Tumgik
dodicieoni-blog · 10 years
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IL QUADERNO DEGLI APPUNTI
  sento il rumore della città che dorme
reprimo le mie candide voglie sorde
chiamo a raccolta tutti i demoni che conosco
mi chino su di te, e con un bacio sulla fronte
chiedo scusa, per me
per te, e per ogni vecchio discorso
si lo so che dico sempre le stesse cose
con la paura che alla fine tu possa scordare
quanto di me, ho lasciato il quel quaderno 
che mi devi ancora restituire
chiedo perdono, per me
per te e per ogni futuro ormai impossibile
mi sorprendi che ti guardo,
incantato dalla malinconia del tuo volto
così pallido
così bianco
ho scorto in te una dolcezza infinita, 
destinata ad altri
ad altri 
loro che non hanno spade al posto delle dita
gli altri che sanno portarti dove volevi andare
gli altri che riescono a capire il tuo amore
che mi spaventa,
che mi annienta
incapace di amare resto qui, sulla riva a guardarti nuotare
un tremito ti scuote
la brezza di mare
e se io dovessi sparire, ti prego non perder tempo a ricordare
quanto di me c’era in quel cazzo di quaderno
che ti devo ancora restituire
 incapace di ascoltare, rimango a bocca chiusa
ma spiegami ti prego come dovrei fare
a non voltarmi se devo andare
euridice mi saluta, scompare
e se io dovessi sparire
tra un esame e una poesia da finire
ti prego non perder tempo a ricordare
che in fondo
ce la potevamo fare
euridice mi saluta, scompare
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dodicieoni-blog · 11 years
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INSONNIA
Lunedì 5 agosto 2013, ore 5:48.
Spesso mi ritrovo qua, a guardare vecchie foto, a leggere lettere spiegazzate, nascoste, un tempo, dietro ai libri che tu amavi tanto. 
Non provo niente la notte.
È come se dal tramonto all'alba, chiuso dentro queste quattro mura, io avessi l'occasione di redimermi, di prendere in mano la mia vita. È un'opportunità che mi viene offerta ogni giorno, ogni volta che le colline davanti alla porta di casa mia inghiottono il sole. È uno spettacolo terrificante. Quando ero piccolo ogni tramonto era l'occasione per immaginare in quale disastroso modo si sarebbe potuto schiantare il grande sole rosso. Quali catastrofiche conseguenze avrebbe avuto. Notte per l'eternità. Insonnia per l'eternità. Che alla fine uno impara pure ad amare le sue condanne.
Nella notte io sono davanti ad un tribunale.
Sempre colpevole.
Sopratutto colpevole di quello che non ho fatto. Che non ho detto. Dei baci che non ho dato. Dei libri che non ho letto. Ogni notte scordo la mia arringa. Perdo. Perdo sempre. Tutto. Ho perso te. Ho perso me stesso. Ho disintegrato i miei principi, i miei valori, i miei punti fermi adesso ruotano in orbita casuale attorno ad un enorme voragine. Sempre più pericolosamente vicini al baratro.
Come me.
Ogni giorno che passa, ad ogni tremenda alba, mi avvicino al vuoto. La notte per me esiste per questo credo. Per darmi tregua. Non posso dormire, non ho questo diritto. Dormire mi avvicinerebbe ancora di più all'abisso. Ho sempre trovato questa parole estremamente affascinante.
Abisso.
Si apre con una vocale. Ampia. Enorme. Indescrivibile. Dà l'idea della dimensione, del raggio di questo incommensurabile vuoto. E poi si chiude con sibilo. Un suono sordo. Muto. Buio. Come la mia bocca. Buia. Muta. Sorda. Morta.
Come quando sta per cadere una cosa dal tavolo e la prima reazione che hai è quella di socchiudere gli occhi. Prepararsi allo schianto. Non di certo cercare di impedirlo.
La collisione è il senso della mia vita. Continui scontri con il terreno freddo. Fianchi macerati. Incancreniti. Le piaghe che non guariscono mai sono quelle che sei costretto ogni giorno a riaprire. È per questo che non dormo mai
Non riesco a stare sdraiato.
