Tumgik
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Always another rainbow
C’è sempre una strada.
C’è sempre un’altra strada, per andare avanti, per venirne fuori, per farcela.
Lui ce l’ha fatta.
Zio Paperone ce l’ha fatta.
Cosa c’entrerà mai lui in tutto questo?
È un papero che ce l’ha fatta, senza mai mollare, senza mai fermarsi, senza mai lasciarsi abbattere da nulla e da nessuno. Un’anima temeraria che è andata incontro al destino, il suo destino, pieno di difficoltà, delusioni, piccole gioie, amori, tormenti, amici e nemici che rimarranno per una vita intera.
E cosa c’entra oggi la storia di un papero che ce l’ha fatta? Oggi più che mai abbiamo bisogno di farcela, di credere che andrà tutto bene, che tutto si risolverà.
La storia di zio paperone (scritta da Don Rosa nel suo Life and Times of Scrooge McDuck, ispirata ovviamente ai fumetti di Carlk Barks, il padre dei paperi) inizia a Glasgow, dove un piccolo Paperone come primo compenso per il suo lavoro da lustrascarpe ottiene un decino americano (una truffa, che si scoprirà poi esser stata messa in atto da suo papà per infondergli coraggio e fargli trovare la sua strada), prende forma nel Klondike dove trova l’amore e la sua grande pepita d’oro, che gli riempirà il portafogli e svuoterà l’anima, e termina a Paperopoli (da lui fondata), dove si ritrova una bella notte di natale solo come un cane e immerso nei ricordi della sua vita felice da cercatore d’oro, pensando al suo grande e mai vissuto amore Doretta Doremì.
Se pensate che a questo punto, Paperone ce l’aveva fatta in pieno, vi sbagliate; Paperone ce la fa davvero quando chiama suo nipote Paperino, figlio della sorella Ortensia, con i tre nipotini (Qui, Quo e Qua, che nemmeno conoscevano il famigerato papero più ricco del mondo) nella sua enorme villa nascosta al mondo e li accoglie nel suo cuore, ritrovando finalmente la serenità, e la famiglia, da tempo perduta.
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Zio Paperone ricomincerà così a vivere, orgoglioso dei suoi tre temerari nipoti e di Paperino (no, lui non lo saprà mai), che coinvolgerà nelle più disparate avventure alla ricerca di tesori nascosti (che la maggior parte delle volte non porteranno mai a casa!).
Adesso, Paperone ce l’ha fatta, per davvero.
Tutto questo per dirvi cosa, esattamente?
Di non mollare, per quanto sia dura, per quanto sia complicato, per quanto faccia male.
Di non scoraggiarvi, per quanto sia normale in momenti difficili come quello che stiamo vivendo ora, dove la vita è stata completamente stravolta, dove il lavoro non c’è, i soldi mancano e le difficoltà quotidiane incombono.
Piangete, se dovete, piangete e rialzatevi, non vergognatevi e fatelo. La vita è difficile, la tristezza un sentimento umano e sano (se controllato e non prolungato, altrimenti è depressione e va curato), non abbiate timore di viverlo; chi vi abbandona per un momento di difficoltà non vi merita, MAI. Trovate la forza dentro di voi (RISVEGLIATELA, cit.) e non abbiate paura di chiedere aiuto; c’è molta più forza in questo che nell’arrangiarsi da soli.
Abbiate paura di cambiare, ma fatelo. “Se fai solo quello che sai fare non sarai mai più di quello che sei ora”. Cambiare è difficile da fare schifo, io a volte non ho nemmeno il coraggio di cambiare marca di shampoo, ma a volte bisogna farlo, bisogna buttarsi nel buio per stare davvero bene, per liberarsi di quel senso di oppressione che non ti fa respirare, che ti fa sentire solo.
Tutto questo, soprattutto, per dirvi di tenere al vostro fianco (o lontana, al momento, per proteggerla) la famiglia, perché nella vita è l’unica certezza che si possa mai avere. Non abbandonate nessuno, non lasciate solo nessuno, perché quello che frulla nella testa di ognuno di noi nessuno può saperlo per davvero. Siate dei paperi che ce la fanno, non a fare i soldi, ma a chiedere aiuto, a star vicino alla famiglia, a fare una telefonata, a mugugnare un “ti voglio bene”.
Siate dei paperi che ce la fanno, sempre.
There’s always another rainbow.
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Che rumore fa la felicità?
Nel 2008, i Negrita cantavano sottovoce “Che rumore fa la felicità?”.
Che rumore fa la felicità? La felicità, forse, non fa rumore, sopraggiunge silenziosa come la neve d’inverno, si adagia delicata sulle nostre anime e si accumula per un tempo imprecisato, dando origine ad un paesaggio bianco e maestoso.
Il problema arriva quando la neve si scioglie col primo calore di primavera; i raggi del dubbio iniziano a filtrare tra le grigie nuvole della tristezza, il bianco manto si scioglie tramutandosi in acqua fredda che corre veloce, da gelare il cuore.
La felicità è effimera, volatile, breve.
Più siamo felici, più abbiamo paura di perderci.
Più siamo felici, più attendiamo con ansia la mazzata sui coglioni che l’universo ci manderà di tutta risposta per bilanciare le cose. In genere, la mazzata è ben superiore alla gioia provata, poiché per distruggere un animo felice ci vuole un dolore di entità decisamente superiore rispetto alla felicità provata.
La vera domanda è: come si fa ad essere felici sapendo che l’universo ci punirà in qualche modo?
Guardando il mare, quell’infinita distesa blu che brilla al tramonto, cerco la riposta, e mi chiedo se ne valga la pena; meglio amare, sorridere, provare emozioni rischiando di trovarsi a pezzi o crogiolarsi in un’eterna e sicura apatia, dove la sofferenza non può entrare e non si rischia di farci male?
Un eterno conflitto, l’eterna instabilità di chi non è mai sicuro, di coloro che non riescono a dimenticare la sofferenza passata, la sensazione di affogare nelle aspettative disilluse e risucchiate dalla realtà, a volte così crudele, dell’esistenza.
Le aspettative sono la diretta conseguenza delle emozioni, dei sentimenti. Perché farsi del male provandoli? Cosa ci spinge sempre a cercare una felicità che tanto, sappiamo, durerà come un gatto in tangenziale?
Spesso i sentimenti non dipendono nemmeno da noi, ci capitano addosso come slavine e non possiamo fare a meno di provarli e rovinarli pensando al dolore che ne verrà poi, inevitabile come la distruzione di tutto ciò che vi è nel percorso della valanga.
In conclusione, che rumore fa la felicità? Stride, esattamente come il coltello sul piatto in ceramica, fastidioso, intenso e di breve durata.
Al.
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Idiorendum
Non scrivo sul mio blogchenonsicaganessuno da un anno e mezzo. UN ANNO E MEZZO. Certo che non se lo caga nessuno, non me lo cago nemmeno io. Ora però, sento il bisogno di scrivere un post, un bel post che non si cagherà nessuno. E’ però giusto farlo, perchè mi avete sfracellato le palle.
