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#tredici torri
saggiasibilla · 3 years
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Il complesso di Chankillo: un antico calendario solare
Il complesso di Chankillo: un antico calendario solare
Quando studiamo le civiltà antiche e le loro costruzioni, come il complesso di Chankillo, la prima cosa di cui ci rendiamo conto è che erano assai meno “primitive” di quanto non ci piacerebbe credere (o non ci vorrebbero far credere). La seconda cosa, è che tanto quanto noi (anzi, forse più di noi) ponevano una grande attenzione all’astronomia. Pur senza mezzi tecnologici come quelli che…
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sciatu · 6 years
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TAORMINA MEDIEVALE: PALAZZO DEI DUCHI DI SANTO SPIRITO, PALAZZO CORVAIA, TORRE DELL’OROLOGIO, IL DUOMO, PARTICOLARE DELLA PORTA CATANIA.
Può apparire strano che nel mezzo della Taormina mondana e spensierata appaiano mura, torri di palazzi simili a vecchi castelli, merli e spesse mura in pietra. Sono le mura che circondavano la vecchia Taormina Greca e medievale, quella Taormina indomita e sovrana, assediata per mesi per poi essere distrutta e ricostruita dagli invasori di turno; quella di cui gli arabi deportarono tutta la popolazione, quella che il Gran Conte Ruggero espugnò costruendo tredici alte torri in legno. La Taormina inutilmente assediata dai francesi nella guerra del Vespro o infine quella bombardata durante la seconda guerra mondiale e ricostruita per com’era, con il grande palazzo in gotico siciliano dei duchi di Santo Stefano nuovamente attaccato alle antiche mura e Palazzo Corvaja,  un piccolo castello dentro la città sulle cui mura, forse a riassumere il perché gli abitanti siano così attaccati a queste vestigia antiche ed eroiche, è scritto PAR DOMINUS E COELO SED MINORI DOMINO: pari al cielo del Signore ma per un signore minore, Questo forse il motto che riassume il senso della bellezza di Taormina, essere quello che è  il paradiso per Dio ed inferiore solo a chi l’ha creata.
It may seem strange that in the middle of the mundane and carefree Taormina appear walls, towers of palaces similar to old castles, battlements and thick stone walls. They are the walls that surrounded the old Greek and medieval Taormina, the indomitable and sovereign Taormina, besieged for months and then destroyed and rebuilt by the invaders on duty; that which the Arabs deported the entire population, the one that the Great Count Ruggero conquered by building thirteen tall wooden towers. The Taormina unnecessarily besieged by the French in the war of the Vespers or finally that bombed during the Second World War and rebuilt as it was, with the great Sicilian gothic palace of the Dukes of Santo Stefano attached to the ancient walls and Palazzo Corvaja, a small castle inside the city on whose walls, perhaps to summarize why the inhabitants are so attached to these ancient and heroic vestiges, it is written PAR DOMINUS AND COELO SED MINORS DOMINO: equal to the sky of the Lord but for a minor lord, This perhaps the motto which sums up the sense of the beauty of Taormina, to be what is a paradise for God and inferior only to those who created it.
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nunoxaviermoreira · 3 years
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1169_D7B7130 by Vater_fotografo ______________________________________________ www.ciambra.it Grazie per il passaggio e per il commento! Thanks for stopping by and for the comment! Merci de votre visite et pour le commentaire! Gracias por pasarte y por el comentario! Obrigado por sua Visita e Comentário. Ευχαριστώ για τη βόλτα και για το σχόλιο! ______________________________________________ ISOLA DELLE FEMMINE Storia Il comune deve il nome all'isolotto che gli sta di fronte chiamato appunto Isola delle femmine. Diverse leggende hanno subito il fascino esercitato dalla torre ormai in gran parte diroccata che sovrasta l'isolotto. Quella più conosciuta considera erroneamente la torre come prigione per sole donne. In realtà il nome "isola delle femmine" è frutto di un lungo processo di italianizzazione, infatti l'antico nome dell'isolotto, secondo la tradizione popolare, era "insula fimi", anch'esso frutto di un processo di omologazione e derivato da "isola di Eufemio", dal nome del generale Eufemio di Messina, governatore bizantino della Sicilia. Sia la torre sulla terraferma, detta Torre di "dentro", sia quella sull'isolotto, detta Torre di "fuori", facevano parte del sistema di avviso delle Torri costiere della Sicilia. Quella sulla terraferma è sicuramente la più antica, di forma circolare; la tipologia del manufatto la fa risalire a quelle coeve di Capo Mongerbino e di Capo Rama, probabilmente costruite nel '400 al tempo del re Aragonese Martino il giovane. Quella sull'isolotto è invece di tipologia riconducibile all'architetto fiorentino Camillo Camilliani, molto più noto per essere stato l'artefice della Fontana Pretoria a Palermo. Attualmente l'isola è una riserva naturale orientata gestita dalla LIPU. Leggende Diverse sono le versioni cui le tradizioni popolari attribuiscono il nome dell'isola. Si narra che il bellissimo isolotto denominato "Isola delle Femmine" fosse stato un tempo una prigione occupata solo ed esclusivamente da donne. Tredici fanciulle turche, essendosi macchiate di gravi colpe, furono dai loro congiunti imbarcate su una nave priva di nocchiero e lasciate alla deriva. Vagarono per giorni e giorni in balìa dei venti e delle onde finché una tempesta scaraventò l'imbarcazione su un isolotto nella baia di Carini. Qui vissero sole per sette lunghi anni fin quando i parenti, pentitisi della loro azione, le ritrovarono dopo molte ricerche. Le famiglie così riunite decisero di non fare più ritorno in patria e di stabilirsi sulla terraferma. Fondarono quindi una cittadina che in ricordo della pace fatta, chiamarono Capaci (da "CCa-paci" ovvero: qui la pace) e battezzarono l'isolotto sul quale avevano dimorato le donne "Isola delle Femmine". Una testimonianza di Plinio il Giovane in una lettera indirizzata a Traiano, considera l'isola residenza di fanciulle bellissime che si offrivano in premio al vincitore della battaglia. Altra presunta origine trova nel nome latino "Fimis" la traduzione dell'arabo "fim" che indicherebbe la bocca, il canale che separa l'isola dalla costa. Clima Isola delle Femmine ha un clima prettamente mediterraneo, e quindi caldo e secco in estate e con precipitazioni concentrate soprattutto nel semestre invernale. Nei mesi più freddi non sono infrequenti i temporali e le tempeste di vento, ma le temperature non scendono mai sotto lo zero. Il valore più basso registrato dalla storica stazione meteo di Isola delle Femmine è stato di +1,4 °C durante l'ondata di freddo (che portò la neve fin sulle coste) del 31 gennaio 1962.Le stagioni estive, anche se calde, sono costantemente ventilate (grazie anche alle brezze che soffiano frequentemente lungo le coste siciliane) e generalmente non eccessivamente umide, fattori che contribuiscono a rendere piacevole il soggiorno ai numerosi turisti che arrivano in zona. La media termica annuale è di circa 20 °C, il mese più freddo è gennaio ma le medie delle minime non scendono sotto i 10 °C, mentre agosto è il mese più caldo con massime intorno ai 31 °C e minime che si aggirano sui 22 °C. Mediamente cadono circa 650mm; il mese più piovoso è dicembre, quello più asciutto luglio. fonte: it.wikipedia.org/wiki/Isola_delle_Femmine https://flic.kr/p/2kCgbT2