Ho la schiena a pezzi e i fianchi come un campo di battaglia del 1600. Rossi. Sanguinanti. Aperti. Ridicoli. Nonostante questo, io guardo sempre dentro l'abisso. Dentro al gorgo. Guardo per scorgere quali infernali creature verranno a prendermi un giorno. Perché verranno, lo so. E lì non ci sarà amore, non ci sarà speranza. Non per me. Per adesso se ne stanno là, buoni e silenziosi. Ma nel buio posso sentire i loro respiri, i loro pensieri.
Mi verranno a prendere.
Qualche volta capita che li guardi negli occhi. E in quel momento il demone sono io. L'abisso sono io.
Il gorgo è fatto di solitudine, di alienazione, di morte, di malattia, di amore, di passione, di desiderio. Ma soprattutto è fatto di niente. Cioè di me. Cioè della mia stessa esistenza. 
Capita però che qualche volta veda delle mani tese. Ho la colpa, forse, di non capire mai se vogliono spingermi ancora più giù o salvarmi. In ogni caso io apro i loro polsi. Rompo le loro dita. Qualcuna rimane tesa ugualmente. Si rigenera. Cura le ferite che le ho fatto e rimane. Lì, per me
Ed io piango. 
Piango lacrime di piombo. Pesanti, regolari. Nere. Lacrime di chi sa di cosa sta morendo. 
Salvami.
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dodicieoni-blog · 11 years
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NEVE E CARTA
Aveva ancora un po' di sabbia nelle mani. Quei granelli fastidiosi proprio non volevano andarsene, rimanevano attaccati alle dita. Resistevano imperterriti, resistevano aggrappati a quei minuscoli millimetri di pelle. Un po' come lui. Anche lui era solito rimanere aggrappato come un granello di sabbia di inizio settembre, aggrappato alla speranza di non cadere, di rimanere nelle mani di qualcuno che avesse voglia di sentire il mare addosso. Su di se. 
Lei era un po' stanca, dopotutto non aveva dormito e reggeva a stento alta la testa, pesante sotto quella nube di pensieri che stava per aprirsi sul castello.
Un bellissima costruzione architettonica.
Aveva fretta di non andarsene. Sperava che improvvisamente le convenzioni numeriche si modificassero per chissà quel legge universale, in modo tale che le ore si dilatassero. Lunghe come decenni. 
Ma in fondo loro avrebbero avuto bisogno solo di pochi giorni e un sacco di neve in più. 
Era divertente vederli giocare come due bambini che rincorrono un aquilone, mentre quell'uomo laggiù lo tiene stretto, lo dirige un po' dove vuole. Ma i bambini non se ne possono curare troppo del perché delle cose, del come mai quell'aquilone non si faceva prendere: era così bello correre.
In due.
Correre in due.
Correre.
Chi li vedeva non poteva non sorridere.
Perfino uno scrittore che passava di lì prese spunto dalle loro parole dette sottovoce, con quella sorta di colpevolezza sotto le labbra, in fondo alla gola. Scrisse qualcosa. Poi lo gettò in mare. Scrisse allora un altro inizio, un altro ancora. Questo forse andava bene. Macché: anche questo finì nelle braccia del mare. Andò avanti così per giorni, con loro che puntualmente si ritrovavano su quel lenzuolo di spiaggia, in mezzo a tutti gli altri continenti. Lo scrittore ogni giorno si presentava lì, armato delle migliori intenzioni, convinto che ogni giorno, ogni momento fosse quello buono per inventare una storia su quei due. Non si baciavano mai. Avrebbero voluto. Ma non lo facevano. Impossibile dire perché, impossibile da sopportare. Tutta quella tempesta sotto la lastra di sabbia e cemento della spiaggia, tutti quei tornado che ritornavano in superficie non facevano altro che stuzzicare la fantasia, la creatività dello scrittore. Niente. Ogni inizio era così inappropriato. Ogni incipit da buttare. 
L'uomo allora decise di lasciar perdere. In fondo quei bambini sarebbero cresciuti, ne sarebbero venuti altri. 
