di Wystan H. Auden su Rilke. Uno è elogio dell’amico traduttore Spender. Quello che mi mette la fregola addosso invece è degli anni bui. Luglio 1940. Nella prima settimana del mese la guerra si ribalta. Viene decrittato dal controspionaggio polacco prestato agli inglesi il primo codice dei tedeschi. In quella settimana su New Statesman esce Rilke in tempo di guerra di Auden.
*
Come mi dice la mia amica Paola Tonussi: “va bene quando fai pettegolezzi su cose che sai. Crocianamente, però, amo un poeta per la sua poesia e non per la vita o, semmai, la vita la leggo e la studio dopo, quel che mi cattura subito e poi continua a farlo è l’opera. Altrimenti dovrei lasciar perdere la metà e più degli autori che amo. Un caso per tutti, la cui vita mi lascia ‘sospesa’ è Eliot… La mia conclusione (affrettata ma non troppo) è che da tutti – questa è la mia impressione istintiva (ma mi riprometto di approfondire autore, lettere e naturalmente opera di Larkin), il più grande – sempre – in tutti i sensi, poetici, umani, critici, per me resta Auden. Genio e cuore insuperato e insuperabile”.
*
Solo due avvertenze. Quando a mezzo del saggio Auden fa parlare Rilke e dice che l’uomo è sempre un’eccezione, qui c’è odor di bruciato kierkegaardiano. In quegli anni anche Auden approfondisce Kierkegaard e lo trova congeniale, così come Rilke prima di lui.
*
In sostanza il succo del teologo danese è che possiamo fare i dongiovanni ma non saremo mai niente di specifico. L’uomo è uomo solo se si dà un principio di individuazione. Se fa qualcosa che lo fa uscire dalla norma – se diventa eccezione – sa che fuori tutti gli daranno contro.
*
L’eccezione è più ricca della norma perché la comprende. Non viceversa. Chi si allontana dal gregge sa cosa è il gregge. Il gregge non si conosce. Scusate quest’altro pistolotto, sarà che sono in vena di sentire le prediche di Auden…
*
Invece nella poesia finale di Rilke il richiamo alla brocca verginale è elaborato da Rilke sulla base del racconto flash di quel pazzo scatenato a romantico di con Kleist: La brocca rotta. Se volete fare sonni tranquilli, leggete con le edizioni Se le sue Lettere alla fidanzata. (Andrea Bianchi).
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Wystan H. Auden, Rilke in tempo di guerra 
In un certo senso il titolo Lettere del tempo di guerra di questa raccolta di Rilke è un fraintendimento; meno della metà furono scritte prima dell’Armistizio e nemmeno di queste si può dire che riguardino la guerra. Se si definisce come esperienza ciò che illumina la comprensione e rilascia il potere creativo quasi come scarica elettrica, ebbene per Rilke la guerra non fu assolutamente un’esperienza. Per altra gente come Wilfred Owen si trattò dell’esperienza decisiva delle loro vite; ma appunto erano dei combattenti. Per Rilke quei quattro anni furono un orrore negativo e paralizzante che raggelò il suo impulso poetico, una sospensione dell’intelligibile. Per una o due settimane fu avvolto dal “fenomeno del dio guerra” e si tuffò “in quel cuore universale improvvisamente ravvivato e fattosi aperto” ma presto subentrò la disillusione. L’agonia e la morte che ogni guerra porta con sé erano abbastanza spaventose ma quel che gli sembrava ancor più da incubo era “che la pressione della guerra ha portato l’uomo a mostrarsi per come è dentro, forzandolo, sia come individuo che come massa, a fare un faccia a faccia con Dio come solo i grandi patimenti del passato erano in grado di fare”. Tutto ciò che Rilke poteva fare era rifiutarsi di diventare un lettore di quotidiani, passando il tempo “in attesa a Monaco sempre pensando che una fine deve pur venire eppure senza capire, senza capire. Non capire: questa era tutta la mia occupazione in quegli anni”.
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Chiamare tutto ciò attitudine da torre d’avorio sarebbe menzogna a basso prezzo; forse sarebbe un trucchetto. C’era chi resisteva compensando quel senso di colpa che chiunque non combattesse provava per non poter condividere le sofferenze fisiche di quelli al fronte, e allora via con le esagerazioni di patriottismo orgiastico e fatto d’odio, tanto più violento quanto più inoffensivo; c’era poi chi rimaneva consapevole e rifiutava di comprendere con un atto positivo che richiede coraggio di ordine superiore. Distinguere poi questo atteggiamento dall’indifferenza egoista o codarda potrebbe essere operazione difficile se fatta dall’esterno, ma la poesia di Rilke e queste lettere sono prova sufficiente della sua integrità e reale sofferenza, cosa che gli faceva sembrare “arbitrario e insincero far ricorso a un albero, a un campo, alla clemenza della sera, ché questo albero, questo campo e il paesaggio, anche se esiste, cosa ne sanno dell’essere umano sfortunato, devastante, assassino?”.
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Ora in questa seconda e persino più temibile guerra ci sono pochi scrittori ai quali volgersi con maggior profitto, non per conforto – ché Rilke non ne offre – ma per la forza di resistenza alle tentazioni ingannevoli che si fanno vicine a noi sotto forma di onesti doveri. I gesti che si richiedono ai nostri corpi variano con le circostanze e le capacità; pure, l’attitudine richiesta alle nostre menti è sempre quella: che ognuno di noi “deve, dal piccolo rifugio, piantare una piccola speranza che, quali che siano i compiti militari e politici nei quali possiamo finire coinvolti, non ci faccia dimenticare che la vera rivoluzione è la vittoria sugli abusi a beneficio della più antica tradizione”.
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Pochi hanno rifiutato meglio di lui il grido di Hitler Sì, siamo barbari. “Se solo l’uomo la smettesse di invocare la crudeltà della natura per scusare la propria… Ci si dimentica di quanto sia infinitamente innocente anche la natura al suo grado più terribile; lei non guarda quel che succede, non ne ha la prospettiva; lei è dentro temibile al massimo grado, anche quando è sterile, ma rimane generosa perché lei contiene ogni cosa compresa la crudeltà – ma l’uomo che non sarà mai in grado di misurare tutto non è nemmeno in grado, nello scegliere il peggio – per dire, l’omicidio – di contenere dentro di sé l’opposto di questo abisso e così la sua scelta, nell’atto stesso che lo rende un’eccezione, lo condanna a essere creatura isolata e unidimensionale che non è più in grado di essere connesso con l’intero”.
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Pochi videro con maggior chiarezza le falde lungo le quali frana l’intellettuale in un’epoca rivoluzionaria come quella presente: “Lui tra tutte le persone sa quanto tempo serva per un cambiamento, per quanto piccolo… come la natura, nel suo zelo costruttivo, difficilmente lascia che le forze intellettuali giungano allo scoperto. Eppure d’altro canto è questo stesso intellettuale che, per forza di visione interiore, cresce in impazienza quando vede in quali condizioni stravolte e infangate gli affari umani siano contenuti e come tutto vada avanti così”. E in un tempo in cui, in reazione al dilettantismo estetico, lo si sostituisce con un dilettantismo politico che in ogni suo frammento è prodotto di paura e inganno, pochi hanno definito con miglior nettezza il dovere dell’artista: “la produttività, anche quando estremamente fertile, serve soltanto a creare una certa costante interiore e forse l’arte arriva solo a questo perché alcune tra le sue creazioni più pure danno quella garanzia di aver raggiunto un’attitudine interiore la quale consente agli altri di fidarsi di noi…”.
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Ancora una volta il curatore delle lettere, la signora Norton e suo marito ci hanno messo in condizione di debito nei loro confronti. Non sono abbastanza dotto per fare una critica alle traduzioni di MacIntyre delle cinquanta poesie scelte per l’occasione dal Libro delle immagini e da Nuove poesie. A mio avviso, con molta saggezza lui si è preso la licenza dell’assonanza e della mezza rima in modo da essere il più letterale possibile. Alcune delle sue frasi mi mettono in dubbio. Non vedo perché “die dich nicht sieht. Du musst dein Leben andern” debba essere tradotto “dunque ora puoi nasconderti. Devi cambiare la tua vita” considerando che una resa letterale della prima frase si riesce a ottenere senza sacrificio del ritmo [dunque così: “e lei non ti vede. Devi cambiare…”]
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Si può dire che, a prescindere dalle opinioni sulle Elegie duinesi o sui Sonetti a Orfeo, il traduttore non è stato in grado né nell’introduzione né nelle note di adottare quel genere di tono da ragazzo che non usa pensieri paradossali, un tono che ben si sarebbe accordato a Rilke. Pure dobbiamo essere grati per qualsiasi tentativo di far più nota la poesia di Rilke e certe traduzioni, quattro in particolare, mi sembrano eccellentemente svolte. La versione seguente [qui: Cacciapaglia, Einaudi, 1992] di Destino di donna, nonostante certi punti dubbi, riesce effettivamente, penso, a restituirci quello straordinario sguardo interiore del grande poeta che rifiutava di “comprendere” l’odio e la distruzione:
Come il re a caccia, per bere, un bicchiere afferra, uno qualsiasi – e come da quel giorno il padrone del bicchiere lo mette via e lo serba senza usarlo:
così forse il destino, anche assetato, a volte portò alla bocca, e la bevve, una donna che d’ora in poi la sua piccola vita non usò più e per paura di romperla
ripose in quell’ansiosa vetrina che serbava le cose più preziose della vita (o che tali si ritengono).
Là restò, estranea e come più non sua, e divenne semplicemente vecchia e cieca, e non fu mai preziosa e rara.
Wystan H. Auden
*traduzione di Andrea Bianchi 
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pangeanews · 4 years
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David Maria Turoldo, il poeta fondamentale. Leggerlo vuol dire perdersi, con entusiasmo
Di David Maria Turoldo, quasi subito, mi affascinò la scelta più che il poeta, l’abisso prima del verbo. L’impeto di DMT – questo quotidiano assottigliare la grammatica in chiodi – distrugge ogni giudizio sull’esito. L’esattezza del compito è superiore alla suggestione retorica.
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Che egli, dico, scardinando il proprio nome – si chiamava Giuseppe – decida di vivere da David, da salmista a cui è chiara l’inquietudine, che sganghera nel nulla. Proprio dov’è la contraddizione, insanabile, e Dio si mostra come buco, come ferita, come assurdo, che il Salmista concentra la lira. Dio va eletto al dubbio, non carezzato di certezze.
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Turoldo muore a Milano il 6 febbraio 1992, due giorni dopo ne avrei fatti 13. Fino a pochi istanti prima dell’ultimo – così testimonia il numero di “Servitium” 84, novembre-dicembre 1992, che lo onora, con nota di Giorgio Luzzi – Turoldo raffina la sua vita ai Salmi. Alcune Meditazioni liriche “Super Psalmos” sono affascinanti per vigore d’urgenza, scassinano la lingua sacra con il carisma di uno Iacopone da Todi.
