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#rivista europea di cultura politica
castilestateofmind · 1 year
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Identitá magazine
Issue 0
2004
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Chi sono
40 anni, nato in Romagna, sposato. Sono operatore culturale, giornalista e dottorando in discipline teatrali al Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, ho collaborato con enti pubblici e privati in processi di partecipazione e di progettazione e curatela artistica. Sono strenuamente convinto del valore politico dell'educazione e del potenziale di emancipazione della cultura, per questo conduco numerosi laboratori di alfabetizzazione, educazione alle arti, racconto e scrittura in scuole secondarie, università, festival e teatri. Studio i meccanismi artistici di “scrittura con la realtà”, raccontando le poetiche di gruppi e artisti emergenti. 
Da sempre cerco di praticare e costruire spazi d’azione per visioni collettive, per immaginare una politica di sinistra. Ho preso e prenderò innumerevoli autobus, treni e biciclette per manifestare per la scuola pubblica, contro la guerra, per i diritti, contro lo sfruttamento del lavoro, della terra, degli spazi di autonomia nelle città, per l’autodeterminazione di comunità e gruppi di giovani, contro i razzismi. 
Cucino per gli amici e quando posso vado in cerca del mare e di funghi.
Mi sono laureato al Dams di Bologna, dove figuro fra i docenti del Master in imprenditoria dello spettacolo, con una tesi sul teatro argentino di Buenos Aires nella post-dittatura. Sono tra i fondatori del gruppo Altre Velocità e faccio parte di giuria e Comitato di gestione dei Premi Ubu. Ho lavorato per il Comune di Ravenna per la candidatura a Capitale Europea della Cultura, sono stato consulente alla direzione artistica del festival di land art Terrena (2019). Conduco il laboratorio universitario "Bologna Teatri" con M. Marino presso La Soffitta / DAMSLab. Dal 2020 co-dirigo “La Falena”, rivista prodotta dal Teatro Metastasio di Prato e nel 2021 entro a far parte del “Gruppo di ricerca sul campo” del Festival Cantieri Culturali Firenze, della Compagnia Virgilio Sieni. Nel 2018 ho curato, con R. Mazzaglia, "Crescere nell'assurdo. Uno sguardo dallo stretto" (Accademia University Press). Sono candidato a consigliere comunale con la lista civica Matteo Lepore Sindaco. Il 3 e 4 ottobre potete esprimere la vostra preferenza nella scheda azzurra (consiglio comunale) mettendo una croce su “Lista civica Matteo Lepore Sindaco” e scrivere “Donati”
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Sabato 5 maggio dalle ore 19, una doppia presentazione alla presenza degli autori ( e dell’editore) .
“ Voci Possenti e Corsare”.La Livorno ribelle dagli anni ottanta a oggi 
di Luca Falorni ( Ed. Agenzia X)
Corsari, sovversivi, cattivi maestri e allievi discoli. Voci sotterranee dal porto più rumoroso del Mediterraneo.
Livorno è stata raccontata spesso in parole e in immagini, forse perché, come diceva il poeta labronico Piero Ciampi, “Livorno è un’isola, il luogo più difficile” e le storie complesse sono sempre le più interessanti. Città giovane ed ex porto franco, da sempre è animata da un popolo nato dalla fusione di gente di ogni razza, unica città europea senza ghetto, ecco perché già dalle origini Livorno non è mai stata un posto banale. È anche il luogo di nascita del Pci e la sponda per varie mitologie ribelli, nella politica, nell’arte e nello sport. C’è però una storia quasi sconosciuta, quella degli spazi e delle persone non allineate che hanno movimentato la città negli ultimi trent’anni. Il libro elabora molti racconti orali e le voci di decine di cittadini che rappresentano esperienze eterodosse rispetto all’ufficialità manipolata da Pci, Pds, Ds, Pd e dintorni, ovvero chi ha governato il comune dal dopoguerra fino al 2014, anno in cui il Movimento 5 Stelle ha sfruttato l’onda della ignominia diffusa per detronizzarli. A precedere la narrazione orale, un viaggio sentimentaledell’autore dentro il suo rapporto doloroso e difficile con la livornesità (Ciampi docet, appunto).
Illustrazione di copertina di Sara Pavan
“I Pirati dei Navigli” di Marco Philopat  (Ed. Giunti)
Esattamente vent'anni fa usciva la prima di molte edizioni di ''Costretti a sanguinare'', febbrile resoconto dei primi anni del punk italiano narrato - o ''urlato'', come recitava il sottotitolo - da Marco Philopat, che da protagonista appassionato di quella straordinaria esperienza ne diventava così anche un prezioso testimone. Non è facile raccontare una realtà in continua ebollizione, che per sua stessa natura vive underground e vuole sfuggire a ogni categoria sociale, politica, estetica: Philopat trova la chiave per farlo con un entusiasmo trascinante, in una prosa che è una corsa a perdifiato, e riprende oggi da dove si era fermato.
Siamo nel mezzo degli anni Ottanta, Milano è infestata da yuppie e zombie televisivi, la polizia ha appena sgomberato il centro sociale Virus e un'intera stagione sembra conclusa. Ma l'incontro con un libraio illuminato, una storia d'amore sorprendente e una rivista cyberpunk sono la miscela capace di dare l'innesco a un riscatto collettivo. Dallo scantinato ribattezzato Helter Skelter - che si trasforma in un luogo per sperimentazioni artistiche e tecnologiche all'avanguardia - all'esplosivo esordio del centro sociale Cox 18, sede di forte fermento culturale a due passi dalla Darsena, i Pirati dei Navigli seminano per le vie di Milano le scintille rivoluzionarie della controcultura. A voce alta, con il coraggio di chi porta su di sé molte cicatrici, Marco Philopat trasforma la storia che ha realmente vissuto in un romanzo ricco di episodi esilaranti, imprese incredibili e disavventure sconvolgenti. ''I pirati dei Navigli'' è un viaggio in un periodo poco conosciuto della cultura underground, dal 1984 al 1989, il ritratto di una figura unica come quella di Primo Moroni, e al tempo stesso un'avventura che lascia il segno e che ci regala squarci di utopia.
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samdelpapa · 3 years
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 Italia - Repubblica - Socializzazione
 . da  http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=47124 Intervista di Giacomo Guarini a Pietrangelo Buttafuoco L'Europa che non c'è e il lievito russo Pietrangelo Buttafuoco  Pietrangelo Buttafuoco Domenica 12 gennaio è stato presentato presso il Caffè Letterario di Roma l'ultimo libro di Pietrangelo Buttafuoco, "Il dolore pazzo dell'amore" (Bompiani, 2013). Buttafuoco, giornalista e scrittore, è stato anche conduttore televisivo, portando sulla tv italiana il primo e a oggi ultimo programma espressamente dedicato alla geopolitica ("Il Grande Gioco"). Giacomo Guarini lo ha intervistato per noi. Una prima domanda che vorrei farle è sulla Russia, come realtà antropologica. Cosa dovrebbe attingere, a suo parere, l'Occidente dalla cultura russa, anche nell'espressione religiosa del Cristianesimo ortodosso? Il lievito. La cultura russa o, meglio ancora, lo spirito russo è il lievito fondamentale che un'aggregazione continentale quale è l'Eurasia può avere attraverso meccanismi di uno sviluppo spirituale, culturale e non ultimo anche politico; è quel sentimento di radicamento in un'identità forte, che non preclude altre possibilità ma anzi apre alla possibilità universale. Molto più di quanto possa fare la Chiesa cattolica che invece è estenuata dal morbo cosmopolita, dalla fatica di dover essere considerata sempre alla stregua di un ufficio di servizio sociale e da quella malattia che una volta si chiamava filantropia e che oggi è una forma di umanismo che degenera nelle espressioni del pop. Tant'è vero che l'attuale pontefice Bergoglio non sembra più un capo spirituale ma un collega del Dalai Lama. Con i tentativi di dialogo con Teheran da parte di Washington, l'Iran sembra aver in parte perso quella connotazione mediatica di 'mostro' sullo scacchiere internazionale. Quali opportunità sul piano politico, geopolitico e culturale potrebbero derivare per l'Europa da una distensione con Teheran? L'Europa non esiste, perché se per Europa intendiamo l'Unione Europea, l'elemento fondamentale che manca all'Unione Europea è proprio l'Europa. Non esiste. Esistono singole realtà che possono invece avere interessi geopolitici diversi, ma per poterli perseguire è necessario che abbiano un margine di sovranità molto più ampio di quanto sia dato dall'attualità. Per l'Italia, con la sua storia millenaria, con la sua identità è ovvio e naturale aprire un canale di contatto, un flusso vero e proprio, perché è pur sempre la patria della Via della Seta. Il concetto di Via della Seta ci è comune, all'Italia tanto quanto alla Cina, per andare ai due poli opposti. E l'Iran di oggi non è diverso dall'Iran di ieri. Oserei dire che l'Iran della Repubblica Islamica è ancora una volta lo stesso Iran di quello precedente alla rivoluzione, che è ancora una volta uguale alla sua tradizione millenaria. Tant'è vero che non è stato cancellato niente di quella che era la presenza stessa della specificità persiana. Sono tutti elementi più che positivi, che per essere svegliati ad una consapevolezza necessitano però di una precisa volontà politica, che ancora una volta si riferisce alla necessità di un agglomerato continentale eurasiatico. Passiamo infine al Mediterraneo ed alle destabilizzazioni che lo hanno attraversato da tre anni a questa parte e che avevano preso inizialmente il nome di "Primavere". A cosa possono portare simili processi: ritiene che siano atti a dividere e a tracciare un solco ancora più profondo fra le diverse sponde del Mediterraneo oppure dagli sconvolgimenti occorsi possono nascere delle nuove opportunità per l'integrazione dell'area? Rispondo con un dato apparentemente lontano ma secondo me inequivocabile. Dobbiamo aspettare la fine dei giochi invernali olimpici, perché quello è il vero terreno dove assisteremo ad una partita a carte scoperte. Perché l'accusa precisa che Putin ha rivolto all'Arabia Saudita deve essere svelata attraverso quello che succederà ai giochi olimpici invernali. Per quanto siano distanti quelle nevi, ci portano inevitabilmente alle sabbie del Maghreb. Solo lì capiremo qual è il gioco e fino a
che punto si spinge il progetto di destabilizzazione. Perché non c'è alcun dubbio su questo, se facciamo testo della denuncia di Putin che ci sia il tentativo di foraggiare un terrorismo fondamentalista che nulla ha a che fare con l'Islam, e nulla a che fare con le esigenze, il progetto e la volontà del Mediterraneo. Pietrangelo Buttafuoco Fonte: geopolitica-rivista Condividi
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iltrombadore · 4 years
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“Io, Claudio, Zevi e Palladio...”-Architetti a Roma anni ‘60.In memoria di Claudio D’Amato
di Duccio Trombadori
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L’amicizia, la collaborazione, la comunità di esperienza vissuta e ideali coltivati con Claudio D’Amato risale al 1964, quando cominciammo a salire i gradini di Valle Giulia da giovani studenti di Architettura, apprendisti stregoni pre-1968, carichi di ‘astratti furori’ di tipo palingenetico e desiderosi di interventismo rivoluzionario sul piano intellettuale e morale.
Abbracciammo tutti, così sulle prime, le ambizioni di rinnovamento pedagogico annunciate e introdotte da Bruno Zevi; leggemmo avidamente i suoi libri, ne restammo colpiti e suggestionati per l’ efficacia semplificante che tracciava linearmente i passaggi storici dal ‘classico’ allo ‘anti-classico’ come chiave di volta dei tempi architettonici moderni.
Ma le crepe culturali del codice modernista (tra gli equivoci di razionalismo, costruttivismo, funzionalismo, organicismo, neo-purismo, eccetera) si facevano già sentire e mettevano dubbi tra gli spiriti più avvertiti, soprattutto tra coloro che reclamavano un maggior rigore disciplinare in nome di una idea di architettura preservata come arte ‘autonoma’ irriducibile a vaniloquio informale e tantomeno a deriva sociologico-economica.
Senza saper dare risposte adeguate a queste domande basilari, cominciammo però, un po’ alla cieca, un lavorìo di coscienza che imponeva calibrati distinguo: volevamo addirittura riformulare, per conto nostro, un ‘vocabolario architettonico’ in grado di rispondere all’ esigenza di rigore e  rinnovamento sociale cui affidare una professionalità conseguente.
Questo esuberante trambusto ideologico accompagnò l’ inquieta formazione di tanti giovani nel passaggio difficile e traumatico degli anni ’60 al limitare del frastuono contestativo del 1968 che pregiudicò l’impianto della struttura universitaria mutandone sensibilmente funzioni e aspirazioni.
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Della ‘generazione anni 60’ Claudio D’Amato fu certamente tra i primi a prendere parte alla dialettica che oppose le personalità di Bruno Zevi, col suo pregiudiziale anti-accademismo, e Paolo Portoghesi, cultore di uno storicismo che metteva al centro la regola compositiva. Nascevano istanze revisioniste in materia di modernismo, tanto quanto si ripresentavano i valori fondanti e tradizionali della misura, della proporzione, della simmetria.  
Un interesse ‘archeologico’ scevro da romanticismi ci faceva riscoprire con Vitruvio l’ ordine classico alla base del pensiero costruttivo (“nascitur ex fabrica et  ratiocinatione") e rimettere in auge, con Canina, i Propilei di Villa Borghese, anticipando quasi un certo gusto postmoderno lontano a venire.
In questo clima di ripensamenti fu così che con Claudio D’Amato, Sergio Petruccioli e altri compagni di studio mi avvicinai ad una lettura ‘formalista’ (così Bruno Zevi) dell’ opera di Andrea Palladio che allora ci piaceva mettere in relazione con le mega-forme di archi e volute innalzate da Louis Kahn a Dacca e con l’ utopia geometrizzante di Le Corbusier a Chandighar.
Un viaggio di studio nelle provincie venete compiuto nel settembre del 1967 ci aprì alla conoscenza diretta delle grandi ville, delle basiliche, del Teatro Olimpico:  disegnammo, inquadrammo angolature fotografiche, studiammo Maser e Poiana e tutto il resto come abbeccedari del nostro comune viatico spirituale ad una idea di architettura in grado di associare il permanente e il transitorio, o, se, si vuole, la ricerca di un ‘pensare italiano’ (storia, tradizione) che fosse al tempo stesso uno stimolo alla innovazione. Di quel viaggio sentimentale di formazione conservo memoria nitida, una foto mi riprende sulle gradinate del Teatro Olimpico mentre prendo appunti, e accanto a me Claudio D’Amato è puntualmente occupato a disegnare una angolatura, un particolare dirimente, una simbiosi di effetto luminoso e giuntura compositiva.
Fu un’ esperienza entusiasmante ed altamente formativa, di cui ancora oggi conservo la lezione estetica e artistica. Ne ero orgoglioso. Elaborai una tesi per l’esame di storia dell’ architettura che tuttavia non lasciò per nulla soddisfatto Bruno Zevi ( fin troppo ’formalista’ e ‘crociana’, mi disse). Quella critica, che veniva da un maestro che stimavo molto, ad onta della sua enfatica propensione anticlassica, fu per me una delusione cocente. Non mutai il mio modo di guardare l’ arte di Palladio (frutto di un filologismo degli elementi architettonici a parafrasi delle teorie di Galvano Della Volpe sullo ‘specifico’ dei linguaggi visivi) ma certamente fu a partire da quell’ incidente di percorso che iniziai a distaccarmi dall’ ambizione di diventare un teorico e tantomeno un ‘professionista’ della architettura, mentre più dirompente interveniva l’ esigenza morale di un impegno nella vita politica e nella lotta sociale, come poi avvenne in pieno 1968.
Claudio D’Amato non approvò la mia decisione di abbandonare la facoltà. Ne parlammo a lungo. Avevamo idee comuni ma davamo a quelle stesse idee soluzioni opposte. E così accadde. Diversamente da me, Claudio concentrò la sua vita nella formazione di sé come architetto, inseguendo un modello pedagogico da incarnare, punto di incontro quasi ‘inattuale’ tra  storia, tradizione disciplinare e progettualità compositiva. Non si può dire che non sia stato coerente e non vi sia a modo suo riuscito. La nostra amicizia è stata contrassegnata in più di mezzo secolo da un periodico, continuo e vivace scambio di idee e di esperienze che sul piano artistico e civile hanno trovato sempre il modo di incontrarsi. Come se le premesse della formazione originale avessero comunque trovato il letto di un unico fiume in cui confluire.
A conferma di quanto detto c’è un numero della rivista Rassegna di Architettura e Urbanistica, dedicato nel 2004 alla formazione degli architetti negli anni Sessanta: vi si può leggere un prezioso memoriale scritto da Claudio D’Amato (titolo: ’Ideali architettonici’) dove in tralice figurano gran parte delle illusioni perdute, ma anche le idealità e le relative esperienze intellettuali e morali di cui ho già offerto un riassunto. A conclusione del suo resoconto autobiografico –che è anche la foto delle aspirazioni di una generazione- D’Amato se la prendeva, sul piano della didattica, in un primo momento con “i frutti avvelenati della politica destabilizzante di Zevi” (la ossessione ‘antiaccademica’ che pregiudicò secondo lui l’ ordinamento), e successivamente con gli effetti degenerativi delle facoltà di architettura seguiti al terremoto del 1968 ( fra questi, la fine dello sbarramento al biennio, la riduzione del numero degli esami). E ribadiva, per fissare i punti salienti di una possibile rinascita pedagogica, le seguenti priorità: culto della storia, continuità con la tradizione, culto della forma organicamente costruita e della geometria ad essa sottesa, convinzione piena della autonomia della architettura.