Ma la voce si era sparsa nelle vie del paese, e ancora più in là, in città, nelle colline, lungo i fiumi. E allora, a poco a poco, la spiaggia si riempi di scrittori, pittori, artisti di ogni genere. Perfino musicisti. Uno di questi ultimi arrivò a tanto così nel comporre una melodia che rendesse giustizia al viso di lei, al farsi da parte di lui, nel loro continuo gioco di luci e ombre. Erano solo dei bambini in fondo, ma le voci erano quelle di due adulti. Parlavano piano, come se le parole avessero delle lame alle loro estremità. Come se potessero farsi del male. Morire. Intanto sulla riva il mare rigettava quella moltitudini di fogli bianchi. Di scarabocchi, ritratti, composizioni, abbozzi di racconti che non videro mai il sole. 
Lei era bionda, chiara, che se la guardavi troppo a lungo temevi di poterle fare del male. Lui era ridicolo sotto quella falsa apparenza da uomo cresciuto. Era solo un ragazzo. Lei era già un fiore. Lui amava farle promesse. Lei aspettare. 
Parlavano spesso di cose poco interessanti, trovando comunque il tempo di ridere della vita che gli era stata data. Come un incantesimo sconfiggevano il tempo, il Caso. Somma di infinite contingenze, come granelli di sabbia cadevano e si rialzavano, scossi dal moto delle onde. Molti provarono ad avvicinarli, a chiedere loro cosa facessero ancora in spiaggia. Era ormai settembre. Cosa ci fare qua ragazzi? Non vedete che nuvoloni? - si, ma sono i miei. E allora? Andate a casa? - noi stiamo aspettando. 
Era ormai settembre. Neve. Neve di settembre. Dove c'erano quei due accadevano cose strane. Alla fine un po' tutti decisero di evitarli, di lasciar perdere le storie sul loro conto. Di quanti artisti avevano perso la battaglia contro la disperazione, quanti di loro si erano uccisi con gli strumenti del mestiere penne, acquerelli, fogli. Ormai nessuno badava neanche più a quei milioni di fogli sulla riva, bagnati, ma ancora bianchi. I ragazzi si misero a correre verso l'acqua. Ruppero il loro infinito girotondo che aveva ormai lasciato un solco profondo nella sabbia, a formare un cerchio perfetto. L'aquilone cadde a terra. Improvvisamente tutti i fogli di carta si alzarono, mossi da un vento fortissimo e dalle loro risate. Nevicava. Cominciarono a disporsi uno accanto all'altro, sovrapponendosi, come piccoli, sottilissimi mattoni bianchi. Prese vita, almeno osservata da lontano, una casa, una piccola casa fatta di carta, di disegni, di racconti, tutte le milioni di storie raccontate su di loro si unirono, a formare l'unica che ne desse davvero una traccia simile. Milioni di inizi, di lavori cominciati ma non finiti, eterni, in un certo senso, si unirono sopra le loro teste, a proteggerli dalla neve.
  Quanto ridevano. 
A lui bastava una coperta, dei fogli di carta, un camino con un fuoco che scalda ma non brucia. Magari del vino. Un pavimento su cui adagiare lei e i suoi mille pezzi di vetro, aggiustati con cura, con calma. La guardava sempre con la luce del camino sulla faccia. Faceva caldo. Dentro. Le nubi sul paese si diradarono. La luce entrò direttamente dagli occhi di lei nella fronte di lui. Sorrisero. Sapevano che quell'unico giorno, sotto migliaia di fogli di carta sarebbe stata eterno. Il vino si sarebbe sempre piegato e disposto con cura dentro i loro bicchieri. La macchina avrebbe ospitato le loro gambe esili, fragili. Le semplicemente le disse "    ", e gli si appoggiò sul petto. 
Nessuno vide più quei due ragazzi.