Stasera parleremo di... *rullo di tamburi*... REFERENDUM.
Il giorno 4 dicembre 2016 il popolo italiano sarà chiamato al voto per il Referendum Costituzionale. Il quesito è il seguente:
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un bel brodo contenete svariati argomenti, dei quali però non voglio parlare (non sono qui per fare campagna elettorale per il Sì o per il No).
La cosa che ha spinto le mie ossute ditine a battere un’immensa quantità di parole è la seguente: siete degli imbecilli. Non tutti, una buona parte. Parlo di quella parte che:
“Voto no per mandare a casa Renzi”
“Voto no perché la Boschi è troia”
“Voto no perché boh si no forse cos’è il Cnel no ma comunque voto no”
“Io sono del M5S, voto NOOO come Dio Grillo ha predetto sul suo blog, e Gloria a Casaleggio nell’alto dei Cieli”
“Se Napolitano vota Sì, io voto No”
“Il mio parroco vota No, quindi voto No”
“Voto No perchè... perché?”
“Voto No perchè quelli del Piddì sono tutti dei vermi e delle merde” (Bersani, PD: “Io voto No”)
“Voto No perchè sennò arrivano gli immigrati negri A CASA!”
“Voto No perché un famoso sito straniero ha scritto un convincente articolo sul NO”
“Voto No così andiamo al voto nel 2017 ed eleggiamo il nostro Premier” (ho avuto un infarto dopo averlo letto).
“Voto No perchè tanto in Italia non cambia mai niente”
“Minkia zio la kannabis non è ancora legale io voto No”
Ora, mi chiedo: VI FUNZIONA IL CERVELLO?
Partiamo dal presupposto che, agli albori di questa storia del Referendum, oggettivamente Matteo Renzi disse “Se vince il No, mi dimetto”. Nel preciso momento in cui questa frase è stata pubblicata sul web è scattato un livello di ignoranza pauroso, un vergognoso vortice di esseri umani che, senza nemmeno leggere il quesito referendario, si mise ad urlare “IO VOTO NOOO! RENZI A CASA!!!” e la questione venne strumentalizzata ad arte da alcuni famosi partiti politici (no, non li citerò, mi dispiace). Ovviamente Matteo Renzi si rimangiò in fretta le parole, perchè oggettivamente andare al voto nel 2017 sarebbe impossibile e un Governo Monti parte 2 (intendo un altro Governo Tecnico) non sarebbe conveniente. Ordunque, le parole vennero leccate via dall’asfalto, ma ormai lo sputo era stato fatto. Questo clichè del Renzi&Co. a casa è rimasto radicato. Le parole “Se vince il No mi dimetto” sono state un autogol, una mazzata sui coglioni talmente forte che, forse, col martello di Thor avrebbe fatto meno male. 
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Capiamoci, simpatico o no Renzi rimarrà sulla sua poltrona in pelle bordeaux fino al 2018.
La domanda che mi pongo è questa: il popolo italiano è così ITALIOTA da informarsi solo per sentito dire, solo da un determinato sito (www.ilfattoquotidaino.com, vi assicuro che è affidabile), ascoltare solo una voce? Il popolo italiano è così facile da abbindolare, da spostare, da ammassare in un praticello e lasciarlo li a brucare finché non è finita l’erba? Mi chiedo, è così difficile utilizzare la propria testa, informarsi su siti attendibili APPARTENENTI A OGNI FAZIONE (Sì, No, Astenuti), leggere sul sito http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/04/15/16A03075/sg il testo della riforma e farsi un’idea? Sinceramente, non mi sembra. Posso capire che non tutti sono studiati (dai, passatemi il termine), non tutti sono avvocati; si tratta solo di LOGICA: pura, semplice, meravigliosa LOGICA.
Se siete più capre che sulle trivelle, state a casa, fate un favore a chi si informa da mesi. Se non ci avete capito una mazza e l'unica cosa che sapete sulla ns. Costituzione è che "È la più bella del mondo", state a casa, fate un favore a chi si informa da mesi. Se votate perchè Renzi vi sta sul culo, state a casa, fate un favore a chi si informa da mesi. Se votate perchè Salvini, Grillo&Co. sono i vostri Dei, state a casa, fate un favore a chi si informa da mesi. Se votate perchè "premier non eletto dal popolo cazzo vuoi", state a casa, fate un favore a chi si informa da mesi (e vi prego, comprate un libro di diritto per scuole medie e leggetevelo). Se votate a caso giusto per il timbro in più, state a casa, fate un favore a chi si informa da mesi. Se votate per stereotipi, state a casa, fate un favore a chi si informa da mesi. Se votate dopo aver letto validi articoli del "Ilfattoquotidaino.it", "Corsaridellasera.com" ecc., state a casa, fate un favore a chi si informa da mesi.
La stima per i miei connazionali si è abbassata giorno dopo giorno, post dopo post. Le ragioni del voto, che sia Sì che sia No, devono essere chiare, valide, precise, non boiate sparate a caso solo per parlare alla pancia della gente, alla buon’anima di chi non ha sbattito di andare a cercare le notizie.  Mi irrita immensamente quest’ignoranza da social network, questa strumentalizzazione negativa di un Referendum che ha tutte le carte in regola per avere conseguenze devastanti. Mi irrita immensamente questa partecipazione politica passiva, queste urla da stadio che non fanno altro che diffondere fandonie (dopo un tot, queste fandonie si trasformano in verità, non si è ancora scoperto come). Mi irrita immensamente che questo importante Referendum stia diventando una barzelletta, una tragicomica vignetta di un popolo ormai in cammino sulla strada verso l’ignoranza; mi irrita che stiamo diventando la satira di noi stessi, la presa in giro di un ideale di patriottismo ormai morto.
Sono sfiduciata, delusa, amareggiata. Italia, popolo di immensa cultura, casa di Firenze, Roma, Venezia; patria natale di Dante, Boccaccio, D’Annunzio, Deledda e altre grandi figure; terra di guerra e poesie, Liberty e Futurismo, Paradiso e Inferno. Italia, dove sei?
“Up, Patriots to Arms”.
Al.
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10.25
10.20 La stazione è gremita di persone, felici, pronte ad andare in vacanza. Aspettano con impazienza quel treno che li porterà al mare, a divertirsi con amici e famiglia dopo mesi di duro lavoro e fatica.
 10.21 I bambini corrono e giocano, entusiasti della partenza, vogliosi di costruire castelli di sabbia insieme ai loro papà. Le madri faticano a tenerli a bada, gli corrono dietro e li rimproverano, ma nulla può contenere la loro contentezza e i loro meravigliosi sorrisi.
 10.22 Si sente l’annuncio di qualche convoglio in arrivo, la gente corre al binario, non si può mica perdere il treno! Valigie in mano, zaino in spalla, e da una tasca semiaperta si intravedono le formine colorate per giocare con la sabbia.