Tra il giovane D’Amato, rivoluzionario e ‘formalista’ degli anni Sessanta, e il D’Amato divenuto professore emerito di Composizione architettonica al Politecnico di Bari, vi era la distanza dell’ esperienza e del tempo che passa; ma non vi era divergenza di vedute e modo di sentire. Ad indicare la coerente ed esemplare linea di continuità operativa e teorica di Claudio D’Amato c’è quanto egli lascia come architetto, come insegnante, come assiduo organizzatore di cultura didattica finalizzata a tenere assieme una idea unitaria e organica della architettura, sintesi di storia, tradizione e ‘vita delle forme’.
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A proposito di questa intrinseca vitalità della morfologia conseguente alla compresenza delle tradizioni artistiche (Claudio fece subito suo all’atto della costituzione, il motto dell’INTBAU: “One World, many traditions”) vale la pena sottolineare come lo storicismo estetico di D’Amato non chiudesse alla innovazione, nel rispetto delle tecniche costruttive diverse, e degli incroci stilistici. Prova ne sia la sua attenzione dedicata al Mediterraneo, confronto e sintesi di civiltà, allo scopo di tramandare e preservare un sapere architettonico che, prima di ogni altra considerazione (tecnica, ambientale, etnica) è un atto di libera manifestazione spirituale.
Molto ancora ci sarebbe da aggiungere, più di quanto io non sia in grado di fare, sul valore di Claudio D’Amato come maestro, educatore ed accademico. A me preme ricordare come le nostre contiguità morali e intellettuali, cresciute nella Valle Giulia degli anni Sessanta, abbiano trovato la via di una convergenza nella elaborazione della mostra  ‘Città di pietra’, curata da Claudio nel 2006 per la X Biennale di Architettura a Venezia, cui presi parte con un saggio intitolato “Misura italiana e identità europea”, sintonizzato sul rapporto di passato e presente nell’arte del nostro ‘900, tema che collimava con l’appassionata attenzione di D’Amato per le tradizioni costruttive e la stereotomia nell’insegnamento delle fisionomie stilistiche. Quella collaborazione confermò qualcosa di più della nostra amicizia, e cioè una sostanziale affinità culturale ritrovata ad onta del tempo.
Di Claudio D’Amato resterà la sua missione straordinaria di insegnante, ma soprattutto il pregio di un carattere passionale, a tratti perfino irruente, dell’ uomo che credeva nel valore non corrivo della progettazione architettonica, da lui intesa e concepita sempre quale forma significante o ‘guida archetipale’, suggello ed arbitrato essenziale di ogni forma di convivenza e civiltà. Non era un carattere facile. Esigente prima di tutto con sé stesso, era alieno dai luoghi comuni, disprezzava la faciloneria intellettuale, il ’progressismo’ esibito come passe-par-tout ideologico. Quando è mancato, il dolore per la perdita dell’amico è stato in buona parte alleviato dalla certezza che la sua opera pedagogica in architettura, condotta nei dettagli quasi fino all’ultimo giorno della vita, resterà per le generazioni future, come quelle ‘città di pietra’ che intendeva custodire e preservare a modello di stile ed impronta morale.
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aplustexto · 8 years
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Architettura Iberica: un punto di vista sul costruito
Camillo Botticini
Stefano Ferracini
SF: Comincia con questo numero l’edizione italiana di Arquitectura Iberica. In Spagna e Portogallo è già un successo e uno strumento utile a chi vuole informarsi in merito alla costruzione contemporanea. Una pubblicazione di ambito geografico così ristretto definisce dei margini operativi in luce di una chiara coerenza linguistica per di più esemplificata attraverso opere costruite. Sarà poi positivo essere così distinti…
CB: In effetti l’interesse per l’architettura iberica è elevato non tanto per una presunta omologazione regionale, ma per la ricchezza di sperimentazione che si è verificata in un contesto attento all’architettura contemporanea. Nel senso che ne rende possibile una sua concretizzazione all’interno di un spazio geografico che esprime un numero elevatissimo di progettisti di alto profilo cui si unisce un dibattito, ed una capacità reale di fare dell’architettura uno strumento necessario alla trasformazione dello spazio abitato…
SF: Parliamo quindi di contesti specifici, la rivista sottolinea l’ambito iberico come contesto geograficamente omogeneo. Sappiamo invece che esistono delle similitudini e diversità, cosa pensi per esempio riguardo a punti di contatto e/o differenze tra contesto spagnolo e portoghese?  
CB: Recenti pubblicazioni monografiche che ricapitolano la ricerca dell’architettura sia in Spagna che in Portogallo mostrano la rottura di un procedimento che nelle diversità le aveva accomunate: riguardava  la capacità di coniugare la ricerca delle avanguardie con l’attenzione alla storicità dei luoghi, alla loro geografia e morfologia…
SF: Molti critici riassumono le tendenze contemporanee attraverso due correnti predominanti, da un lato una linea di pensiero in cui la scatola è l’archetipo generatore alla Mies van der Rohe per intenderci, dall’altro la possibilità di gestire forme mutabili attraverso strutture leggere e movibili condizionando la ricerca grazie all’uso di forme non definite rifacendosi alle tipologie di Moebius…  
CB: Oggi l’orientamento anche iberico si caratterizza pur nelle diverse linee di ricerca verso una maggior radicalità formale. Guardando alle sperimentazioni nord europee, fa riferimento ad una caratterizzazione metropolitana dell’architettura, ad un’espressività più radicalmente ipermoderna nell’assumere la perdita di identità dei luoghi come una condizione con cui confrontarsi.
SF: I progetti vengono presentati in modo diretto, immediato quasi secco: titolo, descrizione, piante, prospetti, sezioni e fotografie, questo volutamente per offrire la massima immediatezza e comprensione al progettista. Inoltre viene dato ampio spazio ai dettagli. Questa linea volutamente pragmatica che lascia spazio alla libera critica senza superflue annotazioni è positivamente apprezzata dall’architetto spagnolo e portoghese. Ci si aspetta una risposta altrettanto affermativa dai lettori italiani?
CB: Ci sono opinioni discordi sul ruolo della critica… commento superfluo spesso ormai solo incensatorio o necessaria contestualizzazione di un‘opera, sua analisi serrata. Questa ultima posizione oggi appare in crisi di fronte alla perdita di riferimenti. Certo la chiarezza comunicativa di una rivista, la capacità di insistere sullo specifico è già una scelta di campo che appare necessaria.
SF: La scelta dei progetti è volutamente indirizzata verso architetti giovani e non ancora famosi, questo ci aiuta a determinare caratteristiche e sviluppi  di un panorama spesso dominato da pubblicazioni che vedono sempre gli stessi nomi ripetersi alterando a volte una visione d’ insieme più obbiettiva.  L’introduzione di nuovi linguaggi è spesso dimostrata dalle generazioni più giovani...  
CB: Non sono sicuro che la condizione generazionale sia determinante, credo alla giovinezza come ad un attitudine, ad una condizione dello spirito, tuttavia la capacità di mostrare il lavoro fatto da attori non selezionati reiteratamente (vedi la domus attuale ) capaci di proporre ricerche diverse credo sia una prerogativa dell’architettura iberica. In questo senso la scelta della rivista è molto importante.
SF: In questo tipo di architetture “giovani” molto comunicative e legate ai materiali usati oltre che distinte molto spesso per dimensioni ridotte e costi limitati anche per la loro capacità amovibile. In questi lavori sono privilegiati quei componenti d’architettura unibili a secco, senza quindi l’uso di malte o cementi ma attraverso viti e bulloni, colle, siliconi, resine, leghe leggere, tessuti elastici o gonfiabili, enfatizzando in questo modo una componente sperimentale e quasi effimera del progetto. Inoltre la volontà di nascondere o evidenziare gli aspetti costruttivi e materiali si ripercuote in innumerevoli progetti presentati sulle riviste. La tecnologia poi aiuta a condizionare e sviluppare nuove forme e linguaggi. Questo quanto ci dice su come si sta muovendo “oggi” l’architettura italiana rispetto ai nostri vicini colleghi mediterranei?
CB: L’architettura italiana come tutta l’architettura europea si confronta con il mercato della globalizzazione, purtroppo meno armata di strumenti ed occasioni significative, di un ruolo riconosciuto alla disciplina architettonica, tuttavia nella sua vastità e varietà presenta casi di certo interesse.
SF: In luce di quanto detto potrebbe esistere un concetto più ampio di architettura mediterranea includendo all’interno l’ambiente italiano?
CB: Credo esista storicamente ed in parte permanga una differenza tra l’architettura nordeuropea più caratterizzata tecnologicamente, più oggettuale e quella mediterranea più sensibile alle differenze, aperta, meno complessa costruttivamente, anche se oggi in relazione alle condizioni normative si assiste ad una progressiva omologazione. Oggi il panorama italiano si inscrive tra modelli rappresentati dalle stelle internazionali e una realtà che solo parzialmente riconosce il pensiero architettonico come strumento per la costruzione dello spazio urbano. Le questioni fondamentali sono due: da un lato il livellamento parodista di modelli impossibili, il più delle volte copiati in termini solo figurativi  e nella maggior parte dei casi inadeguati al nostro contesto. Dall’altro lato un lavoro “ metabolico” relazionato alle differenti istanze internazionali dove solo dei progettisti riescono a estrapolare i valori essenziali a determinare un progetto coerente con il contesto, questo fare determina differenti livelli di trasformazione, ma che ancora riguardano gesti frammentari e isolati. Uno dei vantaggi della globalizzazione è questa potenzialità senza limiti che permette di accedere con facilità ad un mondo di idee, sperimentalismi e forme.
SF: I tuoi lavori dimostrano un forte legame con i concetti chiave del Moderno inoltre si legge chiaramente una certa influenza spagnola o portoghese. Forse in questi paesi si è riusciti a riformulare attraverso punti di partenza simili soluzioni “moderne” coerenti e contestualizzate…
CB: Si presenta in questi paesi un caso singolare di sviluppo “in ritardo” rispetto ad altre regioni europee, una sintesi efficace dei principi tradizionali del moderno, con una sensibilità alle questioni urbane italiane definite da Gregotti e Rossi depurate però dalle scenografie post-moderne. A questi presupposti si unisce una grande capacità tecnico costruttiva. Mi sembra normale trovare dei temi di riflessione per fondare un pensiero teorico-pratico. È anche un modo di reagire all’inerzia dell’architettura contemporanea in Italia.
SF: Un obbiettivo degli architetti è la definizione di un’identità architettonica, gli studenti invece devono cercare di non perdersi in questo frammentato caleidoscopio di riferimenti in cui tutto è lecito basta che sia giustificato, ricercare delle conformità aiuta a definire delle linee di pensiero che poi diventano scuole e successivamente danno continuità alla storia, si riuscirà ad stampare in futuro una rivista monotematica con le stesse qualità di Arq. Iberica dal nome Architettura Italiana…
CB: Il sistema d’insegnamento oggi è incapace di creare una relazione tra pensiero e pratica, questo fatto è determinato per questioni ideologiche: spesso i professori di progetto sono propensi a pensare al progetto in astratto, senza considerarlo nella sua complessità dalla carta fino al cantiere. Molte volte ci si imbatte in un rifiuto “intellettuale” che considera il fatto di costruire come “meramente” professionale.    
Credo comunque che il processo di integrazione europea, con i limiti che presenta, porterà l’Italia a diventare anche per l’architettura (come per la politica) un paese “ normale”… Il processo anche se attivato non certo compiuto. Se l’orizzonte temporale di riferimento è il presente, la prospettiva cambia… Questi temi oggi sono centrali nel caratterizzare la “condizione postmoderna” della quale facciamo parte. Perciò una riflessione che sappia cogliere le dinamiche in atto si pone come fondamentale  per cogliere il rapporto tra architettura e società.
SF: In questo numero si parla di spazi commerciali e dedicati al tempo libero, questi temi si collegano al concetto di architettura effimera, temporaneità e moda: un concetto forse stravagante per la nostra cultura mediterranea strettamente legata alla città storica, e al paesaggio. C’è una tendenza generale a preferire un’architettura senza storia concepita da fattori seducenti quali la moda e l’arte del comunicare, le vecchie regole del buon costruire, da sempre considerate ”per durare nel tempo” e che oggi si relazionano sempre più alle sfere estroverse e immaginarie della trasmissione globale non possono altro che assorbire e rappresentare una sorta di passaggio temporale rapido e costantemente oltrepassato.
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TRENTINO: ANCORA UN ORSO DA GIUSTIZIARE?
#IOSTOCONDANIZA
Come accade tutte le estati, ecco di nuovo il cattivo orso che salta agli onori della cronaca del Trentino. Ieri sera - 22 luglio - verso le 19 un orso avrebbe aggredito e morso il braccio di un eroico idraulico che si è salvato gettandosi in un dirupo. I leghisti del Trentino con il loro capoccia squadrista, il consigliere Maurizio Fugatti, quelli che da anni non perdono l'occasione di prendersela con gli orsi stanziali in zona, chiedono l'abbattimento dell'animale. Infatti, loro, i fasci, gli orsi li mangiano e con la loro carne ci fanno il ragù. Come ho già avuto occasione di testimoniare molte volte.
I personaggi, meglio chiamarli figurine della politica locale, sono sempre gli stessi: il veterinario di macello e assessore Michele Dallapiccola, il presidente della provincia Ugo Rossi, l responsabile del dipartimento territorio, agricoltura, ambiente e foreste, Romano Masè, e il responsabile del Servizio foreste e fauna, Maurizio Zanin, nonché il responsabile del settore grandi carnivori, Claudio Groff, colui che ho sempre apostrofato come Mazarino per l'atteggiamento doppiogiochista e da fotografo fallito (l'immagine sfocata che mostra Repubblica.it è sua).  A cui va aggiunta la comparsa di turno (tre anni fa un presunto cacciatore di funghi, due anni fa un podista da quattro soldi, stavolta un idraulico settantenne di Cadine che considera i boschi come parte del suo salotto.
Anche la sceneggiatura è sempre la stessa, ora l'orso ribelle a cui l'idraulico ha rotto le scatole, è considerato un criminale dai nazisti della Provincia Autonoma di Trento. Nazisti perché hanno creato un sistema carcerario di sorveglianza, hanno prima di tutto identificato il DNA di buona parte degli orsi che si aggirano in un fazzoletto di terra. Li hanno radiocollarati, fotografati e filmati con le cosiddette fototrappole. Una vera operazione di voyeurismo sociale. E’ utile notare che i personaggi in gioco sono tutti cacciatori o sostenitori della caccia. E dopo qualche ora di riflessione - si fa per dire - la Provincia ha aperto con un'ordinanza l’inseguimento dell'orso ribelle. Di cui a giorni sapremo il nome in codice: Mxxx o Fxxx.
L'ex dirigente di mattatoio e collaboratore della rivista “Cacciare a Palla”, Michele Dallapiccola, afferma agli organi di stampa trentini conniventi con la PAT: “il Governo [vale a dire il ministro Gian Luca Galletti] si faccia carico dell'approvazione della norma di attuazione da noi depositata da più di un anno, unica strada che può consentirci di rimuovere gli esemplari pericolosi”.
Va osservato che l'ex amministratore del macello della Valsugana dice “rimuovere”, come se si trattasse della carrozzeria di un'auto incidentata. Non di un essere che ha diritto all'esistenza negli spazi naturali. Non si pone neppure il problema se l'orso in questione, in un contesto di siccità del paese, fosse alla ricerca di acqua o sperimentasse quelle cose che fanno normalmente gli orsi nei boschi. Mi ricorda lo ius soli, perché quell'orso è sicuramente nato in Trentino. Non si sa neppure se in realtà si sia trattato di una femmina che difendeva i cuccioli. I politici della PAT sono in effetti del tutto austro-ungarici. Gli orsi devono stare al di là del Brennero. Nessuna convivenza con l’alieno è possibile. Chiamano tutto questo “orsi confidenti”, cioè orsi che si avvicinano all'uomo.  
E un altro degno compare del macellaio e del leghista, Claudio Civettini (Civica Trentina), aggiunge: “Ennesima aggressione dell'orso, questa volta nella zona dei laghi di Lamar. È necessario prendere provvedimenti immediati per fare piazza pulita da questa invasione”. Per il consigliere Civettini hanno addirittura inventato una poltrona ad hoc: consultore per gli emigrati trentini nel mondo.
“Ennesima aggressione dell'orso”, come se gli orsi fossero un soggetto singolo, una entità aliena e informe. Si sa che in Trentino l'Italiano non lo parlano proprio bene e sbagliano le preposizioni. Da bravi Welsch preferiscono il sudtirolese. E’ sufficiente leggere qualche libro di storia per sapere che gli orsi in Trentino e nell'arco alpino ci sono sempre stati. Poi li hanno sterminati. Infine ne hanno deportati una decina dalla Slovenia, contro il parere delle associazioni animaliste come l'Enpa. Tuttavia, la Provincia Autonoma di Trento era smaniosa di creare i presupposti per la cartolina oleografica e naturista del Trentino da vendere al turismo di massa, con pubblicità, dépliant e orsetti di plastica. Senza dimenticare gli stanziamenti dell'Unione Europea. Nessuna previsione degli effetti collaterali in una piccola regione altamente antropizzata, fatta di valli claustrofobiche. Così, adesso, dopo aver scoperto che la cartolina patinata comporta una diversa cultura ambientale, chiedono di “fare piazza pulita” col fucile, le gabbie o la deportazione. Gli animali selvatici non hanno buona vita in Trentino, anche se ci sono nati.