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cultura70 · 3 years
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Rivoluzione Tiburtina, ecco come la zona diventerà la ‘Defense’ di Roma
Rivoluzione Tiburtina, ecco come la zona diventerà la ‘Defense’ di Roma
Uno studio riservatissimo, che rappresenta la prima proposta di variante urbanistica dell’area e che l’agenzia stampa Dire ha avuto modo di leggere in anteprima assoluta, mostra il nuovo volto avveniristico della zona ROMA – Tredici torri di altezza variabile, che non supereranno comunque i 90 metri, e “stecche” più basse e lunghe, ricoperte di cristallo, un po’ come la vicina sede della Bnl. Un…
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Nuovo post su https://is.gd/szFC6J
Liborio Salomi e il capodoglio di Punta Palascia (I parte)
di Riccardo Carrozzini
Liborio Salomi (Carpignano Salentino, 1882 – Lecce 1952) è lo scienziato / geologo / naturalista / tassidermista, amico e collaboratore di Cosimo De Giorgi, al quale succedette nella cattedra di Scienze naturali e nella direzione del Museo – Gabinetto di Scienze presso l’Istituto “O. G. Costa” di Lecce. Di lui mi sono occupato nel volume Liborio Salomi, un illustre salentino quasi sconosciuto [1]. Ne riporto di seguito uno stralcio, che vede coinvolti gli addetti al Faro di Punta Palascia (Otranto), in ciò stimolato da Cristina Manzo, che ci delizia con i suoi bellissimi articoli sui Guardiani del mare (https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/08/07/i-guardiani-del-mare-si-raccontano-e-i-piu-belli-sono-nel-salento-iv-parte/). E che in quello del 7 agosto parla proprio di quel faro, che sul web (non ricordo dove) ho trovato essere stato costruito nel 1869, sul luogo di una delle nostre tante torri cinquecentesche, all’epoca già allo stato di rudere, che fu interamente demolita. Ho un po’ ridotto e adattato il testo alle esigenze di questo sito: si tratta della vicenda (che vide Salomi protagonista nel 1902-1903) del recupero dello scheletro di un capodoglio, la cui carcassa in decomposizione venne avvistata proprio dai soldati del semaforo. Sarei curioso di sapere se esistono i diari dell’attività di quel faro (allora era presidiato) e, in caso affermativo, se in quello del 1902 la vicenda è stata riportata.
  Poco più che diciannovenne, da studente del secondo Liceo dell’Istituto “Capece” di Maglie, Liborio Salomi mise già alla prova tutte le sue capacità partecipando attivamente al recupero e alla preparazione dello scheletro di un grosso capodoglio morto, il cui corpo venne avvistato al largo di Otranto il 18 gennaio 1902 [2].
Il corpo di questo enorme pesce (che in realtà, come si sa, è un mammifero), visto in lontananza, fu scambiato, dai “soldati del semaforo, addetti al servizio di Otranto, in località così detta Palascia”, per il profilo di un natante naufragato; alcuni gruppi di pescatori si diressero perciò, a bordo di sette imbarcazioni, verso questa sagoma indistinta visibile al largo, sperando di trovarvi chissà quale bottino.
Rivelatosi per quello che era, il corpo del cetaceo, già in stato di decomposizione, venne trainato a Otranto, da dove il Sindaco dell’epoca ordinò che venisse rimosso e spostato in località “Rinule” [3], a causa del fetore che emanava, in attesa che chi di dovere decidesse il destino di quella enorme carcassa. Esiste una foto, in possesso di Teresa Salomi (figlia dello scienziato, ancora vivente), appena leggibile e che, malgrado ciò, ho pensato ugualmente di pubblicare, del corpo del cetaceo trasportato nel porto di Otranto.
Fig. 1 – Il capodoglio nel porto di Otranto; sul molo un gruppo di curiosi (Foto da Teresa Salomi)
  Frattanto la notizia era giunta a Maglie, dove il Presidente del Consiglio d’Amministrazione del Liceo Capece, avv. Raffaele Garzia, si interessò alla questione, manifestando il suo interesse anche presso il Ministero della Marina. Questo, con telegramma in data 24 gennaio, concesse il cetaceo al Ministero dell’Istruzione e per esso al Preside del Liceo Capece a “scopo scientifico”. Con telegramma del giorno successivo il Sindaco di Otranto comunicava al Preside che il Prefetto lo aveva reso partecipe di quanto sopra e che pertanto il cetaceo recuperato era nella disponibilità del Liceo Capece “subordinatamente intero pagamento spesa ricupero ed in caso rifiuto lo abbandoni ricuperatori”. Lo stesso giorno (25 gennaio) il Consiglio d’Amministrazione del Liceo Capece, convocato in via d’urgenza, adottava la deliberazione n. 51, con la quale si stanziavano £. 150,00 per l’acquisto “dello scheletro del cetaceo giacente nelle acque di Otranto”.
Il Salomi, già conosciuto nella sua scuola per la sua competenza e per gli interessi nel settore della preparazione di animali imbalsamati e scheletri, fu incaricato di recuperare, per l’Istituto “Capece”, lo scheletro del cetaceo, e si recò dove il corpo era stato portato, procedendo [4] alla rimozione di tutte le carni e le parti molli in decomposizione [5] e al dissezionamento dello scheletro; organizzò e sovrintese anche al trasporto dello scheletro stesso, ormai privato degli organi interni e in gran parte ripulito dalle masse carnose, a Maglie, dove le ossa vennero seppellite nella calce viva per una loro completa ripulitura.
Tra la documentazione reperita vi è poi una lettera del Presidente Garzia al prof. Giuseppe Consiglio [6] con la quale il docente veniva pregato “di compiacersi procedere al diseppellimento delle ossa del cetaceo, e provvedere per pulirle, facendosi aiutare da qualche alunno, se lo crede, per evitare spese all’Istituto”. Qui rientra in gioco il Salomi, che effettua la pulizia finale delle ossa dissotterrate e procede alla ricomposizione dello scheletro, come testimonia la fig. 5, in possesso della figlia Teresa e già pubblicata (sia pure in una versione “speculare” fornita dalla pronipote di Liborio dott. Elena Valsecchi) nell’articolo Braschi – Cagnolaro – Nicolosi (si veda la nota 2); la foto mostra lo scheletro, sommariamente ricomposto a Maglie, con accanto la figura inconfondibile del giovane Salomi [7].
Fig. 2 – Il frontespizio del fascicolo che contiene tutti i documenti della vicenda (archivio Fondazione “Capece”, Maglie)
  Non si capisce bene perché, ma le originarie motivazioni dell’acquisto, di cui si trova traccia nella delibera n. 51 (“per arricchire il materiale scientifico dei nostri Gabinetti”), vennero successivamente meno, tanto che venne deciso –credo unicamente per motivi economici, ma non ho trovato documentazione che confermi questa mia supposizione- di alienare lo scheletro, forse al miglior offerente, inoltrando la relativa offerta anche oltr’alpe.