 10.23 Fa caldo, molto caldo. Gli anziani soffrono, si fanno aria col ventaglio, ma attendono con pazienza. Hanno già vissuto momenti così, sanno che il treno arriverà con 10 minuti di ritardo. Non gli importa, l’unica cosa che conta è la vacanza coi nipotini che stanno crescendo troppo in fretta.
 10.24 Una bambina corre per la sala d’attesa, la madre non ha le forze di rimproverarla. Il padre si è allontanato un minuto, per acquistare le sigarette. Tutto normale in quell’afosa giornata d’agosto, ogni anno è così; la stazione pullula di vita e felicità, sudore e sorrisi. È il 2 agosto 1980, e alla morte nessuno ci pensava.
 10.25 L’orologio si ferma. La bambina non c’è più, di lei non è rimasto nulla. La madre ferita, mortalmente. Sangue, sangue e resti umani ovunque. Corpi feriti, corpi martoriati, corpi a pezzi. Bambini urlano disperati, donne cercano mariti e figli, nonni piangono vedendo il cadavere irriconoscibile a terra, pensando sia il loro amato nipotino di pochi anni. Un boato ha spazzato via tutto; felicità, speranza, vita. Non c’è più niente.
Chi è stato, per Dio, chi può aver fatto questo?
Domande senza risposta. Anni di indagini, depistaggi, false speranze. Prima i fascisti, poi la massoneria, poi i servizi segreti deviati.
Non è la prima volta in Italia, non è la prima strage. Non è la prima volta che non si sa niente, non è la prima volta che i mandanti svaniscono nel nulla. È la strategia della tensione, uno sporco gioco politico che va avanti dagli anni Sessanta, un gioco che auspica a chissà quale colpo di stato. Chiamatelo come volete: terrorismo di stato o no, la luce non ha mai illuminato questi casi. Giustizia non è mai stata fatta.
Cosa è rimasto dunque? Il dolore, il ricordo, il rancore e le tombe. E quel buco nel pavimento, nero, freddo, testimone di morte; ferita che nessuno riuscirà mai a guarire.
Non è giusto, non lo è mai stato.
Per i giochi dei potenti sono sempre gli innocenti a pagare, chi non c’entra nulla, chi nemmeno si interessa di cosa succede al di la del muretto di casa propria. La verità non verrà mai scoperta davvero, non potrà mai essere svelata.
Perché la verità è già stata seppellita nella tomba insieme a qualche diario, e da lì non potrà mai uscirne.
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Ancora oggi l’orologio della Stazione di Bologna è fermo alle 10.25. Per non dimenticare, mai.
Al.
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Inside Out - 2015
Fear
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L’amore
L’amore idilliaco non esiste.
Avete in mente quell’amore perfetto, fatto solo di bacini, carezze e belle parole, momenti perfetti e risate a non finire sul divano? Lui che ti porta ovunque, da sbronzo dice di amare solo te, ti vomita addosso ma tu gli prendi il viso tra le mani e gli dici “Sei bellissimo!” e altre cosine cucciolose del genere?
Bene, toglietevelo dalla testa.
L’amore non è una schifezza, anzi, è bellissimo, solo non è così perfetto.
I primi giorni, forse, lo sono. Si passano le ore sul divano a raccontarsi favole di arcobaleni e unicorni rosa, a sbaciucchiarsi e, perché no?, saltarsi addosso come ricci in primavera.
Poi un bel giorno la vita bussa alla porta.
“TocToc!”
“Chi è?”
“La vita ragazzi, su, keep calm and alzatevi dal divano”.
E hai una giornata di m***a al lavoro (tanto quanto la sua!) gli rispondi malissimo, vi mandate a quel paese e olèèè, primo bisticcio. Vaffanculo, stronzo, stronza, non ti cucino la cena minchione fattela da solo, sbatti la porta e tanti saluti agli unicorni della sera prima.
Queste cose le principesse Disney mica ve le dicono. Mica vi dicono che riverserete lo stress sul partner perché è la persona a voi più vicina e che vorreste sempre e comunque al vostro fianco, ma nell’istante preciso e come lo volete voi; però ecco che spunta il SUO carattere e vi sta vicino come meglio può, cioè non come lo volete. E pandemonio.
Poi arriva il periodo del ciclo, dove ogni singola colpa del mondo ricade su di lui.
“Ti amo amore mio!”
“Chi cazzo ami tu eh? Figlio di tua madre, so che lo dicevi alla pianta di Ficus dietro di me, stronzo!!!” e piangi lacrime senza senso.
Arriva anche quella sera in cui ti dice “Vado a bere una birra con gli amici!” e non ti invita. Seghe mentali degne di Freud, pippe così da psicopatica che potrebbero rinchiuderti in manicomio.
L’amore non è perfetto, per niente. E in amore, ci vuole coraggio. Ci vuole coraggio per fondere la propria vita, dapprima solitaria, con qualcuno di completamente diverso da te. Ci vuole coraggio ad abituarsi a delle consuetudini a te completamente sconosciute ed incomprensibili. Ci vuole coraggio ad ascoltare ogni giorno i problemi di una persona, problemi che si sommano ai tuoi e formano una montagna di pensieri in testa. Ci vuole coraggio per stare accanto a qualcuno ogni giorno, nonostante pregi, difetti, bei momenti e giornate di merda, musi lunghi e momenti di solitudine sul divano.
L’amore non è perfetto, non è tutto rose e fiori. Non è “Essere single insieme”, non è coccolarsi ogni secondo. È un legame che, forse, non si spiega, o che comunque io non so spiegare. So che per amore ti senti la persona più felice del mondo e soffri come un cane, ridi a crepapelle poi piangi per qualche stupido motivo, ti senti leggero ma con la testa affollata di dubbi.
L’amore è un azzardo, dal quale nessuno può e riesce a sottrarsi, perché in qualche modo l’amore ci raggiunge, ovunque noi siamo, qualsiasi momento stiamo vivendo. Può nascere nella sofferenza come nel momento più felice della propria vita, può nascere in un bar o in mezzo alla Tundra Siberiana, può nascere tra persone completamente diverse o tra caratteri simili. Può scattare subito o nascere da un’amicizia che, forse, non è mai stata tale.
Quello che voglio dirvi è che pensare all’amore come una favola è sbagliato, perché non lo è.
L’amore è vita, e come tale va vissuto, pienamente.
Al.
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The Sound of Silence
1964. Paul Simon e Art Garfunkel scrissero “The Sound of Silence”. Il suono, il rumore del silenzio. Sì, perché il silenzio, come ogni altra cosa, fa rumore. Fa rumore perché nel silenzio ci si ascolta, i pensieri vengono a galla, echeggiano nel cuore, fanno male. Non siamo più abituati alla pace, alla tranquillità, allo stare con noi stessi. Siamo così impegnati col lavoro, le preoccupazioni quotidiane, la mancanza di stabilità che ci dimentichiamo di sentire il suono del silenzio. Ci scordiamo di ascoltare noi stessi, di concederci del tempo, di calmarci e stare bene. Quando siamo al buio, solo noi e la nostra anima, abbiamo il terrore, non siamo abituati, ci spaventiamo di ciò che udiamo e di ciò che riusciamo a vedere coi nostri occhi; ci facciamo paura. L’oscurità, nostra vecchia amica con la quale dovremmo stare più spesso, ci chiama, e noi non rispondiamo mai.
