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marikabi · 22 days
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Scrittore per caso
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Perché si diventa scrittori? Perché si anela a pubblicare? 
In un'Italia - in cui diffusa è l’iperbole secondo la quale ci siano più scrittori che lettori - si registra una smania grafomane, rectius: tastieromane. 
C'è più gente che vuole dire qualcosa di quanta ce ne sia che abbia genuinamente qualcosa da dire. Ci s'inventa scrittori, quando non si ha la possibilità di sfoggiare la propria vanità in un talk show, oppure quando non si è influencer? Ci si sogna scrittori perché abbiamo tutti qualche velleità e questa è a buon mercato? 
Tralascio tutta la nota questione sull'Editoria che pubblica la qualunque e a qualunque titolo, mentre alcuni intellettuali s'interrogano, per quanto timidamente, sullo scadimento qualitativo delle proposte editoriali. Qualcun altro svela che le vendite medie dei libri sono ridicole e che addirittura con meno di 1500 copie vendute si entra pure in Top 10 di categoria. 
In generale, le grandi case editrici pubblicano nomi già forti, soprattutto per notorietà mass mediale (TV, YouTube, star system, showbiz). Le piccole pubblicano ad occhi chiusi per puntellare i bilanci annuali. 
Se un islandese mediamente legge dieci libri all'anno, più del 60% degli Italiani non ha letto neanche un libro a stampa nel 2022 (fonte: ISTAT). Sic stantibus data, perché si scrive e si pubblica così tanto? 
Ma vi è di più. Fioriscono a decine i corsi per aspiranti scrittori. Si aprono laboratori di scrittura creativa. Si tengono seminari per futuri romanzieri anelanti un ISBN, tipo "Come pubblicare un romanzo (e vivere felici lo stesso)" pubblicizzato sui social. Suppongo che il relatore come pure gli eventuali partecipanti siano già ben consapevoli che 'essere pubblicati' non è sinonimo di 'avere successo' e/o di ‘scrivere bene’, ed è per questo che il titolo chiosa sul vivere felici lo stesso. 
Corollario a tali seminari, sono blog, podcast nonché altri seminari ed altri libri sui metodi per ignorare la frustrazione da insuccesso editoriale, spronando ad insistere, insistere, insistere nello scrivere e nel cercare editori. Si alimenta così la fola per la quale saremmo tutti degli sfortunati Hemingway non riconosciuti - umanità, quell’ingrata! - e si moltiplica l’editoria minuscola e a pagamento, oltre a consolidarsi la schiera delle attività inutili: trainer e motivatori di scrittori.  
Non nego, tuttavia, che esistano davvero perle nascoste nella piccola e media editoria, che mai conosceranno vasti pubblici, vuoi per carenza di risorse nel marketing, vuoi perché l'autore è territoriale, vuoi perché le grandi case editrici non perdono tempo a fare scouting, vuoi perché - è spesso così, credetemi – mancano al pur bravo autore gli agganci giusti. 
Nonostante l'insuccesso, l'invenduto e tutto il tempo sprecato a fare presentazioni (ci ritorno fra qualche rigo), la gente scrive, scrive più di quanto essa stessa legga. 
Personalmente, sono convinta che se si leggesse di più, avremmo meno scrittori, o quanto meno più qualità dei testi, dalla sintassi all'accuratezza di fonti e riferimenti, in narrativa e in saggistica. Se si leggesse di più, gli aspiranti scrittori capirebbero pure - nel confronto - che non sono poi quei novelli Manzoni, o nascosti Baricco che in pectore s’immaginano, e magari potrebbero pure desistere dall'inutile intento. 
Se si leggesse di più, voglio aggiungere, avremmo anche giornalisti migliori, meno sgrammaticati e più attendibili. Tuttavia, spesso ci s'improvvisa giornalisti come ci s'improvvisa scrittori: voler a tutti i costi dire qualcosa, talvolta pure sfidando il ridicolo. 