Fig. 3 – La deliberazione n. 51 (Archivio Fondazione “Capece”)
  A tal proposito si segnala una lettera a stampa in lingua francese, su carta intestata, anch’essa in francese, non si sa se mai spedita (è, infatti, senza indirizzo), che trascrivo integralmente nella mia traduzione:
“Data del timbro postale – Il nostro Istituto ha acquisito, da qualche mese, lo scheletro di un capodoglio, restituito morto dal mare Adriatico nei pressi di Otranto il 19 gennaio 1902. Si tratta di un physiter macrocephalus femmina, il cui scheletro raggiunge la lunghezza di 15 metri [8] e la circonferenza di 7 metri all’altezza della parte anteriore del tronco. Non è ancora montato, ma tutti i suoi pezzi – mancano solo 8 dei 25 denti della mandibola destra – sono stati scarnificati con cura e seccati con la calce. Desideriamo venderlo o scambiarlo con altro materiale scientifico di zoologia in buono stato. In attesa di ricevere proposte, siamo pronti a fornirvi eventuali chiarimenti richiesti (foto, inventario dei pezzi, ecc.). Il Presidente dell’Istituto Raffaele Garzia.” La lettera è indirizzata, sempre a stampa, “ai Signori Direttori d’Istituti di scienze naturali, di Musei zoologici, etc.”, senza ulteriori specificazioni.
Fig. 4 – La lettera al prof. Consiglio (Fondaz. “Capece”)
  (continua)
  Note
[1] R. Carrozzini, Liborio Salomi, un illustre salentino quasi sconosciuto, Ed. Milella, Lecce 2015, ISBN 978–88–7048–581–3. Chi volesse saperne di più può cercare Liborio Salomi tra gli articoli della Fondazione Terra d’Otranto.
[2] Nell’archivio della Fondazione “Capece”, la cui sede è ubicata nello stesso stabile dell’omonimo Liceo, a Maglie, si trova, nella busta n. 9, un fascicoletto con la documentazione relativa a questa vicenda; in altre buste vi è anche traccia di alcuni mandati di pagamento relativi alla stessa. Ringrazio il Presidente della Fondazione dott. Dario Vincenti e l’addetta all’archivio dott. Giovanna Ciriolo per la grande disponibilità dimostrata e per l’autorizzazione a pubblicare la documentazione in loro possesso. Altro doveroso ringraziamento al prof. Roberto Barbuti, vice-Direttore del centro Interdipartimentale – Museo di Storia Naturale e del Territorio dell’Università di Pisa per le foto dello scheletro, l’articolo sullo stesso (S. Braschi,     L. Cagnolaro, P. Nicolosi, Catalogo dei Cetacei attuali del Museo di Storia Naturale e del Territorio                       dell’Università di Pisa, alla Certosa di Calci. Note osteometriche e ricerca storica, in Atti Soc. tosc. Sci. nat., Mem., Serie B, 114, 2007) ed altre notizie fornite. Ringrazio infine il dott. Nicola Maio dell’Università di Napoli, studioso dello scheletro dei cetacei dei musei italiani, con il quale ero in contatto per altre vicende relative al Salomi e che mi ha permesso di trovare e pubblicare la lettera/relazione di Salomi che si può leggere in questo articolo.
[3] Piccola cala ubicata circa 650 metri a nord della “punta” posta sulla costa a nord dell’insenatura principale della città di Otranto, ossia dopo l’odierna Riviera degli Haethei.
[4] Con l’aiuto di manovalanza non particolarmente qualificata, vedere relazione di Salomi trascritta più oltre.
[5] Il lavoro durò complessivamente tredici giorni; Teresa Salomi riferisce di aver appreso direttamente da suo padre che in quella occasione qualcuno gli insegnò a fumare il sigaro toscano, il cui “odore” riusciva in qualche modo a coprire o almeno a mitigare gli effetti dei miasmi nauseabondi emanati dall’enorme carcassa in decomposizione.
[6] prot. n. 110 in data 31 maggio 1902, fig. 4
[7] Si vedano anche le figg. 5a, 5b, 5c, 5d e 5e che raffigurano particolari dello scheletro prima del suo assemblaggio.
[8] I pochissimi articoli finora pubblicati sul Salomi, ed anche quanto riferitomi dalla figlia Teresa, in realtà concordavano sul fatto che la lunghezza del capodoglio sarebbe stata di 22 metri; la cosa mi insospettì fin da subito per due ordini di motivi: per quanto a mia conoscenza 22 metri era una dimensione più che rispettabile persino per una balenottera (i capodogli, più piccoli, non credevo arrivassero a tale misura), ed inoltre dalla fig. 5, in cui è visibile anche il Salomi, si desume facilmente che la lunghezza doveva essere notevolmente inferiore; il prof. Barbuti mi ha scritto infatti, il 15 gennaio 2013, che “non è lungo 22 metri bensì 12,57 metri”, evidentemente così com’è ancora esposto a Pisa; nella lettera riprodotta nella fig. 6 si parla di una lunghezza di 15 metri; Salomi nella sua relazione (ved. oltre) parla di una lunghezza massima di 12 metri.