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dodicieoni-blog · 11 years
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Nenche il sonno mi viene a trovare. Io e la notte: legame. Niente che possa addormentarsi dentro di me, io che non dormo, tu che non arrivi mai. Io che penso al “mai" ed ho la nausea. L’insonnia che mi divora, la paranoia che passa, le lacrime che non cadono, o se lo fanno, lo fanno con qualche mese di ritardo. È buio qua dentro. Nero, blu, azzurro morte. Gli occhi ben aperti sui mondi che non potete vedere, sentire, toccare. Io che non esisto e voi che mi vedete comunque. E si, ci sono un sacco di impegni che devo rispettare, un sacco di responsabilità che devo prendermi. Ma il tempo mi scorre tra le palpebre ed io non posso dormire. Come si fa a dormire? Chi ve lo ha insegnato che dormire fa bene alla salute? Ai buoni propositi, alle sane abitudini? Echi. Chiamami di notte. Urla. Alzati e capisci che non c’è più niente d dire. Niente da dire. Niente. Sono stanco. Stanco, stanco, stanco, stanco,stanco, stanco, stanco, stanco.
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dodicieoni-blog · 11 years
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Pioveva.
Pioveva.
E se piove non si può uscire, dicono. Uno si bagna, magari prende qualcosa, un raffreddore che non ti fa dormire. Poi, beh si, il mal di gola, e tutto il resto. Poi arriva la febbre, una di quelle febbri che massimo arrivano a 37.5°, niente di più. Non stai nemmeno male. Passano i giorni e tu ti godi il mal di gola che non si fa più sentire, il raffreddore che se ne va. Però tu puoi stare a letto, fuori dal dramma del mondo. Ah, che bella cosa la malattia quando è così. Una scusa. Un lancio sotto le coperte tiepide. Non sei neanche infetto. Neanche quel potere ti hanno dato.
Pioveva. Esci ugualmente. Non ti ammali, nessun aumento significativo di temperatura corporea. Forse solo dopo il pranzo con i parenti, che tra l’altro non sono nemmeno i tuoi.
Pioveva quando abbiamo acceso il motore della macchina e siamo partiti. Io per esempio non conoscevo affatto la strada, mi dicevo però che non mi importava di vederla. Quel viaggio era nato come una prova, come una specie di Via Crucis per liberarsi ancora una volta di qualche peccato, qualche colpa che non mi apparteneva, ma che ugualmente sentivo pesarmi sulla schiena, fino a spezzarmi le costole. Una città intera sulla spina dorsale: palazzi fatiscenti, case vecchie come i modi di dire e i detti popolari del tipo “pensa a come stanno gli altri”.
Pioveva ancora più forte quando siamo arrivati, ma le gocce erano lame sulle mie mani. Un freddo cane, non si scappa quando è così; non bastano le grondaie sporgenti o qualche vecchio balcone a coprirti, non basta nemmeno la solitudine presumo. Non tutti colgono il passaggio del testimone tra l’inverno e la primavera. Abbiamo tutti la convinzione che questo avvenga durante una giornata di sole, un sole che finalmente scalda. I fiori, e tutte quelle cazzate da film che ci mettono in testa da bambini. Ma quali fiori, ma quali foglie verdi, ma quale sole. Pioveva ho detto, ho detto che pioveva. Ricordo che smise soltanto per darmi il tempo di scendere dalla macchina, raccogliere le mie cose e aspettare quei secondi freddi sulla soglia della porta del condominio. Una periferia, un centro commerciale con una scritta grande rossa. Tutto beatamente addormentato sotto quella pioggia battente, fina ma incessante, che soltanto per quei pochi attimi ci aveva dato tregua. Ma come ho detto la nascita della primavera non viene col sole. Portone che si apre, meccanica metallica, scale fino a te.
Nell’atrio d’ingresso solo il suono dei miei passi, con le suole bagnate quella scalinata stretta sembra non finire più. Babbo ansimava un pò. Alla fine arrivammo da te. Arrivai da te. Arrivasti te.
Primavera.