Come si fa a non notare la relazione xenofobica tra migranti e orsi: l’“invasione”? Il linguaggio mostra radici lontane, ma anche dove risiede il seme della violenza specista. E’ per questo che la mia immagine mostra sempre un orso e su Twitter diffondo sempre l'hashtag #iostocondaniza (autentico e unico, nonostante le tristi imitazioni su Facebook perché è uno strumento di controinformazione). Sapevo che, dopo l'assassinio di Daniza nel 2014, non era finita. Gli orsi in Trentino continuano a essere in grave pericolo. Solo nel 2016, il cosiddetto "Rapporto orso" ha documentato 4 morti, di cui ben 3 per mano dell'uomo. E di molti scomparsi non si sa più nulla. Non solo per il bracconaggio e gli avvelenamenti. Il peggio è il progetto della PAT di eliminare i ceppi di orsi da loro considerati ribelli, controllando il DNA.
Pare, in queste ore, ragionevole la presa di posizione della LAV di Trento che mette in discussione che si sia trattato davvero di una aggressione: "Non è stata ancora chiarita la dinamica di quello che è successo ieri sera ai laghi di Lamar. Per ora non possiamo parlare di aggressione, ma di un animale spaventato che ha reagito trovandosi a tu per tu con l'uomo.” Vedremo se sapranno opporsi alla politica di pulizia etnica progettata dalla PAT. Pare invece più incisiva l'azione dell'Enpa: "Benché non sia ancora chiara ed accertata la dinamica relativa alla presunta aggressione di un escursionista da parte di un orso, i soliti noti, sfruttando una situazione assolutamente confusa, non hanno perso tempo per sollecitare l’adozione di misure di emergenza, quali la rimozione di un non meglio identificato esemplare. Insomma è ripartita la grancassa della campagna anti-plantigradi, che poi altro non è se non un riflesso della più generale campagna antiselvatici da tempo in atto nel nostro Paese." (Vedi articolo 39.)
  Ricordo che è possibile utilizzare la piattaforma di The PoD (The People of Daniza) su Facebook per ricevere informazioni attendibili e corrette. Per ora, in attesa di altre notizie, ho creato una rassegna stampa.
Rob Benatti, l'orso antispecista in lotta.  
http://www.repubblica.it/cronaca/2017/07/23/news/ordine_cattura_orso_trentino-171444691/
RASSEGNA STAMPA SUL NUOVO CASO IN TRENTINO DI CACCIA ALL'ORSO RIBELLE (ELENCO IN CONTINUO AGGIORNAMENTO):
000. https://www.ufficiostampa.provincia.tn.it/Comunicati/Uomo-ferito-da-un-orso-nel-tardo-pomeriggio-sopra-Lamar 001. http://www.ansa.it/trentino/notizie/2017/07/23/un-uomo-ferito-da-un-orso-in-trentino-zona-laghi-di-lamar_074fb1cb-bbce-4623-9d76-8d45d8e1b8a9.html 002. http://www.iltempo.it/cronache/2017/07/23/news/trentino-ordine-di-cattura-per-l-orso-che-ha-aggredito-un-uomo-1031922/ 003. http://www.corriere.it/cronache/17_luglio_23/trentino-uomo-aggredito-orso-morso-braccio-0cf8ce6c-6f71-11e7-af64-bee1b3eecfa7.shtml 004. http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/trentino-alto-adige/in-trentino-uomo-ferito-da-un-orso-e-polemica-basta-invasione-_3085593-201702a.shtml 005. http://www.ilmessaggero.it/primopiano/cronaca/trentino_orso_lo_aggredisce_vicino_lago-2578599.html 006. http://www.repubblica.it/cronaca/2017/07/22/news/uomo_aggredito_da_orso_trentino-171417655/ 007. http://www.quotidiano.net/cronaca/orso-lamar-1.3287913 008. http://www.lastampa.it/2017/07/22/italia/cronache/uomo-aggredito-da-un-orso-in-trentino-non-grave-4RjZb51vwOYgigZwKwxRlI/pagina.html 009. http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/trento/cronaca/2017/07/22/news/la-provincia-1.15644654 010. http://www.ildolomiti.it/cronaca/aggredito-dallorso-ai-laghi-di-lamar 011. http://www.wwf.it/news/notizie/?32660%2Fescursionista-aggredito-orso-trentinoo-capire-bene–dinamica 012. http://velvetnews.it/2017/07/23/trentino-orso-aggredisce-uomo-riesplode-la-polemica/ 013. http://notizie.tiscali.it/cronaca/articoli/aggredisce-ferisce-uomo-orso-ricercato-in-trentino-00001/ 014, http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2017/07/23/aggredisce-ferisce-uomo-orso-ricercato-trentino_pYsVKrBysnZClImkLTy23I.html 015. http://www.msn.com/it-it/notizie/italia/trentino-uomo-aggredito-da-un-orso-morso-a-un-braccio/ar-AAoExkC?li=BBqg6Qc 016. http://www.lavocedelnordest.eu/orsotrentino/ 017. http://www.cdt.ch/mondo/cronaca/179961/attaccato-da-un-orso-in-trentino 018. https://www.ladige.it/news/cronaca/2017/07/22/aggredito-orso-sopra-laghi-lamar 019. http://www.ilgiornale.it/news/cronache/trento-uomo-aggredito-orso-1423652.html 020. https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/07/23/trentino-un-uomo-ferito-da-un-orso-vertice-sulla-sicurezza-rimuovere-gli-esemplari-pericolosi/3748666/ 021. http://www.lavocedeltrentino.it/2017/07/23/attacco-orso-le-reazioni-politiche-gestione-del-progetto-life-ursus-fallimentare/ 022. http://www.lavocedeltrentino.it/2017/07/22/orso-aggredisce-uomo-ai-laghi-lamar/ 023. http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/trento/cronaca/2017/07/22/news/uomo-aggredito-dall-orso-1.15644405 024. http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/trento/cronaca/2017/07/22/news/uomo-aggredito-dall-orso-1.15644405 025. http://www.gazzettadellevalli.it/cronaca/trentino-69enne-di-cadine-ferito-da-un-orso-sopra-lamar-136903/ 026. http://www.trentotoday.it/cronaca/aggressione-orso-laghi-lamar-22-luglio.html 027. http://www.trentinolibero.it/magazine/trentino-magazine/attualita/12593-attaco-dell-orso-in-valle-dei-laghi.html 028. http://www.news.giudicarie.com/it/in-trentino/9196-uomo-ferito-da-un-orso-sopra-lamar-dallapiccola-dobbiamo-poter-rimuovere-i-soggetti-pericolosi.html 029. https://www.facebook.com/AgenziaANSA/posts/10154768768101220 030. http://www.tio.ch/News/Estero/Cronaca/1156271/Uomo-aggredito-da-un-orso-per-salvarsi-si-getta-da-un-dirupo/ 031. http://www.imolaoggi.it/2017/07/23/uomo-aggredito-da-un-orso-in-trentino-zona-laghi-di-lamar/ 032. http://www.valledeilaghi.it/jcms/201707228112/articoli-di-valle/persona-aggredita-da-un-orso-terlago.htm 033. http://www.newnotizie.it/2017/07/23/trentino-uomo-aggredito-orso-si-salva-gettandosi-un-canale/ 034. http://trentinonatura.it/attacco-dellorso-vertice-provincia-arrivo-ordinanza-rimozione/ 035. http://www.trentino-suedtirol.ilfatto24ore.it/fatto-del-giorno/2964/aggredito-dallorso-mentre-passeggia-con-il-cane/ 036. http://www.servizitelevideo.rai.it/televideo/pub/notiziasolotesto.jsp?id=1146925&pagina=224&sottopagina=01 037. http://www.secoloditalia.it/2017/07/trentino-incontro-ravvicinato-un-orso-ferito-un-uomo/ 038. http://www.ildolomiti.it/cronaca/orso-gli-animalisti-non-ce-stata-alcuna-aggressione 039. https://www.varesepress.info/2017/07/lenpa-non-ci-sta-no-alluccisione-dellorso-trento/ 040. http://www.ansa.it/canale_ambiente/notizie/natura/2017/07/23/ansa-ferito-da-orso-in-trentino-polemiche-su-pericolosita_647bcb00-81c0-4bba-885c-29c417fcb397.html 041. http://www.ildolomiti.it/cronaca/orso-trentino-nel-2016-oltre-50-esemplari-quattro-le-morti-accertate-groff-auspicabile-che 042. http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/trento/cronaca/2017/07/23/news/aggredito-dall-orso-sta-bene-la-provincia-contro-roma-dateci-la-competenza-per-rimuovere-gli-esemplari-pericolosi-1.15647590?ref=hftrtnea-1 043. http://www.quotidiano.net/benessere/animali/animali-enpa-orso-1.3289002 044. 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http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2017/07/24/gemma-bestione-del-trentino-vita-orsi_8BHomVO6qd41fPfzzY7yRN.html 173. http://www.trentotoday.it/cronaca/orso-calliano-beseno-folgaria-bufala.html 174. http://www.lavocedilucca.it/post.asp?id=58620 175. http://it.blastingnews.com/ambiente/2017/07/orsi-ed-esseri-umani-possiamo-davvero-convivere-001883985.html 176. http://www.gazzettadisondrio.it/dalla-provincia/31072017/pericolo-orsi-scrive-prof-corti 177. http://www.lavocedeltrentino.it/2017/07/28/spritz-con-lorso/ 178. http://www.bufale.net/home/bufala-no-grazie-non-vado-trentino-ammazzano-gli-orsi-bufale-net/ 179.http://www.ildolomiti.it/cronaca/catturata-unorsa-vicino-cavedine-e-stata-sedata-munita-di-radiocollare-e-poi-liberata 180. http://www.adagaeta.it/orso-del-trentino-chiarimenti/ 181. https://www.ladige.it/popular/ambiente/2017/07/29/aggressione-dellorso-dubbi-zoologo-linserimento-stato-superficiale 182. http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/trento/cronaca/2017/07/28/news/l-orso-aggressivo-non-scoraggia-i-turisti-1.15670113 183. http://www.ladige.it/news/cronaca/2017/07/28/orsi-aggressivi-perch-sloveni-tesi-zunino-wilderness 184. http://www.secolo-trentino.com/66702/ambiente/66702/amp/.html 185. http://www.laprovinciadilecco.it/stories/Cronaca/lorso-in-provincia-si-accende-il-dibattito_1244836_11/ 186. http://francofrattinidiarioitaliano.blogspot.it/2017/07/frattini-per-loro-serve-un-santuario.html 187. http://www.agenziagiornalisticaopinione.it/opinionews/orsi-trentino-enpa-scrive-governatore-rossi-proteggere-incolumita-orsi/ 188. http://www.trentino-suedtirol.ilfatto24ore.it/fatto-del-giorno/3192/orso-a-castel-beseno-e-una-bufala/ 189. https://mezzolombardo.virgilio.it/notizielocali/orsi_trentino_enpa_scrive_a_governatore_rossi_proteggere_incolumit_orsi_-52544310.html 190. http://www.meteoweb.eu/2017/07/trentino-alto-adige-lndc-no-alla-caccia-allorso/941940/(Non ho inserito i due vergognosi articoli di Nelcuore.org, un copia e incolla complice dei comunicati stampa della PAT.)
(Non ho inserito i due vergognosi articoli di Nelcuore.org, un copia e incolla complice dei comunicati stampa della PAT.)
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pangeanews · 4 years
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L’incendio e la pietà: su Roberto Roversi, il poeta che invecchiando infanciullisce
Lʼopera di Roberto Roversi deve ancora cominciare ad essere studiata (mi verrebbe da dire: letta). La difficoltà nellʼintraprendere un percorso di studi roversiani consiste non solo nella personalità dellʼautore, particolarmente obliqua e imprendibile nelle dinamiche ottusamente dualistiche della cultura italiana (basti pensare, per farsi unʼidea, alla sua tesi di laurea presso la Facoltà di filosofia di Bologna su “Le origini dellʼirrazionalismo in Nietzsche studiate nelle opere giovanili”, anno 1946, a pochi passi dalla guerra di liberazione cui partecipò fisicamente e non solo con le armi della ragione) ma anche dalla mole di materiale non organizzato sistematicamente, fogli sparsi e canzoni volanti che spuntano ancora oggi come funghi.
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Vale per Roversi la categoria nicciana dei pensieri in cammino, contro i falsi pensieri del linguaggio (Genealogia della morale), vale a dire unʼidea di scrittura come diario di bordo, taccuino in atto di considerazioni erranti. Ciò caratterizza anche la natura dei suoi faldoni soggetti a numerose edizioni parziali o con varianti e aggiunte anche a distanza di decenni. La lunga lista bibliografica può essere, per intraprendere un primo percorso di studi, ridotta a pochi titoli fondamentali (mi concentro in questo momento sulla poesia e sui romanzi, tralasciando il teatro su cui si dovrebbe aprire un capitolo a parte) che invito il “nuovo lettore di Roversi” a rinvenire. Per la poesia: Dopo Campoformio (1962; edizione definitiva 1965), Le descrizioni in atto (1970; 1985; edizione definitiva 1990) e LʼItalia sepolta sotto la neve (2010; a partire da 1984). Per la scrittura in prosa: Caccia allʼuomo (1959), Registrazione di eventi (1964) e I diecimila cavalli (1976).
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A partire da questo nucleo di “fondamentali” si potrà dunque procedere, per chi vorrà, a ritroso fino alle plaquette di esordio (il battesimo giovanile è con Poesie nel 1942, cui seguono dodici anni di silenzio, e un nuovo esordio con le Poesie per lʼamatore di stampe nel 1954) o in esplorazione verso i capitoli a margine che costellano la mappa bibliografica dellʼavventura roversiana (il portale robertoroversi.it, curato dal nipote Antonio Bagnoli, offre una labirintica mappatura e anche la possibilità di sfogliare alcuni titoli, per quanto lʼinvito implicito del poeta, anche alla luce della sua predilezione per pubblicazioni in copie limitate con piccoli editori o addirittura fuori commercio, mi pare resti quello dellʼattraversamento del mondo sotterraneo delle biblioteche o delle librerie antiquarie e di modernariato, un universo minore – nellʼaccezione di Benjamin, di una marginalità come dimensione salvifica dalle dinamiche maggiori della storia – profondamente amato da Roversi che proprio nella Libreria antiquaria Palmaverde di Bologna fondò la sua dimora intellettuale).
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Unʼantologia nutriente di brani in prosa, poesia e alcuni interventi teorici, e che è possibile ancora oggi trovare in commercio, è stata pubblicata da Luca Sossella nel 2008 con il titolo Tre poesie e alcune prose (a cura di Marco Giovenale). Traggo da questo volume uno splendido frammento di poetica, da una conversazione con Giancarlo Ferretti, originariamente posta a premessa del romanzo I diecimila cavalli, e che mi pare segni, anche, la differenza sostanziale tra la sperimentazione vivente del poeta bolognese, il cui centro è la vita dellʼuomo che attraversa la storia, e i laboratori autoptici della neo-avanguardia italiana, il cui centro è piuttosto il linguaggio della storia che attraversa lʼuomo. Il rifiuto di un approccio ideologico alla scrittura non poteva che porsi anche in rifiuto delle estetiche precedenti del realismo pedagogico del dopoguerra e questa distanza tanto dal neorealismo quanto dal teppismo teorico dei Novissimi, intesi entrambi come momenti di sottomissione della poesia alla comunicazione, e della dimensione umana alla necessità politica, è la lezione sostanziale della rivista “Officina”, e delle opere che da lì fuoriescono: Roversi, Pasolini, Fortini.
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Qui Roversi dice, in relazione a I diecimila cavalli: “Il libro prende moto nel segno di due riferimenti emblematici: l’incendio di Mosca (cioè la violenza di quell’incendio) e l’arpa birmana (cioè l’autentica pietà, anche in quel film); tutto ciò che brucia per la violenza del fuoco e tuttavia non finisce per bruciare e tutto ciò che la pietà, non dico solo salva, ma riordina e torna a riportarci perché possa ancora durare e servire soprattutto la nostra coscienza e i nostri pensieri. Ecco un elemento del libro che ci terrei se riuscisse a saltare fuori: non una tenerezza per le cose, non una tenerezza solo generica per noi ma la vera dura grande e faticosa, direi faticata, pietà che dovrebbe segnare il rapporto civile e virile tra tutti; un grande vento sconvolgente. […] Scusami ma insisto perché per me è importante: credo che la pietà, e l’esercizio della pietà, rappresenti un sentimento vittorioso, capace di caricare la nostra azione, anche e soprattutto politica, di elementi nuovi, di una tensione che ci permetta di incontrare e affrontare i problemi senza pregiudizi o falsa coscienza. La pietà è naturalmente comprensione ma è anche aspettare a giudicare, non concludere tutto in fretta con la rabbia dell’insoddisfazione”. E ancora: “Discutendo parlando scrivendo adesso abbiamo bisogno, direi un bisogno urgente, di ricuperare al nostro discorso una serie di temi, di elementi antropologici che erano stati accantonati frettolosamente e con un certo snobismo squallido come deteriori, reazionari, invecchiati; insomma come inutili e perfino pericolosi. Il discorso sull’amore, sul sesso, sulla paura della morte, inesistenti nel realismo spiritato di tanti anni, vanno recuperati uno per uno, collocandoli in una diversa disposizione che ci consenta di sentirli, direi: di risentirli, subito come nostri e come parte di una vita ritrovata”.