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freedomtripitaly · 4 years
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Il borgo di Irsina è un autentico tuffo nel passato. Al confine tra Puglia e Basilicata, è forse uno dei borghi più antichi della Lucania. Fondato in epoca greco-romana, fino al febbraio del 1895 si è chiamato Montepeloso, dal greco plusos (terra ricca e fertile), poi trasformatosi nel latino pilosum. L’attuale toponimo invece pare derivi da Irtium, cioè irto, ripido, scosceso. I Saraceni distruggono l’antica Montepeloso nel 988 d.C. Una volta ricostruita, nel 1041 diventa teatro di una feroce battaglia tra Bizantini e Normanni conosciuta ancora oggi come la battaglia di Montepeloso. Con la vittoria dei Normanni, Montepeloso passa nelle mani di vari signori, divenendo prima una delle dodici baronie normanne della contea, poi ducato, di Puglia e, dal 1123, sede vescovile. Gli Svevi controllano Montepeloso fino alla battaglia di Benevento (1266), che porta all’ascesa degli Angioini in tutta l’Italia meridionale. Il borgo diventa poi feudo prima degli Orsini Del Balzo, degli Aragonesi, della famiglia genovese dei Grimaldi e, infine, dei Riario Sforza, ultimi signori di Montepeloso. Cosa vedere a Irsina: le tradizionali case grotte Il centro storico di Irsina sorge su uno sperone roccioso circondato da possenti contrafforti che ripercorrono idealmente l’antico tracciato delle mura medievali. Gli irsinesi scavarono questa roccia per secoli, trasformandola prima in semplice riparo e poi in vere e proprie dimore per le proprie famiglie. Ancora oggi infatti si possono ammirare, disseminate nel centro storico, le affascinanti case grotte, simili in tutte e per tutto ai sassi di Matera e abitate dalla popolazione fino a poco tempo fa. La più bella e meglio conservata, oggi tutelata dal FAI, è sicuramente la casa grotta Barbaro, scavata direttamente dentro due spelonche rocciose, che si sviluppa addirittura su due livelli. Alcune di queste case grotte formano dei veri e propri cubicoli sotterranei che a volte prendono la forma di vere e proprie gallerie. Cosa vedere a Irsina: la cattedrale di Santa Maria Assunta Ricostruita in stile romanico dopo il feroce assalto dei Saraceni del 988, l’edificio è stato sostanzialmente rifatto in forme barocche nel corso del Settecento e consacrata definitivamente nel 1802. Oltre alla bella cripta romanica e il coevo campanile perfettamente conservati, la facciata si sviluppa in forme barocche napoletane con al centro un portale riccamente decorato. Tra le opere d’arte degne di note custodite al suo interno si segnalano il fonte battesimale in marmo rosso e il Crocifisso ligneo della scuola del Donatello, entrambi del 1454, e la bellissima statua di Sant’Eufemia, recentemente attribuita al Mantegna. Cosa vedere a Irsina: la chiesa di San Francesco e il museo Janora Altrimenti chiamato castello di Federico II, anche questa duecentesca chiesa viene restaurata in forme barocche, nel corso del XVIII secolo. Da non perdere all’interno i pregevoli affreschi umbro-senesi (XIV secolo) che adornano la cripta, un settecentesco crocifisso ligneo e una seicentesca statua di San Vito. I locali dell’adiacente convento cinquecentesco ospitano oggi il museo Civico, con la collezione archeologica, di oltre 1600 oggetti, donata alla città dallo storico irsinese Michele Janora. Tra i reperti si segnala senza dubbio lo splendido cratere a figure rosse raffigurante la lotta tra Bellerofonte e la Chimera del IV secolo a.C. Cosa vedere a Irsina: la Madonna del Carmine e la Madonna della Pietà All’interno della chiesa della Madonna del Carmine sono da vedere le tele seicentesche del pittore lucano Andrea Miglionico raffiguranti rispettivamente San Michele Arcangelo e la Madonna del Carmine, un’Annunciazione (1622) di Pietro Antonio Ferro e una tela del Seicento con le Nozze di Cana. Al di fuori del centro storico in direzione del bosco di Verrutoli, a sud, sorge infine la piccola e suggestiva chiesa della Madonna della Pietà, le cui origini si perdono forse all’XI secolo, quando l’area era di proprietà del monastero benedettino di Santa Maria dello Juso. L’edificio, circondato dalla splendida cornice naturale che ammanta di fascino l’intero territorio irsinese, merita sicuramente una visita per lo splendido portale tardorinascimentale di marmo intagliato e impreziosito con motivi geometrici, floreali e zoomorfi perfettamente conservati. Scoprire Irsina: il fascino senza tempo del P’zz’cantò Una delle eccellenze del borgo lucano di Irsina è sicuramente quella rappresentata dal tradizionale gioco del P’zz’cantò, conosciuto in altri borghi europei come il gioco della Torre Umana. Il gioco è da sempre un catalizzatore sociale potentissimo, scrigno inestimabile di conoscenza e di cultura. La tradizione ludica delle torri umane nasce intorno al XVII secolo nel piccolo borgo catalano di Castell. Durante la dominazione spagnola questo gioco si diffonde nell’Italia centro meridionale trovando le sue massime espressioni a Ferrandina, Melfi, Brindisi di Montagna e a Scalea, dove persino in una tela con la Madonna della Pietà è raffigurato questo gioco, al tempo stesso un ballo, di torri umane. Questo nostro desiderio innato di superare i limiti umani si è infine tradotto in quello che a Irsina è oggi chiamato P’zz’cantò. Ogni anno, a fine maggio durante la festa della Pietà, per le strade di Irsina gruppi di circa tredici persone, chiamati per l’occasione pizzicantari, con estrema attenzione formano torri di tre piani salendosi con i piedi sulle spalle a vicenda, secondo lo schema 7+4+2. Una volta formata, la torre sfila per le vie del borgo della Basilicata girando su se stessa, mentre i pizzicantari si danno il ritmo cantando filastrocche in dialetto, cercando di non perdere l’equilibrio, evitando così il crollo della propria torre. https://ift.tt/3gEdeiq Cosa vedere nel borgo di Irsina, in Basilicata Il borgo di Irsina è un autentico tuffo nel passato. Al confine tra Puglia e Basilicata, è forse uno dei borghi più antichi della Lucania. Fondato in epoca greco-romana, fino al febbraio del 1895 si è chiamato Montepeloso, dal greco plusos (terra ricca e fertile), poi trasformatosi nel latino pilosum. L’attuale toponimo invece pare derivi da Irtium, cioè irto, ripido, scosceso. I Saraceni distruggono l’antica Montepeloso nel 988 d.C. Una volta ricostruita, nel 1041 diventa teatro di una feroce battaglia tra Bizantini e Normanni conosciuta ancora oggi come la battaglia di Montepeloso. Con la vittoria dei Normanni, Montepeloso passa nelle mani di vari signori, divenendo prima una delle dodici baronie normanne della contea, poi ducato, di Puglia e, dal 1123, sede vescovile. Gli Svevi controllano Montepeloso fino alla battaglia di Benevento (1266), che porta all’ascesa degli Angioini in tutta l’Italia meridionale. Il borgo diventa poi feudo prima degli Orsini Del Balzo, degli Aragonesi, della famiglia genovese dei Grimaldi e, infine, dei Riario Sforza, ultimi signori di Montepeloso. Cosa vedere a Irsina: le tradizionali case grotte Il centro storico di Irsina sorge su uno sperone roccioso circondato da possenti contrafforti che ripercorrono idealmente l’antico tracciato delle mura medievali. Gli irsinesi scavarono questa roccia per secoli, trasformandola prima in semplice riparo e poi in vere e proprie dimore per le proprie famiglie. Ancora oggi infatti si possono ammirare, disseminate nel centro storico, le affascinanti case grotte, simili in tutte e per tutto ai sassi di Matera e abitate dalla popolazione fino a poco tempo fa. La più bella e meglio conservata, oggi tutelata dal FAI, è sicuramente la casa grotta Barbaro, scavata direttamente dentro due spelonche rocciose, che si sviluppa addirittura su due livelli. Alcune di queste case grotte formano dei veri e propri cubicoli sotterranei che a volte prendono la forma di vere e proprie gallerie. Cosa vedere a Irsina: la cattedrale di Santa Maria Assunta Ricostruita in stile