Hello darkness, my old friend,
I've come to talk with you again,
Because a vision softly creeping,
Left its seeds while I was sleeping,
And the vision that was planted
in my brain
Still remains  within the Sound of Silence.
 In restless dreams I walked alone
Narrow streets of cobblestone,
'Neath the halo of a street lamp,
I turned my collar to the cold and damp
When my eyes were stabbed by the
flash of a neon light
That split the night
And touched the Sound of Silence.
 And in the naked light I saw
Ten thousand people, maybe more.
People talking without speaking,
People hearing without listening,
People writing songs that voices
Never share
And no one dared
Disturb the Sound of Silence.
 "Fools," said I, "You do not know –
Silence like a cancer grows.
Hear my words that I might teach you.
Take my arms that I might
reach you."
But my words like silent raindrops fell
And echoed in the wells of Silence
 And the people bowed and prayed
To the neon god they made.
And the sign flashed out its warning
In the words that it was forming.
And the sign said: “ The words
of the prophets are written
on the subway walls
And tenement halls
And whispered in the Sound of Silence.
Le persone chiacchierano, ma non parlano. Le persone sentono, ma non ascoltano. E il silenzio, come un cancro, si sviluppa. Si sviluppa mentre la sagoma nera dell’ansia si diffonde a macchia d’olio, impedendoci di vivere e goderci ogni momento della vita, bello o brutto che sia. L’ansia, la depressione; le malattie del mondo che ha tutto e non sa più cosa inventarsi per essere felice, le malattie del mondo che vive nell’agio ma gli manca sempre qualcosa, vuole sempre di più. L’infelicità cronica, il cancro dell’era moderna. Un cancro così diffuso da essere ignorato e sottovalutato, un cancro per il quale non esiste chemioterapia, che solo noi possiamo curare. Non riusciamo ad essere felici e apprezzare i piccoli gesti, le gioie (forse un po’ nascoste) che la vita ci regala ogni giorno. Prendiamo ogni cosa alla leggera, tanto tutto è incerto, perché sforzarsi?
Concludo dicendo che la vita, nonostante tutto, è bella. Dobbiamo solo rendercene conto…
Al.
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Sessanta non fa paura, cento non fa cultura.
Esattamente un anno fa, a quest’ora, ero seduta su un Freccia Rossa che da Firenze mi stava portando a Milano Centrale. Il mio pensiero principale era: “Non ho fatto niente. Mi sono rilassata quattro giorni. Non mi sono portata niente da studiare. Fra sedici giorni ho la maturità. Mi devo studiare il programma di un anno in poco più di due settimane ansiaansiaansiaaaaaaa” e vi risparmio la parte volgare comprendente insulti e bestemmie in varie religioni[1].
Esattamente un anno dopo sono seduta sul tappeto di camera mia a scrivere un post dedicato ai maturandi del 2015. Vi voglio dire semplicemente una cosa: la maturità è una presa in giro.
Prendetela sul serio, ma non troppo.
Studiate, ma non affannatevi.
Impegnatevi senza negarvi nulla.
Sorridete sempre e comunque, anche se dentro state morendo.
Abbiate paura solo di ciò che non dipende da voi.
La tipica frase dello studente in crisi, “Sessanta non fa paura, cento non fa cultura”, è tristemente vera, perché la maturità è ingiusta. Ho visto persone uscire con voti superiori all’80/100 (anche 90), dirgli “Oggi è l’anniversario della strage di Capaci” e sentirmi rispondere “Ah perché, cos’è successo?”[2]. Il voto della maturità, dunque, non conta proprio un bel niente.
Conta quello che siete, quello che DAVVERO sapete, quanto vi informate ogni giorno, come affrontate la vita.
Conta quanto leggete, quanto siete curiosi, quanto vi spingete in là pur di sapere la verità.
Conta quanto siete intelligenti, e questo non ve lo dice il voto dell’Esame di Stato.
La maturità non serve assolutamente a niente, l’ho sempre sostenuto e sempre lo sosterrò; è una barzelletta, un’ansia che fanno durare tre anni e finisce in poco più di due settimane. È un esame che va a simpatie (nonostante esistano i commissari esterni), che vi giocate se fate una tesina che non piace, un esame durante il quale l’emozione gioca un ruolo alquanto pesante. Soprattutto, conta quanto avete leccato il culo e quanto siete stati accondiscendenti coi professori durante l’anno. Che voi facciate un CFP o un Liceo vi diranno che l’Esame di Stato conta davvero nella vita e vi segnerà fino alla morte, che è il biglietto da visita per il paradiso o l’inferno, che le università (tutte le università, non solo alcune) guardano il voto d’uscita e le aziende vi chiamano a lavorare in base a quello. Solo a me nessuno ha guardato in cosa sono diplomata e con quanto?
Tutti escono, tutti ce la fanno: basta sorridere, leccare il culo e, possibilmente, piangere all’orale (funziona, fidatevi).
Concludo dicendo: BUON ESAME DI MATURITA’ RAGAZZI, E POSSA LA FORTUNA ESSERE SEMPRE A VOSTRO FAVORE.
Al.
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Ps: non pensate che non stessi morendo d’ansia, esattamente un anno fa. Quando è finita e ho visto il voto, mi sono solo detta “No, non ne è valsa proprio la pena. Sono stata una cogliona a preoccuparmi, è andata come volevano andasse”.
[1] Tralasciamo i dettagli della mia carriera scolastica, che fu alquanto discutibile.
[2] Niente, non è successo niente, idiota.
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25 aprile
In guerra non ci sono né santi né eroi. Ogni parte coinvolta fa cose orribili, riprovevoli, spesso indicibili.
In guerra si uccide. Si uccide per difesa, per odio, per un ideale. Si uccide perché vi è un ordine, perché quell’altro “ha la divisa di un altro colore”[1]. Si uccide per paura, perché a volte non si sa nemmeno cosa si stia facendo davvero.
La guerra, quella vera, noi non la immaginiamo nemmeno. La studiamo sui libri di storia, leggiamo di battaglie, grandi condottieri e piccole vittorie, restando totalmente distaccati, spesso anche indifferenti. Studiamo a memoria solo perché ci viene imposto, solo per passare la verifica. Due ore dopo, tutto dimenticato. Sui libri non studiamo la sofferenza, non studiamo di ogni singolo essere umano caduto per chissà quale ideale, giusto o sbagliato che fosse. Sui libri non studiamo niente al di fuori dei freddi fatti, non andiamo mai oltre.