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I romanzi e lʼopera poetica, fino a Le descrizioni in atto, possono essere in parte illuminati da questa conversazione che segna, mi pare, uno spartiacque tra due epoche. Ciò che la precede è la forsennata opera dello sperimentatore bolognese, i suoi “materiali ferrosi” tra Tommaso Campanella e Jim Morrison, Agrippa dʼAubigné, Hölderlin e Osip Mandelʼstam, poesie in forma di canzoni per la radio (assieme a Lucio Dalla, con cui ruppe con pacifica intransigenza luterana), lettere in versi ciclostilate in proprio e volantinate in strada, le riviste, lʼabbandono della grande editoria per lʼautodistribuzione, il teatro incendiario (alla prima de Il crack al Piccolo di Milano il pubblico militante di studenti insorse mettendo a soqquadro la sala: “Fu meglio di tanti applausi”, mi disse in conversazione privata. Su “LʼUnità” del 10 aprile 1969 scrisse invece di “vecchio ingorgo ideologico di una sinistra impallata su congelati schematismi”). Ciò che ne segue è il lungo, misterioso e silenzioso viaggio dʼinverno de LʼItalia sepolta sotto la neve.
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LʼItalia sepolta sotto la neve, la cui composizione certificata ha inizio almeno dal 1984 e si conclude nel 2010, è il vero grande enigma dellʼopera roversiana. Sono persuaso si tratti del capolavoro di Roberto Roversi ma anche, probabilmente, di uno dei libri di poesia europea più importanti degli anni Duemila. Lo immagino, a volte, come il poema che battezza il millennio e lʼultimo Roversi un uomo antico, poeta guerriero e filosofo che invecchiando infanciullisce. Come spesso accade, per un dolce gioco di armonie segrete, la destinazione del tragitto umano pare convergere con il suo principio. Il poema, composto lungo tre decenni di smottamento epocale (dalle macerie del muro di Berlino alle Twin Towers; dalla fine del Novecento allʼimplosione della bolla speculativa del postmoderno), e suddiviso in cinque sezioni dai titoli adamantini e arcani (Premessa; Fuga dei sette re prigionieri; La Natura, la Morte e il Tempo osservano le Parche; Astolfo trasforma sassi in cavalli e Trenta miserie dʼItalia), mi pare infatti intimamente connesso a quella scintillante tesi di laurea su Nietzsche (oggi edita da Pendragon) in cui il poeta, poco più che ventenne, appuntava: “Ricorda la sorella come Nietzsche scrivesse le sue opere, cominciando dalla fine del quaderno e risalendo via via – da una sola facciata – verso il principio; e io mi sono spesso domandato se questo non possa prendersi come motivo per giudicare il filosofo: intendo – cioè – cominciando dalle opere ultime per risalire – lentamente – a quel gioioso e profondo fremito giovanile che è la Nascita della tragedia. In Nietzsche non vi è svolgimento: non è uomo da sciogliersi nel tempo in una progressione continuata e sicura, nel ritrovamento di nuovi motivi o di nuovi pensieri scaturenti lʼuno dallʼaltro secondo un ordine logico, naturale: poiché è così, dico, che si formano i sistemi. E in Nietzsche non vi è sistema, naturalmente: poiché un irrazionalista non può giungere al trionfo della razionalità, che è – appunto – il sistema. Nel sistema la logica celebra la propria vittoria: entro quei confini sacri la ragione, dopo lʼaspro travaglio speculativo, trova per quanto è possibile il proprio appagamento. Lʼirrazionalista si lascia condurre invece da tutti i motivi che i razionalisti dispregiano o sottomettono al proprio logico discorso: impulsi, intuizioni, baleni rapidi che avvampano. Lontano da ogni metafisica, lʼirrazionalista celebra nella vita, senza più misura, in una libertà sconfinata, il proprio tripudio e – magari – la propria salvazione. Al coerente si oppone lʼincoerente e la vita dello spirito è vista nel suo svolgersi indeterminato e indeterminabile. […] Raccontano che i marinai di una nave bordeggiante presso unʼisola sconosciuta udirono gridare, disperatamente, in pieno meriggio: “il dio Pan è morto”. Dopo secoli, Nietzsche fu il primo che udì disperatamente il richiamo di antichi tempi: “il dio Dioniso è morto”. Così è nata questʼopera nuova e diversa”.
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Se dovessi scegliere una parola che esprima la forza misteriosa di questʼopera-viaggio, questa parola, mi ripeto, è “enigma”, con tutto il carico ruvidamente arcaico di significati che porta in sé. Ma enigma non è cifra di irrazionalità, né si può certo definire Roberto Roversi un irrazionalista (come a ventʼanni definiva il suo Nietzsche), tantomeno di una volontà di essere o di apparire oscuri per capriccio ermetico. Enigma è un fare luce nel buio, un camminare nellʼignoto, attraversando la complessità simultanea degli eventi senza idee a priori circa quanto si intenderà trovare. Vale a dire trovare senza cercare, oppure cercare qualsiasi cosa, nello stupore del viaggio di conoscenza. Essere un uomo nel paesaggio della storia e non un narratore onnisciente. Inserire la propria voce nella sinfonia dei suoni, essere sempre in ascolto. Non un comprendere quanto un essere compresi, piuttosto. Lʼopera deposta da Roversi sulla battigia storica, prima del grande viaggio verso lʼisola dei beati, è un sistema neuronale, i cui versi sono articolazioni nervose, sentieri innervati che si dipanano azionando delle parole-immagini evocative di sensazioni tattili o olfattive, o di visioni o di ragionamenti e ricordi come forze attive plastiche, viventi e sempre in atto. Gli enigmi dellʼultimo Roversi sono frammenti di visione senza biografia, appunti di riflessione in cammino, scritture come lembi residuali di unʼavventura, in cui lʼoggetto dellʼesperienza giace sotto la carta, non sulla sua superficie (Dante: “Sotto ʼl velame de li versi strani”), dove la carta è il diario di bordo di un viaggio (ma non è il viaggio), e in cui il soggetto siamo anche noi. Viaggio che invita al viaggio, alla sua prosecuzione e completamento. Così si chiude il poema:
Il tuo destino è oscuro Italia trenta, trenta. Ogni viottolo un tumulo d’antichi guerrieri ogni cima una fortezza abbandonata nelle vallate cunicoli di trincee mani di vecchi soldati affiorano fra i sassi. Con il fuoco nel cuore e il suono dolente di una campana nell’orecchio. Chi vincerà le tue battaglie? Ancora una volta per te? Il futuro ti aspetta…
Davide Nota
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paoloxl · 7 years
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A pochi giorni dall'inizio della protesta di oltre cinquemila professori universitari di tutti gli atenei italiani che si asterranno dal tenere appelli d'esame nella sessione di settembre per contestare il blocco degli scatti stipendiali e per rivendicare la dignità della docenza universitaria c'è un mondo complesso che reclama l'estensione di dignità, retribuzione e tutele anche ad altri segmenti delle gerarchie accademiche. Mentre la ministra Fedeli sui quotidiani indietreggia sulla difensiva rispetto allo sciopero e aspetta che passi il mese di settembre c'è un'occasione da cogliere per mettere in discussione il funzionamento di un intero sistema. Per un punto di vista sullo sciopero a partire da altre posizioni oltre quelle degli strutturati promotori della protesta, abbiamo intervistato un dottorando dell'Università di Pisa, Francesco Biagi. Sciopero dei docenti: l'attuale sistema universitario umilia tutti   La critica principale mossa allo sciopero dell'appello di settembre è che si tratterebbe di una protesta corporativa, interessata solo alla difesa degli interessi di portafoglio del corpo docente, quello più privilegiato nella gerarchia accademica. Se questo è un rischio, una possibile piega dello sciopero se lasciato a se stesso, a quali altri segmenti del mondo universitario parla questa protesta? Per chi può diventare un'occasione di lotta per migliorare la propria condizione dentro l'università e a quali condizioni? Credo che questo sciopero dei docenti strutturati, per come è stato organizzato fin’ora, ha una grossa impronta corporativa. Carlo Ferraro del Politecnico di Torino ha dato impulso alla protesta sugli scatti – e ancora prima sulla VQR – senza porre la propria condizione lavorativa di strutturato in connessione con le altre parti dei lavoratori della conoscenza che vivono l’accademia. Va detto per evitare ambiguità: è legittimo questo sciopero, come è legittimo che un docente strutturato senta la propria identità lavorativa vilipesa dal blocco degli scatti e dal sistema premio-punitivo della VQR. Tuttavia mi chiedo: Come dovrebbe sentirsi – vista l’attuale situazione drammatica in cui versa l’università – ad esempio uno studente, un dottorando con o senza borsa, un assegnista o un borsista di ricerca, un ricercatore a tempo determinato? L’attuale sistema universitario non umilia e distrugge i diritti di tutti? Ci sono tante fasce precarie dei lavoratori della conoscenza che vivono nel solco di ciò che Marco Bascetta e Roberto Ciccarelli chiamano “Economia politica della promessa”. Ovvero, si è stabilizzato un sistema per cui allo studente è chiesto di essere in formazione continua, deve pagare e spendere, non arrivando mai ad una occupazione degna; purtuttavia gli viene promesso domani un qualcosa che oggi è dato con l’espediente della “formazione” (dai master alle summer o winter school a pagamento che sono un vero e proprio ladrocinio, ai cosiddetti tirocini), salvo poi ricevere le prediche di politici come Padoa-Schioppa o Michel Martone dove vengono definiti tutti “bamboccioni”. Al dottorando invece viene detto che se è fortunato ha una borsa di tre anni, altrimenti fa il dottorato gratis, e mentre compie la sua ricerca deve ovviamente sottostare a tutte le mansioni del suo Tutor di turno ordinario o associato, ecc, fare lezioni, fare esami, correggere tesi degli studenti. Mi chiedo: quanti docenti strutturati che aderiscono allo sciopero scaricano la loro mole di lavoro sugli assistenti dottorandi e ricercatori precari, i quali spesso non hanno possibilità di vivere e mantenersi con uno stipendio dignitoso? Guardiamo la situazione nelle nostre università: sapere che certi docenti scioperano, visto come si comportano con i loro dottorandi e assegnisti o borsisti, mi fa sorridere. Ora arriva, ad esempio, il buon Ferraro, che parte da posizioni ragionevoli, il cui tema rilevante però è esclusivamente la storia degli scatti (quella a mio avviso meno rilevante) e produce una serie di mobilitazioni contro la VQR, mischiando buone idee al peggior baronato accademico. La Valutazione della Qualità della ricerca in Italia è un disastro soprattutto per dottorandi e ricercatori precari, infatti crea uno stato di natura hobbesiano per cui sei alla continua ricerca della pubblicazione nella rivista di Serie A, al fine di – in seguito – riuscire ad avere un buon punteggio ai concorsi post-dottorato. Basti pensare che un gruppo di dottorandi o giovani ricercatori non può fondare una rivista accademica senza avere almeno il 90% di strutturati in redazione. Cosa significa? Che la filiazione baronale è la struttura portante del sistema universitario. Il movimento dei docenti strutturati che sciopera è disposto a rimettere in discussione in blocco questa microfisica del potere? Il sociologo Pierre Bourdieu in “Homo Academicus” diceva che il docente universitario è “frazione dominata della classe dominante” e – a sua volta – riproduce la gerarchia oppressiva. Noi – studenti e ricercatori precari – parte più oppressa non dobbiamo farci illusioni, purtuttavia dobbiamo essere il pungolo più fastidioso dello sciopero degli strutturati. Dobbiamo far emergere tutte le contraddizioni, nel tentativo di far ripartire una mobilitazione seria, di “alta politica”, non corporativa. Karl Marx ne “Le lotte di classe in Francia” riguardo all’insurrezione francese del 1848 scrive: “Ogni rivoluzione ha bisogno di una questione di banchetti. Il suffragio universale è la questione dei banchetti della nuova rivoluzione.” Mi auguro che questo sciopero possa trasformarsi per la componente universitaria più debole e vessata nella nostra “questione di banchetti” che funge da scintilla per qualcosa di più grande. Non pretendo “la rivoluzione”, ma almeno la capacità di guardare al di là del proprio ombelico. Altrimenti sarebbe tempo sprecato.   C'è un universo di precarietà che costella il sistema universitario. Parlaci delle difficoltà che hai incontrato nel tuo percorso formativo e della tua condizione attuale. Venendo alla mia situazione: mi sono laureato nel 2012 a Pisa con un docente che stimo moltissimo, purtuttavia sapevo che non avrebbe potuto aiutarmi – in termini di potere e opportunità – nella carriera accademica. D’estate ho quasi sempre lavorato, quello che trovavo: dal panettiere la mattina presto all’operaio in una impresa che montava tensostrutture per festeggiamenti e, in seguito, il cameriere nei catering. Nell’anno tra settembre 2012 e settembre 2013 ho tentato – a tappeto – diversi concorsi di dottorato. Non avevo “raccomandazioni”, andavo lì e me la giocavo. Ho passato un anno a studiare per i diversi concorsi (tra filosofia politica e sociologia) e nel mentre facevo il cameriere in un catering di Pisa, poi consegnavo verdura biologica a domicilio con un risciò. Il catering mi pagava le otto ore in regola con i voucher, le altre ore era in busta a nero. Era un’impresa che si mascherava per mezzo della forma della “cooperativa”, un metodo ormai diffuso attraverso il quale hanno svuotato di senso le poche istituzioni lavorative che il movimento operaio si era dato nell’autogestione. Il lavoro di fattorino invece era a cottimo e su ogni cassetta che consegnavo mi venivano date 3 Euro (lorde). Ovviamente i clienti dovevo trovarmeli io e il tempo perso nella pubblicizzazione era lavoro gratuito, la cosiddetta “economia politica della promessa”. Arrivati i mesi di settembre e ottobre 2013 giungono le date dei concorsi e negli scritti conquisto sempre il primo o il secondo posto. All’orale invece “mi fregano” con domande assurde e nella graduatoria finale sono sempre il primo dei senza borsa. Con due genitori insegnanti e due fratelli più piccoli all’università non potevo permettermi un dottorato senza borsa e in ogni caso non lo avrei mai accettato, credo sia una forma di schiavismo che va rigettata fin da subito. Piuttosto sarei andato all’estero, abbandonando Pisa. Per pura fortuna, a metà novembre del 2013 ricevo una telefonata dalla segreteria che ho vinto la borsa nel dipartimento di scienze politiche di Pisa, un altro candidato aveva rinunciato al posto. La gioia è stata indescrivibile, potevo studiare e fare ricerca per tre anni con mille euro al mese. Devo ammettere che sono stato fortunato anche in un’altra cosa: la mia tutor è una ricercatrice a tempo indeterminato e mi ha sempre lasciato molto libero nella mia ricerca sul pensiero di Henri Lefebvre e il “diritto alla città”. Non mi ha mai chiesto mansioni ulteriori che spesso tolgono tempo alla propria ricerca e nelle occasioni in cui ho supportato la sua didattica e la sua ricerca, c’è sempre stato un riconoscimento franco, da un lato nel mutuo aiuto e dall’altro nella possibilità di mettere alla prova le mie capacità. Credo che da questo punto di vista la mia situazione sia molto rara. Le voci che sento dai colleghi di tutto l’Ateneo (e di tutta Italia) sono molto diverse. Sul mio dottorato rimprovero la scarsa qualità dei seminari, spesso fatti da conoscenti di conoscenti che passano per la nostra città. Non c’è una seria progettualità nella formazione, visto che il dottorando – secondo la carta europea del ricercatore – è un ricercatore in formazione. Sono stati pochi i momenti di autentica qualità. Inoltre, i tagli hanno accorpato materie così diverse che ad esempio si arriva ad avere un “minestrone” di dottorato che si chiama “Sociologia, storia e cultura politica”. Le materie più varie unite assieme, di contro l’accademia poi nei concorsi post-dottorato ti chiede codici, settori e specializzazioni. Devo dire – tuttavia – che il mio dipartimento perlomeno lascia molto liberi noi dottorandi nella ricerca. Una libertà che però ha un’altra faccia della medaglia: quella dell’abbandono. Per molti di noi procurarsi una co-tutela o un soggiorno all’estero è molto difficile e sei in balia di te stesso. Ugualmente terminato il percorso non c’è futuro, l’aria che tira è quella di cercare concorsi altrove. L’università italiana, di fatto, forma ricercatori che poi disperde o che abbandonano la ricerca. Basti pensare che più del 90% degli assegnisti sarà espulso dall’università. Io sono l’ultimo ciclo che ha avuto la possibilità dell’anno di proroga, tuttavia non è pagato. Di fatto, come dottorando, ti viene chiesto di fare convegni, di pubblicare il più possibile e anche – ovviamente – devi fare ricerca e studiare, tuttavia - molto spesso - tutte queste mansioni non coincidono con la tua tesi. Tu cerchi di tenere un filo, ma devi anche cogliere il più possibile le opportunità che ti si presentano per costruire un buon curriculum. Non c’è altra scelta. Per cui tre anni non bastano. L’ultima riforma del dottorato ha tolto la possibilità di proroga e chi ha potuto, atenei come il Sant’Anna o la Scuola Normale di Pisa, ha riorganizzato i dottorati in 4 anni tutti pagati. La statale, con meno possibilità, comprime e crea una continua rincorsa contro il tempo. Va ricordato che in Europa i dottorati durano minimo 4-5 anni, sicuramente non 3 anni come in Italia. Dovrei quindi ritenermi fortunato ad avere il quarto anno da dedicare alla scrittura della tesi, tuttavia i risparmi della borsa finiscono e devo trovarmi un lavoro. A settembre 2016, mi assume un’associazione che lavora nelle scuole elementari. Con un contratto di ritenuta d’acconto al 20% lavoro da settembre 2016 a giugno 2017 con turni diversi pagati 12,50 Euro lordi (netti 10 Euro l’ora, non male visti i tempi!). Ogni mattina mi sveglio alle 6.30 e dalle 7.30 alle 8.20 accolgo in palestra i bimbi che hanno i genitori che lavorano presto, prima dell’apertura normale della scuola: si chiama “Pre-Scuola”. Poi torno a casa, bevo un altro caffè e mi metto a lavorare al computer per il mio dottorato. Più di rado, ma per alcuni mesi molto più spesso, dalle 13 alle 17 ritornavo a scuola a fare assistenza in mensa e al dopo-scuola dove i bambini facevano i compiti con noi educatori. Se non avevo questo turno, dovevo tornare solamente dalle 16.10 alle 17 per il “Post-Scuola”, ovvero intrattenevo i bambini che hanno i genitori che finiscono il lavoro più tardi e non possono prenderli al suono della campanella del tempo pieno. Nei ritagli di tempo, portavo avanti la scrittura della mia tesi. Si conclude l’anno scolastico e si preannuncia un’estate da fame: senza lavoro. Tuttavia arriva una sorpresa qualche giorno prima della fine della scuola, i primi di giugno: con una email, il Presidente dell’associazione per cui lavoravo comunica che ha dei problemi di bilancio e vuole tagliare lo stipendio riducendo la paga. La questione si conclude così: nel giro di tre-quattro giorni ricevo il pagamento completo dell’ultimo mese di lavoro, ma vengo cacciato dall’associazione, quindi dal posto di lavoro. In seguito, tramite conoscenze, trovo un altro lavoro in un catering e fino a metà settembre ho delle serate che mi garantiscono una relativa indipendenza economica, tuttavia spesso devo scegliere se comprarmi un libro o uscire la sera. Un po’ i miei genitori mi aiutano, tuttavia a quasi trentun’anni vorrei provare a farcela da solo. I miei prossimi obiettivi sono concludere il dottorato e concludere altre pubblicazioni che ho pendenti. Appena sono dottore di ricerca dovrò mettermi alla ricerca di un concorso post-doc e credo proprio che guarderò fuori dall’Italia. Qui purtroppo non c’è futuro per chi vuole fare ricerca “senza padri e padrini”. Un’altra opzione, mentre sarò alla ricerca dei concorsi, è quella di prendermi una seconda laurea per l’insegnamento nelle scuole superiori. Purtroppo con la mia laurea in scienze politiche non posso accedere all’insegnamento. Economicamente, non so che ne sarà di me conclusa la stagione estiva del catering. Sono alla ricerca di altri lavori da fine settembre in poi. È bene ricordare che il mio ciclo di dottorato è l’ultimo ciclo che non ha diritto alla disoccupazione dell’INPS, pur avendo pagato ogni mese più di 200 Euro alla gestione separata dell’INPS. Viviamo in una situazione per cui la borsa di dottorato è tassata come un contratto di tre anni a tempo determinato, tuttavia – siccome è una “borsa” – non sei considerato lavoratore a tutti gli effetti. La situazione è talmente drammatica che devi lottare anche per essere considerato un lavoratore. La vulgata più diffusa infatti è considerare il “dottorando” come uno “studente” che si sta specializzando più di altri, quando il dottorato dovrebbe essere – invece – il primo livello della ricerca universitaria. Il dramma della nostra generazione è l’invisibilità che fatica a trasformarsi in solidarietà e capacità di tessere reti di lotta e insubordinazione. Ti succhiano il tempo. Siamo concretamente dei “nuovi proletari”, abbiamo avuto certamente delle possibilità offerte dal clima economico in cui le nostre famiglie sono cresciute alla fine del Novecento, tuttavia ora ci vengono sbarrate tutte le strade. Proprio tutte. Infine, concludo: come vuole misurarsi il movimento dei docenti strutturati rispetto a esempi di vita come la mia? Senza vittimismi eh! Il quesito radicale è come mai gli strutturati che fino a ora, nella gran parte, hanno costruito il sistema che ci opprime da veri e propri ambasciatori delle contro-riforme universitarie, ora si mobilitino solo per la propria fascia. Se abbassiamo tutti le spade che abbiamo affilato, ci state a costruire una mobilitazione grande e collettiva che “stani” il governo?  