romanico dopo il feroce assalto dei Saraceni del 988, l’edificio è stato sostanzialmente rifatto in forme barocche nel corso del Settecento e consacrata definitivamente nel 1802. Oltre alla bella cripta romanica e il coevo campanile perfettamente conservati, la facciata si sviluppa in forme barocche napoletane con al centro un portale riccamente decorato. Tra le opere d’arte degne di note custodite al suo interno si segnalano il fonte battesimale in marmo rosso e il Crocifisso ligneo della scuola del Donatello, entrambi del 1454, e la bellissima statua di Sant’Eufemia, recentemente attribuita al Mantegna. Cosa vedere a Irsina: la chiesa di San Francesco e il museo Janora Altrimenti chiamato castello di Federico II, anche questa duecentesca chiesa viene restaurata in forme barocche, nel corso del XVIII secolo. Da non perdere all’interno i pregevoli affreschi umbro-senesi (XIV secolo) che adornano la cripta, un settecentesco crocifisso ligneo e una seicentesca statua di San Vito. I locali dell’adiacente convento cinquecentesco ospitano oggi il museo Civico, con la collezione archeologica, di oltre 1600 oggetti, donata alla città dallo storico irsinese Michele Janora. Tra i reperti si segnala senza dubbio lo splendido cratere a figure rosse raffigurante la lotta tra Bellerofonte e la Chimera del IV secolo a.C. Cosa vedere a Irsina: la Madonna del Carmine e la Madonna della Pietà All’interno della chiesa della Madonna del Carmine sono da vedere le tele seicentesche del pittore lucano Andrea Miglionico raffiguranti rispettivamente San Michele Arcangelo e la Madonna del Carmine, un’Annunciazione (1622) di Pietro Antonio Ferro e una tela del Seicento con le Nozze di Cana. Al di fuori del centro storico in direzione del bosco di Verrutoli, a sud, sorge infine la piccola e suggestiva chiesa della Madonna della Pietà, le cui origini si perdono forse all’XI secolo, quando l’area era di proprietà del monastero benedettino di Santa Maria dello Juso. L’edificio, circondato dalla splendida cornice naturale che ammanta di fascino l’intero territorio irsinese, merita sicuramente una visita per lo splendido portale tardorinascimentale di marmo intagliato e impreziosito con motivi geometrici, floreali e zoomorfi perfettamente conservati. Scoprire Irsina: il fascino senza tempo del P’zz’cantò Una delle eccellenze del borgo lucano di Irsina è sicuramente quella rappresentata dal tradizionale gioco del P’zz’cantò, conosciuto in altri borghi europei come il gioco della Torre Umana. Il gioco è da sempre un catalizzatore sociale potentissimo, scrigno inestimabile di conoscenza e di cultura. La tradizione ludica delle torri umane nasce intorno al XVII secolo nel piccolo borgo catalano di Castell. Durante la dominazione spagnola questo gioco si diffonde nell’Italia centro meridionale trovando le sue massime espressioni a Ferrandina, Melfi, Brindisi di Montagna e a Scalea, dove persino in una tela con la Madonna della Pietà è raffigurato questo gioco, al tempo stesso un ballo, di torri umane. Questo nostro desiderio innato di superare i limiti umani si è infine tradotto in quello che a Irsina è oggi chiamato P’zz’cantò. Ogni anno, a fine maggio durante la festa della Pietà, per le strade di Irsina gruppi di circa tredici persone, chiamati per l’occasione pizzicantari, con estrema attenzione formano torri di tre piani salendosi con i piedi sulle spalle a vicenda, secondo lo schema 7+4+2. Una volta formata, la torre sfila per le vie del borgo della Basilicata girando su se stessa, mentre i pizzicantari si danno il ritmo cantando filastrocche in dialetto, cercando di non perdere l’equilibrio, evitando così il crollo della propria torre. Tutto il fascino della pietra e della storia rivive nel magico borgo di Irsina, in Basilicata, dove si possono ammirare monumenti ed edifici antichi.
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SAIL 2017 - Mostra Mirabilia Maris 2017: 13 eventi per raccontare uomini e storie legate ai mari di Sicilia - 2017
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27 gennaio 2017 - Sono 13 gli eventi organizzati dalla Soprintendenza del Mare nell’ambito della Mostra Mirabilia Maris per raccontare uomini e storie legate al Mediterraneo. E’ il racconto suggestivo di quanto  le vicende della Sicilia non possono prescindere dalla conoscenza e dal rapporto con l’ambiente marino. Il ricco programma, organizzato dalla Soprintendenza del Mare - U.O. II, in collaborazione con SiciliAntica, Associazione Guide Turistiche, A.T.C. l’Associazione che viaggia, Amici della Soprintendenza del Mare, Guide Turistiche Associate Palermo, è coordinato da Sebastiano Tusa,  Alessandra De Caro e Alfonso Lo Cascio. Dai viaggi dell’uomo della Preistoria alle grandi battaglie, dalle difese costiere dell’isola tra Medioevo e  Età moderna agli ex voto, che hanno caratterizzato l’esistenza di tanti uomini, dalla storia della subacquea alla produzione del cantiere navale di Palermo, l’universo legato al  mare resta qualcosa di unico e irripetibile. Il ricco calendario predisposto dalla Soprintendenza con i suoi tredici appuntamenti cerca di presentare alcuni aspetti del vasto mondo. Si inizia mercoledì 1 Febbraio 2017 alle ore 16,00 presso il Palazzetto Mirto in via Lungarini, 9 a Palermo, con la conferenza del Soprintendente del Mare Sebastiano Tusa dal titolo “I viaggi per mare dell’uomo della Preistoria”. Previste inoltre visite guidate alla mostra Mirabilia Maris (fruibile fino al 6 Marzo 2017), al lago Arancio di Sambuca di Sicilia, a Trecastagni dove è conservata la più grande collezione di ex voto d’Italia e alla chiesa del Carmine di Catania, alle Torri costiere della costa ovest di Palermo. In programma anche un convegno con la partecipazione di specialisti sulle leggi che regolano il suggestivo mondo della subacquea, inoltre una mostra e la proiezione dedicata alla storia di chi è innamorato degli abissi marini. L’ingresso a tutti gli eventi è libero. Ai partecipanti agli incontri verrà rilasciato un attestato di partecipazione.
FROM http://www.navigamus.info/2017/01/mostra-mirabilia-maris-13-eventi-per.html
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    Castello Estense a Ferrara
l’esterno, le sale
e le opere di abbellimento
seconda parte
    Facciata nord-ovest del Castello Estense
    Quattro torri, a nord dei Leoni, a ovest quella di Santa Caterina, San Paolo a sud e la Marchesana a est, delimitano il quadrilatero che forma il Castello Estense, il materiale da costruzione usato, è il mattone rosso intervallato con elementi in pietra bianca delle cave del veronese e istriane, due materiali utilizzati anche per le costruzioni in tutta la città.
Il mattone rosso era l’unico disponibile nel territorio e le costruzioni vennero alleggerite e impreziosite con cornici alle finestre, nei balconi o con elementi architettonici in pietra bianca, lavorata e scolpita, materiali che vennero in sostituzione all’intonaco grigio e freddo, che originariamente coprivano le costruzioni cittadine.
    Tour virtuale del Castello Estense
    Lungo la facciata a nord, a destra della Torre dei Leoni, troviamo il grande “Rivellino” del settecento, una fortificazione indipendente a difesa della porta del Castello Estense.
Costruita come ampliamento del primo piano dell’appartamento del cardinale Scipione Borghese, ha sulla facciata il balconcino in legno coperto, da dove il cardinale poteva assistere ai giochi e alle corse dei cavalli, momenti di distrazione per i cittadini di Ferrara.
Sulla sinistra la grande mole della Torre dei Leoni, con il manufatto raffigurante i due leoni rampanti, e la scritta Wor Bas, il motto scritto sui cartigli, riportati ora all’originaria simmetria, dopo che si era persa a seguito di un intervento, che si presume sia stato compiuto tra il XVIII e il XIX secolo.
Le due parole scritte fra i due leoni, sormontati da un imponente elmo raffigurante l’aquila, che rappresentano Nicolò, a destra e Alberto, a sinistra, simboleggia il motto dei due Este.