Fino a quando, Signore? Di anfratto in anfratto il grido si propaga Dai silenzi dell’anima.
Fino a quando continuerà a ingoiarmi la Notte? E tu a nasconderti: perché?
Forse anche a te è negato svelarti, e resterai sconosciuto anche sotto la coltre di morte?
Ma il canto ci salverà, e splenderanno gli occhi anche dell’oscura tua Notte.
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Finché un frate dell’ordine di Turoldo – e che aveva conosciuto Turoldo –, fra’ Antonio, un autentico maestro spirituale, mi portò quel libro – e capii. Capii, intendo, cosa significa che “il canto ci salverà”. Era il Salterio corale “della Liturgia delle ore, nella proposta poetica di David M. Turoldo”. Intendo dire. Turoldo veniva pregato. Le sue traduzioni dei Salmi e dei canti liturgici accompagnavano la vita dei frati. Appena svegli, durante la Messa, prima di mangiare, a tavola. Verbo di cui fare pasto, verbo che sopraffà ogni ragionamento e s’impone come codice ai gesti, come preparazione all’intimità con Dio. Poesia che va in litania ed ipnosi, disancorata dal ‘giudizio’, al di là del pensare, confitta al mistero, all’ambiguo, nelle narici del tremendo. Tremai, intendo.
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Pregare recitando un salmo è diverso da leggere una poesia. Quando fra’ Antonio – un rigoroso rivoluzionario – scelse, a mia insaputa, di costruire una liturgia su alcuni Salmi che avevo tradotto, fui tramortito udendoli ripetere dall’assemblea. Quei versetti, indubbiamente, non erano miei – ma erano pur sempre miei. Con che spudoratezza pensai alla loro efficacia… Insomma, io parlavo alla comune dei poeti, traducevo consegnandomi, per evento, alla storia letteraria: quei versetti, verticali, avvinti alla codardia, avrebbero disancorato Dio dal rancore? Tremai, ripeto.
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“Sempre storia dell’uomo che diventa canto; memoria che si compone in musica. Nella sostanza nulla di diverso dai salmi, solo testimonianza di creatività e di improvvisazione: segno che il cuore è pieno e trabocca”, scrive Turoldo introducendo il Salterio corale, con una esortazione “cantare tutti; e cantare per tutti”. Frate Antonio mi diceva che accordarsi nel canto comune è sigillare l’armonia tra gli uomini, dissimili – il vero patto è consonanza, anzi, consuonare, cantare.
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Qui Turoldo traduce il profeta Isaia:
Chi nella mano raccoglie gli oceani e con il palmo misura gli spazi? C’è forse un altro che mai ha raccolto come in un’anfora tutta la terra?
O c’è qualcuno che possa pesare sulla bilancia montagne e colline? Chi mai diresse la mente di Dio, o consigliere gli fu nello spirito?
Gocce d’un secchio per lui le genti appena polvere sulla bilancia: i continenti sono come granelli pesano le isole quale pulviscolo.
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Gabriel Del Sarto, poeta notevole – ricordo I viali, per Atelier, 2003; Il grande innocente, Aragno, 2017 – pubblica per Lamantica un “Saggio sulla poesia di David Maria Turoldo”. Si intitola Raccontare la verità – e dice già l’attitudine di Turoldo: ancorarsi al vero più che presunto per retorica, dare pregio al fatto che forma è rivelazione. “Turoldo, nel suo complesso, non è un grande poeta, ma è un poeta fondamentale”, scrive Del Sarto, penetrando uno scarto.
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Quando frate Antonio mi disse che la mano di Turoldo era nella traduzione delle “Costituzioni” dei Servi di Maria, in effetti affascinanti (“Secondo l’ispirazione mendicante del nostro Ordine, viviamo i valori evangelici della provvisorietà, della insicurezza e della disponibilità ad andare dove urge il nostro servizio”), pensai che un poeta è proprio quello: rompe ogni regola per scrivere la regola. Adempierla è abitare poeticamente. (d.b.)
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Per gentile concessione pubblichiamo un brano da: Gabriel Del Sarto, “Raccontare la verità. Saggio sulla poesia di David Maria Turoldo”, Lamantica, 2019
Turoldo nel considerare la sua poesia come una necessaria attualizzazione e amplificazione dello spazio poetico della Sacra Scrittura, si è assunto il compito di tendersi sul presente. La sua poesia è quindi funzionale: i versi sono uno strumento di preghiera, di riflessione, di messa in contatto col divino, sono una porta accessibile. Per questo assegna alla poesia un compito alto, che la nostra sensibilità catalogherebbe forse come ingenuo (ma, proprio per questo, libero): «Poesia/ è rifare il mondo, dopo/ il discorso devastatore/ del mercadante».
Per rifare il mondo serve il silenzio. Turoldo sa bene che per gli Israeliti il nome di Dio è fatto di quattro consonanti che non si dicono, che si tacciono. Il nome di Dio è silenzio, non perché è muto, ma perché contiene tutti i suoni e li sintetizza su una frequenza fuori banda. Il silenzio del nome di Dio è la perfezione di tutte le voci, di tutti i canti, che nessuno ascolta.
Il silenzio è amico di una delle verità più crude che il Vangelo tramanda: l’anima deve morire, perché l’uomo possa vivere in Cristo. In verità il nostro io non è che questo: una serie di comportamenti osservabili. Non siamo altro che rappresentazione, da questo punto di vista. In poesia l’io, quindi, si risolverà in una mera posa grammaticale. A meno che non sia svuotato di sé, kenoticamente. Se muore l’anima, quel piccolo mutevole io distinto dallo Spirito, anche Satana muore, e con lui le tenebre.
Satana è presente anche nel cuore di chi legge. La poesia di Turoldo chiede al suo lettore lo stesso impegno: essere disponibile a svuotarsi, a far morire l’anima. Non è poesia che diletta, non si vuol far leggere perché bella, ma è bella perché si deve far leggere. Essa si pone come strumento di ricerca della verità. Lettori diversi, attenti al grado di letterarietà di un testo e non alle sue motivazioni, in definitiva meno inquieti e più tiepidi, non sono contemplati. Per loro basta la condanna dell’Apocalisse di Giovanni.
Ogni poeta sceglie poche verità e decide su quelle di costruire, più o meno consapevolmente, la sua visione delle cose, e di imporla. La verità di Qohelet è necessaria perché sorga la verità di Giobbe: la prima è puramente riflessiva, speculativa, la seconda è una storia, dolorosa al massimo grado e cucita insieme da una speranza contraria ad ogni speranza, ad ogni logica. Per questo la prima è funzionale alla seconda. Per questo la seconda è più profonda e valida.
C’è stata un’epoca in cui i poeti erano degli entusiasti del pensiero. C’era una spinta in avanti e insieme una capacità di reggere la pressione del reale che permettevano l’immaginazione, l’illusione e, talvolta, anche la speranza. Turoldo sembra avere in mente poeti di questo spessore, ogni volta che riflette sulla poesia e sul suo destino.
 Wallace Stevens scrisse in Imagination as Value: «I grandi poemi del paradiso e dell’inferno sono già stati scritti, ma rimane da scrivere il grande poema della terra». È probabile che questo poema non sarà opera di uno solo, ma di diversi, semmai sarà scritto. Turoldo potrà, a mio avviso, essere annoverato fra costoro.
La poesia di David Maria Turoldo è il tentativo di amare e tenere tutto questo insieme: la polvere della terra, le infinite galassie, il nome di Dio. Perché se non manterremo vivo l’amore – quel costante colloquio fra noi – anche il suo nome luminoso andrà in frantumi.
Gabriel Del Sarto
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pangeanews · 5 years
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Caproni sotto le ascelle, puzza di piedi, alito pesante: la letteratura come “passeggiata olfattiva”
Anche la letteratura ha un odore ed una fragranza: il suo sapore è intrecciato alla sapienza sin dalla primissima consapevolezza documentaria: anzi, in un ipercorrettismo, tanti odori e tante fragranze, proprio perché i miasmi, nella personalissima percezione di chi li vive, “servono ad evocare luoghi, a ritrarre personaggi, a toccare le corde dell’emozione”. Insomma, il fior fiore dei nostri Classici è una bella “passeggiata olfattiva”, potremmo dire: in odor di santità (laica), tra una scorsa passeggera o uno sguardo più attento, benché alcune volte ci faccia percepire qualche brutto odoraccio, nel divertimento intenzionale dello scrittore di volerlo partecipare al suo lettore.
Ecco una carrellata di qualche esalazione esiziale: Don Chisciotte sente dolcissima e irresistibile la fragranza che emana dalla bella Dulcinea che, però, per lo scudiero Sancho, è solo odore di pesce guasto: per la serie, quando il naso e il fiuto viaggiano per strade parallele! Per non parlare, poi, del principe Fabrizio Salina di Tomasi di Lampedusa che s’inebria nella pungenza acre del suo giardino, di cui ricorda pure un certo lezzo di cadavere.
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Ma la casistica del puzzore non finisce qui: c’è di tutto per farsi storcere il naso, con un libro in mano, senza essere repellente per questo, chiariamoci subito!  C’è un autore italiano, Francesco Melosio (Città della Pieve, 1609-1670), che può essere considerato il padre lirico della bromidrosi plantare: un autore minore del panorama storico italiano che non è passato inosservato ai suoi tempi, malgrado le informazioni su di lui siano piuttosto digiune.  Dalle notizie di cui siamo in possesso, fu colto umanista e profondo conoscitore delle leggi: entrò al servizio dei potenti non solo a Roma, ma anche a Venezia e a Torino; del resto, era prevedibile questo mecenatismo, a mo’ d’invarianza per traslazione dei tempi! Attraverso le poesie denunciò, pur con apparente amenità, il profondo malessere del tempo. Tra le sue opere si ricordano: Discorsi accademici, Orione, Sidonio e Dorische e Poesie e prose. Simpaticissimo un sonetto in cui il poeta lamenta l’olezzo insopportabile dei piedi di una non ben identificata Nina, forse passibile della mancata accentuazione di due congiunzioni subordinanti, all’interno del testo, perché mentalmente “suonato”: «Come, se non sapete, ogni vicina / dice, che col saper nel naso date; / come se havete voi poca dotrina, / dice ognun, che in estremo ne sappiate. / Ah lo so, perché il piè vi puzza o Nina, / vi dan dell’acqua a’ piedi le brigate, / onde in darno per Dama vi spacciate, / mentre sapete tanto da Pedina. / Benche sembriate bella agl’occhi miei, / e possiate felice ancor chiamarvi, / esser ne’ vostri piedi io non vorrei. / Questo sol è di buono, che confidarvi / potrò con maggior quiete i fatti miei, / perche alcun non verrà per il calzarvi».