La guerra è di più, molto di più. Niente potrà mai farci immaginare le sensazioni, i sentimenti, i desideri di un soldato al fronte. Niente potrà mai farci immaginare la gioia nel ricevere una lettera da casa e le lacrime nel leggerla, consapevole che potresti morire il minuto dopo. Niente potrà mai farci immaginare la difficoltà nel tornare a casa, con nulla in mano se non la propria vita (e già non è poco), nella più assoluta povertà e dimenticare, costringersi a dimenticare tutti quei morti, spesso tra le proprie braccia, per riuscire mandare avanti la baracca (se ancora si ha una baracca con qualche membro della famiglia da mandare avanti).
Perché vi dico questo? Oggi è il 25 aprile, 70 anni dalla liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista da parte delle forze partigiane. Come dicevo prima, in guerra non ci sono né santi né eroi. Elogiare una o l’altra parte non lo trovo corretto. TUTTI, nessuno escluso, hanno fatto cose orrende durante la guerra, e sicuramente per liberare l’Italia di cadaveri ne son stati fatti tanti, probabilmente anche senza alcuna colpa, solo perché si trovavano nel posti sbagliato al momento sbagliato.
25 aprile. Un’Italia dunque libera, libera di respirare, libera dall’opprimente dittatura, libera di camminare per le strade senza paura e affanno, libera di essere ebrea. Un’Italia nuova, gioiosa, in festa. Un’Italia LIBERA e FELICE.
La domanda del post di oggi è questa: a cosa ci ha portati la libertà? Vedo persone che non sanno nemmeno che festa sia il 25 aprile, apprezzando solo il fatto che “è vacanza”. Vedo persone che non sanno nemmeno cosa sia successo dal ’39 al ’45 e non se ne interessano minimante, come se ciò non le riguardasse, come se quegli avvenimenti non avessero un minimo segnato la loro vita. Vedo persone che festeggiano il 25 aprile senza conoscerne il vero significato, sbandierando solo il tricolore sul balcone. Vedo persone che ABUSANO della libertà, come se fosse una cosa ovvia e dovuta, come se ci fosse sempre stata, come se non fosse costata fiumi di sangue. Vedo persone travisare il concetto di libertà, come se significasse “Io faccio ciò che voglio in ogni momento e in ogni ambito, perché sono libero”.
Lascio qui stare la sfera politica (destra - sinistra - Fascismo - Resistenza - Repubblica etc), sarebbe un discorso lungo e complicato, non è questo che voglio oggi. Vi voglio solo dire che la libertà non è una cosa ovvia come tanti pensano, non c’è sempre stata.
Il concetto di libertà cambia nel tempo, cambia come cambiano i tempi e le stagioni, è mutevole, ma non ovvio. Non date sempre per scontate le cose, non scadete nella banalità e nell’esagerazione, nell’ostentazione di una libertà che già avete. Non urlate “NON SIAMO LIBERI!” perché non legalizzano la mariujana e le puttane o perché dei poliziotti vogliono far rispettare la legge e vi cazziano se siete sul motorino in 2 senza casco. Potete camminare per le strade a testa alta, senza rischiare il carcere per motivi che nemmeno sapete. Potete tornare a casa alle 5 di mattina senza rischiare manganellate perché il coprifuoco era alle 22. Potete fare tutto quello che volete, nei limiti e nel rispetto di leggi che francamente lasciano ampio spazio alla libertà personale. Potete vivere tranquilli e sereni, ciò dovrebbe bastarvi.
Mettetevi in testa una cosa: per avere la libertà che abbiamo ora, l’Europa (e non solo), tra il 1939 e il 1945, è stata un enorme e profondo lago di sangue, sudore, polvere da sparo e sofferenza. Quando vi alzate la mattina, ringraziate il vostro dio (qualunque esso sia) perché potete andare a lavorare sereni, col sorriso stampato sulle labbra e senza un fucile sulle spalle. Alzatevi la mattina, tutte le mattine, e dite “Grazie, anche oggi sono libero”.
Al.
[1] La Guerra di Piero, F. Dè Andrè.
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Essere atea.
Essere atei è difficile. È così difficile che spesso fingi di non esserlo, perché non hai voglia di spiegare cosa pensi davvero. È complicato, così complicato che pochi ti capiscono e molti ti criticano o, peggio, pensano tu non sia una brava persona. Le domande più frequenti sono “Perché non credi? I tuoi cosa dicono? Scusa ma a Natale cosa fai? E a Pasqua? Non dovresti festeggiarli e accettare i regali se non credi!”. Bene, chi fa queste ultime due domande già non ha ben capito il significato di Natale e Pasqua, ma tralasciamo.
La parola “ateo” deriva dal greco àtheos, che letteralmente significa “senza dio”. Nonostante siamo nel 2015, essere senza dio può essere un problema. Siamo così eccessivamente “cresciuti con una morale cattolica”[1] e timor dell’aldilà che vedere qualcuno che riesce tranquillamente a vivere senza credere in un’entità completamente astratta e vari luoghi adibiti all’anima post mortem[2] è inconcepibile.
Ora arriva la domanda fondamentale, cuore del post di oggi: Perché non credo in dio? Non credo in dio per la sofferenza del mondo.
Come può un dio lasciar morire i suoi figli di fame e sete? Come può far morire dei bambini di pochi mesi di malattie incurabili, o addirittura farli venire al mondo senza vita? Come può far vivere dei degli assassini e lasciare che persone che dedicano anima e corpo agli altri muoiano ogni giorno? Come può un dio accettare un’istituzione ricca e corrotta a rappresentarlo? E ancora, come può un dio permettere che uccidano nel suo nome, un nome che dovrebbe significare pace e rispetto?
Potrei fare queste domande all’infinito e la risposta nella mia mente sarebbe sempre quella: non c’è un dio. Non ce la faccio a credere che ci sia, non posso, mi sembra troppo ingiusto; soprattutto, non posso credere nella giustizia divina. È troppo bello pensare che ci sia qualcosa dopo, quando il cuore smette di battere, qualcosa che lenisca ogni pena subita in vita, pensare arrivi un riscatto dopo la morte. I buoni in paradiso, i cattivi all’inferno. Non può essere. Principalmente perché siamo tutti peccatori, chi più e chi meno, e tutti noi facciamo delle cose non degne del paradiso. E non mi si parli di pentimento. Va bene, dio dovrebbe capire chi è davvero pentito o no, però... Se uccidi hai comunque tolto una vita. Il pentimento in certi casi non è proprio contemplato. La redenzione ancora meno.
Insomma, quello che voglio cercare di far capire (e so che ci sto riuscendo malissimo) è che al mondo c’è così tanta sofferenza che non vedo la presenza di dio. Non vedo il suo riflesso, non vedo il suo operato. Vedo persone che si fanno il fondoschiena quadrato ogni giorno per stare al mondo, persone disperate (davvero disperate) che chiedono miracoli che non avvengono mai, persone che pregano e si inginocchiano davanti a una croce senza ottenere risposta. Sarebbe bello se Gesù ci rispondesse come rispondeva a Don Camillo, ma non è così.