Niente sole, niente fiori, niente colori. Niente. Solo stoffa: quella dei tuoi vestiti. Solo pelle: la tua. Solo sguardi, non occhi. Ti ricordi? Parlammo un po’ del colore degli occhi: “i colori chiari sono inflazionati”, “quelli verdi sono più rari”. Parlammo anche fuori da quella sala da pranzo, quando eravamo soli in mezzo a tutta quella gente che si spingeva nel tentativo di ordinare qualcosa da bere, magari vino bianco, prosecco, vodka. No, a te i super alcolici non piacciono. Solo quelli che sanno di frutta, che ne conservano il sapore. Parlammo molto là dentro, là fuori, in mezzo a quella gente finalmente soli. Poi dopo i tuoi discorsi sulla vita, sul futuro che ci appare sempre più vicino, sempre più imminente e pressante mi dicesti che in fondo in fondo, quella kaipiroska non era male. Parlai forse troppo di me, di tutto ciò che mi assale la notte. Sono insonne da anni ormai, te l’ho detto. Ne parlammo nell’altro locale, quello aperto ogni ora. Un dinosauro.
Primavera.
Non solo i nostri discorsi che sembravano incastrarsi perfettamente tra loro, come pezzi necessariamente destinati a qualcosa di più della loro semplice esposizione. Non solo le tue belle labbra sulle quali lentamente morivo ogni minuto che passava. Non solo le mani che così eleganti stringevano quel bicchiere ormai vuoto, ma con il quale continuavi a giocare nervosamente, tra il divertito e l’impaziente. Indagavi forse. Studiavi, probabilmente. Non furono queste cose a farmi capire come subdolamente, ancora una volta, stavo assistendo ad un altro cambio di stagione. Fu semplicemente la tua voce, le tue parole.
Le parole. Quante ne abbiamo gettate sui sedili di quella macchina. Quante ne abbiamo messe lì a maturare, dentro le nostre casse toraciche; finalmente aperte. Dodici come me, la tua età.
Primavera.
Mani Labbra. Occhi. Labbra. Cosa fai? Padre. Padre. Un tetto. Corridoi bianchi. Corridoi bianchi. Ascensore. Scarpe. Sorrisi. Sorridi. Dio come sorridi. Come muovi quella bocca rossa. Come muovi le tue dita tra i capelli. Come fletti il collo per sporgerti, solo per sentire meglio i miei più piccoli pensieri. Le tue gambe, così lunghe. Gambe di donna. Alla fine di quelle gambe, tu. Io. Insieme. Insieme. Un piacere tiepido, un rifugio, un silenzio che urla la sua volontà di farsi lettere, parole, gesti, amore, vita. Due silenzi che combaciano, che si intersecano in infiniti punti di questo grafico reso troppo complicato da tracciare. All’infinito tra i vetri della tua macchina, ci incontriamo. Infiniti silenzi. Un solo rifugio.
Primavera.
Non esiste imbarazzo con te. Siamo due rami percossi dallo stesso vento, che non si ferma mai e cambia in continuazione. Ci siamo incrociati per una volta, per un caso. Il caso. Solo lui ha permesso tutto questo. Non un Dio che più di una volta ha cercato di abbandonarci. Il caso ha voluto che io prendessi esattamente quella camicia in quel negozio. Il caso ha voluto che tu ti tatuassi l’infanzia dietro al collo. Sempre il caso ha voluto che soffrissimo alla stessa maniera e, che quella sofferenza, fosse poi un permesso per la costruzione dei nostri ponti sugli stretti. Per caso abbiamo fermato il vento, dentro quel locale, quella macchina, quel ristorante, nei tuoi sorrisi, nelle mie paranoie. Ti piaceva il mio sguardo, dicesti. Io dico adesso che è soltanto perché stavo guardando la primavera che albergava nel tuo ventre, nel tuo viso. Hai cambiato il colore dei miei occhi.
Adesso sono verdi.