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Passando ad altri tanfi, come non ricordare la fastidiosa sudorazione ascellare, che per alcuni è avvicinabile a qualche prodotto ortofrutticolo, la cipolla, in primis, anche se il buon Catullo avrebbe fatto un paragone di tutt’altra specie, animale, cioè: «Noli admirari, quare tibi femina nulla, / Rufe, uelit tenerum supposuisse femur, / non si illam rarae labefactes munere vestis / aut perluciduli deliciis lapidis. / laedit te quaedam mala fabula, qua tibi fertur / ualle sub alarum trux habitare caper. / hunc metuunt omnes; neque mirum: nam mala valde est / bestia, nec quicum bella puella cubet. / quare aut crudelem nasorum interfice pestem, / aut admirari desine cur fugiunt» (Catullo, LXIX). Traduzione: “Non stupirti del fatto che nessuna donna, / o Rufo, voglia stendere sotto di te le sue tenere gambe, neppure se le corrompessi con il dono di una rara veste / o con il piacere di una pietra fine e trasparente. / Ti nuoce una cattiva diceria, secondo la quale si dice che / sotto le tue ascelle si annidi un caprone selvaggio. / Questo temono tutte; e non c’è da meravigliarsi: / infatti è una gran brutta bestia / con cui nessuna bella ragazza va a letto. / Perciò o uccidi il crudele flagello dei nasi / o smetti di stupirti del perché fuggono”. Un caprone sotto le ascelle, uach!
Anche la bocca, a volte, produceva la stessa sensazione: Ippocrate di Kos (460-377 a.C.), considerato il precursore della Medicina, insisteva nel dire che tutti i giovani dell’Antica Grecia dovessero avere un alito gradevole. Per questa ragione raccomandava un’igiene orale, indicativa del grado di dolcezza interiore e dello stato di purezza dell’anima. A tal fine pare aver formulato un collutorio aromatico che garantiva un refolo che non sapesse più di fiatella; per la cronaca, comunque, a base di vino puro, anice, semi di aneto e mirto, per chi fosse curioso di realizzarlo. Contro l’alitosi proseguì, nel tardo antico, il romanziere Apuleio: «Calpurniane, salve properis versibus. / misi, ut petisti, tibi munditias dentium, / nitelas oris ex Arabicis frugibus, / tenuem, candificum, nobilem pulvisculum, / complanatorem tumidulae gingivulae, / converritorem pridianae reliquiae, / ne qua visatur tetra labes sordium, / restrictis forte si labellis riseris» (De Magia, cap. VI), Traduzione: “O Calpurniano, con veloci versi, / io ti saluto e mando, come chiedi, / la pulizia dei denti, lo splendore / della bocca che viene dalle messi / d’Arabia, una sottile, candeggiante, / nobile polverina che ti sgonfia / la tenera gengiva e spazza via / i rimasugli d’ieri. Non vedranno / brutture di sporcizia, se per caso / a labbra spalancate riderai”.
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In ultimo, per completare il cerchio, le flatulenze letterarie: non se ne può fare a meno, ahinoi, in questa celere e sciolta trattazione! Iniziamo dall’impero romano: lo storico Svetonio attribuì la condanna a morte di Lucano al fatto che l’autore dei Pharsalia avesse citato un emistichio di Nerone, subito dopo aver emesso un fragoroso gas aerosolizzato, mentre si trovava ai bagni pubblici!  Nel Medioevo abbiamo, invece, Dante vs Chaucer, detto tout-court.  Nella Divina Commedia l’ultimo verso del Canto XXI dell’Inferno recita: «ed elli avea del cul fatto trombetta» in riferimento all’atto del diavolo Barbariccia, che, con questo segnale, dà inizio alla marcia della sua cricca di diavoli. Nel Racconto del Mugnaio, uno de I racconti di Canterbury, il personaggio di Nicholas sporge il suo posteriore da una finestra ed emette in faccia al rivale Absalom quanto facilmente immaginiamo. Due Giganti del Trecento, di petto, a gara col peto, in sostanza!
Facendo un volo pindarico, per salto di secoli, mi conservo, scrivendole, due chicche: in Notre-Dame de Paris,  Victor Hugo fa emettere rumorosamente una pingue prostituta, «quattuor denarios aut unum bombum»: forse, la cosa è sfuggita a qualche musical, giustamente! Nell’Ulisse di James Joyce, che è l’ipostasi viva  del flusso di coscienza, il personaggio principale, Leopold Bloom, fa un «vento» nel capitolo Sirene.  Altri flussi, potremmo azzardare a dire! In pratica, non c’è puzza che non abbia un richiamo poetico o narrativo, ovvero artistico: l’esal(t)azione dell’esalazione si gioca su quella leggerezza, di cui lo spirito umano deve necessariamente nutrirsi, per non prendersi troppo sul serio.  Nel frattempo, scartabello Il profumo della Letteratura, edito da Skira (2014) e curato da Daniela Ciani Forza e Simone Francescato: un libro che indaga i rapporti fra scrittura e sensazioni olfattive.  Credo che serva ad ogni naso intelligente.
Francesco Polopoli
*In copertina: Théodore Géricault (1791-1824) e i fatidici “pezzi anatomici”
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pangeanews · 5 years
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“Io sono appartato & estroverso, mi assicuro che le cose siano sicure”: John Kinsella dialoga con Emily Brontë. Una poesia inedita da “Insomnia” (con un’autoglossa dell’autore)
Una tempesta non prevista dal meteo. Un barometro che segna con precisione millimetrica lo sbalzo costante della pressione atmosferica. Ogni cosa d’improvviso esposta all’oscura minaccia di una fantasmatica tempesta che incombe sulla nostra capacità/incapacità di credere alle potenzialità catastrofiche della sua devastazione. La tempesta che “si sta avvicinando / no, è sempre qui” diventa il leitmotiv di qualcosa di umbratile e spaventoso, che continua ad oscillare tra interno/esterno, reale/irreale, affermato/negato, stagnante eppure dirompente come il “turbine di vento forte e scintille” che “ci fa fremere fino all’attrito”. Nel piccolo/grande spazio delle quartine, la tempesta acquista via via lo statuto del perturbante: qualcosa di incontrollato che continua ad accrescersi “sopra e sotto di noi”, qualcosa di percettibile e cumulativo nella sua ripetitività eppure celato, segreto, inconscio, ambivalente. L’unheimlich freudiano-kinselliano-brontiano, con il suo prefisso un anteposto ad heimlich—che ha in sé la radice di tutto quel che è casa-patrio-nativo-abituale-intimo—fa trapassare il noto e il familiare nel suo contrario. Qualcosa che si sottrae alla nostra piena comprensione e tuttavia capace di ingenerare angoscia e terrore per l’orribile furia degli elementi o delle passioni distruttrici che possono abbattersi sulla casa e sull’abitare, su quanto è consueto e ci è noto da tempo. E che è pertanto indagabile sia sul piano dei sentimenti umani e dei fenomeni psichici frutto dell’inconscio, sia in termini di filosofia estetica, giocando un ruolo chiave nella sfera delle emozioni umane.
Sotto l’effetto perturbante della fantasmatica tempesta su Jam Tree Gully, lo spazio interno close and warm, senza più asse né centro, trapassa nel suo opposto e in tutto quello che, dice Schelling, doveva restare celato, ignorato, ed è invece affiorato. Il poeta “appartato”, il grande iniziatore, si fa viandante “estroverso”. Mette in atto per tutti una vigilanza insonne e luminosamente umana sulla più vasta fragilità di quanto – cose, persone, animali e luoghi amati – si trova all’esterno. Lascia entrare nello spazio aperto dei propri versi l’eco della viva phoné di Emily, la cui voce rocciosa continua a scandire il ritmo tempestoso o calmo della vita. I “no” della gigantessa dallo sguardo visionario—più che mai rivolto a un mondo spaccato in due da un gigantesco disordine—si intrecciano alla voce accorata di Kinsella. Il testo si fa intertesto, l’univocità plurivocità, la parola viva dell’oggi diventa coralità che freme più umana grazie all’energia dislocante della poesia, capace di dar voce alla pura presenza delle cose, portate ai nostri occhi in una sorta di cortocircuito fisico ed emotivo. I versi, duttili nel movimento nelle quartine, cercano contrasti, assonanze, sospensioni, tracce segrete che conducano a uno svelamento di più significati e a una moltiplicazione di senso del reale, scardinando al contempo il significato unico e la figura autoriale. Lo spazio terzo intertestuale diventa struttura percettiva, habitat da preservare, locus amoenus o luogo delle delizie dove può ancora svolgersi la trama del mondo naturale circostante. Dove i fili dell’habitus respirante del poeta, che sono strumento di comunicazione e trasmissione della memoria e dell’ethos, possono dipanarsi e riavvolgersi attorno all’altro da sé, colmando la distanza tra il proprio e l’altrui con una parola semi-altrui, in un gioco perpetuo di rimandi, sovrapposizioni, variazioni. Il paesaggio intertestuale diventa luogo dei vincoli umani necessari al canto d’amore e dolore del dire essenziale e più dicente kinselliano, che riesce così a lambire una più umana linea collettiva della profonda relazione  che corre tra la vita, la morte e il linguaggio, intessendo un fragilissimo legame, sempre pronto a spezzarsi, tra poesia e responsabilità individuale e collettiva, tra interiorità ed esteriorità come contrapposizione di quel che è estraneo alla nostra coscienza e quel che le è proprio. Ma anche tra l’apparenza e l’essenza delle cose che si manifestano nella loro ambivalenza in ogni aspetto della vita. Il dire kinselliano, necessario e urgente, si spinge così verso quel cambiamento e quell’azione indispensabili al farsi-mondo della parola per poter rifondare il nostro abitare, dove le cose possono finalmente appartenersi reciprocamente ed è possibile l’identità del non-identico. Le parole diventano via via semplici parole della terra e di una casa comune. Parole separate dalle loro radici numinose, nelle quali il poeta di Perth può vedere cose differenti e opposte entrare in una prismatica relazione originale, vedendo i contrari dissolversi, poesia e verità essendo sinonimi (Char). Dalla china scoscesa di Penistone Crags, la voce di Emily si fa evidenza e percorso. Pronuncia nell’oggi la dura roccia e l’amata brughiera dello Yorkshire, accogliendo nella terra rossa delle fenditure delle cime più alte le acacie spinose di Jam Tree Gully. Intanto, nel lucore dorato della cintura del grano australiano, le radici degli eucalipti kinselliani continuano a ‘velare e a svelare’ il ‘contesto originale di uno scrivere apocalittico’ nell’ancora troppo esteso Purgatorio del mondo.