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salentipico-blog · 7 years
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I giornalisti Marco Damilano, Alessandra Sardoni, Udo Gümpel, Liliana Faccioli Pintozzi, Francesco Costa, Marianna Aprile, Wanda Marra, Antonio Sofi, Eric Jozsef, il presidente dell’associazione nazionale magistrati Eugenio Albamonte, la responsabile twitter dell’Accademia della Crusca Vera Gheno, il docente di comunicazione politica Edoardo Novelli, il comunicatore Dino Amenduni, il consulenteGiuseppe di Caterino, lo scrittore e autore di Lercio Adelmo Monachese, il professore Luca Bandirali, la voce di Radio Capital e autore televisivo Luca Bottura, il diplomatico italiano Alessio Liquori sono gli ospiti della terza edizione di “Io non l’ho interrotta”. La rassegna di giornalismo e comunicazione politica, che si terrà da giovedì 6 a sabato 8 luglio (dalle 20 alle 23.30 – ingresso libero) nella Distilleria De Giorgi di San Cesario di Lecce, è ideata e organizzata dalla Cooperativa Coolclub e dal Comune di San Cesario di Lecce in collaborazione con l’Alambicco, Conversazioni sul Futuro, Associazione Variarti e con il sostegno del Comitato Regionale per le Comunicazioni (Co.Re.Com.) Puglia e di alcune aziende private.
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Dal 2015, attraverso un ricco calendario di incontri, dibattiti e presentazioni, la rassegna indaga l’attuale situazione della comunicazione politica in Italia, con incursioni in Europa e negli Stati Uniti, attraverso l’analisi del linguaggio e dei social, delle parole e dei comportamenti dei giornalisti e della classe politica. Giovedì 6 luglio, dopo i saluti di Fernando Coppola (sindaco di San Cesario di Lecce) e di Felice Blasi(presidente del Corecom Puglia e coordinatore nazionale dei Comitati regionali per le comunicazioni) si entrerà nel vivo della rassegna con “Pancia e cervello: riflessioni sull’uso dell’italiano in politica” diVera Gheno, twitter manager dell’Accademia della Crusca, con cui collabora da quasi venti anni. Dottore di ricerca in Linguistica, è specializzata nei linguaggi giovanili e nella comunicazione mediata tecnicamente, in particolare sui social network. Nel 2016 ha pubblicato, per Franco Cesari editore, “Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi)”, libro nato con l’intento di fornire un agile vademecum sulla scrittura in ambito professionale. A seguire “Io voto Europa: tra democrazia, populismo e terrorismo“, un incontro moderato da Ubaldo Villani Lubelli (giornalista e ricercatore) per parlare delle recenti elezioni in Francia e Gran Bretagna e delle prossime consultazioni in Germania sullo sfondo degli attacchi terroristici e dei movimenti contro l’Europa. Interveranno Liliana Faccioli Pintozzi(inviata di SkyTg24) e i corrispondenti in Italia Udo Gumpel (RTL), Eric Jozsef (Liberation) e Alessio Liquori, diplomatico italiano a Skopje, che parlerà della Macedonia, come esempio di Paese candidato all’allargamento dell’Unione Europea.
La prima serata si concluderà con la presentazione di  Lercio – Lo sporco che fa notizia (Shockdom), che raccoglie il meglio della produzione del collettivo di satira più celebre e seguito d’Italia, a cura diAdelmo Monachese, tra i fondatori e gli autori del fenomeno web. Nel libro sono racchiuse le vere notizie false di Lercio.it, con una vasta selezione di articoli apparsi sul sito e una sezione di inediti scritti per l’occasione. Da prima del clickbaiting, ben oltre il fact-checking, una spanna sopra il debunking. In un mondo avvolto dalle tenebre della post-verità, solo l’iper-verità delle notizie false di Lercio è in grado di fornirvi una lanterna per orientarvi nel buio. Adelmo Monachese è autore anche di AcidoLattico.org, collabora con Libreriamo.it e ha collaborato con Smemoranda.it. Nel 2014 ha partecipato alla fase finale di Masterpiece. Nel Settembre 2015 ha fatto il suo esordio solista in libreria con “I cuochi tv sono puttane” (Rogas edizioni, 2015). Nel settembre 2017 è prevista l’uscita de “La maledizione del Piccolo Principe” (Les Flaneurs Edizioni).
Venerdì 7 luglio la serata prenderà il via con L’America di Trump a cura di Francesco Costa. Dal giugno 2015, il vicedirettore de Il Post cura una newsletter e un podcast sulla politica statunitense, “Da Costa a Costa”, che nel corso dei mesi lo ha portao a parlare di politica americana in un tour italiano da più di 50 tappe, a viaggiare più volte negli Stati Uniti per raccontare l’elezione di Trump – dall’Ohio alla Pennsylvania, dall’Iowa al Michigan – e a collaborare con Rai Tre per la scrittura dei documentari “La Casa Bianca”. Nel 2016 ha vinto il Premio Internazionale Spotorno Nuovo Giornalismo per la copertura delle elezioni presidenziali statunitensi. Dalle 21.30 appuntamento, moderato da Gabriele De Giorgi (LeccePrima.it), con La post verità è una bufala? Giornalismo, politica e fact checking con Edoardo Novelli (docente di Comunicazione Politica all’Università degli studi Roma Tre. Promotore e Responsabile dell’Archivio degli Spot Politici), Giuseppe di Caterino (consulente per la comunicazione politica e istituzionale, coautore con Giuseppe A. Veltri di “Fuori dalla bolla. Politica e vita quotidiana nell’era della post-verità”, Mimesis), Wanda Marra (Il Fatto Quotidiano), Dino Amenduni (comunicatore politico e pianificatore strategico). In chiusura Marco Damilano (vice direttore de L’Espresso e volto di molte trasmissioni televisive) dialogherà con Alessandra Sardoni (giornalista di La7 e conduttrice della rubrica di approfondimento Omnibus) partendo dai loro recenti volumi. “Irresponsabili. Il potere italiano e la pretesa dell’innocenza” è il nuovo libro di Alessandra Sardoni (Rizzoli). Dalla notte della Diaz al dramma degli esodati, il ritratto dei leader che non sanno fare i conti con i propri errori. “Processo al nuovo” è invece il titolo della nuova fatica di Marco Damilano (Laterza). Il Nuovo ha consumato se stesso perché senza progetto. Con il passato, ha buttato via anche il futuro. I suoi paladini si sono rivelati clamorosamente inadeguati alle sfide, hanno deluso chi voleva cambiare e tradito chi ci aveva creduto. Eppure di una nuova politica l’Italia ha bisogno.
Sabato 8 luglio l’ultima serata si aprirà con “Storie di redazione: media & political drama” del professore Luca Bandirali. Docente di “Cinema, Fotografia, Televisione” del corso di laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università del Salento, è autore e conduttore radiofonico del programma Hollywood Party in onda su Rai Radio3 e redattore della rivista di cultura cinematografica Segnocinema. A seguireMarco Damilano intervisterà Eugenio Albamonte, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Magistrato dal 1995, ha lavorato presso la Procura della Repubblica di Roma come Pubblico Ministero. È specializzato in indagini sui crimini informatici e cyberterrorismo, nell’utilizzo a fine investigativo degli strumenti informatici e nella collaborazione internazionale finalizzata al contrasto di tali reati. La rassegna si concluderà con un incontro per fare un resoconto della stagione tv che ci siamo lasciati alle spalle e per parlare del futuro del piccolo schermo tra web e social con la giornalista di Oggi Marianna Aprile, Antonio Sofi, giornalista e autore televisivo (Gazebo fin dalla prima stagione, e prima ancora Agorà) e coordinatore della struttura multipiattaforma e della strategia digital di RAI 3, e Luca Bottura, voce di Radio Capital e tra gli autori di Carta Bianca su Rai3.
Durante i giorni della rassegna la Distilleria ospiterà, in collaborazione con Fermenti Lattici, anche la mostra delle tavole realizzate dall’illustratore romano Simone Tonucci per “Giovanna e i suoi re”, libro scritto da Lia Levi e pubblicato dalla casa editrice Orecchio Acerbo – una delle più interessanti nel panorama dell’editoria per l’infanzia. Il pubblico potrà anche visitare Ouverture. Il progetto espositivo propone quattro distinti e autonomi percorsi dedicati ad altrettanti artisti contemporanei: Trusts[()] di Lara Bobbio, Archetipi di Renzo Buttazzo, Luminaria di Franco Dellerba (a cura di Lorenzo Madaro) e La casa degli spiriti di Marcello Moscara. Le opere sono installate in diverse aree della Distilleria, proponendo un percorso di scoperta e conoscenza degli spazi di questo straordinario luogo di archeologia industriale e dei linguaggi adottati dai quattro protagonisti della mostra. Lo spazio della Distilleria, pertanto, sarà al centro di una riflessione dialettica: gli artisti sono stati infatti invitati a relazionarsi con la sua storia e i materiali ivi conservati.
Info iononlhointerrotta.com – 3394313397
  Io non l’ho interrotta, al via la rassegna di comunicazione politica I giornalisti Marco Damilano, Alessandra Sardoni, Udo Gümpel, Liliana Faccioli Pintozzi, Francesco Costa, Marianna Aprile, Wanda Marra, Antonio Sofi, Eric Jozsef, il presidente dell'associazione nazionale magistrati Eugenio Albamonte, la responsabile twitter dell'Accademia della Crusca Vera Gheno, il docente di comunicazione politica Edoardo Novelli, il comunicatore Dino Amenduni, il consulenteGiuseppe di Caterino, lo scrittore e autore di Lercio Adelmo Monachese, il professore Luca Bandirali, la voce di Radio Capital e autore televisivo Luca Bottura, il diplomatico italiano Alessio Liquori sono gli ospiti della terza edizione di “Io non l’ho interrotta”.
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cristinacori · 7 years
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Donne russe, tra femminismo bolscevico e romanticismo
Accanto all’homo sovieticus il comunismo creò la mulier sovietica. Negli anni Venti i bolscevichi diedero inizio a una massiccia campagna di trasformazione del ruolo della donna all’interno della società russa. Lo stesso Lenin trattò spesso le questioni di genere, lamentando nei suoi discorsi, la mentalità tradizionalista che guardava alla donna come niente di più che una “schiava domestica”. La colpa, secondo il padre della rivoluzione, era da ricondursi principalmente ai due principali nemici del socialismo: religione e capitalismo. “Il capitalismo è la principale fonte di schiavismo per le donne […] I matrimoni religiosi sono ancora predominanti nelle campagne. Questo è dovuto all’influenza dei preti, un male che è più duro da combattere della vecchia legislazione” scriveva nei suoi pamphlet. Lenin lavorò per una totale e, per gli standard dell’epoca impensabile, parità dei sessi. “Una delle cose più difficili in ogni paese è sempre stato spingere le donne verso l’azione. Non può esserci alcuna rivoluzione socialista senza che le donne lavoratrici ne facciano parte. Solo il socialismo può salvarle da questo status di ‘schiave domestiche’”. Non più massaia dunque, la donna diventava proletarka attiva in politica. A questo fine la società viene ripensata per eliminare il carico lavorativo delle faccende domestiche. Non si mangia più in casa che, oltre ad essere una caratteristica individualistica, “è uno spreco di tempo ed energie” tuonava con sdegno Aleksandra Kollontaj, esponente del femminismo bolscevico e stretta collaboratrice di Lenin. “Stiamo organizzando cucine comuni e mense, lavanderie, calzolerie, asili, case per bambini e istituzioni di vario tipo. In breve, siamo seriamente intenzionati a portare avanti i requisiti del nostro programma per spostare le mansioni domestiche ed educative dal contesto familiare a quello sociale. La donna è affrancata dalla sua vecchia schiavitù domestica e dalla dipendenza dal marito. Essa sarà in grado di mettere le sue capacità e inclinazioni al servizio della società”. Il sistema, più efficiente a livello sociale nonché in linea con i principi socialisti, funzionò.
Per i bolscevichi le donne rappresentarono un’opportunità da non lasciarsi sfuggire: renderle emancipate significava non solo riscattare una grande parte oppressa della popolazione, ma anche utilizzare quell’enorme potenziale di forza lavoro di cui il paese aveva tanto bisogno per il progresso tecnologico ed economico. Il lavoro in fabbrica rappresentò per le donne russe una via d’uscita, la liberazione da quella cultura tradizionalista che le voleva tagliate fuori dalla vita lavorativa e sociale, relegate al fornello e alla cura dei pargoli.