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dodicieoni-blog · 11 years
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dodicieoni-blog · 11 years
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“Molto gli apprese la sua bocca rossa, sapiente. Molto gli apprese la sua tenera, morbida mano. A lui, che in amore era ancora un ragazzo, e perciò incline a precipitarsi ciecamente e insaziabilmente nel piacere come in un abisso, ella insegnò a fondo la dottrina che non si ottiene piacere senza dare piacere, e che ogni gesto, ogni carezza, ogni contatto, ogni sguardo, ogni minima posizione del corpo ha il suo segreto, la cui scoperta avvia alla consapevole felicitò. Gli apprese che, dopo una festa d’amore, gli amanti non debbono separarsi se non compresi di reciproca ammirazione, se non vinti e vincitori a un tempo, cosicché in nessuno dei due insorgano sazietà e squallore e il sentimento cattivo d’aver abusato o d’aver subito un abuso. Ore meravigliose egli trascorse presso la bella ed esperta artista, e divenne suo scolaro, suo amante, suo amico. Qui, presso Kamala, era il senso e il pregio della vita ch’egli ora conduceva, non nel commercio di Kamaswami”.
Siddharta, H. Hesse
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dodicieoni-blog · 11 years
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here we are/ stuck by this river/ you and I/ underneath a sky that's ever falling down / down / ever falling down
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dodicieoni-blog · 11 years
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dentro di noi, quei corridoi bianchi, interminabili
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dodicieoni-blog · 11 years
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perchè dodici?
una coscienza esistenziale, un bieco aggrapparsi a qualcosa che abbia la capacità di dare un senso a tutto quello che accade, a tutto quello che non viene previsto.
dodici segni sulla pelle. dodici ferite. dodici segni orizzontali. dritti. precisi. inequivocabili. sofferti - sofferenti.
amen
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dodicieoni-blog · 11 years
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dodicieoni-blog · 11 years
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you think I'm crazy / maybe stop sending letters
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dodicieoni-blog · 11 years
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Grigiori
scosto le lenzuola
un peso. un tonfo.
un rombo
sordo.
apro gli occhi, spalanco
il volto davanti
allo spettacolo che mi 
offri.
gambe troppo sottili sorreggono
il tuo collo
si flette e porta con sé i nei
e le mani fredde della sera prima
non posso che chiederti di morire 
con me.
al pensiero grigio io chiedo di
morire con me.
alla voglia cruda, io chiedo
che si faccia
poesia.
non posso ridere, non
posso. già stringere le tue 
mani fredde, anni di sangue
nere come il vento che ti porta. 
nere come l'amaro che lasci
sulle labbra.
impossibile parlare, impossibile
odiare. il contatto non basta 
a rendere vive le mie costole
non si aprono a te.
apri gli occhi. è mattina.
scosto le lenzuola:
sono solo.
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dodicieoni-blog · 11 years
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I demoni, la poesia.
Perché dopo le tre arrivano i demoni. Non ti salverà la poesia, la stessa poesia che cerchi disperatamente di vedere negli altri, e che diventa tragicamente assente in chi ami. Ma la poesia è un abisso, una porta in legno scuro che da su una valle, nera come l'odio che esce dalle bocche degli amanti che sugli ultimi versi si promettono la morte. La poesia è cognizione di se e di tutto ciò che accade intorno a noi. Poesia è l'urlo dello stomaco prima di un incontro, poesia è l'amore disteso su infinite pagine di lettere di amanti confusi, lontani. Poesia siamo noi con i nostri corpi che appanniamo le vetrate della realtà, pronti a scordarsi gli impegni, le storie da raccontare ai nostri genitori. Pronti a fuggire nel mondo da noi stessi creato, privo di fondamenta, destinato a crollarci addosso mentre facciamo l'amore. Poesia è questo mondo, questo abisso scuro, questo oceano di lacrime, questo lago di sangue. Poesia è tutto ciò che cerco disperatamente, e che ancor più disperatamente non voglio trovare nelle persone che amo. Poesia è anche paura della poesia stessa, e della tragedia che si porta dentro.
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dodicieoni-blog · 11 years
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Nessuno mi vuole. Allora morte, morte a tutti.” “Se è così, a cosa servono le tue mani?” “Che ci sia o meno è lo stesso, non cambia niente. Per questo morte, morte a tutti.” “Se è così, a cosa serve il tuo animo?” “Piuttosto, è meglio che non esista nessuno. Morte, morte anche a me stesso.” “Se è così, per quale ragione ti trovi qui?
Shinji Ikari, Neon Genesis Evangelion.
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