“Dov’è l’anima della bambola dalle fattezze umane che incute terrore con il suo sguardo sinistro?” si chiedeva Rilke. “Dov’è l’anima del nostro mondo contemporaneo dalle perturbanti fattezze disumane?” si chiede Kinsella nella dilagante crisi dell’essere, nel consumismo globale che depreda e consuma dissennatamente spazi e risorse della terra che sono di tutti, lasciando invece miseramente ai margini del superfluo la poesia, l’arte, la bellezza? Con l’abituale vocazione intertestuale, l’eminente poeta ambientalista australiano scrive nella nuova silloge INSOMNIA il proprio atto di resistenza contro una compiacente visione del mondo che non vede o non vuol vedere la vanità di un mondo effimero che rincorre, costi quel che costi, mode, fama, successo, prestigio sociale, benessere, e sembra non saper più scegliere tra l’apparire e l’essere. Nell’angosciosa condizione odierna di comoda o incosciente sospensione sulla soglia tra certezze ormai crollate e l’inadeguatezza o l’insufficienza degli interventi necessari a contrastare gli effetti sempre più catastrofici del cambiamento climatico sul pianeta terra, Kinsella chiama a raccolta nella propria arca o arco spaziale (Space Arc and Space Ark è il titolo di una toccante poesia inclusa nella silloge), le amate voci di Emily Brontë e Judith Wright, continuando a trarre sangue poetico e morale dal pan degli angeli dantesco (qui attraverso l’interpretazione di Liszt nella sua Dante Sonata, nella quale il virtuosismo del compositore tenta di trascendere la fisicità del suono, di renderlo un veicolo fluido e trasparente, adatto a trasmettere il lamento delle anime dell’Inferno e la gioia della anime beate secondo il messaggio poetico della Divina Commedia). Con INSOMNIA, non del tutto a sorpresa, Kinsella porta alla nostra riflessione un passo illuminante e commovente tratto dalla Critica della ragion pura, nel quale Kant ci ricorda che al di là delle parole stanno le cose e al limite delle parole accade il mondo. Proprio sulla soglia della parola, nel suo limite, il dire kinselliano sollecita un sapere, una ragione delle cose che è oscillante e vaga, ma c’è. Si interroga su come e cosa possiamo davvero conoscere e sull’al di là del linguaggio che è la storia vivente di questa ragione che ognuno, parlando e vivendo, frequenta e promuove, come sa e come può. “Naturalmente–ci soccorre Carlo Sini—anche questo dire è una storia, un modo per rimodellarsi nel mondo e rimodellare il mondo. A che fine? Per quello che, secondo Whitehead, è il fine di tutte le nostre azioni e di tutte le nostre storie: per vivere, anzitutto; poi per vivere bene; quindi per vivere meglio.” (mcb)
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Critica della ragion pura 
(Sezione II, pag.36)
[…] “Infatti, se sottraete a poco a poco dal vostro concetto empirico d’un corpo tutto ciò che vi è di empirico, il colore, la durezza, la mollezza, la pesantezza e la stessa impenetrabilità, resta tuttavia lo spazio che esso (che ora è del tutto svanito) occupava, e che non può essere soppresso. Così, se togliete via dal vostro concetto empirico di ciascun oggetto, corporeo o incorporeo, tutte le proprietà che l’esperienza vi insegna, non gli potete nondimeno togliere quella, per cui lo pensate come sostanza, o aderente a una sostanza (sebbene questo concetto abbia una determinazione maggiore che quello di oggetto in generale). Spinti dalla necessità con cui questo concetto vi si impone, dovete dunque convenire che esso ha la sua sede nella vostra facoltà di conoscere a priori”.[…]
  Emily Brontë Storm Poem: Jam Tree Gully
                         January 2018                   
The storm isn’t here, it isn’t predicted. And yet the barometer’s needle has cast its lot —
down past the leaf, even, down to the floor — all is stagnant, no, a tremble of door & window, ants moving in —
I am withdrawn & extrovert, making sure things are secure. Nature is life, & a bout of high wind and sparks stirs
us to friction — what can be destroyed needs following- up with acts of conservation. The storm is approaching —
no, it is always here, building above & below us, though skies remain clear. No, the blue slightly feathers. John Kinsella
(from Insomnia, Picador, 2019)
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Poesia sulla tempesta di Emily Brontë: Jam Tree Gully
                                    Gennaio 2018
La tempesta non è qui, non è prevista. Eppure l’ago del barometro ha fatto la sua scelta—
a picco oltre il simbolo-foglia, fisso, a picco verso il pavimento— tutto è stagnante, no, un tremito di porte & finestre, formiche che entrano.
Io sono appartato & estroverso, mi assicuro che le cose siano sicure. La natura è vita & un turbine di vento forte e scintille ci fa fremere
fino all’attrito – quel che può essere distrutto deve essere sostenuto con azioni di conservazione. La tempesta si sta avvicinando—
no, è sempre qui, si accresce sopra & sotto di noi, sebbene i cieli restino chiari. No, il blu leggermente si offusca.
(traduzione di Maria Cristina Biggio)
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Autoglossa di John Kinsella 
“I have been writing poems ‘after’ and ‘in response to’ Emily Brontë’s poems since I was a teenager. Insomnia contains a number of my ‘Emily Brontë poems’. This poem seems to me to be about inner and outer lives. I am very much an ‘outdoor’ person, who loves to be in nature, and yet I see so much from my window as I work. I see skies brewing and the storm not breaking, I search for the predicted storm and do not find it, but then I find storms in myself, especially in response to the mistreatment of the natural world. Emily Brontë’s poems have always struck me as being so visceral, so earthy, so exposed to the elements. They don’t just described weather, they are weather! Jam Tree Gully is very different from the moors that Emily wandered, and I am cautious not to link them in a kind of ongoing colonialism, but I know the moors, and actually got core work on my ongoing ‘Emily Brontë poem cycle’ done when we were staying at Ponden House, West Yorkshire, in 2011, so the landscape the intensity of earth and skies is in there, but not as a displacement of what’s here, in the Western Australian wheatbelt. Here is here, there is there, but they are linked in terms of the health of the biosphere, and also the harm we do to it wherever we are. Even when the skies look clear, the storm is within us, and even when we are told there’s a storm, it’s also not there if we interpret or see it in different ways. I have always been fascinated by paradox, ambiguity, contradiction, and tautology. How different places and times and outlooks can converse, but not overlay and occupy and consume each other”. (J.K.)
“Ho scritto poesie ‘alla maniera di’ e ‘in risposta alle’ poesie di Emily Brontë fin da quando ero un adolescente. Insomnia include alcune mie ‘poesie di Emily’. Questa (sulla tempesta) mi sembra sia sull’interiorità e l’esteriorità dell’esistenza. Sono davvero una persona che ama stare ‘all’aperto’, in mezzo alla natura, e tuttavia vedo così tanto dalla finestra mentre lavoro. Vedo cieli in fermento e tempeste che non si abbattono, cerco la tempesta prevista e non la trovo, ma poi trovo le tempeste in me stesso, specialmente in risposta alla devastazione del mondo naturale. Le poesie di Emily Brontë mi hanno sempre colpito per essere così viscerali, così terrestri, così esposte agli elementi. Non descrivono appena il tempo metereologico, sono il tempo stesso! Jam Tree Gully è molto diversa dalla brughiera in cui Emily amava vagare, e faccio molta attenzione a non collegarle in una sorta di perdurante colonialismo, ma conosco la brughiera, e in realtà il grosso del lavoro sul mio ininterrotto ‘ciclo di poesie di Emily Brontë’ è stato realizzato quando stavamo alla Ponden House, nello Yorkshire Occidentale, nel 2011. Così il paesaggio, l’intensità della terra e dei cieli sono tutti là dentro, ma non come una dislocazione di quel che è qui, nella regione wheatbelt dell’Australia Occidentale. Qui è qui, laggiù è laggiù, ma essi sono collegati sotto il profilo dello stato di salute della biosfera, e anche del danno che le arrechiamo, ovunque noi siamo. Anche quando i cieli sembrano chiari, la tempesta è dentro di noi, e anche quando ci viene detto che c’è una tempesta, essa non è davvero qui se la interpretiamo o la vediamo in modi diversi. Sono sempre stato affascinato dal paradosso, dall’ambiguità, dalla contraddizione e dalla tautologia. Da come luoghi differenti e tempi e prospettive possano dialogare, ma senza sovrapporsi, occuparsi e distruggersi gli uni con gli altri”. (trad. di mcb)
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Eminente poeta ambientalista, John Kinsella (Perth, Australia Occidentale) è Fellow of Churchill College (Cambridge University) e Professor of Literature and Environment (Curtin University). È stato insignito di prestigiosi premi e ha pubblicato svariate raccolte di poesia. Si ricordano: Drowning in Wheat: Selected Poems, Sack, Armour, Shades of the Sublime & Beautiful, Divine Comedy: Journeys through a Regional Geography. In Italia ha pubblicato una selezione di poesie dal volume Divina Commedia: Viaggi attraverso una geografia regionale (traduzione a cura di Maria Cristina Biggio, con prefazione di John Alfred Scott, disegni di Urs Jaeggi, Raffaelli Editore, 2014). Kinsella è inoltre presente nel Blog di poesia della RAI, nella rivista online Pangea e nel Quaderno Lavori (a cura di Maria Cristina Biggio), nell’Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea (Raffaelli, 2017). L’ultima raccolta di poesia, finora inedita in Italia, di cui qui si presenta un testo, si intitola Insomnia (Picador, 2019).
*In copertina: John Kinsella fotografato da Tracy Ryan
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pangeanews · 5 years
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“Chi si sente sapiente, s’annulli e si faccia demente”: sulla poesia di Giovanni Testori
Il ribaltamento, l’avversione, la conversione, l’inammissibile, è lì. Capitolo terzo della Prima lettera ai Corinzi. Versetti 18-19. “Nessuno si inganni: chi si crede sapiente in questo mondo, si faccia folle per diventare sapiente; sapienza del mondo è follia presso Dio”. Qui non c’è la garanzia aristocratica del mondo greco, riassunta nel perfettissimo apoftegma di Giorgio Colli, “la matrice della sapienza è la follia”. Qui c’è un precipizio, l’estasi di un disastro, acuti all’abisso. Poco prima, infatti, Paolo dice che “il fuoco proverà l’opera di ciascuno” (1 Cor 3, 13). E oltre, “Vediamo ora attraverso uno specchio, in modo confuso: allora, saremo faccia a faccia” (1 Cor 13, 12). Non c’è nulla da conquistare, qui – “diciamo della sapienza di Dio, un mistero, che permane nascosta” (1 Cor 2, 7) –, nessuna ‘risposta’: semmai c’è da incendiare.
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Così quel passaggio che suggella la follia dei seguaci di Cristo è tradotto da Giovanni Testori:
Non cedete a seduzione. Chi di voi secondo le regole del mondo si sente sapiente, s’annulli e si faccia demente. Solo allora si sentirà veramente sciente. La scienza di questo mondo presso Dio è totale insipienza.
Più che follia – che manda, è inevitabile, alla sapienza greca – Testori intende, coerente alla contraddizione, demenza. Entrare nel de-mente, nell’aldilà della mente, che mente, è mentitrice, per sfociare in Dio.