I bolscevichi istituirono un vero e proprio dipartimento delle donne, lo Zhenotdel. La corrente femminile all’interno del partito si inscrive in un più ampio e complesso concetto di femminismo. Se in Occidente le donne combattevano per il diritto di voto, la libertà sessuale e il divorzio, in Russia, figure come Clara Zetkin avevano dichiarato guerra al capitalismo, considerato la radice di tutti male e quindi anche della cultura patriarcale. La Zetkin, nata in Germania, ma morta in esilio in Unione Sovietica non lontano da Mosca, fu una delle più agguerrite condottiere comuniste per l’autodeterminazione delle donne. Per le femministe bolsceviche la questione femminile era legata a doppio filo con la lotta di classe. La rivendicazione del diritto di voto slegato alle questioni del proletariato era considerato dalla Zetkin una limitante aspirazione piccolo-borghese e lamentava l’eccessiva attenzione che le nuove generazioni davano alle questioni sessuali. Era in tutto e per tutto d’accordo con Lenin quando diceva: “Questa cosiddetta ‘nuova vita sessuale’ mi pare un’estensione puramente borghese del buon vecchio bordello”.
Che piaccia o meno, fu grazie ai bolscevichi che la Russia divenne uno dei primi paesi a garantire un’effettiva parità dei sessi nella società e nel lavoro. “Abbiamo la più evoluta legislazione di lavoro femminile al mondo” era solito sostenere Lenin; ed aveva ragione. Questo succedeva negli anni Venti in Russia, mentre nel non lontano 1973, in Italia Elena Gianini Belotti denunciava nel suo libro “Dalla parte delle bambine” i retaggi di una società patriarcale inconsapevolmente adottata negli asili italiani. D’altra parte anche in Cina la figura della donna beneficiò della spinta egalitaria dei principi socialisti. L’avvento del comunismo infatti riuscì a sradicare quei costumi che per i comunisti cinesi erano l’eredità di una società spregiativamente considerata medievale. Lo stesso fu per i paesi del blocco socialista nell’Europa dell’est. Un amico italiano una volta mi confidò che durante il suo primo viaggio nella Romania di Ceaucecu rimase sorpreso nel vedere che le donne lavoravano come conducenti di tram e filobus. In Italia all’epoca quello era un mestiere prettamente maschile.
Non c’è bisogno di attendere l’avvento del comunismo per notare figure femminili di rilievo in Russia. In piena epoca zarista le mogli dei decabristi, gli ufficiali rivoltosi dell’esercito di Nicola I, scrissero una bellissima pagina di storia. Nel dicembre 1825 questi uomini, affascinati dagli ideali di uguaglianza della Rivoluzione Francese, tentarono una rivolta contro lo zar per abolire la servitù della gleba e istituire una monarchia costituzionale. Il tentativo non andò a buon fine: le truppe leali allo zar soffocarono la ribellione e Nicola I ordinò di far giustiziare cinque dei responsabili e di esiliare nella remota Siberia i restanti 120 che, una volta processati, furono spediti ai lavori forzati. Le mogli dei decabristi (parola che viene dal russo dekabr “dicembre”, mese in cui gli ufficiali si ribellarono) si distinsero per il coraggio e la tenacia. Lo zar intimò di abbandonare i mariti alla loro sorte, pena la perdita di tutti i beni e privilegi di cui godevano e l’interdizione di tornare nella Russia Europea. Queste donne però, sfidando le minacce di Nicola I, partirono in diligenza (la ferrovia Transiberiana non era ancora stata costruita) alla volta della Siberia per raggiungere i propri uomini. Il loro arrivo nelle lontane lande siberiane portò una ventata di civiltà, una mentalità più aperta e costumi europei in quella che era poco più che la terra di nessuno dimenticata dal mondo e abitata da rudi pionieri. Grazie alla loro presenza, le mogli dei decabristi convinsero le guardie a mitigare le condizioni di vita dei prigionieri e fornirono cibo ai propri mariti cui era destinata solo una misera razione giornaliera. Aprirono attività artigianali e commerciali nei villaggi e alfabetizzarono la gente del posto. A loro va il merito di aver contribuito a rendere quei miseri villaggi fangosi dei posti abitabili.
Chita e Irkutsk, nella Siberia orientale, sono considerate le città dei decabristi. È qui infatti che furono deportati ed è qui che decisero di rimanere a vivere anche dopo che Alessandro II concesse loro il condono della pena. È proprio l’affascinante storia di questi sfortunati eroi e delle loro fedeli consorti che mi spinge fin qui, a Chita. Stavolta me la cavo con poco: solo 10 ore di treno. L’albergo che trovo è a pochi passi dalla stazione ferroviaria. La receptionist è un donnone con i capelli biondissimi e cotonati che mi parla in russo dall’inizio alla fine, sicura che io capisca ogni sua parola. Mi mostra la stanza, enorme, dopodiché mi porge le chiavi e se ne ritorna all’accoglienza a leggere la rivista da cui l’ho distolta. Sebbene sia piena estate, io sono l’unica cliente dell’hotel, che è arredato stile anni Settanta con il pavimento in linoleum ricoperto da pesanti tappeti armeni e una ruvida carta da parati, ingiallita dal passare degli anni. I bagni sono rattoppati con maioliche di colore diverso e il sapone profuma di pesca. Mi piace questo hotel, ha un’aria retro da albergo sovietico decadente. Chita è una città tranquilla, ingentilita da vecchi palazzi colorati lungo Ulitsa Lenina coperti da argentee guglie. In piazza, sotto lo sguardo attento della statua rosa di Lenin posizionata di fronte alla fontana, i teenager giocano a schizzarsi d’acqua per alleviare il caldo estivo, mentre le dorate cupole a cipolla della cattedrale riflettono il sole siberiano.
In questa città si trova il museo più esaustivo dedicato ai decabristi. Decido di andare a vederlo. Attraverso la desolata Via dei Decabristi, con le sue case costruite con tonde travi di legno e decorate con vivaci finestre smerlettate, ma finisco per perdermi in un dedalo di condomini brezvniani, quei tristi blocchi di cemento scrostato dove le famiglie ancora vivono. Sto quasi per rinunciare quando, nascosta dietro frondosi alberi, scorgo una graziosa chiesetta in legno dal tetto verderame. È la chiesa di San Michele che ospita il museo che stavo cercando. Entro nella buia biglietteria e la custode, una grossa signora sulla sessantina dai capelli canuti, alza lo sguardo dal libro che sta leggendo, mi saluta, “Zdrasvuitye” e accende le luci. Mi sento come se stesse aprendo il museo per me e, in un certo senso, è così. Sono l’unica visitatrice e l’ampia sala della chiesa viene tenuta nella penombra e illuminata solo in occasione di qualche, suppongo raro, ospite. La signora è molto ben disposta e attacca a parlare russo. Le spiego che sono italianka (italiana) e non capisco quello che dice, ma lei non si scoraggia. “Ah, italianka”, commenta e mi sorride mostrando lucidi denti d’oro. Mi fa strada nel museo spiegandomi i decabristi in russo. E siccome sono italianka, la signora deduce che io parli francese e prende a mostrarmi tutto ciò che di scritto in francese c’è, continuando a raccontarmi delle dure condizioni di vita degli esiliati.
La Seconda Guerra Mondiale fu per le donne russe, come per quelle dell’Europa occidentale, un ulteriore balzo in avanti: con gli uomini impegnati al fronte, le donne hanno dovuto diventare ancora più indipendenti. “Più che indipendenti, le russe sono aggressive e piene di sé – mi dice Eric, un ragazzo brasiliano che abita da due anni in Russia, mentre ci prendiamo uno snack in uno degli Ziferblat, quelle sale da tè in cui può leggere, giocare, socializzare pagando non la consumazione, ma il tempo trascorso – Tendono ad ostentare una sicurezza di se stesse e un look così appariscente che a volte spiazza gli uomini”. Molte ragazze da queste parti infatti non escono di casa se non perfettamente abbigliate e truccate. “Indossano tacchi alti anche solo per andare a fare la spesa” mi fa notare Eric il quale sostiene che tale tendenza sia dettata da una sindrome da “acchiappa-uomini”: l’impazienza di trovare marito. Nel mio viaggio scoprirò che quella di Eric non è un’opinione isolata, ma l’idea che gran parte degli uomini occidentali si è fatto riguardo le donne russe.
Dopo tanto femminismo, anche in Russia c’è dunque un ritorno al romanticismo da “principe azzurro”. “Non vogliamo essere forti. Ciò che desideriamo è avere un uomo che si prenda cura di noi e che ci faccia sentire protette – mi risponde Aleksandra, una ragazza moscovita con la quale faccio conoscenza, quando le dico che secondo me la storia del loro paese ha contribuito a renderle forti – apprezziamo molto le accortezze dei gentleman”. In effetti in Russia gli uomini sono spesso galanti con le donne, mostrando una sensibilità d’altri tempi ormai persa in Occidente. Cedere il posto sull’autobus, aiutare le passanti con i bagagli alle stazioni, dare la precedenza, aprire la portiera dell’automobile in segno di cortesia sono tutte galanterie ancora in uso da queste parti.
Secondo alcune giovani donne con cui ho parlato però, tanto romanticismo spesso si scontra con la realtà: sembrerebbe che gli uomini russi tendano ad essere assenti in famiglia. Questo fa sì che le nuove generazioni crescano spesso senza la figura maschile. “Chi dà allora l’esempio? Chi insegna ai bambini come si diventa uomini?” lamenta la mia amica Maria. Nella Russia tradizionale del XIII secolo i rapporti tra i prìncipi venivano conclusi oralmente, senza il bisogno di redigere alcun contratto. Bastava la parola data per definire quello che alcuni hanno chiamato “il potere della steppa”. In Europa invece, il ricco corpus di codici e leggi scritte ereditato dagli antichi romani definì la cultura dei contratti scritti da siglare con firme. “Verba volant, scripta manet” disse Caio Tito per sottolineare che solo i documenti redatti potevano essere garanzia di fiducia reciproca. Sebbene dall’avvento dei Soviet le cose in Russia siano cambiate, per gli uomini il potere della parola data è rimasto fortemente radicato nella mentalità. Ora però sembra che questa cultura vada lentamente perdendosi.
Russia coast to coast. Dal Baltico al Pacifico: la Russia vista dal treno (parte 8) Donne russe, tra femminismo bolscevico e romanticismo Accanto all'homo sovieticus il comunismo creò la mulier sovietica. Negli anni Venti i bolscevichi diedero inizio a una massiccia campagna di trasformazione del ruolo della donna all'interno della società russa.
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iltrombadore · 4 years
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Giornalismo, politica e cultura: il nobile esempio di Bruno Schacherl
Mi è giunta oggi dopo tanto tempo una copia di "Come se", la succinta e preziosa memoria autobiografica di Bruno Schacherl (Fiume, 1920-Firenze, 2015), un nome che non dice quasi nulla ai più, ma moltissimo invece a chi come me ha conosciuto l'uomo, e ci ha lavorato assieme nella rivista 'Rinascita' dal 1982 al 1987 quando Bruno, ormai pensionato, se ne andò di nuovo a 'svernare a l'Unità' (parole sue) dove aveva invece lavorato a cavallo tra gli anni '50 e '60 distinguendosi come raffinato critico teatrale.
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 Un maestro di giornalismo e vita morale, fu Bruno Schacherl: un sapiente intellettuale dedito alla missione di raccordo tra alta cultura e coscienza popolare, un uomo tagliato per quella pedagogia di cui Gramsci aveva lasciato un criterio morale nei suoi famosi Quaderni del carcere. Bruno era una persona discreta e rispettosa degli altri, e non amava parlare tanto di sé o del suo passato che pure faceva tutt'uno con la sua personalità di eccezione. Nato a Fiume da una famiglia ebraica di origine boema, respirò fin dal principio un' aria europea e cosmopolita. Quando Fiume divenne italiana, Schacherl risultava ancora cittadino cecoslovacco e per lungo tempo visse la sua condizione di apolide con forte sentimento di italianità che lo portò attorno ai vent'anni su posizioni antifasciste. Giunse a Firenze dove si laureò in letteratura italiana con Giuseppe De Robertis nel 1941 con una tesi su Saba Ungaretti e Montale. Frequentò il mondo culturale del Caffè Le Giubbe Rosse e, tramite il cugino Lucio Lombardo Radice, entrò a far parte della rete clandestina del PCI diretta da Bruno Sanguinetti e con i nuclei operai di Rifredi e Sesto Fiorentino.Era l'estate '42. Nell' università Schacherl riuscì a reclutare giovani e intellettuali, fra cui Romano Bilenchi, che poi diventerà l'amico della vita, e dopo l' 8 Settembre del 1943 fu parte attiva della resistenza fiorentina.
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Dopo la Liberazione, si dette al giornalismo militante prima a l'Unità, poi alternò la professione con l'attivismo politico nella sezione centrale di propaganda del PCI. Lavorò come funzionario di partito in Sicilia, poi tornò a l'Unità e collaborò a fondare il Nuovo Corriere, quotidiano diretto da Romano Bilenchi, e poi ancora alla rivista marxista "Il Contemporaneo", diretta da Bilenchi e Antonello Trombadori. Tra il 1956 e il 1967 fu redattore capo a l'Unità, alternando il lavoro con una assidua attività di traduttore dal francese (Stendhal, Flaubert, Proust) e di acuto critico teatrale attento e sensibile alle proposte di rinnovamento estetico di quegli anni.
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Finalmente, da promotore di cultura, approdò alla redazione di Rinascita dove rimase per gli ultimi venti anni delle sua attività in funzione direttiva, continuando a scrivere di teatro e di letteratura francese. Era un uomo aperto, disponibile, che non esibiva mai l'accento superiore della sua vasta cultura. Esponeva i suoi dubbi, le sue incertezze e le sue passioni come se fosse un semplice militante del partito politico -il PCI- cui aveva dedicato la sua vocazione pedagogica. Ho scritto non a caso 'come se', riecheggiando il titolo della autobiografia che scrisse nel 2002 e che in modo esemplare rappresenta il tratto saliente di una personalità che preferiva non prendersi mai sul serio nel ruolo che intellettualmente gli spettava.Ecco, Bruno Schacherl parlava, insegnava, discuteva, scriveva e viveva la sua vita con semplicità e modestia esemplare: 'come se' non fosse quel'autorevole pedagogo della politica e della cultura che invece è stato, lasciando una traccia profonda in chi lo ha conosciuto e gli è stato compagno da vicino.
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pangeanews · 4 years
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“Chi vuole sovvertire ciò che rimane dei valori tradizionali sono le entità sovranazionali, i moderni imperi come l’Unione Europea”. Ma… esiste una cultura di destra? Dialogo con Francesco Giubilei
Si può sostenere, con una certa plausibilità, l’esistenza di un’egemonia culturale del mondo progressista a discapito del pensiero conservatore? La convinzione che i maggiori scrittori italiani siano, o siano stati, tutti di sinistra, non è una boutade ma una convinzione talmente diffusa che Giovanni Raboni la definì “una sorta di luogo comune”. Di questo, e tanto altro, ho discusso con Francesco Giubilei, editore e scrittore, ritenuto dalla rivista Forbes tra i giovani under 30 più influenti d’Italia.
Quando sento qualcuno lamentarsi della perdurante assenza di una letteratura di destra, penso a quanta ignoranza c’è oggi, chissà se ingenua o malevola, da parte di chi nega visibilità e attenzione ad autori di grande valore quali Mishima, Céline, Pound, d’Annunzio, Gentile, i molto trascurati Leo Longanesi e Giuseppe Prezzolini, l’editore Giovanni Volpe, i contemporanei Marcello Veneziani, Alain de Benoist, e te. È un lungo elenco, e chissà quanti geni non organici del secolo scorso abbiamo perso l’occasione di conoscere.  
Nel corso del Novecento in Italia c’è stata un’intensa attività culturale ascrivibile a un’area che potremmo definire di destra. Sebbene con questa parola si possono identificare idee e correnti tra loro divergenti in numerosi ambiti (politica estera ed economia su tutti) e la visione del mondo di un intellettuale liberale classico (ma non liberal, categoria che non appartiene alla destra) è diversa da chi si definisce di destra sociale, vi sono ancora oggi alcuni punti di contatto tra le diverse anime della destra. Nella società contemporanea il contrasto al politicamente corretto è uno dei principali esempi di collaborazione, esso infatti rappresenta l’evoluzione e l’attualizzazione dell’egemonia culturale teorizzata da Gramsci nei suoi Quaderni. Così, come in passato chi non era di sinistra aveva prelusi spazi e opportunità, lo stesso oggi avviene se si esprimono idee contrarie alla vulgata del politicamente corretto. Il “cordone sanitario” che venne invocato dal professor Pedullà nei confronti delle persone di destra, oggi assume nuove forme e modalità ma continua ad esistere. Eppure, alcune delle principali voci della cultura italiana sono ascrivibili al mondo della destra a partire dalla letteratura con un romanzo conservatore come Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa ad autori del calibro di Ennio Flaiano, Giovanni Ansaldo, Landolfi, Sgorlon, Piovene, Berto, Pirandello. Lo stesso dicasi per il giornalismo in cui, oltre al grande Montanelli, ci sono state figure come Piero Buscaroli, Gianna Preda, Nino Nutrizio. Non si può dimenticare il contributo alla filosofia italiana di Augusto del Noce o di Ugo Spirito, o l’attività editoriale di Giovanni Volpe, figlio di Gioacchino, di Alfredo Cattabiani, direttore editoriale di Rusconi, e dell’immortale Leo Longanesi. Percorsi che ho cercato di sintetizzare nel libro Storia della cultura di destra e la cui eredità oggi è portata avanti da associazioni, movimenti culturali, battagliere case editrici indipendenti e riviste che promuovono un’intesa attività per cercare di diffondere idee e valori che altrimenti farebbero fatica a trovare spazio. Un operato imprescindibile che deve andare di pari passo con la consapevolezza che è necessaria una destra in grado di aprirsi al dialogo e alla discussione con mondi che ancora oggi vengono osservati con scetticismo (penso al mondo delle imprese, ai ceti produttivi, a certi ambienti nelle relazioni internazionali) ma senza abdicare ai propri valori.