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  Torre dei Leoni
    La Torre che diede inizio all’incastellamento di Ferrara, già presente lungo le mura trecentesche della città, era posta a difesa della Porta del Leone, mentre un ampio canale, scorreva lungo le mura a nord e poi,  si collegava al sistema fluviale del Po.
La città in quel periodo si distendeva lungo la riva sinistra del ramo principale del grande fiume e in quel punto, si apriva verso oriente in un grande delta.
Dalla semplice Torre di guardia, che era, con base quadrata e uniforme nella sua altezza, si passò ad una piccola rocca, assai più larga alla base e con larghi spalti al primo piano, dove venivano alloggiate le nuove tecniche di difesa, raggiungibili tramite una rampa, adatta al camminamento degli animali da soma, adibiti al trasporto di armi, artiglieria e munizioni.
Al piano terra e primo, della Rocca, le sale erano dedicate agli alloggi e postazioni per il corpo di guardia, mentre i sotterranei erano sede delle tetre e umide prigioni.
Tre arcate cieche e posizionate al centro di ogni lato della Rocca, facevano sì che i quattro spigoli, con muratura di maggior spessore, assomigliassero ad altrettante piccole torri, mentre un fossato circondava l’intero perimetro, permettendo l’attracco a piccole imbarcazioni per il collegamento con la Porta del Leone, da un lato, e alle mura della città, dall’altro lato, con ponti levatoi.
In seguito Girolamo da Carpi, sempre nell’intento di ampliamento del Castello Estense, trasformò gli spalti del primo piano in due logge laterali, chiuse e tra loro un balcone frontale.
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  Le prigioni
    Nei sotterranei della Torre dei Leoni, a livello del fossato, si trovano le prigioni, di uso “non comune”, i prigionieri comuni venivano detenuti presso le carceri del Palazzo della Regione, qui invece venivano messi in stato di detenzione quelli che dovevano avere “un occhio di riguardo”, personaggi d’alto rango o comunque prigionieri per cui occorreva una particolare sorveglianza, quelli che subivano la paranoia del Signore di Ferrara del momento, in alcune celle è ancora possibile riconoscere alcune tracce lasciate dai reclusi, come ad esempio delle scritte graffite sui mattoni della parete.
queste cominciavano da una sala attigua alle Cucine, attraverso un grande arco si accede alla Torre dei Leoni, da dove per uno stretto corridoio e un angusta scaletta si scende nei sotterranei della Torre e alle prigioni.
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Accesso alle prigioni del Castello Estense
Le prigioni del castello Estense
porta della prigione di don Giulio
Qui videro la tragica fine, Ugo Aldobrandino e Parisina Malatesta, il figlio di primo letto e la seconda moglie del Marchese Nicolò III, i due giovani amanti vennero scoperti e ordinata la loro decapitazione, condotti al patibolo, in fondo alla Torre Marchesana, dove per un riconducibile gesto di pietà, forse del  marchese Nicolò III, sul luogo dell’esecuzione capitale venne realizzato un affresco di soggetto sacro, una Madonna con il Bambino tra i santi Giacomo e Antonio, il “Trittico della decapitazione”.
Altri ospiti illustri delle prigioni della Torre dei leoni, furono i fratelli di Alfonso I, rinchiusi e condannati a morte, per aver attentato alla vita del duca  e dell’altro fratello, il cardinale Ippolito.
Don Giulio e don Ferrante, ebbero commutata la pena nel carcere a vita, da scontarsi nelle prigioni del Castello, don Ferrante vi trovò la morte dopo trentaquattro anni di reclusione, mentre don Giulio fu graziato, all’età di 81 anni.
Altro ospite da non dimenticare, fu Gigliolo Giglioli, brillante esperto di diritto e consigliere del marchese Nicolò III, di cui godeva dei più alti favori e capitano di Reggio, fu improvvisamente messo agli arresti con l’accusa di tradimento, venne condotto nella più orrida delle prigioni, all’interno della Torre Marchesana detta di San Michele, da cui prenderà il titolo l’operetta o “comediola” Michaelida, che Gigliolo compose nei tredici anni passati nel “fundo di torre”.
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  La facciata est del Castello Estense
    Rivolta verso il centro cittadino, il Duomo e la Piazzetta, la facciata est del Castello Estense, mette in mostra la Loggia delle Duchesse o Giardino degli Aranci, ricavato sopra la struttura sporgente delle Cucine Ducali.
    Il Giardino degli Aranci
    Considerato il luogo tra i più ricchi di memorie estensi, questo terrazzo evoca la presenza della Corte, voluto dalla Duchessa Eleonora d’Aragona, dopo il suo insediamento a castello e nell’opera di ingrandimento e abbellimento.
Il Giardino degli Aranci nel Castello Estense
Il giardino nei secoli subisce diverse sistemazioni, da giardino pensile con vialetti, terreno riportato e coltivazione in aiuole di piante annuali, durante il periodo della Duchessa Eleonora,  agli aranci, durante il periodo di Alfonso I, piantati in grandi mastelli di legno che nella stagione invernale venivano riparati nella loggia utilizzata come serra, ancora oggi i grandi vasi vengono spostati ad ogni cambio di stagione.
Inizialmente allestito sul tetto del rivellino, per poi abbellirlo con muretto in cotto, perimetrale fornito di merlatura, in modo che i cittadini non potessero vedere al suo interno ma fornito di piccole aperture che consentono ampie vedute sulla città sottostante.
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  Le Cucine Ducali
    Costruite nei primi anni del Cinquecento, con l’ampliamento dell’ala est del Castello e poggiate sulle fondamenta dell’antica e ormai distrutta Porta del Leone, delle grandi Cucine Ducali, è arrivato ai giorni nostri la documentazione dell’intonacatura, mai portata a termine, la particolare pavimentazione con visibili le aperture per gli scoli degli antichi acquai, mentre lungo il lato nord della sala era collocato un camino che copriva tutta la parete, testimoniato dalle due finestrelle quadrate che fungevano da prese d’aria.
La spasmodica attività delle cucine era dovuta ai leggendari banchetti di corte, con le innumerevoli portate, preparate dai grandi “scalchi”, i cuochi abilissimi e cerimonieri, che inframezzavano le portate con rappresentazioni sceniche e intrattenimenti musicali.
Le Cucine Ducali al Castello Estense
A ricordo, uno dei più grandi fu Cristoforo di Messisbugo, al servizio di due duchi estensi, Alfonso I ed Ercole II.
Ritenuto geniale regista di tanti fastosi ricevimenti, Messisbugo concepiva il banchetto come “una festa magnifica, tutta ombra, sogno, chimera, mettafora et allegoria”.
La facciata est prosegue con la lunga balconata in pietra bianca, che collega con Torre Marchesana.
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  Torre Marchesana angolo nord-est del Castello Estense
  Torre Marchesana, probabilmente fatta costruire in onore del fratello di Nicolò III, Alberto fondatore dell’Università di Ferrara e si narra che nelle fondamenta, durante la posa della prima pietra, venne depositato un Ducato d’oro, nella facciata della Torre è presente l’orologio, che precedentemente faceva sfoggio presso la Torre del Rigobello, che fu distrutta.