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“Leggo San Paolo da quando ero ragazzetto. È una delle colonne cui, nei momenti più duri, mi sono sempre disperatamente aggrappato. Anche nei momenti dell’ira e della bestemmia. Sono sempre andato a sbattere contro queste colonne. San Paolo, questo inesorabile convertito, questo inesorabile testimone e rammentatore, dopo Cristo, con Cristo, per me è l’inevitabile”, dice Testori a Fulvio Panzeri, su Avvenire, 16 giugno 1991. Inesorabile e inevitabile danno tensione al fatto che fu San Paolo. L’Apostolo che non conosce Gesù precede gli evangelisti per scatto e scavo, e organizza, con furia visionaria, la Chiesa – l’abiezione diviene elezione. “Da ultimo – come all’aborto – a me apparve. Infatti degli apostoli sono l’infimo, neppure degno dell’epiteto ‘apostolo’” (1 Cor 15, 8-9). Così Testori, in una specie di allucinata coincidenza:
Cristo fu visto; poi da tutti gli invitati. Finalmente anche da me, l’aborto. Io, infatti, dei chiamati l’infimo sono; a quel nome, anzi, inadeguato; la Chiesa di Dio ho io perseguitato.
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Ricordo che l’esperienza fu quasi gemella, specchio in enigma. Per studio, devo leggere San Paolo. Ma chi lo legge? Mi sorprende, dal lago letterario, il ‘genere’. Per dire Gesù nasce un nuovo genere, tra favola e cronaca, tra rivelazione proverbiale e storiella talmudica: il Vangelo. D’altro canto, la Chiesa si fonda tramite l’esercizio epistolare, la lettera, non il trattato, per intimità d’intenti. In un giorno, divorai le lettere: la forza di Paolo è fanatica, fagocitante, una foga che sarà replicata da Dostoevskij. Allo stesso modo, quando incrociai Testori, le Opere volume secondo stampate da Bompiani – dai Trionfi alla ‘Trilogia degli Scarrozzanti’ – mi chiudo in casa per due giorni. Una rivelazione pretende lingua nuova, raffinata al fuoco.
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La Traduzione della prima lettera ai Corinti fu pubblicata da Longanesi nel 1991, Testori è sulla soglia della malattia, della morte. Tra i rari esercizi di traduzione biblica, è un capolavoro, meglio degli sporadici linguismi di Salvatore Quasimodo e di Massimo Bontempelli; se si cita, con agio, il biblismo di Erri De Luca e di Guido Ceronetti, va riferito di Testori. Sgretolare in poesia San Paolo è una scelta scenica e formale formidabile, di uno che vuole essere, all’Apostolo, “talmente vicino da mescolarvisi – per quanto ciò possa sembrare ingiurioso”. Così precisa, Testori, a Carlo Bo: “Per me non si trattava di spiegare – e cosa poi se tutto in Paolo è di una chiarezza abbacinante – ma di trovare una struttura formale che, in qualche pallidissima e magari vigliacca maniera, restituisse quella dell’originale. Guardi: le lettere le ho prese, per dir così, da tutte le parti; le ho voltate e rivoltate; ma sempre, e tutto, restava al di qua; ma sempre, e tutto, cadeva anche in me nella spiegazione. Dopo anni e anni, quando ho dovuto farmi ricoverare per un intervento, ho deciso di portare tutto il necessario; esattamente il giorno prima dell’operazione mi è venuto l’attacco così come lo si legge… Ho tirato un respiro; forse questa volta – mi son detto – ho preso in mano il filo dalla parte giusta…”.
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I singolari sommovimenti lirici di Testori:
Ma Cristo è risuscitato, Lui, primula e viola di chi si è addormentato.
In realtà sarebbe: “Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di quelli che si sono addormentati”. Primula e viola è roba sua, di chi depone Gesù tra i tormenti pestilenziali di Tiziano, tra i cruenti di Caravaggio e le Alpi di Tanzio. In una lunga recensione su “la Repubblica”, Testori e la lingua degli angeli, era il 14 luglio 1991, Pietro Citati va per rose mistiche, ma affronta il cuore poetico di Testori, “La poesia che egli predilige è indifesa, lacerata, sconvolta da grandi squarci: si sacrifica, e con sé stessa sacrifica la letteratura, per lasciar irrompere da quegli squarci la voce dell’altro mondo”. In sostanza, “Non ha simpatia per la traduzione della poesia italiana, da Petrarca a Montale”. Voglio dire che: a) la Traduzione è una anomalia lirica, che conclude il percorso poetico, autonomo, di Testori; b) il Testori poeta è sempre stato preso sottogamba, malauguratamente (vanno lette le Poesie scelte a cura di Fulvio Panzeri per Guanda e le Poesie edite da Mondadori, per cura di Davide Rondoni).
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Di questa ostilità Testori era ostinatamente consapevole. Riguardo a I Trionfi, il suo lavoro più ambizioso – edito da Feltrinelli nel 1965 – col senno di poi, nel 1982, disse: “Son piuttosto una catastrofe; sui quali generalissimo fu il silenzio. Non erano entro alcun registro. Fuori, erano, dagli imperanti re della poesia inNobelata, fuori, erano, dai sobillanti intrighi dei sessantatreisti (finiti dove?). Registravano troppo il cuore; e i suoi disperati movimenti…”. Pare che l’inNobelato Montale in persona avesse evitato che se ne parlasse, dei Trionfi, sul “Corriere della Sera”.
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“I versi gridati, sanguinanti, laceranti restano al di qua delle necessità di questa natura fuori dal comune e per la quale il metro della nostra letteratura appare del tutto inadeguato… Ma se noi dovessimo, alla fine, indicare quello che sembra l’elemento-chiave della sua fantasia, è proprio la tenerezza, questa forma segreta della sua crudeltà apparente”, scrive Carlo Bo a proposito dell’opera poetica di Testori. “Al libro, grazie a Dio, corrisponde un uomo”, specifica, perché il verbo non è forma che si esaurisce, ma bocca che rumina, che ti scassa. Fino all’ultima parola esatta, a far zitto il cosmo.
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Leggere Testori è insopportabile come leggere San Paolo, che inchioda alla croce. Un certo Testori è stato digerito, è diventato un digestivo, se ne può parlare – l’altro, questo, è ancora indigesto, non è neanche letteratura, sta nell’altro. (d.b.)
***
Se Cristo non è risorto, la nostra fede è vanità, vanità ciò che predichiamo. Saremmo, ecco, testimoni di falsità… Solo quando ogni cosa sarà stata così deposta il Figlio a Colui che tutto gli sottomise si sottometterà. Questo affinché Dio tutto sia, tutto e in tutto. Se così non fosse, cosa farebbero quelli che pei morti si sono battezzati? Se davvero i morti non risorgeranno, perché farsi per loro così segnare? E poi, perché ai pericoli ogni istante sottostare? Ogni giorno finisce, muore. Com’è vero che voi siete voi, il mio vanto è Cristo Gesù.
Giovanni Testori
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pangeanews · 5 years
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“Non può esserci compimento alla vita di un poeta. È da tutto quanto non ha vissuto che gli viene la sua potenza”: Emil Cioran sulla poesia. Un inedito
Un anno prima di partire per la Francia Cioran aveva scritto: «Chi si distacca dalla propria nazione diventa un fallito». È proprio in questa nuova veste di diseredato che Cioran inizia a Parigi la sua nuova esistenza di apolide. Tra vaghi propositi di ricerca filosofica e incerte borse di studio, si ritrova in realtà a vivere d’espedienti nel Quartier latin, accanto agli espatriati di ogni dove, deambulando senza meta nel ventre d’una città «che vi culla di illusorie promesse di felicità per meglio divorarvi».
In una corrispondenza da Parigi per il giornale romeno «Cuvântul», Cioran ritrae i frequentatori del celebre quartiere, delineando per la prima volta quella concezione estetica, vagamente romantica, del fallimento che diventerà uno dei tratti fondamentali e originali del suo pensiero. «L’assenza di riserva interiore e il desiderio di esaurire freneticamente la vita fanno, presto o tardi, di quasi tutti gli abitudinari del Quartiere dei falliti. Ogni volta che osservo quelle ombre umane, studenti romeni, polacchi, spagnoli o cinesi (hanno tutti la vocazione dell’insuccesso), so fin troppo bene ciò che li ha spinti allo scacco. Non è forse caratteristico trovare i falliti soprattutto nella metropoli del mondo e nelle piccole città di provincia? La vita non si realizza né nell’infinito né nel finito […] Qui si è infelici gradevolmente. È il segreto di Parigi, quella poesia conferitagli da individui maledetti erranti di caffè in caffè, posseduti da una noia avida, è il vuoto profumato di Parigi».
Pur essendo Parigi la ville de l’échec par excellence, la cornice ideale di un’agonia, Cioran non cede alle tentazioni suicide d’un Nerval o del Malte di Rilke, piuttosto, sulla scia di Baudelaire ed Heine, egli vuole assaporarne sino in fondo il fascino amaro, decadente, farne «lo spazio ideale della propria solitudine», «irrorare la noia di poesia». Insomma, vuole «abbandonarsi esteticamente all’infelicità».
Se Baudelaire ci ha donato lo sguardo per cogliere le specie botaniche che germogliano dal male, Cioran, ammaliato dal «crepuscolo irresponsabile» di Parigi, ci mostra l’essenza poetica del fallimento e, se si vuole, l’intimità originaria tra il naufragio esistenziale del poeta e la scaturigine del canto. Quasi che l’ispirazione lirica presupponesse, reclamasse in un certo senso, l’esperienza dello scacco, con cui sembra condividerne lo spazio a una dimensione: l’incompiutezza.
Il canto d’Orfeo, sorgente eterna del dire poetico, è, innanzitutto, canto dell’assenza, lamento della mancanza, lacerazione interiore di fronte all’irreparabile perdita. Non si dà poesia nella pienezza dell’essere, ma unicamente nel suo venir meno. È l’impossibilità stessa della vita, la sua straziante invivibilità, a farsi musica, parola, nell’incessante dileguare fantasmatico dell’oggetto desiderato. Iniziato alla scienza della caducità, alla geometria dei sospiri, il poeta, cantando gli esseri e le cose, li salva dal loro immediato svanire, conservandoli nella provvisoria immortalità della parola. Vivendo in intimità con la morte, il poeta si annulla per essere in tutte le cose, diventando puro sguardo sul mondo. Il prezzo pagato per la superba inutilità della sua arte è altissimo: la perdita d’identità e il fallimento umano agli occhi della società, di cui lo smembramento di Orfeo ad opera delle Baccanti ne è l’eterno simbolo.
Se da un lato l’esistenza del poeta implica sempre la realtà dello scacco, dall’altro è possibile leggere l’equazione anche al contrario: il fallito autentico che accetta consapevolmente e fieramente la propria disfatta, approda a suo modo a una dimensione poetica dell’esistenza. Anch’egli s’installa nell’incompiutezza, sebbene vi giunga percorrendo altre strade, privo del concorso delle Muse: «Fallire la propria vita significa accedere alla poesia – senza il supporto del talento», sentenzia Cioran nei Sillogismi dell’amarezza.