Ora, non venitemi a chiedere “Ma il senso della vita allora qual è? Triste se tutto fosse fine a se stesso, non puoi vivere così”. Invece si, perché consolarmi con delle favolette? Non trovo nessuna consolazione nel pregare invano, senza ottenere riscontri. Ciò che vedo coi miei stessi occhi mi porta ogni giorno di più a pensare “No, dio non può esistere”.
Questo è il pensiero di una ventunenne atea, divenuta tale informandosi, leggendo e pensando con la propria testa senza farsi influenzare troppo dagli altri. Diciamolo, chi dice di essere ateo senza dare motivazioni e bestemmia da mattina a sera non è ateo, semplicemente lo fa per moda, perché dire ai propri amici “Sono ateo por** ***” fa figo. Non funziona così, sappiatelo.
Al.
[1] “...e con il rock’n’rooool” ♫ [2] Mai fatto latino, non so se sia declinato giusto.
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Ero ospite sua - egli di me, e non avrei saputo dire se ad invitarlo fossi stata io o non lui invece ad invitare me.
Così infinito il nodo che ci lega, così intimo invero, che più uniti non sembrano la capsula e il custode del seme.
E. Dickinson, poesia 1721.
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Le 10 ore nel cesso
Sveglia ore 07:30.
in realtà, tra un pensiero e l’altro, ero già sveglia dalle 07:00, ma questi sono dettagli irrilevanti (o forse no?); sta di fatto che all’ora sopraindicata mi sono alzata dal caldo lettuccio sul quale stavo beatamente riposando con due feline in coccolite acuta e mi preparo per la lunga giornata che tanto ho temuto in questi mesi di lavoro: il primissimo giorno del CORSO DI APPRENDISTATO.
Mi alzo, mi vesto, cerco di non infilarmi il mascara dritto nell’occhio, caffè veloce; saluto cane, gatte e genitori e prendo il comando della mia meravigliosa e scricchiolante 206 alla volta della sede del Cesvip Varese. In auto le bestemmie non sono mai troppe (mentre i deficienti sì), ma arrivo comunque intera, e senza aver investito nessuno, al parcheggio, dove riesco a trovare un posto auto facile facile e rigorosamente NON in retromarcia.
“Bene, e mo dove cazzo devo andare?” è il primo mio pensiero una volta scesa dalla macchina. Due posti per l’impiego allo stesso indirizzo. G-E-N-I-A-L-E. Ovviamente entro in quello sbagliato e aspetto un quarto d’ora una tizia per avere delle informazioni: costei mi sbatte fuori allegramente, dicendomi di andare dall’altra parte della strada. Grazie.
Una volta entrata nel giusto ufficio mi rendo conto di essere tra le prime ad arrivare e mi accaparro un meraviglioso posticino in fondo all’aula. Mi siedo comodamente e tiro fuori l’arsenale bloc-notes - acqua - penne - iPad - iPhone. Con sconforto osservo la scritta “Nessun servizio”, che significa “Non posso fare l’hotspot per andare su internet con l’iPad e farmi i cavolacci miei”. Poco male, perché il totale presenze è di sette anime perdute e il mio favoloso posticino in realtà è dritto dritto davanti alla cattedra dello pseudo insegnante, dato che nessuno mi si è seduto davanti. Sono sfigata, ma proprio tanto.
In cosa consistono le 10 ore buttate nel cesso? Le 10 ore buttate nel cesso consistono in 8 ore di corso di apprendistato divise in:
- 4 ore sul diritto del lavoro (che potrebbero anche essere utili, se l’insegnante non fosse un sadico finto comico, simpatizzante per il “Ti tolgo la paga se vai in bagno a fare pipì”); - 4 ore sulla comunicazione. Non comunicazione aziendale (che peraltro sarebbe utilissima), comunicazione in generale, compresa di emozioni sentimenti impressioni filmati del cazzo e chi più ne ha più ne metta.
La dubbia utilità di questo corso è evidente. Soldi spesi malissimo per formare ragazzi (e non) provenienti da settori completamente diversi su tematiche che non hanno assolutamente a che fare col lavoro vero e proprio. Lasciando da parte il mio modo di essere odierno, palesemente indifferente e stizzito di fronte a cotanto spreco di tempo e denaro, se il corso m’avesse insegnato qualcosa di utile e relativo al mio lavoro sarei rimasta un po’ contenta, perché avrei impiegato il mio tempo (nonché il tempo del negozio dove lavoro) per formarmi su qualcosa di utile per ciò che faccio ogni giorno da ormai parecchi mesi. Invece così non è stato e non sarà nelle prossime lezioni.
Di certo non posso dire di essere delusa, me lo aspettavo. A nulla sono servite le suppliche al mio capo per farmi andare a lavorare anzichè partecipare alla cagata dell’anno; devo andarci e basta. Sono obbligata a farmi venire mal di testa ogni giovedì fino alla fine di maggio.
L’unico momento di felicità della giornata è stato quell’attimo in cui ho addentato il bastone francese cotto-squaquerone-rucola all’Esselunga… Mmmmmmmh, bastone fracese.
Al.
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Primavera.
“Che fretta c’era, maledetta primaveraaa, pollini di merda, statevene a casa vostraaa”.
Fu così, canticchiando queste parole nella tiepida aria di marzo, che iniziò la primavera. Meravigliosa primavera. Sugli alberi spuntano delle timide foglioline verde chiaro, i prati si vestono di mille colori, il sole scalda le membra stanche dal lungo e gelido inverno. E i nasi starnutiscono. Etchù!
La primavera è stupenda. Essa porta gioia, speranza, vita. Ma soprattutto, per i poveri allergici sfigati come me, porta a non dormire di notte; i polmoni non funzionano più bene e le farmacie hanno il picco di vendita di Ventolin e antiasmatici vari. Ciò che respiri di giorno rompe i coglioni quando calano le tenebre, quando stanca da una giornata di lavoro vorresti solo serrare le palpebre ed abbandonarti a un sogno in cui Robert Downey Junior ti chiede di sposarlo [ :) ]. Invece no, il respiro si fa corto, uno strano rantolo inizia a giungere ai timpani, il naso cola e la tosse imperversa, facendoti credere che a breve sputerai bronchi e polmoni. Alla fine non sputi assolutamente niente, resti solo sveglia col terrore di andare in apnea. E della sveglia la mattina dopo.
La primavera è stupenda. Il sole caldo ti coccola, ti culla durante la breve pausa pranzo che ti godi come l’ora d’aria di un carcerato. I fiori ti guardano maestosi in tutta la loro bellezza, il vento tra le novelle foglie degli alberi crea quel meraviglioso suono chiamato “fruscio”, così rilassante da indurti a pisolare. Pisolare sotto il sole delle 14. E riesci ovviamente a scottarti, perché non bastavano le allergie, l’asma e la tosse causata dai vari pollini non meglio identificati, no! Ovviamente riesci anche a bruciacchiarti come un toast sotto il sole di marzo. E vai al lavoro così, sperando che il fondotinta faccia decentemente il suo lavoro (tranquilli che non lo fa mai nei momenti di crisi).