Al primo piano di Torre Marchesana, si trova la Sala delle Geografie o Marchesana, questa presenta un soffitto a volta, monocromatico e a cassettoni, con forma rotonda, quadrata e ottagonale, al centro spicca un affresco rappresentante la figura alata della Poesia, con corona d’alloro intorno la testa, nell’atto di scrivere il nome dell’Ariosto su una pergamena sorretta da un puttino alato, decretando così come massimo rappresentante e maestro, il poeta Ludovico Ariosto, tra i letterati della città.
Il soffitto della sala delle Geografie
Ai quattro angoli del quadrato, con in mezzo la raffigurazione della Poesia, si trovano quattro dipinti interni a cassettoni circolari, raffiguranti altri putti alati, con in mano pergamene con i nomi di altrettanti poeti ferraresi.
Nei primi del ‘700, le pareti vennero decorate dal quadraturista Anton Felice Ferrari, su disegni del cartografo e agrimensore Giuseppe Tomaso Bonfadini, il cui nome appare in un cartiglio retto da un puttino nell’angolo inferiore sinistro della parete ovest, dove è rappresentato all’antica il fiume Po, personificato dalla canonica maestosa figura maschile appoggiata a una giara da cui esce acqua.
Due lapidi nella Sala delle Geografie, ricordano la visita al Castello Estense di Giuseppe Garibaldi e del re Vittorio Emanuele III.
La Sala delle Geografie
Il lato est prosegue scavalcando il fossato con la cosiddetta Ala Prolegati, che altro non è che il vecchio ponte levatoio in legno, rifatto in muratura e coperto, sopraelevato che collegava e collega tuttora il Castello Estense a Palazzo Ducale, oggi sede del Municipio.
L’Ala Prolegati fu a più riprese sopraelevato e in corrispondenza del primo piano del Castello vi si trovano i famosissimi camerini di Alabastro, studioli di Alfonso I, qui vi sono raccolti pregevoli pezzi d’arte della collezione Estense, tra cui opere di Tiziano, al quale viene attribuito il disegno del balconcino dell’Ala Prolegati che si affaccia sull’attuale piazza Savonarola.
Sul Lato ovest del castello si apre l’ultimo accesso, tramite il Rivellino a fianco di Torre Santa Caterina, munito di ponte levatoio in legno.
All’interno del Castello, il cortile presenta un lato con loggiato ad archi sorretti da colonne in pietra bianca e al centro del cortile, un pozzo con vasca profonda sette metri per il filtraggio dell’acqua piovana, sempre dal cortile si aprono gli accessi agli scaloni che portano ai piani superiori del Castello, quello che più desta interesse è lo scalone elicoidale, che dà accesso al porticato e che consentiva anche l’utilizzo delle cavalcature, proseguiva poi per il primo piano fino al Salone degli Stemmi.
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  Le sale del Castello Estense
    Il Camerino dei Baccanali
    Partendo dalla Loggia degli Aranci ed entrando nel corpo del Castello, si passa dal Camerino dei Baccanali, originariamente studiolo del signore di Ferrara, dove soleva ritirarsi, con la sola compagnia dei libri e degli oggetti più idonei a conciliare l’attività intellettuale.
La saletta è decorata con una parete ad affresco detto dei Baccanali, suddiviso in tre quadri separati da motivi architettonici.
Affresco dei Baccanali nel Camerino dei Baccanali
Quello a sinistra rappresenta il Trionfo di Arianna, con la donna, attorniata da satiri e baccanti, seduta su di un carro trainato da felini, quello centrale è una Scena di Vendemmia, satiri e ninfe, raccolgono e trasformano l’uva in vino, l’ultimo quadro è conosciuto come il Trionfo di Bacco, un corteo di elefanti e cammelli accompagna il carro di Arianna, mentre Bacco ubriaco tenta di cavalcare un leone sotto lo sguardo di Giove che sbuca tra le nuvole.
    La cappella di Renata di Francia
    Adiacente il Camerino dei Baccanali, si trova la Cappella Ducale o di Renata di Francia, figlia del re di Francia e moglie di Ercole II d’Este, di convinta fede calvinista, fece costruire il tempietto in legno, sotto le volte dell’attiguo salone, oggi sala del Consiglio Provinciale.
L’affresco della volta della Cappella di Renata di Francia o Cappella Ducale
Le pareti non presentano nessuna effige sacra, dato che questa dottrina non accetta questo tipo di immagini, marmi policromi racchiusi in un raffinato disegno di cornici, prendono il loro posto e il soffitto con gli affreschi riportano le immagini dei quattro Evangelisti, tra medaglioni recanti l’aquila estense, questi non incrinavano tale convincimento, perché ritenuti opera del pittore ottocentesco Giuseppe Tamarozzi.
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  La Sala dell’Aurora
    All’interno della Torre dei Leoni, è di forma quadrata ed è parte, insieme alla Sala dei Giochi e a alla Saletta dei Giochi, dell’appartamento privato dei duchi.
Nella Sala dell’Aurora la volta è suddivisa in quattro comparti, rappresentanti metaforicamente la vita umana, che ruotano intorno all’immagine centrale del Tempo.
L’affresco della Sala dell’Aurora
L’Aurora, il Giorno, il Tramonto e la Notte, il primo l’Aurora è raffigurata mentre trattiene i quattro cavalli del carro del marito Tritone, il Giorno con il carro di Apollo, preceduto dall’Aurora con in mano due fiaccole, il Tramonto, dove Apollo sferza i cavalli stanchi mentre alle sue spalle delle figure portano le fiaccole, l’ultimo la Notte è raffigurata da Diana, che scende dal carro aiutata da Orione.
    La Saletta dei Giochi
    Ambiente di collegamento tra la Sala dell’Aurora e il Salone dei Giochi, riprende i temi sviluppati nelle decorazioni delle sale adiacenti.
Il motivo centrale delle quattro stagioni, idealmente connesso ai quattro momenti della giornata rappresentati nella Sala dell’Aurora, viene ripreso anche il tema delle arti ed esercizi ginnici, già ampiamente trattato nel Salone dei Giochi e qui ripreso e completato con dei putti impegnati nel gioco dei birilli e della trottola.
Altri affreschi rappresentano le competizioni sportive in uso all’epoca, il gioco degli otri, l’antico pugilato, mentre più legate all’atletica militare sono le scene proposte all’estremità della volta, a est il telesiaco, esercizio saltatorio eseguito in armi per sviluppare la destrezza negli scontri, a ovest il combattimento gladiatorio.
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La Sala degli Stemmi
La volta della Saletta dei Giochi
Salone dei Giochi
Altre magnifiche sale compongono il Castello Estense, il già citato Salone dei Giochi, l’appartamento Borghese del cardinale, purtroppo non visitabile come pure l’appartamento del Prefetto e l’ala dei cardinali legati.
La Camera della Pazienza, l’Anticamera della Galleria, la sala della Galleria, la sala di Ettore e Andromaca, la Sala dei Comuni, la saletta dei Veleni, Sala Città di Ferrara, le bonifiche, la torre di San Paolo, l’anticamera del Governo, la sala del Governo, la sala della Devoluzione, la sala dei Paesaggi, la sala delle Geografie o Marchesana, la sala degli Stemmi, sono le bellissime sale del castello tutte da visitare, per la magnificenza dei dipinti e per il pezzo di storia italiana, che fa parte delle nostre radici.