Non avendo conosciuto la grazia e la maledizione della poesia, ma solo «il rimpianto di non essere poeta», costretto a brancolare «al di qua dell’ispirazione», ad accasciarsi «alle soglie del canto», Cioran è condannato a frequentare i poeti da «amico», o meglio, da «parassita», pronto a saccheggiarne la materia, traducendo nell’aridità impersonale della prosa le loro folgoranti visioni.
Del resto, la sua sin troppo modesta aspirazione di allora sarà di essere nient’altro che «un pensatore pessimista da boulevard», un flâneur melanconico, immerso nella nebbia azzurrognola di Parigi, tra le strade strette e fumose del Quartier latin. Un solitario, insomma, che rimugina sulla vacuità della vita, nel silenzio monacale di una delle «mansarde della terra», tappezzata «dalla patina grigia delle insonnie ospitate». Proprio in quelle petites chambres d’hôtel la poetica dell’échec ispira a Cioran le pagine più liriche del suo primo libro francese, quel Précis de décomposition dove non disdegna di ritrarsi sotto l’effigie del fallito.
Tuttavia, è proprio la travagliata gestazione del Précis, in cui il lirismo vulcanico romeno si raffredda e si cristallizza stilisticamente a contatto con i rigori sintattici della lingua francese, a portare a compimento quello che era stato il sogno di Baudelaire: «il miracolo di una prosa poetica, musicale senza ritmo e senza rima, flessibile e aspra quanto basta per adattarsi ai movimenti lirici dell’anima, alle ondulazioni della fantasticheria, ai soprassalti della coscienza».
L’articolo che segue, a tutt’oggi ancora inedito in Italia, è tra i primi scritti da Cioran nella lingua d’adozione e fu pubblicati nel settimanale francese «Comœdia», il 16 gennaio 1943. Curiosamente l’autore, ancora incerto sulla sua nuova identità, si firma Em. Cioran. (Massimo Carloni)
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Il testo finora inedito in Italia di Cioran, dedicato a “Mihail Eminesco”, è tratto dal settimanale francese «Comœdia», del 16 gennaio 1943
MIHAIL EMINESCO
Non può esserci compimento alla vita di un poeta. È da tutto quanto non ha vissuto che gli viene la sua potenza. Più il contenuto dell’istante è nutrito d’inaccessibile, più il poeta è in grado di esprimerne la sostanza. La quantità di resistenza che la vita oppone alla sete di vivere determina la qualità del respiro poetico. L’espressione si condensa nella misura in cui l’esistenza ci sfugge, e il peso della parola è proporzionale al carattere fugace del vissuto.
Eminesco, è il più grande poeta romeno, è una delle illustrazioni più probanti del fallimento implicito in ogni esistenza poetica. La sua vita non è che una sequela di miserie accompagnate dal presentimento della follia che doveva infine coronarle. Narrare quella vita sarebbe del tutto inutile, giacché era necessaria, e dato che le circostanze favorevoli non inficiano in alcun modo la sua purezza negativa. A che pro fare la storia d’una fatalità, quando questa sarebbe stata la stessa in qualsiasi situazione del tempo e dello spazio? La biografia ha un senso solo quando essa evidenzia l’elasticità di un destino, la somma di variabili che comporta. In Eminesco è l’idea monotona dell’irreparabile che sin dai primi versi lascia prefigurare ciò che doveva seguire, rendendo inutili gli scrupoli biografici. Solo i mediocri hanno una vita. E se hanno inventato le biografie dei poeti, è per supplire alla vita inutile che non hanno avuto.
In Romania si è scritto molto su Eminesco e in particolare sul suo «pessimismo», sull’influsso di Schopenhauer e del buddhismo nella sua opera. In effetti, pessimista lo è stato, e sin dall’inizio fa pensare a un Leopardi o a quel bizzarro portoghese, Quental. Tuttavia, significa mancare l’essenza della poesia o sbarazzarsi troppo facilmente delle difficoltà che essa suscita, qualificarla come «pessimista» – come se potesse esserci un altro tipo di poesia! Si è mai visto un canto di speranza che non ispirasse un certo disgusto? Il motto di Valéry: «Gli ottimisti scrivono male», indica, in fondo, che ci sarebbe un’affinità necessaria tra il sogno e l’assenza. Come cantare una presenza quando il possibile stesso è infirmato da un’ombra di volgarità? Tra la poesia e la speranza l’incompatibilità è definitiva. Giacché la poesia esprime unicamente ciò che si è perduto o ciò che non è – nemmeno ciò che potrebbe essere. Il suo significato ultimo: l’impossibilità di ogni attualità. È per questo che il cuore del poeta è null’altro che lo spazio interiore e incontrollabile d’una fervente decomposizione. Chi oserebbe domandarsi quale fosse il suo sentimento della vita quando è attraverso la morte che egli si è sentito vivo?
Eminesco ha vissuto nell’invocazione del non-essere. E tale invocazione si svolge tra una sensazione materiale, che è il freddo della vita, e una sorta di preghiera, che ne è il compimento.
La Preghiera d’un Daco, uno dei poemi più disperati di tutte le letterature, è un inno all’annientamento. Vi si chiede la grazia dell’eterno riposo. E, per assicurarsi che niente lo leghi ancora alla vita e che niente ostacoli la sua brama del nulla, esige da Dio che maledica ogni uomo che abbia pietà di lui, che benedica il suo oppressore, che dia vigore al braccio che voglia ucciderlo, e che egli sia il primo degli uomini a cui tolga la pietra dove poggiare la propria testa.
A chi inciterà i cani affinché strappino il mio cuore
Donagli, Signore, una corona preziosa
Con chi lapiderà il mio volto
Sii benevolo, Tu Onnipotente, e donagli la vita eterna.
Solo così può ringraziare Dio di avergli accordato «la fortuna di vivere». Sparire irrimediabilmente nell’«estinzione eterna» gli sembra il compimento supremo.
In Mortua est si chiede: «Non è forse follia il tutto?» Gli uomini sono «sogni incorporati che corrono dietro a dei sogni».
Eminesco non ha trovato il sublime sotterfugio dell’estasi. Egli s’innalza dall’interiorità della morte al di sopra della vita. Nell’estasi si è al di là dell’una come dell’altra. È la soluzione di Shelley, che è riuscito a trascendere l’irriducibilità della vita e della morte, fondendoli in una musica irreale. Filosoficamente parlando, significa eluderle; poeticamente, significa salvarle in un’irrealtà più efficace della loro reale dissomiglianza.
In ogni forma d’estasi c’è qualcosa di divino; ma anche di adulterato.
Per sfuggire a una simile lucidità, un Hölderlin si cullava in una Grecia ideale dell’anima; egli vuole ingannarsi. Sentiva di essere condannato. E voleva far qualcosa per sfuggire al suo destino. Egli è grande perché non c’è riuscito. Non crollare sotto il proprio ideale per un poeta significa mentire. Più di tutti gli umani, egli è alla ricerca dell’illusione, senza avere mai la possibilità d’installarvisi.
Si potrebbe pensare che Eminesco abbia cercato di lasciarsi ingannare dall’amore. Eppure egli conosce l’illusione di ogni suo languore. Egli si abbandona alla passione solo per le sofferenze che gli ispira, per il suo smacco. Del resto non ha rimarcato che l’amore è la sostanza della poesia unicamente perché esclude la felicità? Per i cuori dissociati dal mondo, non può essere provato se non nella forma della felicità o della sventura. Che Eminesco abbia amato una donna posseduta da tutti, tranne che da lui, può dipendere da parecchie circostanze. L’importante è che non abbia ceduto alla degradazione della felicità. La sua anima non era abbastanza mistica da disertare nella felicità (Shelley), ma era forte quanto bastava per ricorrere alla sventura, in fondo una diserzione anch’essa. Per il poeta, quindi, tutto è possibile salvo che la vita.
Emil Cioran
*la cura del servizio è di Massimo Carloni
L'articolo “Non può esserci compimento alla vita di un poeta. È da tutto quanto non ha vissuto che gli viene la sua potenza”: Emil Cioran sulla poesia. Un inedito proviene da Pangea.
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pangeanews · 6 years
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“Appartengo alla famiglia del fuoco e non credo nella società letteraria perché le opere vanno coltivate nell’ombra”: Davide Nota ha scritto il romanzo del millennio a venire
Così, come se fossimo pietre lanciate dal Minotauro oltre il colle del labirinto, indecisi sulla forma delle ali, ancora a precipizio nella lunga gola di questo autunno occidentale, ci scriviamo, con Davide Nota. L’equivalenza del nome coincide, forse, con uno sguardo non diverso di fronte all’alba. Classe 1981, fondatore di riviste (La Gru) e di case editrici di pregio (la Sigismundus), poeta (ricordo Il non potere e La rimozione), qualche tempo fa mi invia un libro, dal titolo suggestivo, Lilith, che descrive come “un poema a mosaico, visionario, o a stroboscopio, labirintico, che molto probabilmente sarà giudicato come impubblicabile”. Parliamo. Lo leggo. Ne esco stordito. Appunto due nomi, giusto per mappare il labirinto. Petrolio. Cioè, Pier Paolo Pasolini. Poi Maldoror. I canti di Lautréamont. Poi c’è altro. Il fatto, per lo più, di entrare nella melma del quotidiano con i capelli in fiamme, di sondare il perverso della civiltà, l’inciviltà umana con ferocia lirica. Senza assolvere. Come se le parole fossero bende intrise di sostanza cauterizzante. “Oh Lilith, oh Eva. Contempleremo i morti? Lei scrive BLOOD FOR SONGS con marmellata di fragole sulla tovaglia di un piccolo bar. Torna a casa, alza lo schermo, la chat è ancora attiva. Un uomo sui quaranta scrive: “fai il 4 cn la mano”. Lei digita INSANE FOR THE DESTINATION. Poi mostra il dito medio e compie la verifica richiesta. Ho sognato il mio piede mutare in tante piccole farfalle, molte ali leggere, era il mio corpo che evaporava ma chi ero se non ero più, chi mi guardava? Il segreto è scrivere risponde la voce solo lettere ad un amico fedele”. Questo è l’incipit, solo per darvi una idea della molteplice forza del testo. A parti decisamente narrative se ne alternano altre, visionarie, polluzioni sciamaniche: la violenza di un Balzac precario si mescola all’Isaia che ha glassato gli sguardi in bile di iena. Mi pare non tanto un libro bellissimo – mi pare il prototipo della letteratura che sarà. Per questo, blocco Davide, gli dico, iniziamo il ballo? Eccoci. Danzando sugli abissi. (d.b.)
“Si raccontano strane storie sui poeti. Alcuni, dice Keats, sono morti prima del loro concepimento. Altri, scrive Roversi, per nascere devono morire”. Parto subito estraendo un brandello dal libro. Cosa vuoi dire, cosa c’entra?
