HARUKA IGAWA, TOKYO SONATA (2008)
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Gli alberi sembrano identici
che vedo dalla finestra.
Ma non è vero. Uno grandissimo
si spezzò e ora non ricordiamo
più che grande parete verde era.
Altri hanno un male.
La terra non respira abbastanza.
Le siepi fanno appena in tempo
a metter fuori foglie nuove
che agosto le strozza di polvere
e ottobre di fumo.
La storia del giardino e della città
non interessa. Non abbiamo tempo
per disegnare le foglie e gli insetti
o sedere alla luce candida
lunghe ore a lavorare.
Gli alberi sembrano identici,
la specie pare fedele.
E sono invece portati via
molto lontano. Nemmeno un grido,
nemmeno un sibilo ne arriva.
Non è il caso di disperarsene,
figlia mia, ma di saperlo
mentre insieme guardiamo gli alberi
e tu impari chi è tuo padre.
— Franco Fortini, Gli alberi
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John Coltrane, NYC, May 6, 1965
photo: Chuck Stewart
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È proprio questo il punto. Il mondo intero sta diventando come Lafayette Street, che è la via di New York più brutta e allo stesso tempo bella che ci sia. In un certo senso fa piacere trovare quello che ci si aspettava di trovare. È come se i posti in cui si va riuscissero ad avere la stessa passività delle persone. Si limitano a far mostra di sé con tanto di cattedrali e deserti. Anche la passività è bella. Di questi tempi uno si prende quello che gli si dà e se tutto diventa brutto allora l’unico rimedio è dirsi che è bello, quanto è bello, bellissimo. E magari alla fine lo diventa anche.
— Don DeLillo, Great Jones Street
via
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Fu il ramarro e non tu
smunta formica
a udire le sirene
Chi lo vide Ulisse?
forse l’occhio del polipo
attratto dalla luna
ma fauna d’acqua
ne udì la chiglia
per sentito dire.
— Goffredo Parise
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Ti affligge la verità
di molti luoghi comuni,
invecchi di luoghi comuni
lodando la verità.
Come un qualunque bambino
che lecca il proprio gelato
credi che il mondo sia
grande un metro quadrato.
— Tito Balestra
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Come un cordoglio
ho lasciato l'estate sulle curve
e mare e deserto è il domani
senza più stagioni
Europa Europa che mi guardi
scendere inerme e assorto in un mio
esile mito tra le schiere dei bruti
sono un tuo figlio in fuga che non sa
nemico se non la propria tristezza
o qualche rediviva tenerezza
di laghi di fronde dietro i passi
perduti,
sono vestito di polvere e sole
vado a dannarmi e insabbiarmi per anni.
— Vittorio Sereni, da Italiano in Grecia, 1947
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Amore, oggi il tuo nome
al mio labbro è sfuggito
come al piede l'ultimo gradino…
Ora è sparsa l'acqua della vita
e tutta la lunga scala
è da ricominciare.
T'ho barattato, amore, con parole.
ti riconoscerò dall'immortale
silenzio.
Moriremo lontani. Sarà molto
se poserò la guancia nel tuo palmo
a Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai di un’altra migrazione.
Dell’anima ben poco
sappiamo. Berrà forse dai bacini
delle concave notti senza passi,
poserà sotto aeree piantagioni
germinate di sassi…
O signore e fratello! ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:
“Nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta”.
Ora che capovolta è la clessidra,
che l’avvenire, questo caldo sole,
già mi sorge alle spalle, con gli uccelli
ritornerò senza dolore
a Bellosguardo: là posai la gola
su verdi ghigliottine di cancelli
e di un eterno rosa
vibravano le mani, denudate di fiori.
Oscillante tra il fuoco degli uliveti,
brillava Ottobre antico, nuovo amore.
Muta, affilavo il cuore
al taglio di impensabili aquiloni
(già prossimi, già nostri, già lontani):
aeree bare, tumuli nevosi
del mio domani giovane, del sole.
È rimasta laggiù, calda, la vita,
l’aria colore dei miei occhi, il tempo
che bruciavano in fondo ad ogni vento
mani vive, cercandomi…
Rimasta è la carezza che non trovo
più se non tra due sonni, l’infinita
mia sapienza in frantumi. E tu parola
che tramutavi il sangue in lacrime.
Nemmeno porto un viso
con me, già trapassato in altro viso
come spera nel vino e consumato
negli accesi silenzi…
Torno sola…
tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo
roseo sugli orci colmi d’acqua e luna
del lungo inverno. Torno a te che geli
nella mia lieve tunica di fuoco.
Ahi che la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
ha tutto divorato
di questo volto rivolto
a voi! La bocca sola
pura
prega ancora
voi: di pregare ancora
perché la Tigre,
la Tigre Assenza,
o amati,
non divori la bocca
e la preghiera…
— Cristina Campo, da La tigre assenza
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Una stagionaccia di tumescenti avvoltoi,
svignate le mogli per mancanza di cibarie di scandali di orgasmi
e d’altre storie, toccherà dimenticare con indifferenza, e con sentita
espressione, i campi spremuti dagli amici intimi, i terreni
recinti, i verdi trapezi con i lampi pomeridiani, i tiepidi
screzi della primavera nazionale dietro i terrapieni, e le fontane
occulte del sapere grano a grano le similitudini dei fiori
dei venti dei trafeli nei luoghi non segnati, e le settimane
che nei chiasmi risorge la carne unanime-inanime nei chiasmi
e massacrare il gallo forbito tra i brughi lombardi
il gesto che trafughi alla notte il sangue fresco gli alberi e le alte
quote degli astri vanitosi, e la polare che valica i sentieri
delle ascisse, e risospingere proprio così
contro i drastici orizzonti frantumati dai tamburi i candidi fantasmi
e sfogliare le direzioni ortogonali e nelle vuote
sfere annusare le ferraglie tra le rose paniche e il sentore
di rugiada dai poderi avversi e il crudo
raziocinio delle millesime angolature divelte nel guizzo delle trote,
le cuspidi sonore degli shrapnell e il cielo nudo
lento delle azalee,
vero che tu vedevi nel liquore dell’atlantico con gli occhi
della vita intera, e concepivi le termiche metafore
e le ipotesi grandi ottemperare alle medesime
cause influenti delle maree, e delle volte
climatiche che accadono nello sperma degli squali bianchi?
quindi in un impeto unanime bevemmo in coro
gli insiemi, e uno per uno il soffio amato della sola inquietudine
che rapinava l’ombra e decimava i fatui
semi delle consuetudini verbali, i risplendenti
rameggi dell’uranio e il vero ulivo
d’oro nella più cheta tenebra del quarzo, e il fiume
vivo delle arterie che risale il lume-lavoro degli scheletri.
— Emilio Villa, Le parole
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