La primavera è stupenda. Nonostante tutti questi piccoli (ma immensamente fastidiosi) lati negativi, mi stupisco ogni anno di come la natura giunga a nuova vita da sola e rinasca sotto i nostri stanchi occhi. Mi stupisco ogni anno della bellezza delle primule, così allegre e colorate, dei mille diversi fiorellini che si possono trovare nei prati e delle piccole dolci margherite che vorresti raccogliere per farci le collanine, lasciandole però vivere perché non meritano di finire così male. Mi stupisco ogni anno di come gli alberi, da piccoli ed indifesi tronchi marroni brutalmente potati dagli operatori del comune, si trasformino in maestosi ed enormi nuvole verdi, donandoci frescura e ossigeno. Mi stupisco ogni anno di come le persone non notino quest’immensa bellezza e continuino indisturbate la loro vita, non comprendendo che tutto ciò influisce pesantemente sulla nostra esistenza.
Mi continuo a stupire del mondo, quando in realtà non c’è proprio niente di cui stupirsi nel comportamento dell’essere umano medio, totalmente indifferente alla bellezza che la natura ci offre, completamente anestetizzato dalle crude immagini che vede ogni giorno al notiziario, così sedato dalla brutalità che non vede quel timido fiorellino viola in mezzo all’aiuola che sta nascendo e ci butta a fianco un mozzicone di sigaretta, facendo così la sua buona parte di distruttore del mondo.
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 Al.
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Una normale serata di tristezza
Una normale serata di tristezza. Di quelle che spesso capitano. Giornata infinita sul lavoro, torni a casa e le gatte ti han devastato le piantine che hai curato per mesi con amore infinito, nessuna voglia di far la doccia e impiegarci 40 minuti per asciugare un ammasso informe di ricci, un ragazzo che non capisce una minchia.
 Una normale serata di tristezza, durante la quale pensi:
1.     Guardo un film allegro… non va il sito di streaming.
2.     Leggo qualcosa di bello… però mi bruciano gli occhi.
3.     Coccolo la gattina… mi graffia e se ne va.
4.     Scarico qualche canzone nuova allora… ma quale canzone nuova?
 Al che ti viene in mente lui. Battisti. Lucio Battisti. Cuffiette alla mano, “Il mio canto” libero nelle orecchie. E tante, tante emozioni si mettono a gironzolare per quel piccolo cuoricino pulsante di vita (che dopo 1 minuto e mezzo di musica viene devastato da uno tsunami di sentimenti contrastanti sull’amore e la vita, non al tempo degli 883 però, ai miei di tempi[1]).
Una normale serata di tristezza durante la quale vorresti scrivere il pezzo migliore della tua vita, ma riesci a scrivere solo minchiate su un blog che non si caga nessuno. Niente politica oggi, niente pensieri contro qualcosa o qualcuno. Solo una normale serata di tristezza come tante nella vita.
La tristezza e la malinconia sono dei sentimenti così normali che quasi mi spaventano. Insomma, perché lasciarsi innervosire da una giornata storta? Perché soffrire per qualcuno? Risposte, ovviamente, che non arriveranno mai. La tristezza improvvisa non si può spiegare, viene e se ne va come le pare e piace. Un po’ come la pioggia (se non abitate a Varese, miei cari lettori, perché in quel caso la pioggia viene… e basta).
Una normale serata di tristezza. Mandi a cagare chiunque, ti rinchiudi in camera tua, ascolti musica deprimente, vorresti spaccare giusto qualche tenero ed innocente faccino. Ogni tanto il sopracitato cuoricino si mette a pulsare di vita più del dovuto facendoti pensare ad un infarto imminente, poi riprende il ritmo normale e iniziano a velarsi gli occhi di un sottile strato di liquido salato e dal gusto sgradevole chiamato volgarmente “pellicola lacrimale”. A quel punto vai a letto e ti rigiri nella tua brodaglia di pensieri inutili per qualche ora, incazzandoti pesantemente perché “Fra sei ore suona la sveglia @¥$#%&![2]”
La cura, è solo…
 Al.
Ps: il casuale dovrebbe essere intelligente, invece dopo il buon Battisti ha deciso che un brano come Levels di Avicii fosse adatto alla situazione. Grande, hai capito tutto App Musica.
[1] Love/Life, (L’amore e la vita al tempo degli 883). Decimo e ultimo album degli 883 pubblicato nel 2002.
[2] Parolacce sapientemente censurate.
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Greta&vanessa, fra ipocrisia e libertà
Falsi. Ipocriti. Opportunisti. Questo è ciò che siete. O per lo meno, che la maggior parte di voi sono.
E ora vi spiegherò anche il perché.
Fino a oggi pomeriggio su ogni social network possibile e immaginabile trovavo l'hashtag #JeSuisCharlie, favolose frasi inneggianti alla libertà di parola e di stampa, meravigliose immagini di come le matite possano essere un'arma più pericolosa di un fucile per una dittatura, foto strappalacrime di intere folle di parigini impegnati attivamente a difendere i propri diritti. Non sono contraria a nulla di tutto questo, sia chiaro; è l'ipocrisia a farmi schifo (scusate, ma non trovo un vocabolo migliore per dirlo).
Per quale strano motivo parlo di ipocrisia? Parlo di ipocrisia perché giusto stasera è arrivata la notizia della liberazione di Greta&Vanessa, le due ragazze rapite dai ribelli siriani nel luglio 2014. La storia è ovviamente molto complessa e le opinioni a riguardo sono varie, anche se la maggior parte sono a favore del pagamento del più che cospicuo riscatto e del loro ritorno in patria. Ebbene, una minoranza di esseri umani pensa esattamente il contrario. Ebbene, questa minoranza di esseri umani viene spesso insultata pesantemente. Ho letto post in quel di Facebook che dichiaravano "Mi fate schifo, non potete pensare solo ai soldi pagati per quelle due povere ragazze" o meglio ancora "In questo paese non contano solo i Marò, mi fate vomitare, fate veramente pena" e altri insulti (piuttosto volgari) di vario genere inseriti negli stati e nei relativi commenti.
Non eravate favorevoli alla libertà di parola? Non eravate favorevoli alla libertà di espressione? Non eravate favorevoli alla liberta di stampa?
Concludo questo breve post con l'ultima domanda, fulcro di tutto il testo: DOVE SONO LE VOSTRE LIBERTA' DI PENSIERO E DI ESPRESSIONE OGGI?
Al.
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Pensiero a Charlie
La prima frase che mi viene in mente leggendo le notizie di oggi riguardo all’attentato a Charlie Hebdo è: “Sarebbe anche ora di finirla di uccidere in nome di un dio che nemmeno esiste”.
So benissimo che la cosa è decisamente più complessa.