Non lo so, nel senso che non mi è possibile dare una risposta univoca. Gli enigmi che emergono nel testo sono diversi e il metodo di scrittura è stato sin da subito quello di seguire e non di guidare la formazione di immagini e frasi. Non voglio però eludere la domanda. Da autore come primo lettore di me stesso posso dire che “Lilith” mi appare sempre più come un mosaico mandalico di morte e rinascita, il cui tema è sicuramente storico, il sisma epocale che si incarna nella fabula, in questo labirinto di hidden cam e videoschermi che circonda l’immagine centrale della montagna appenninica, ma è anche il tema per eccellenza della simbologia del sacro, che riguarda la condizione umana in sé, la carne e il sacrificio, l’apocalittico e il palingenetico. Il frammento mi appare anche come una definizione di metodo, la nascita dell’opera che coincide con lo scioglimento dell’identità (deposto il giudizio nasce il canto, dove si conosce il “compito” ma non il “motivo”) e, più intimamente, come una riflessione sul destino del poeta, che non può mai essere un vivente. Non solo uno scrittore ma ogni essere umano, dice in altro modo una voce nel testo, ha un disegno poetico il cui senso si illumina nella destinazione. Ecco, questo mi pare che c’entri con la fabula, il tema del compito e del motivo.
Preliminari. Perché “Lilith”, per il tuo nuovo lavoro, perché questo nome così torbido?
“Lilith” è il nickname di chat utilizzato dalla protagonista della vicenda in alcuni siti di incontri per adulti, dunque la mole di rimandi del titolo si demistifica e alleggerisce, perlomeno apparentemente, in una sorta di evocazione naive, da cultura di massa divulgativa o new age. Il testo comunque si sviluppa per mezzo di continue digressioni in cui livelli incongrui di immaginario e significati confliggono ma anche partecipano a un continuo travaso di materiale da un piano all’altro della struttura. Si verifica così una simultaneità di dimensioni inconciliabili che secondo me è l’evento estetico centrale della nostra epoca. Il mito di Lilith insomma è bombardato da questo stroboscopio tecnobarocco in cui è difficile definire un confine netto tra punti di vista, parodie, giochi ridicoli, preghiere, allucinazioni e flussi di pensiero ambigui e mutanti. Se nella vicenda narrativa si tratta insomma di una fascinazione giovanile, in cui il mito si occulta in una dolce storia di cattivo gusto, nella dimensione poetica l’arcaico, convocato, fa davvero ritorno.
Parliamo di forma. Mi ricorda “Petrolio”, va da sé. Un romanzo per lacerazioni. Forse l’unico modo, oggi, per scrivere. Spiegaci come sei arrivato a questa concezione.
Sì, Pasolini costruisce e definisce precisamente il suo capolavoro incompiuto come un mosaico, a lampi. Non si torna indietro da Petrolio, la vera “opera aperta” del Novecento. Alla sua radice c’è Baudelaire, che propone con La Fanfarlo uno stile della digressione infinita, in grado di accogliere qualsiasi deviazione o imprevisto di scrittura, senza distinzione tra alto e basso, folgorazioni poetiche e appunti da taccuino. La trama è una finestra da cui ci si affaccia per guardare tutto il resto. Il mondo psichico non si svolge linearmente ma si ramifica come una compresenza simultanea di digressioni. Nella vita emersa della cultura moderna il rimosso o l’osceno, l’incongruo, sono sempre stati vissuti in forma di ripugnanze o di scissioni. Ogni complessità è stata sezionata in una serie di sistemi lineari paralleli: la storia è stata scandita in epoche, la vita in ruoli, la carne in generi sociali o età astratte. Lilith cerca di comprendersi come visione unitaria stratificata, di sciogliere i doppi in una sola ambiguità. Per questo deve spalancarsi, crudelmente, come uno scavo archeologico, a costo dello smottamento, del sisma. Il suo sisma è, naturalmente, un sisma storico. Non vedo altra forma perché non vi è contenuto che non sia formale. Lilith è la fonografia di una psiche storica simultanea e il contenuto del romanzo è la sua forma.
Piuttosto: cosa è oggi la letteratura italiana (senza indulgere in fatate geremiadi, per carità)? Hai dei maestri, oggi? E quelli di ieri, quali?
Ho l’impressione che la letteratura italiana di questi anni risulterà in futuro molto diversa dalla sua rappresentazione attuale. Credo che molti scrittori saranno pubblicati o conosciuti postumi. Molti poeti non pubblicano nemmeno più. Hanno deciso di coltivare l’opera nell’ombra. Di deporre il manoscritto ai piedi del letto. Questo non è necessariamente un male, sebbene sia doloroso non sapere cosa accada realmente sotto la superficie di un’editoria in mano agli algoritmi e di un sottobosco dominato dai gruppi. Ma da tanta solitudine nasceranno, credo, opere più forti. Mi chiedi dei maestri. Gianni D’Elia e Roberto Roversi sono stati i miei maestri di formazione a vent’anni. Il primo mi ha insegnato la dolcezza erotica dell’endecasillabo da pronunciare a occhi chiusi nel sole. Il secondo a giocare a mani nude nel fuoco alla ricerca della parola che faccia più male. Poi ognuno ha il suo viaggio. Il mio attraversa un bosco, pieno di fantasmi e interferenze psichiche della storia. Il sangue e la saliva nell’endecasillabo, la visione impura (o orribilmente oscena) dentro l’impronta classica, il gioco ambiguo tra tragico e burlesco e la stratificazione simultanea delle epoche, degli stili, dei timbri e degli immaginari. L’opera come residuo di un’esperienza fisica che si compone di vista e di visione, di tatto e di inconscio. I pensieri in cammino, li definisce Nietzsche nella Genealogia della morale, contro i falsi pensieri del linguaggio. Questo me lo ha insegnato soprattutto André Gide. I maestri di oggi sono i grandi morti. Da Eraclito a William Burroughs, dai frammenti orfici agli Appunti sulla visione di Jim Morrison. Tutti gli antenati della famiglia del “fuoco”.
Come si arriva a scrivere, quale preparazione è necessaria?
Il primo testo che ho scritto è stata una prosa a flusso. Avevo quindici anni ed ero fuggito di casa, in balia di furori che ora non saprei spiegare. La notte fui fermato da due poliziotti che si rivelarono a dire il vero molto umani. Mi offrirono un panino, una Cocacola e la poltrona del questore dove dormire. Fuori dalla finestra c’era una luna enorme che illuminava ogni cosa. Fui chiuso in camera per alcune settimane in punizione. Mia madre mi diede un quaderno chiedendomi di scriverci qualcosa. Sarebbe dovuta uscire una specie di lettera, una confidenza in forma scritta dato che non le parlavo. Ne uscì fuori invece un amalgama delirante che fu il mio primo battesimo alla scrittura poetica. Intendo dire con questo che la poesia è un cavallo con cui dovevamo scappare via lontano. La preparazione serve a non cadere, a correre più velocemente, a non farsi arrestare. Prepararsi vuol dire leggere, spiega Dante nel De vulgari eloquentia. E leggere vuol dire divorare. Ma divorare significa sciogliere, dimenticare presto, perché il fiore del sincretismo cresca da sé nello spirito. Le lezioni vanno incarnate. Il formalismo intenzionale non mi interessa, la prova militare dei cingolati semantici o delle prosodie organizzate. Non era un club di equitazione l’orizzonte sognato molti anni fa, quando rubammo quel cavallo.
Parli di santità e di obbrobrio, di lirica e di eros, di morti e di morti in vita, di vagabondi e di vagabondaggi del sesso. Qual è il cuore di questa porzione di lavoro, il nervo sensibile?
Una necessità di esperienza come verifica di esistenza. Una disperata, contraddittoria, folle, impura preghiera di liberazione e rinascita. Ciò che avviene nel testo è soprattutto un conflitto tra la vista e il tatto. L’occhio degli uomini si è dilatato come una cellula tumorale. Questo è il principio di ogni ipnosi. Le voci del romanzo cercano una via di uscita da questo labirinto storico. Ma il rischio è sempre dietro l’angolo. Non lenire i bulbi oculari ma ciecarsi.
“Non essendoci nulla contro cui ribellarti ti ribellasti al nulla e divenisti santa”. Spiegaci.
Si tratta di una folgorazione difficilmente spiegabile della santa intubata, una delle voci incorporee che attraversano la protagonista durante un internamento psichiatrico. Sono enigmi in cui la lingua crea dei cortocircuiti di senso. Eppure io credo che siano meditabili, come degli oggetti poliedrici che contengono un messaggio non parafrasabile. Il frammento forse stabilisce la volontarietà di Petra di crollare psicologicamente dopo la sua ultima sessione di orgia e anfetamine. Giovanna d’Arco mancata, la lotta pornografica è stata il suo palliativo, nella tragedia immaginaria in cui anche il martirio non poteva che essere ricreato. Così l’abuso di ecstasy è il suo rogo. Bruciata, come si dice. Adesso, fatalmente libera nella convalescenza ospedaliera, può sentirsi finalmente partecipe di una missione significativa. Una storia, finalmente. Un motivo. Deposta come una statua del Bernini di fronte alle visite dei familiari crede di essere diventata uno specchio in cui ciascuno possa guardarsi dentro.
Credi quindi nella scrittura, ancora, in un lettore, allora, nel ‘lavoro culturale’, dunque?
Credo nella scrittura di una lettera in bottiglia. Credo nel fato e nel lettore sconosciuto destinato a trovarla. Credo nel lavoro culturale che portano avanti le grandi solitudini, non grazie ma nonostante la società letteraria. Non credo nella società letteraria, che oggi non esiste ma che se anche esistesse farebbe solo del male, come sempre ha fatto, ai Dino Campana e ai Van Gogh.
***
Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo alcuni frammenti dal romanzo “Lilith”, di Davide Nota.
*
62.
Madre nel mio corpo, oggi ti lascio. Fino alle viscere della fogna carnale sarà profuso questo veleno. Soffocheremo le uova deposte dal concetto sterminatore. Di tubatura in tubatura esso ha nidificato. Verminano i tessuti organici di false parole. Finché la carne non si risvegli esausta dalla sua ipnosi.
*
63.
È quindi vero, Petra, che ci indicasti la via senza saperla percorrere? Essendo prigioniera mimasti unʼestasi che non riuscivi a comprendere. Abiurasti dal concetto sterminatore cavandoti via gli occhi. Ma anche i bulbi erano labbra che baciavano le labbra del sole. Tu non sapesti lenire il loro dolore. Così la tua lezione si interrompe in una disfatta. Eppure avevi ragione. E dove ora scompari in questa dissolvenza di puro bianco quasi un odore si avverte alle tue spalle di letame di cavallo e erba tagliata. Tu che fosti a indicarci la prima questo motivo senza saperlo comprendere. E ne annusavi la linfa oltre le sbarre della tua prigionia. A quella finestra ti saresti impiccata come una santa intubata in una stanza deserta. Perché il massacro tra le foglie è dolce. E non le notti passate di cenere e sabbia. E non permanga di ogni alba questa sete. Se il tempo risalisse alla sua origine sarebbe mostruoso. È il mondo intero che sbigozza intossicato da un simile pensiero.
*
64.