Un intellettuale, in quanto essere pensante, non può ritenersi super partes, e se lo dice sta mentendo. Anch’io, che mi vanto di fare letteratura d’intrattenimento, come uomo ho passioni e pulsioni politiche che inevitabilmente riverso nel mondo circostante attraverso il mio modo di agire, di rapportarmi agli altri, e questo mi caratterizza in un modo forte e preciso che trascende la scrittura. I presunti scrittori ‘equidistanti’ sono degli ipocriti.
Quanto la vita di uno scrittore influenzi la propria opera letteraria non solo in merito alle idee politiche o ideologiche ma anche per gli stili di vita, i luoghi e le persone frequentate, è un tema a lungo dibattuto nella teoria della letteratura. Consiglio la lettura del libro Rituali quotidiani di Mason Currey in cui sono descritte le abitudini, le usanze, i pensieri dei grandi della letteratura, della scienza, della musica e del cinema. È un modo per avvicinarsi alla vita degli artisti e comprendere in modo più completo le loro opere. Ho sempre considerato le biografie un grande genere letterario, nel mondo conservatore ci sono fulgidi esempi, penso al testo su Machiavelli di Giuseppe Prezzolini, alla biografia di Longanesi scritta da Montanelli e Staglieno ma anche alla monumentale biografia di Ernst Jünger di Heimo Schwilk. Un genere ancor più affascinante sono le autobiografie, ho da poco terminato la lettura delle Confessioni di un borghese di Sándor Márai, il principale narratore ungherese in cui descrive il tramonto della Mitteleuropa, uno dei periodi culturalmente più floridi della storia europea. Un’opera scritta poco più che trentenne così come Un uomo finito, l’autobiografia del giovane Papini. D’altro canto il genio non ha età. Le riflessioni degli autori possono lasciarci opere filosofiche profonde come le Confessioni di un impolitico di Thomas Mann. Che dire poi dell’influenza che hanno i luoghi nella vita di uno scrittore? Di recente Neri Pozza, casa editrice che sta svolgendo un raffinato lavoro di pubblicazione di autori ascrivibili a un’area culturale conservatrice (da leggere Vita da editore di Neri Pozza), ha dato alle stampe I luoghi del pensiero. Dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo di Paolo Pagani in cui si raccontano i luoghi dove si sono formati alcuni dei più importanti pensatori al mondo. Tra questi figurano le case degli scrittori che mi hanno sempre affascinato; il Vittoriale di D’Annunzio è senza dubbio l’esempio più noto ma gli esempi sono numerosi. Nella narrativa dannunziana ma anche nel decadentismo di Huysmans, l’estetica è un tema centrale così come la bellezza che caratterizza il pensiero conservatore come ci ricorda Roger Scruton nel suo libro Beauty. La casa museo di Mario Praz a Roma in tal senso è straordinaria. L’autore de La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica ha dedicato un volume alla propria casa pubblicato da Adelphi e intitolato La casa della vita, un testo straordinario da cui emerge il rapporto tra l’arredamento di un raffinato antiquario come Praz e la sua produzione letteraria (da leggere il libro in sua memoria edito da Italo Svevo). Un altro straordinario genere mai troppo considerato sono i diari degli autori (da poco ho acquistato il Diario in tre volumi di Prezzolini edito da Rizzoli), anche in questo caso Papini è un esempio con il suo Diario ma si potrebbero raccontare centinaia di autori che si sono cimentati nella scrittura di diari poi pubblicati postumi. Che dire poi dei carteggi? La teoria della letteratura non sembra aver preso troppo sul serio la scomparsa dei carteggi a causa delle email e delle nuove tecnologie, nel giro di pochi anni è venuto meno un genere letterario fondamentale per ricostruire la vita di un autore, come faranno in futuro i biografi?
Diego Fusaro ritiene che la dicotomia tra destra e sinistra sia obsoleta ma al tempo stesso non si possano cancellare dal dibattito politico quelle idee e quei valori che hanno caratterizzato le due ideologie. Tanto è vero che, nel presentare Vox, il suo nuovo partito sovranista, ha dichiarato di volere trovare una sintesi tra “valori di destra e idee di sinistra”. Una brillante intuizione o solo la speranza, un po’ cattocomunista, di passeggiare a braccetto con Peppone e Don Camillo?
Leggo con interesse le idee di Diego Fusaro con cui intrattengo un ottimo rapporto di discussione intellettuale esplicitato in tante conferenze a cui abbiamo partecipato insieme anche se spesso ho idee diverse dalle sue. Sebbene nell’attuale contesto politico parlare di sinistra e destra con le medesime definizioni del Novecento sia errato, vi sono alcuni elementi che continuano a rappresentare una differenza invalicabile tra le due visioni del mondo. L’errore che si compie quando oggi ci si approccia a queste categorie è fare un’analisi basata solo ed esclusivamente su valutazioni di carattere economico; se è indubbio che si sia creata una nuova divisione tra i critici della globalizzazione e i sostenitori di una società aperta basata su entità sovranazionali, è altrettanto vero che temi etici, visione della religione, concetto di nazione e di identità, rimangono ambiti che dividono in modo netto sinistra e destra. Se poi riteniamo di voler utilizzare termini differenti che possano essere più attuali al posto di destra e sinistra, poco cambia ma i valori che identificano queste due categorie politiche rimangono. C’è poi un ulteriore elemento che non deve trarre in inganno; mentre oggi la sinistra è in crisi, come spiega Luca Ricolfi nel libro Sinistra e popolo, la destra, anche da un punto di vista culturale, sta vivendo un momento particolarmente florido e sarebbe sbagliato negare o cancellare la propria storia in nome di un superamento delle categorie che si possono senza dubbio attualizzare ma senza dimenticare i valori alla base della destra che prescindono un singolo periodo storico.
Credi possa esserci spazio per un nuovo movimento letterario, magari costituito da scrittori che possano ascriversi al pensiero conservatore? E se pure questo spazio ci fosse, esiste la qualità? Credo che il problema principale delle correnti artistiche è, banalmente, l’inadeguatezza del prodotto. Tutti sono capaci di aprire una pagina internet, metterci un logo e lanciare proclami, ma poi, se non c’è la sostanza, la ‘ciccia’ letteraria, ecco che la montagna di buone intenzioni partorisce il topolino. Se ci pensi, l’ultimo movimento letterario capace di incidere nel contesto della sua epoca è stato il Gruppo 63. Era il tempo del primo album dei Beatles!
C’è spazio e necessità di una narrativa che sia in grado di affrontare i problemi della contemporaneità da una prospettiva conservatrice. Narratori che sappiano trattare con lucidità il tema dell’identità, della religione, della nazione non solo in una prospettiva denigratoria. Romanzieri che ambientino i propri romanzi nei borghi del centro Italia, nei piccoli paesi del sud, nelle campagne venete descrivendo ciò che rimane del piccolo mondo antico per parafrasare Fogazzaro. Una narrativa orgogliosamente italiana che sappia raccontare ciò che di positivo si è conservato della nostra tradizione, che vada oltre a scontati e melensi romanzi capaci solo di descrivere i nuovi quartieri multiculturali delle città italiane. Senza dubbio dovrebbe nascere un movimento letterario in grado di raccontarci l’Italia delle vecchie zie come ci direbbe Longanesi se fosse in vita. Ma si sente la mancanza anche della carica rivoluzionaria di un Berto Ricci o dell’esperienza fiumana con gli scritti di un Guido Keller o di un Mario Carli. Salvo rare eccezioni, che trovano voce nelle pagine culturali di alcuni quotidiani, anche la critica letteraria è in preda a un conformismo sconfortante e non è più in grado di proporre firme dello spessore di Ugo Ojetti o di Giovanni Piovene. Che dire poi di esperienze forse irripetibili come le riviste fiorentine dei primi anni del Novecento? Realtà come “La Voce” di Prezzolini, “Lacerba”, “Leonardo”, sono oggi un miraggio. Lo stesso, d’altro canto si potrebbe dire per l’arte, chi sono oggi i Sigfrido Bartolini o gli Ottone Rosai? Chi è in grado di incarnare la multidisciplinarietà di un Mino Maccari o di un Ardengo Soffici? Perché oggi in Italia non abbiamo un Houellebecq o uno Zemmour come in Francia? Eppure i narratori conservatori italiani nel Novecento hanno espresso un livello molto alto. Di recente il critico letterario Andrea di Consoli, che seguo con attenzione, ha pubblicato un elenco dei grandi scrittori italiani “storti, strambi, sulfurei, controvento, maledetti, del sottosuolo”: “Dino Campana, Emanuel Carnevali, Emilio Salgari, Marcello Barlocco, Massimo Ferretti, Giancarlo Fusco, Giuseppe Berto, Curzio Malaparte, Dante Virgili, Marcello Gallian, Dante Arfelli, Luigi Di Ruscio, Salvatore Toma…”. Gli ha fatto eco un altro raffinato critico come Gianfranco Franchi: “manca il portabandiera, Morselli, e manca l’aristocratico Landolfi; leverei Virgili (un bluff), aggiungerei l’esordio del bandito-scrittore Lo Presti”. Infine vorrei porre l’attenzione su un tema in cui ci sarebbe la necessità di un approccio da destra, ovvero la conservazione della natura e l’ambientalismo sottolineando la priorità di una battaglia per l’ambiente alternativa a quella proposta da Greta Thunberg e dall’ambientalismo ideologizzato dei Fridays for Future. Nei prossimi mesi ne scriverò ma c’è bisogno di un lavoro corale e organicizzato.
“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Questa famosa frase, da molti attribuita a Massimo D’Azeglio, è quanto mai attuale. Il patriottismo, sentimento di devozione e lealtà per la propria nazione, è visto da molti italiani come un valore di parte o addirittura un retaggio fascista. Gli italiani parlano con orgoglio della propria città, della propria regione, ma sono privi dello spirito unitario tipico di altre nazioni.
Il tema della nazione e dell’identità nazionale diventerà sempre più centrale nel dibattito pubblico nei prossimi anni. In un contesto globale che fino a pochi anni fa sembrava andare nella direzione di entità sovranazionali con un potere sempre più centralizzato nelle mani di poche entità politico-finanziarie, dopo la crisi del 2008 è avvenuto un processo di rallentamento di alcune dinamiche della globalizzazione che sembravano essere ineluttabili. Così stiamo assistendo a un ritorno del concetto di nazione pur nelle singole specificità e differenze che caratterizzano ogni contesto nazionale. Fino al 1789 sono stati i grandi imperi a salvaguardare i valori tradizionali cari al conservatorismo; da una visione gerarchica della società alla difesa dei confini, dalla centralità della religione a una forte identità come collante tra i popoli. Dall’Impero Romano fondato sul mos maiorum al Sacro Romano Impero, dall’Impero Romano d’Oriente con Costantinopoli centro della cristianità ortodossa, fino agli Imperi prussiano e austroungarico, passando per la Russia degli Zar. Dopo la Rivoluzione Francese questo schema viene del tutto sovvertito e i grandi imperi iniziano una lenta ma inesorabile crisi con tentativi di contrasto come la Restaurazione, il Congresso di Vienna del 1815 e l’operato di Metternich. Con la prima guerra mondiale si concretizza la morte degli imperi tradizionali la cui parabola è sintetizzata alla perfezione dall’impero austroungarico e dal finis Austriae. Tra le cause, l’incapacità di promuovere una visione confederata confacente i tempi e l’emergere dei nazionalismi. Oggi succede l’esatto contrario. Chi vuole sovvertire ciò che rimane dei valori tradizionali sono le entità sovranazionali, i moderni imperi come l’Unione Europea, e chi si oppone a ciò sono le nazioni che rappresentano l’ultimo baluardo a difesa dell’identità. Va detto che nell’epoca dei grandi imperi c’è stato un momento storico in cui erano emerse piccole nazioni ante litteram, si trattava delle signorie e i ducati italiani. Anche in questo caso l’Italia aveva anticipato ciò che sarebbe accaduto secoli dopo, esperienze come la Serenissima di Venezia e le signorie dell’Italia centrale erano l’esempio migliore e più virtuoso di splendore culturale pur nella debolezza militare di molti Ducati vista la piccola dimensione. Oggi perciò non si può che essere favorevoli alle nazioni senza però dimenticare il contributo dato alla nostra civiltà dei grandi imperi nei secoli scorsi. L’unica entità nella società contemporanea che mantiene il carattere degli imperi tradizionali è la Chiesa Cattolica con la sua visione universalista che affonda le proprie radici in una storia millenaria che le nazioni europee devono lottare per conservare. Mi affascina molto in questa periodo il mondo dei Balcani, l’est Europa e l’oriente cristiano erede di Bisanzio. La storia dell’Impero romano d’Oriente raccontata magistralmente dallo studioso russo-serbo Ostrogorsky nel libro Storia dell’impero bizantino, così come l’esperienza di Bisanzio sintetizzata da Warren Treadgold in Storia di Bisanzio o le opere di Giorgio Ravegnani che per Il Mulino ha studiato la civiltà bizantina in varie sfaccettature, dal rapporto con Venezia all’Occidente medievale, sono temi che andrebbero approfonditi per conoscere il cristianesimo ortodosso (imprescindibile la lettura di Ortodossia di Evdokimov) ma anche per sottolineare la vocazione dell’Italia in proiezione non solo occidentale ma anche mediterranea e orientale. L’influenza italiana nell’area dei Balcani, il ruolo che possiamo avere all’interno dell’Unione europea verso i paesi dell’est Europa, la possibilità di essere una cerniera tra Stati Uniti e Russia, oltre al ruolo preminente nel Mediterraneo, sono gli elementi su cui deve formarsi una seria politica estera italiana che deve andare di pari passo con la conservazione della nostra storia e cultura, vero collante per un patriottismo italiano. L’Italia nasce dalle antiche civiltà preromane, dagli umbri, dagli etruschi, dai piceni, dai sanniti, dalle colonie della Magna Grecia, accresce la propria forza durante l’Impero romano e consolida l’identità cristiana nel medioevo. Durante il Rinascimento e nell’epoca delle Signorie torna ad essere la culla della cultura mondiale, per poi assumere un ruolo artistico e scientifico nel periodo del Barocco. Nell’Ottocento vive l’epopea risorgimentale, la lotta per l’unità, la formazione di uno stato nazionale, la prima guerra mondiale con la vittoria mutilata e l’irredentismo mai sopito. Poi affronta gli anni del fascismo, i morti della seconda guerra mondiale, il boom economico fino ai problemi della nostra epoca in cui lo spirito nazionale sembra aver abdicato al globalismo. Ma non tutto è perduto.
Francesco Giubilei
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pangeanews · 4 years
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“La natura della politica è tragica. Per capire dove va il mondo bisogna conoscere i movimenti esoterici, la Teosofia, la Massoneria, la Kabbala. E leggere Henry Corbin”
La strategia è nell’aria stasera. Indulgo al piacere dei ricordi, ripesco vecchie lettere, email rimaste a svernare, rileggo e torno indietro a quando l’analista geopolitico Marco Giaconi Alonzi, che avete imparato a conoscere su questo sito, mi scriveva i suoi epigrammi fosforescenti sui più svariati argomenti attuali. Eccovi le sue considerazioni.
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Cosa è politica. La natura stessa della politica è tragica, perché è un artificio, necessario, ma comunque un artificio, e lo godo per me e anche per gli altri, ma so che è una costruzione intellettuale necessaria ma debole, artificiosa, instabile – ovvero è, per natura, il contrario di quel che dice di essere, e forse sarebbe bene riprendere quei bellissimi studi di Miglio, poco prima di morire, sull’antropologia culturale dell’agire politico, sul nesso biofisiologico e etologico tra comportamento umano e categorie del politico.
Marx. Non era così scemo come i suoi allievi. Alcune sue visioni, più che previsioni, sono oggi esatte. Il mercato globale, la finanziarizzazione del capitalismo, il passaggio alla rendita, etc. Il problema è che oggi le categorie vere sono sparite e quelle finte vanno per la maggiore. Pensi alla evaporazione dei concetti tradizionali con l’analisi del linguaggio, ai tempi della “filosofia analitica”, portata sulle punte delle baionette della Buffalo Division. I filosofi sembravano diventati dementi da ospedalizzare, tutti si interessavano di quanti modi si può usare la parola “quando” o si ridicolizzava l’idea che si potesse usare il termine “anima” o “pensiero”. Ancora oggi il neopositivismo è insegnato ad Harvard come una cosa sacra. Marx non serve più, ma certamente non è utilizzabile il paradigma delle vecchie culture. Ricardo… glielo devo dire? Mi sembra un bischero. Pensare che il prezzo del grano sia la base della teoria del salario. Casomai era meglio prendere il prezzo del gin, della birra, degli affitti o dei salsicciotti che i british subjects continuano a mangiare, in attesa del loro cancro d’ordinanza… L’economia classica è l’insieme della mentalità british, che pensa una cosa sola per volta e con fatica, e degli interessi degli investitori nel sistema di fabbrica. Meglio Aristotele.