Si è sempre ucciso nel nome di dio e per me questo è il problema. Sono fermamente convinta che un dio non permetterebbe mai tutta questa sofferenza, non permetterebbe mai che delle vite vengano spezzate per onorare il suo nome e diffondere la sua parola. Dio dovrebbe essere sinonimo di “speranza”, non di “distruzione” e “morte”. Dio dovrebbe portare la pace, non la guerra. A catechismo mi hanno sempre detto che “Dio è amore”, ma in questi gesti di amore non ne vedo neanche un po’, al contrario vedo odio e disprezzo nei confronti della vita e di quelli che (religiosamente parlando) bisognerebbe considerare propri “fratelli”. Uccidere è già sbagliato in sé, ma uccidere in nome di qualcosa che dovrebbe portare pace è… abominevole, schifoso, riluttante.
E qui illustro il mio modesto pensiero: vedo la religione come il male, una cosa che ormai non ha più senso di esistere. Cercare risposte, guardare al di là della semplice vita umana, dover per forza trovare una ragione alla nostra esistenza per poter giustificare ciò che ci accade ogni giorno sono i motivi per cui l’uomo ha creato le religioni, motivi da unire al senso di inquietudine che l’incertezza della morte dona a qualsiasi cuore voglioso di vivere. Un pensiero quasi totalmente ateo? Sì, ma non posso neanche lontanamente pensare che dio esista per tantissime ragioni, oltre a quelle sopra citate, che di certo non elencherò ora.
Tornando a ciò che è accaduto oggi (e che sta accadendo nel mondo da ormai troppi mesi), sono indignata da un tale gesto, che ritengo assurdo e immotivato. Al di là dell’opinione personale sulle vignette satiriche, non è possibile morire per una cosa del genere, non è veramente possibile e non ha nessun senso, non è giusto. 12 vite spezzate per ideali astratti di fanatismo religioso ESTREMO, 12 anime che semplicemente facevano il loro lavoro a casa propria, cioè in una nazione in cui vige la libertà di parola, di opinione e di stampa; quindi mi chiedo: con che diritto queste 2/3 bestie incappucciate e urlanti (scusate ma non posso considerarli esseri umani) hanno fatto quello che hanno fatto? La risposta è semplice, non avevano nessun diritto di farlo. Nessun cavolo di diritto. Ma l’hanno fatto, è successo. Queste 12 persone (perché prima di essere direttori, giornalisti e vignettisti sono PERSONE) ci hanno rimesso la vita.
E non è giusto.
Ovviamente le cose da analizzare sarebbero molte e parecchio complesse, il mio è solo il pensiero di una ragazza di vent’anni con poca cultura, però vi dico, e consiglio, una cosa: riflettiamo, riflettiamo, riflettiamo.
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Al.
Ps: un pensiero va soprattutto alle famiglie delle vittime, le più colpite in assoluto da questa tragedia. Je suis Charlie.
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Esame di maturità - Day 1
Ore 06:35. Suona la prima di tre sveglie puntate in successione a 5 minuti di distanza. La famigerata "Notte prima degli esami" è trascorsa in tutta tranquillità. Sonno senza interruzioni e rilassato; unica pecca: sognare John Fitzgerald Kennedy. La speranza era quella di avere una traccia sul suo omicidio. Trucco, parrucco e moka di caffè da 4 solamente per me. Buongiorno mondo! Io c'ho sonno!
Ore 07.20. Mi avvio verso la macchina, più eccitata che ansiosa. Tutto procede per il meglio, il casuale dell'iPod sembra capirti e mette le canzoni più allegre di tutto il repertorio che contiene. Fino a qui, tutto bene. Beh, non per i vetri dell'auto, visto che cantavo a squarciagola.
Ore 07.45. Approdo a scuola, una massa di studenti in crisi davanti al cancello piange disperata. "NON SO UN CAZZO!", "Ma la tesina?", "Oh chi è quello sconosciuto che arriva in macchina? Forse il nostro commissario esterno? Sì è per forza nella nostra commissione, c'ha la faccia da stronzo" sono le frasi ricorrenti. Il panico aleggia negli animi, l'aria è carica di tensione. Sarebbe stato il paradiso di Tesla.
Ore 08:20. Iniziano a chiamare. Sa un po' di mietitura come cosa, lo ammetto. "Ragioneria!", "Liceo!", "Professionale!" e, infine, i soliti sfigati: "ITPA! In aula magna!" Ma porca eva, siamo proprio sfigati. Per fortuna ci hanno messo i banchi, non ci han lasciati sulle seggiole a scrivere sul nostro braccio. Dalla mia scuola m'aspettavo quello e altro.
Ore 09.10. Dopo svariate tappe cesso, bestemmie sussurrate, "Non so un cazzo per il tema storico" e "Ma tu che hai portato da mangiare?", consegna delle tracce. E lì le bestemmie iniziano a non essere più sussurrate. Lo sconcerto si vede sui volti di ogni singolo individuo presente in aula. "Quasimodo? Ma cos'è?! Io mi ricordo solo quello della Disney" e anche il commissario esterno di italiano ammette, con rammarico "Eh, anche io non l'ho fatto coi miei ragazzi. Ho sbagliato, pazienza"; e io alla disperata ricerca di Kennedy. Il MIUR mi ha lasciata a piedi, nessun JFK tra le 7 tracce di merda.
Ore 10.30. La presidentessa di commissione si presenta in aula. "Ragazzi, vi comunico che gli orali inizieranno il 25 giugno. La lettera estratta è la A [e io inizio a tremare] e si inizierà dalla sezione D". A quel punto ho iniziato seriamente a tremare in maniera convulsa e a piangere. La prima dei primi. Lettera A, sezione D. Ambrosini Angela Sfigata Lucia.
Ore 12.23. Consegno il tema di merda, scritto di merda ispirato ad una traccia di merda, la meno peggio secondo il mio povero cervello che riusciva a pensare soltanto "Ehy, anche stavolta, come alle medie, sei la prima. Pronta per la figura da cretina?". Esco dall'aula magna insultando qualsiasi Zeus Maometto o Buddah mi capitasse in testa, ripetendo la ricorrente frase "Ragazze, io non so un cazzo di niente".
La matura ha iniziato a fare paura oggi alle 10.30 per me. "C'è tempo. Questo lo faccio domani, questo lo salto, questo non ce lo chiederà mai". Le mie citazioni ricorrenti.
L'orologio batte il minuto, tictoctictoctictoc "Ehy, siamo dentro un orologio". Ora è una corsa contro il tempo, e credo di essere veramente immersa in una vasca piena fino all'orlo più volte citata MERDA.
Concludo citando la mia adorata Effie Trinket: "FELICI ESAMI DI MATURITA', E POSSA LA FORTUNA ESSERE SEMPRE A VOSTRO FAVORE".
P.S.: Venitemi a dire che è una bella esperienza che giuro, vi prendo a calci in culo se siete donne e a calci negli zebedei se siete uomini.
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