Lenisci le ferite metafisiche. Lei chiuse la sua bocca cavalcandogli il volto. Perdette così anche l’uso della parola.
*
65.
Non essendoci nulla contro cui ribellarti ti ribellasti al nulla e divenisti santa.
*
66.
Bevo dal melograno questa matassa di spini connessi a una sorgente elettrica mentre tu entri nelle tre fonti e un agnello ti guarda. È una lingua sconosciuta (dice) composta da più veli questa che ci attraversa mentre la attraversiamo. È un vaso. Un vaso. Un mosaico. Oggi sono felice (dice). Avere avuto pazienza ci ha condotti lontano. Nel sogno ogni simbolo è chiaro perché la sua chiarezza non ha bisogno di significati. Così unʼanziana donna fila un raggio di luce e la sua casa è una piccola goccia di roccia montana che sa di piccole cose antiche che non sono ancora nate e tutta la gioia è in questo dolore. E tutta la gioia è in questo dolore. E tutta la gioia è in questo dolore di noi che rimaniamo ad osservare.
Era stato trasfigurato? Guedi, antico sciamano di ventisei anni. Chi aveva parlato? Lo lasciammo danzare una rapsodia sufi nella dance all elettrica in cui Bologna si manifestava.
Jʼai soif de vie.
Jʼai soif de vie.
Fratelo ho questo tropo sete di vita.
*
Autoritratto con noce e cardo
67.
(Il contrario del triangolo montano, la A, è la coppa del Sacro Graal, la V, ovvero sia la grotta della Sibilla.)
Oggi i nuovi riti sono tecnologico-militari. Dove si nascondono gli adepti dei misteri sfidando i confini della scienza e della tecnica? Le più alte gerarchie della NATO discendono entro miracolosi laboratori occultati nel cuore delle montagne. (Avvistamenti UFO sul Monte Conero, cerchi nel grano etc.) Tecnologie aliene riprodotte dalle élite militari abitanti il mondo sotterraneo. Se ne parla da queste parti, ma sono tutti matti come pietre e cardi, a ben vedere sono gli stessi che duemila anni fa varcarono lʼarco della Dea Cibele, alla ricerca della pietra nera che chiamarono sacerdotessa. Essi narrarono eventi a loro estranei, il cui significato sfuggiva loro completamente. Eppure videro… Avevano visto… E la visione si fece testimonianza e la testimonianza divenne canzone nei secoli che condussero lungo strade spelate di montagna la Regina alle soglie della tua casa. Beato della solitudine montana vasti silenzi e spazi di pigne attendono il mio riposo in un fruscio di foglie per sempre io vorrei morire qui nel viverci con un berretto grigio sulla testa rapata come le nuvole pensose avvolgono la pietra enorme e i nutrimenti miei di vento e sole lungo i confini della nuova guerra.
*
68.
Essere uno scrittore infiltrato nel mondo della precarietà lavorativa, con cui non si ha nulla a che fare, oppure essere un lavoratore precario infiltrato nel mondo della letteratura, con cui non si ha nulla a che fare?
*
69.
Si raccontano strane storie sui poeti. Alcuni, dice Keats, sono morti prima del loro concepimento. Altri, scrive Roversi, per nascere devono morire.
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70.
Ho smussato questa pietra così a lungo che adesso è scomparsa senza darmi il tempo di stringerla in mano.
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pangeanews · 6 years
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Specchio, specchio delle mie brame… ecco perché la collana di poesia più celebre d’Italia dovrebbe dirigerla Tavecchio
Parere mio. Saldo su rocche oggettive. Marco Merlin è il critico letterario – meglio, il bombarolo poetico – più intelligente del millennio. E Andrea Temporelli – che è il lato oscuro (o quello luminescente, non l’ho capito, di certo quello ‘marziale’) di Marco Merlin – è il poeta più colto e incompreso di questa fetta di secolo. Temporelli, il poeta, ha pubblicato Il cielo di Marte (Einaudi, 2005) e Terramadre (Il Ponte del Sale, 2012), poemetto di conturbante nitore, oltre a un romanzo, Tutte le voci di questo aldilà (Guaraldi, 2015), che è un abisso feroce, meriterebbe Strega, Campiello e Viareggio tutti assieme, non fossimo il paese di intellettuali leccaculo e paraculo che siamo. Merlin è il cofondatore della rivista Atelier, ha scritto un bel po’ di roba critica, dissezionando i poeti di ieri e di oggi con anatomica severità (esempio: Poeti nel limbo e La tentazione del metodo, ma a me piace tanto Nodi di Hartmann, libri comunque così necessari da essere eretici nell’accademia dei tronfi), e con un paio di collane editoriali (‘Parsifal’ e ‘Macadamia’) ha pubblicato alcuni dei più interessanti poeti ‘nuovi’. Detto questo, di Temporelli/Merlin non si butta via niente perché tutto trasuda intelligenza polemica e vivacità estetica. Ora ritiratosi nel bunker del sito personale, Pangea ha deciso di fare la lotta con lui, da alpestri esploratori dell’impossibile, là dove l’altezza tronca il respiro in gola, costringe a comprimere le convenzioni e a imparare la levigata levità dei falchi. Insomma: ogni tanto condivideremo alcuni contributi. Partiamo con una stupefacente ‘stoccata’ inferta alla collana nobile della poesia italiana, ‘Lo Specchio’ Mondadori. Con consecutiva pars costruens. (d.b.)
  Specchio delle mie brame
La mia attenzione è attratta dalla noticina che accompagna il frontespizio, che riporta il titolo di una delle due collane di poesia più prestigiose d’Italia (l’altra, ovviamente, è la bianca di Einaudi): ‘Lo Specchio – I poeti del nostro tempo’. La nota recita così: “Negli anni ’40, sull’aletta de ‘Lo Specchio’, l’Editore scriveva: «Di qui si irradia il canto della nostra lirica, qui giungono le voci nuove della giovane poesia e si affiancano ai grandi nomi già noti in tutto il mondo continuando la gloriosa tradizione italiana attraverso i secoli e i tempi». A settantacinque anni dall’esordio della più prestigiosa collana italiana dedicata alla poesia – che, a partire da Cardarelli, tra i tanti ha ospitato Ungaretti, Montale, Quasimodo, Saba, Sereni, Zanzotto, Raboni, Giudici, Porta, Gatto –, l’Editore riprende e conferma la sua originaria vocazione. In questo nuovo formato, ‘Lo Specchio’ affiancherà alla poesia più recente le voci già celebri in Italia e nel mondo e chiederà ai poeti italiani di offrire al nostro pubblico la poesia universale, ravvivando quella consuetudine che in anni lontani ci ha regalato traduzioni memorabili. Infine, con le antologie, ‘Lo Specchio’ tornerà a fare il punto sul percorso creativo ed estetico delle nuove voci che mirabilmente stanno continuando «la gloriosa tradizione italiana»”.
E a me viene subito uno sciame di pensieri:
*perché Editore e Specchio con la maiuscola? Perché “de” Lo Specchio?
*il canto della nostra lirica. Signori: il CANTO!
*a settantacinque anni, proiettati in un’altra era umana, non si trova di meglio che riproporre, dentro la nuova veste grafica, la reboante nota d’esordio
*(la nuova veste grafica fa due passi indietro, e risulta piuttosto anonima: ma chissenefrega della copertina, in ogni caso. Costerà meno)
*Cardarelli, Quasimodo, Gatto, lo stesso Ungaretti: sì, è proprio passata un’epoca, forse due, e molti fuochi si sono tramutati in cenere
*un momento: alle “nuovi voci della giovane poesia” coraggiosamente affiancati ai grandi nomi della poesia mondiale, come accadeva settantacinque anni fa, ora fa da contraltare solo la “poesia più recente”: ovvero, i soliti noti! Dunque: mettiamoci subito il cuore in pace: sappiamo già tutto, prima di leggere
*però sì, ecco, si darà il giusto rilievo alle “traduzioni memorabili” della poesia “universale”. In pratica, oltre ai soliti noti, i quattro gatti famosi dall’Idroscalo a Cinisello, non ci sarà poi molto spazio per sperimentare qualcosa… Ma almeno i poeti stranieri offriranno qualche prospettiva nuova, c’è da sperare
*ma c’è il colpo di genio finale: le ANTOLOGIE! Non perdete la speranza, voi che non entrate: c’è spazio per tutti, alla fine, basta passare all’ingrosso, intruppati, nelle foto di gruppo, con tanto di corna dalla seconda fila… Cominciate a prendere il biglietto, e mettetevi in coda, poeti, come dal salumiere
Considerata tale «gloriosa tradizione italiana», la prossima serie dello Specchio – ops, scusate, de Lo Specchio – potrebbe dirigerla Tavecchio.
  La poesia non è mai in crisi
Quindici punti per chi è fuori dal Novecento (inteso ovviamente come categoria mentale, che vediamo ancora dominare la scena – leggi sopra):
1. La poesia non è mai in crisi. Chi lo pensa si sopravvaluta o giustifica. Solo i poeti possono essere in crisi.
2. Dal frammento alla visione, al discorso, alla riconquista di un pensiero che si confronta con la molteplicità e la complessità: le poesie dal fiato corto non arrivano al traguardo.
3. L’io sia discreto. Il titanismo romantico non ha più senso, ma neppure il complesso di Narciso del poeta che vive la scrittura come colpa. Non vergognarti di essere te stesso.
4. No all’ironia, alla maschera, alla voce inautentica, alla maniera; sì alla continua reinvenzione della tradizione, intesa non come repertorio, ma come corpo vivo. All’ironia, preferire il comico.
5. Se il plurilinguismo nella nostra società è inevitabile, la tensione di un autore è sempre verso il monostilismo.
6. Le cose vanno fatte sempre seriamente, ma senza prendersi troppo sul serio. Il baricentro della vita non è nella scrittura. Prima di diventare poeti, bisogna essere uomini.
7. Dalla poetica dell’assenza alla poetica della presenza. Tutto è pieno, il vuoto e l’ineffabile sono specchi per l’egotismo esistenzialista: anche il dolore e la perdita sono sostanza narrabile.
8. L’oscurità gratuita è un trucco da guitti, ma la poesia può essere difficile perché afferma senza banalizzare, si nega al patetico, al volgare, al colpo a effetto, alla presunzione didascalica, alla moda.
9. Tutte le poetiche contengono qualcosa di valido. Evita la parzialità e confrontati con ogni progetto.
10. Poni alla letteratura domande radicali, non chiedergli compagnia per le ore di ozio.
11. La letteratura è sempre impura, ma il grande scrittore è un killer preciso e compie il delitto nel cuore dell’istituzione.
12. Di fronte al potere, il poeta non è mai un intellettuale, non rappresenta un ceto: è solo se stesso, un comune cittadino.
13. Non esiste un dialetto innocente.
14. Non inseguire il pubblico e non compiacerti della tua opera. Se veramente ispirata, essa ti farà godere di una quieta umiltà.
15. A un poeta è chiesto di essere onesto, non sincero.
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