Strategie cinesi. Ecco alcuni argomenti, ma bisogna sempre vedere come uno ragiona. Tenga conto che la sapienza è il lampo: “Chen” è il trigramma cinese e esoterico del Tuono. Crescita e Movimento. La forma vitale che risveglia. Il suo organo è il piede. Si deve vedere tutto subito. A Roma, un collega mi ha fatto una analisi in dieci righe della questione coreana: “la Cina lo tiene perché blocca gli Usa nel Pacifico. La Russia lo sostiene perché ritarda le operazioni Nato in Polonia e Cechia”. Ecco, in quattro secondi, l’occhio clinico. Bisogna aver mangiato tanta pappa, per arrivare al Tuono, che sembra ovvio per quelli che non hanno senno. Trakl, se lo rileggo, mi annoia. Roba da sciampiste, mediata dalla Kultura. Soffro, diomio, quanto soffro, ma io preferisco, da uomo di destra, i canti anarchici. Viva Giordano Bruno e Sante Caserio.
Cosa c’è in Medio Oriente. L’Afghanistan rimane la terra delle malefatte degli hashishin incontrati da messer Marco Polo, e questi “assassini” ritornano negli alawiti, riconosciuti in extremis da Musa al-Sadr come sciiti. Mentre nelle reti sciite si aggirano mistici sufi e probabilmente maroniti che ospitano culti cristiani monofisiti.
Società di consulenza. Io sono scettico verso queste cose, mi capita spesso di leggere i lavori di McKinsey e non mi trovo affatto contento. Facce ridenti anglosassoniche, ottimismo da PIL in crescita, Pangloss spiegato da Candide. Gli ottimisti mi fanno sempre girare le palle. Comunque, uno stipendio è uno stipendio è uno stipendio.
*
Ho sfregato la lampada del genio. Le risposte questa volta si sono fatte attendere ma sono esaustive. Buona lettura. (Andrea Bianchi)
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AB Professore, le propongo un’intervista sulla strategic culture italiana. Parleremo di Estremo Oriente, Medio Oriente, mondo anglosassone e paesiello europeo, infine di esoterismo politico. Procederemo così: prima le lancio una domanda frizzante, partendo dai suoi epigrammi. Dopodiché gliene faccio un’altra sullo stesso argomento, ma in modo serio. Incomincio chiedendole dettagli su come possiamo scandalizzare gli uomini dal pensiero omologato con l’aneddoto della bandiera tibetana. Bandiera che si trova su ogni palazzo alla Richard Gere, proTibet, quando è proprio un simbolo della divisione Waffen SS tibetana che si sacrificò ritualmente a Berlino prima dell’arrivo dei sovietici.
MGA A Berlino c’erano circa 1000 tibetani, inseriti nella Divisione SS “Wiking”, che si sacrificarono ritualmente alla notizia che Hitler era stato, probabilmente, ucciso dai sovietici. I nazisti inviarono, è bene ricordarlo, ben cinque spedizioni in Tibet. L’dea della Ahnenerbe delle SS, la società che si occupava di etnologia, storia, simbolismo interna alle SS, le Schűtz Staffeln, era che gli Arii provenissero, all’origine, proprio dall’Himalaya. Centro della Terra (Agarthi, lo vedremo), Vetta della Terra, l’Himalaya, Centro del Mondo (lo Hearthland). Tout se tient, nel mito ario, di origine martinista e poi teosofica, dell’esoterismo nazista. Si ricordi, qui, che anche D’Annunzio era martinista, come gran parte dell’élite culturale europea (Baudelaire, per esempio). La Massoneria “rivoluzionaria” del Trinomio del 1789, come la conosciamo, era una sorta di copertura materialista e quasi profana della Teosofia, di cui erano praticanti, per esempio, i membri della famiglia reale britannica. O i membri della Golden Dawn, fondata da un vero satanista, Alesteir Crowley, a cui partecipò la moglie di Oscar Wilde. Senza queste dottrine non si capisce niente di Pessoa, appassionato cultore di “scienza sacra”. Un aneddoto: quando, molti anni, fa, chiesi all’amico Antonio Tabucchi se ci fossero cose massoniche nei tanti documenti di Pessoa ancora ignoti, lui mi rispose: “Ah! La Massoneria, la P2, Gelli”. Ecco la cultura politica dei nostri più famosi letterati. È noto che quelli della Golden Dawn, presenti a Cefalù per i loro riti di magia sessuale, furono buttati fuori da Mussolini, che odiava tutto quel che sa di esoterico. Certo, Crowley, ogni tanto, faceva anche qualche lavoretto per l’Intelligence Service.  Inoltre, gli studiosi della Ahnenerbe volevano scoprire il regno sotterraneo di Agharti. La terra cava, che ospita il regno sotterraneo, è un tema fisso della tradizione alchemica e esoterica europea, dai Martinisti fino alla “Società Thule” che sarà all’origine del Partito Nazional-socialista. Prima, la Thule Gesellschaft aveva finanziato largamente anche i Freikorps, avendo come ispiratore Dietrich Eckart, un “mago nero” che dirigeva una rivista fortemente antisemita intitotata “Auf Gut Deutsch”. Se volete l’antisemitismo moderno, non cercatelo nel positivismo da quattro soldi delle misurazioni craniali, ma nella magia nera otto e novecentesca. All’inizio della Glasn’ost, aprì a Mosca la sede della Teosophical Society, che aveva la sua altra sede solo a New York. Solo un caso? Non credo. Nulla è mai un caso, nemmeno il caso. C’è quindi un legame profondo tra magia nera e antisemitismo. La Kabbala ebraica è una tecnica per comprendere la parola di Dio, e per portare l’uomo alla conoscenza di una Realtà Superiore, mentre la magia nera è la tecnica per il potenziamento delle facoltà umane, senza collegarle ad un progetto non-umano a cui l’Uomo può però partecipare. È qui che avviene l’accordo con il maligno. La magia nera è allora una prassi filosofica utile per esaltare gli istinti pre-razionali e la parte materica dell’Io, che assorbe, infine, tutto lo spazio del Super-Io. Freud queste cose le sapeva benissimo, basta vedere i testi che aveva e le statuette che, forse, utilizzava magicamente, nel suo studio di Berggasse 19. La gestione di Casa Freud ha, nel sito dedicato, guarda caso, l’immagine della Loggia Madre di Vienna. Freud era membro del B’nai B’rith, struttura paramassonica per Ebrei, ma fondata da un cristiano. Tutte le ideologie del Moderno, a cominciare da quelle della Rivoluzione Francese, nascono, allora, da una tradizione esoterica, massonica o meno. Come ci ha insegnato Giorgio Galli, non vi è politica alcuna senza tradizione sapienziale, debitamente nascosta da una velatura di “modernità”, laicismo, magari anche materialismo. Si pensi alle teorie sapienziali che vennero utilizzate per la “conquista dello spazio” da parte dei sovietici e all’occultista Barcenko che è all’origine della cultura, anche professionale, della polizia segreta sovietica, senza nemmeno mettere nel conto Il Maestro e Margherita di Bulgakov. Mark Clark, il generale Usa comandante della V Armata che risaliva dalla Sicilia a Roma, da prendere assolutamente prima dello sbarco in Normandia e evitando gli inglesi, appena arrivato nella Penisola ricostruì il Grande Oriente, che era stato fatto chiudere da Mussolini. La Seconda Guerra Mondiale è anche la storia di una Massoneria “regolare”, illuminista, laicista e culturalmente “profana”, contro le Fratellanze eterodosse che nascono dopo la abolizione degli Illuminati di Baviera. E che operano da sempre tra Gran Bretagna, Germania e Francia.
AB Chiaro. Risalendo nel tempo, veniamo ad anni più recenti. Nelle sue pubblicazioni dei primi del Duemila lei ha posto l’accento su Karl Haushofer e sul suo libro giapponese, Dai Nihon. Testo elaborato da un geopolitico nazionale-socialista in Giappone. Ci spiega cosa è vivo e cosa è morto di quel testo fondativo? Va rispolverato? Bisogna farlo risorgere per decifrare la Cina e non più soltanto il Giappone?
MGA Dai Nihon, “il Grande Giappone”, è lo studio che Haushofer dedicò al Giappone dell’era Meji, quella della “grande modernizzazione” forzata. E qui c’è una similitudine non con la Cina comunista in genere, ma proprio con le “Quattro Modernizzazioni” di Deng Xiaoping. Che iniziano con la riforma agraria, il punto in cui sono caduti tutti i comunismi, e finisce con la modernizzazione delle Forze Armate. Chiaro, no? Certo, Haushofer studia, nel suo testo nipponico, i fattori della potenza di una nazione, cosa che oggi farebbe sorridere. Ma che non è affatto sbagliata, in linea di massima. La chiave della Potenza è la forza intima di una élite, che domina tutti i fattori della Potenza, appunto. Soprattutto quelli invisibili. Altro che PIL! Qui occorrono tecnici che leggano la trina del futuro. Ma la geopolitica della potenza (mi viene qui in mente Lo Yoga della Potenza di Julius Evola) è politicamente scorrettissima, anche se tutti i vincitori antichi e attuali la praticano. La mette in azione la Cina, che si prende le isole Senkaku-Diaoyu in lotta sorda contro il Giappone, l’Iran che sobilla gli sciiti in tutto il Medio Oriente per destabilizzare tutti i Paesi sunniti, come in Yemen, ma anche la Federazione Russa, che si sta prendendo tutto il Grande Medio Oriente, mentre gli americani cercano i fiorellini della Pace Perpetua. La Pace Eterna esiste solo al cimitero, e di solito quelli che credono negli Alti Ideali ci finiscono prima degli altri. Ecco, la Geopolitica della Potenza, come il suo Yoga, è tecnica del Vincitore, mentre il Perdente si fa sempre intortare dal “Teatro delle Ombre” (era questo il termine sovietico per la guerra psicologica) che lo porta inevitabilmente alla fine. La sua. La Potenza necessita, per svilupparsi, di una quota di classe dirigente non elettiva, quindi, che risponde solo a sé stessa o, meglio, ai suoi ideali. La Sapienza è sempre, all’inizio, lo sguardo freddo e impassibile sulla “realtà effettuale della cosa”, come la chiamava un frequentatore del circolo neoplatonico fiorentino degli Oricellari, Niccolò Machiavelli.
AB Rimaniamo allora sull’attualità, sull’Oriente. Mi diceva che non abbiamo buoni romanzieri occidentali che abbiano decifrato la natura vera dell’Oriente: senza dire poi della recente adelphina di Ventura su L’esoterismo islamico, un dettato scolaresco. Certo resta Chatwin che però va letto in lingua. Ma che romanzieri italiani sono mai esistiti che avessero un’apertura mentale del calibro anglosassone? Conto Soldati per l’orientamento americano, ma non basta perché lei mi diceva che Soldati capiva di esoterismo come di vino: niente. Con le sue parole: “Era un uomo bravo, e perfino onesto, almeno quanto possa essere onesto uno scrittore, che si era creato, grazie anche alla sua simpatia umana, alcune maschere: l’intenditore di vino, lo storico delle tradizioni popolari, lo scrittore ottocentesco. Nessuna era vera, ma era, le dicevamo, simpaticissimo”. Vede qualche uscita dal labirinto o la letteratura rischia di rimanere autoreferenziale e self-accomplished?
MGA Non vedo niente di profondo, per l’Oriente, scritto da italiani. L’ISMEO, Istituto di Studi per il Medio e Estremo Oriente, fondato da Giuseppe Tucci, maestro di Maraini, il Tucci che era “l’esploratore del Duce”, è ormai allo stremo. Certo, ci sono i testi, meravigliosi, di Fosco Maraini, tra Ore Giapponesi e Il Segreto Tibet, che ebbe l’onore di una presentazione, nel 1951, di Bernard Berenson. Esoterico è poi il testo di Maraini sul rito di iniziazione dell’imperatore del Giappone, L’Agape Celeste, un vecchio libro che ho nell’edizione di Scheiwiller. Maraini sapeva leggere i segnali profondi della realtà, le costanti invisibili, perché non sensibili, non certo irrazionali, della Realtà. Quando gli ufficiali giapponesi vanno, in segreto, a comprare la bandiera con i raggi rossi, quella che divenne vessillo nazionale nella Restaurazione Meji, proibita da MacArthur, dimostrano di essere ancora eredi dell’Impero. Quando Hirohito morì, tutto il popolo si volse, in tutto il Giappone, nella direzione del feretro dell’Imperatore. Ecco perché il Giappone tiene e ancora, altro che PIL! Quanto ai romanzieri italiani, comunque, non mi viene in mente niente. Ci sono ancora i vecchi libri di Lionello Lanciotti, il maestro dei sinologi italiani, oppure le cose iniziatiche orientali, ma con un occhio all’Europa Nascosta, di Pio Filippani Ronconi, vecchio milite delle SS italiane. Non dimentichiamo nemmeno Giorgio Mantici, fratello di Alfredo, la più bella testa analitica del SISDE, ai suoi tempi. Aneddoto: quando il gen. Mori era direttore del Sisde, si seppe che l’ambasciata cinese stava ristrutturandosi. Indovinate ora chi erano gli operai addetti alle costruzioni… Poi ci sono testi involontariamente comici, come quelli di Tiziano Terzani, bravissimo cronista capace di vedere comunisti ovunque, e quindi di adorarli. Letteratura come tale, niente. Non c’è, in Italia, il tipo alla Bruce Chatwin, o come il grande filosofo-sinologo Jullien; qui i letterati, o quelli che si credono tali, sono tutti lì a scrivere di sesso (fatto male, qui servirebbe casomai lo Yu Gui Hong, il vecchio romanzo erotico cinese dell’era Ming) oppure di vite di provincia, a contemplare il proprio piccolissimo Io. Poca cosa. Ventura, comunque l’ho letto, e si tratta di un testo illuminista ma non illuminato.
AB Ci spieghi meglio. Posto che Ventura, come l’abbiamo letto, non ha le carature esoteriche necessarie, rimanendo un libro illuminista e artificialmente “dotto”, potremmo sperimentare meglio la vertigine dei manuali sciiti, o cos’altro? il solito Titus Burckhardt?
MGA Certo che Titus Burkhardt è una chiave utilissima. C’è, però, nel sufi svizzero (non sembri una contraddizione in termini) un certo tono esaltativo, soprattutto in certi testi, come in Considerazioni sulla conoscenza sacra o in La sapienza dei profeti che talvolta infastidisce. Un tono da turista dell’Ignoto, insomma. Certo, anche un mago accattone di Herat, come quelli che invariabilmente trovava nel deserto l’ambasciatore Guillet, vale molto di più di un pastore svizzero, e non mi riferisco ai cani. Sembra la narrazione di un turista contento. E gli svizzeri sono inossidabili turisti, peggio degli inglesi. Ibrahim Izz-al-Din, come si chiamava dopo la conversione Burkhardt, era convinto, come Evola e Guénon, che non esistessero più centri iniziatici in Occidente, e occorresse quindi rivolgersi all’Islam e all’Oriente ario.  Errore. Non ci sono mai “buchi” nella trasmissione sapienziale, quindi certe conversioni all’Islam, anche se raffinate e colte come quelle di Burkhardt, o perfino di Guènon, sbagliano, perché non vedono il sottilissimo filo d’oro della iniziazione in Occidente. Se ci fossero dei buchi, vuol dire che la trasmissione non è sapienziale, ma profana. L’iniziazione occidentale vera e propria c’è sempre stata. Altrimenti non si sarebbe presentata nemmeno prima. Certo, la Massoneria oggi è il “grande niente” come la definì Federico di Prussia. Le altre tradizioni sembrano cessate, insieme con il famoso “illuminismo” dei miei stivali. Ma non è, non può essere così. Consigli? Leggere Henry Corbin. Un caso strano di mistico e sapiente sciita che andava al Procope con tutta la solfa degli “intellettuali” francesi dell’epoca: Sartre, Camus, Breton, e anche con tutti gli altri cantori della vera contro-iniziazione satanica novecentesca, il comunismo. Massone sui generis, Corbin rivela l’aspetto gnostico dello sciismo, che ha anche una normazione formale, che è proprio quella che viene fuori dalla rivoluzione del 1979 di Qomeini. Così come diceva Guénon che il Taoismo è l’asse mistico del Confucianesimo, e Mao Zedong era un poeta taoista e mistico, allora il “partito di Alì”, la Shi’a, ha il suo Confucio, l’Imam Qomeini. Ma con le parole non si mantengono gli Stati, come diceva Machiavelli. Altro neoplatonico, ricordiamo.
Continua
*In copertina: Aleister Crowley (1875-1947)
L'articolo “La natura della politica è tragica. Per capire dove va il mondo bisogna conoscere i movimenti esoterici, la Teosofia, la Massoneria, la Kabbala. E leggere Henry Corbin” proviene da Pangea.
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