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Castello Estense viaggio virtuale Castello Estense a Ferrara l’esterno, le sale e le opere di abbellimento seconda parte Quattro torri, a nord dei Leoni, a ovest quella di Santa Caterina, San Paolo a sud e la Marchesana a est, delimitano il quadrilatero che forma il Castello Estense, il materiale da costruzione usato, è il mattone rosso intervallato con elementi in pietra bianca delle cave del veronese e istriane, due materiali utilizzati anche per le costruzioni in tutta la città.
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sportpeople · 7 years
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Ho un ricordo lontano della Fossa. Un puntino blu, là in un angoletto del PalaEur. Doveva essere una serata di inizio anni duemila, forse un playoff, ma non ne sono così sicuro. “Loro sono i migliori”, mi sussurrò un amico del tempo all’intervallo lungo.
A dire il vero, di quella prima volta in cui li vidi all’opera, ricordo davvero poco. Dodici, forse tredici anni fa la concentrazione era soprattutto su quelle realtà ultras che nel calcio erano in grado ancora di fare “il fuoco” negli stadi e lasciarti a bocca aperta dopo novanta minuti. Inoltre non avevo sicuramente un’attenzione maniacale per le curve come oggi, pertanto quella serata è francamente svanita nei miei ricordi. Ne rammento solo i contorni e l’esclamazione del mio amico.
Ci ho messo oltre dieci di anni per rivedere quelli della Fossa all’opera. Con la Effe caduta nei bassifondi della pallacanestro italiana. Febbraio 2014, al Paladozza è di scena Mortara, per il campionato DNB. Tremilacinquecento spettatori sostengono un squadra che in quella stagione mancherà la promozione in A2. Io neanche a dirlo, rimango stregato da quello che questo gruppo sa trasmettere.
Non è facile uscire da uno stadio o da un palazzetto totalmente soddisfatti. Sono anni duri, in cui tanti valori e tanti modi d’essere sono andati persi sugli spalti, lasciando spazio a un’omologazione latente che spesso finisce per non sapere né di carne e né di pesce.
Ma bisogna anche ricordare che Bologna era e resta Basket City. Un posto dove le storie, le battaglie, le gioie e le delusioni si intrecciano tra Fortitudo e Virtus. L’una l’alter ergo dell’altra. V Nere contro Effe sarà per sempre la sacra guerra del basket italiano e sarebbe sbagliato non assegnare alla città delle Due Torri un ruolo primeggiante nella palla a spicchi.
Anche oggi che le sue protagoniste sono relegate in A2.
Sarà pure per questo motivo che avvicinandomi a Piazzale Azzarita avverto un senso di sacralità. La sorte ha voluto riunire le “sventure” delle due squadre proprio qua. Anche la Virtus, infatti, disputerà i playoff al Paladozza. Un ritorno al passato che gonfia ancor più il derby quotidiano e spinge le due squadre in questa tornata assassina, in cui ne resterà solo una.
L’incrocio di quest’oggi mette la Fortitudo contro… la Fortitudo. Quella di Agrigento però. Nella serie conducono i felsinei per 2-1 e stasera hanno l’opportunità di conquistare i quarti di finale con una vittoria. Ovviamente il palazzetto presenta sold out, con il perimetro che lo circonda invaso da ragazzi che fanno avanti e indietro, con sosta obbligatoria al banchetto della Fossa, dove ragazze e signore si occupano di vendere il materiale.
Fatemi pensare: da quanto tempo non vedevo, almeno nel calcio, un gruppo dove vige ancora la divisione dei compiti e tutto sembra esser organizzato in modo capillare? Fatta eccezione per qualche realtà di provincia, davvero da molti anni. È probabilmente la forza principale della Fossa dei Leoni. Di contro è forse la debolezza di un movimento ultras che – oltre all’ondata repressiva – è finito per implodere su se stesso. Chiudendosi a volte, dimenticando di quanto l’organizzazione e il sapersi districare anche al di fuori del proprio territorio siano fondamentali per non essere in una perenne condizione di sopravvivenza, ma per vivere con tutti i crismi del caso.
Sia chiaro, è sbagliato paragonare calcio e basket in tutto e per tutto. È lapalissiano che ci sia una differenza sostanziale, sia nella morsa repressiva che negli spazi a disposizione. Eppure considerando che un gruppo come la Fossa è forse ciò che più si avvicina (superandole attualmente) alle tifoserie del pallone, un minimo paragone è d’obbligo.
Come sottolineato dal racconto del buon Matteo su Gara 3, è sicuramente “salutare” osservare come un po’ tutti se ne sbattano alla grande dell’inno nazionale suonato prima della gara e dei rituali che troppo spesso ci ricordano le origini a stelle e strisce di questo sport. Non ho mai nascosto la mia passione per la pallacanestro (sebbene sia amante di quella europea) ma al contempo, da buon figlio del calcio, devo dire che mal sopporto il troppo rumore degli speaker e altre “americanate” che spesso prendono il sopravvento sull’unica cosa che dovrebbe costituire lo spettacolo di contorno al parquet: il pubblico.
Anche se poi in questa circostanza, il pubblico diviene la principale attrazione del Paladozza. Basta guardare dove finiscano spesso gli occhi dei tifosi, un continuo rimbalzare tra un canestro e una manata della Curva Schull. A parte qualche piccola sbavatura iniziale, quando anche la Fortitudo sembra stentare, dal secondo quarto in poi è un totale dominio emiliano, sul campo come sugli spalti.
Cantano tutti: dalla prima all’ultima fila. Vuol dire che gli ultras da queste parti non sono un corpo estraneo, ma un’entità integrata e quasi venerata da tutti. La Fossa è la Fortitudo e viceversa. Del resto questa è l’essenza primordiale del tifo organizzato. Un aspetto che non andrebbe mai dimenticato, lasciando spazio e tempo a derive stupidamente oltranziste ed esclusive. Nel senso che tendono ad escludere, all’interno di un movimento nato per aggregare e formare intere generazioni.
La passerella dell’ultimo quarto è tutta per i giocatori, che conquistano agevolmente l’accesso ai quarti. Ci sarà Treviso, in un replay della semifinale dello scorso anno. Sembra di esser tornati negli anni novanta, quando i veneti, assieme a Milano, Siena e le due bolognesi erano soliti occupare le griglie finali dei playoff di A2. Siamo una categoria più in basso invece.
E aspettando che tutto torni come prima, ci godiamo lo spettacolo. L’importante è che si abbia coscienza di quanto il basket sappia essere ancora uno sport in grado di far battere il cuore e trascinarsi dietro intere città. Non lo dimenticassero mai le istituzioni che in questi ultimi anni sono state letteralmente cieche – e a tratti complici – mentre i club più blasonati della nostra palla a spicchi perdevano pezzi e finivano nella malora.
Simone Meloni.
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Fortitudo Bologna-Agrigento Gara 4: una passione incredibilmente organizzata Ho un ricordo lontano della Fossa. Un puntino blu, là in un angoletto del PalaEur…
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