(Diciamocela fino in fondo: di giornalisti che raccolgono vere notizie e fanno inchiesta ce ne sono sempre meno, laddove il giornalismo dovrebbe essere solo inchiesta e ricerca. Una crescente parte di noi iscritti all’Ordine, ed io sono in prima fila, rimesta notizie già date agghindandole con sofismi ed opinioni personali - un esempio da manuale sono le Inchieste da fermo di un sopravvalutato Federico Rampini - spesso chiamando altri giornalisti a raccolta per rimestare meglio, quando non butta lì vere e proprie fesserie. Ho raccolto una delle tante sboronate – riportata dall’effervescente youtuber Gio’ Pizzi – raccontate durante i giorni delle colonne dei trattori agricoli in protesta. Trattasi di un episodio che sembrerebbe un peccatuccio veniale se non mascherasse invece perniciosa propaganda. Mario Sechi – direttore di una testata, manco un quidem de populo – ha proclamato [nella trasmissione Otto e mezzo, tra i più patinati consessi di giornalisti che rimestano solo opinioni, null’altro che opinioni] che l’agroalimentare in Italia vale 500 miliardi di euro, pari al 16% dell’intero PIL nazionale, mentre in realtà il valore reale del settore è di 74 miliardi pari al 3,5%. Se i dati sparati da Sechi fossero veri, il PIL italiano sarebbe di 3100 miliardi - e non di 2100 miliardi, com’è realmente - e l’Italia sarebbe un Paese agricolo fondato sui caciocavalli ed il lievito madre, laddove invece siamo molto più bravi, noti e richiesti per la raffinatezza e l’ingegno delle nostre tecnologie e non per il pistacchio di Bronte. Il teatrino di Sechi era strumentale a fomentare politicamente lo sdegno contro l’Unione europea che vessa gli eroici e sottovalutati agricoltori elettori e bla bla bla. Il mio rispetto agli agricoltori, il mio disprezzo agli imbonitori. E vogliamo sottacere il caso in cui il direttore di RAINews – Petrecca – ha oscurato le dichiarazioni del Procuratore di Napoli – Gratteri – sui politici che sniffano strisce di ‘bianca’?) 
Torniamo alle smanie letterarie. Chi pubblica un libro vuole anche presentarlo, o forse vuole soprattutto presentarlo, e ciò è ancor più valido in proporzione inversa alla notorietà. Diventa più appagante per la vanità personale avere una platea - ancorché minima – che sta lì a vederti ed ascoltarti, che non le cifre delle vendite dei volumi. Presentare libri non incide sulle vendite, ma coccola e nutre l’orgoglio personale. 
State leggendo un libello di una giornalista-scrittrice (eh già, sono a pieno titolo nel vituperato novero dello stesso oggetto dei miei strali) che presenta per hobby molti libri altrui. Mi piace presentare solo libri altrui, non i miei, avendo compreso appieno le ragioni di Groucho Marx quando affermò di non voler mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come sé stesso. D’altronde, cantava Vecchioni, o uno vive per le cose che dice o non vive più, ed è per questo che non presento più i miei libri, per coerenza. 
Tuttavia, mi piace presentare quelli degli altri, in quanto tale attività mi offre uno spaccato psico-antropologico, nel combinato disposto ‘autore-contenuti-platea'. L'unico sopravvissuto insuperabile merito della psicanalisi è di essere il miglior strumento per valutare i libri (ed i film), sia nello stile, che nei contenuti (mi riferisco alla narrativa – con netta esclusione di quella per bambini e ragazzi, davvero di ottimo livello in Italia - e alla saggistica da diporto, non a quella accademica e scientifica). 
Mi piace presentare libri altrui perché posso spaziare con gli argomenti, attingendo a tutto ciò che ho letto nella mia vita per fare collegamenti, operare agganci, suscitare evocazioni, rimproverare errori. Mi piace anche leggere ed analizzare per benino i libri che presento, perché imparo a scrivere meglio, a fare debunking, nonché a ridimensionare eventuali borie dell’autore, oltre a cercare di fare le domande giuste. 
Mi piace pure scoprire i motivi per cui si diventa scrittori. 
Così, durante questa mia attività collaterale (nonché assolutamente gratuita) ho scoperto un motivo in più, la spinta per la quale l’Autore che sto per introdurre è diventato scrittore: parlare ai propri figli. 
Mauro Del Mauro - di professione informatico (di alto livello), irpino (della notoria enclave autonoma di San Barbato) trapiantato in provincia di Milano, padre di due post-adolescenti - ha scritto numerosi testi per raccontare ai suoi figli il suo pensiero e la sua storia, razionalizzando la sua rabbia politica e i suoi rancori, ricordando le sue origini e la sua gioventù, acquietando i suoi tormenti ed i suoi dolori famigliari. 
Non ha mai pensato di scrivere per un pubblico diverso da sua figlia e suo figlio; non gli è mai importato avere una platea più vasta. Ha scritto a loro e per loro, invece che annoiarli con les neiges d’antan, affinché potessero scegliere di conoscere e non subire la conoscenza delle sue storie di vita. 
Così, rimanendo un po’ spiazzato quando – per caso – qualcuno gli ha chiesto per la prima volta in assoluto di presentare i suoi testi, Mauro mi ha chiamato a correità per un’inaspettata scorribanda nei cunicoli della sua robusta anarchia di pensiero, attraverso alcuni libri che più di altri (tra i suoi molteplici scritti) si collegano tra loro per sviluppo socio-storico-politico. Il Nostro, da intransigente e veemente kantiano per etica e morale, col tempo, diviene osservatore disincantato, più preso dai colori della campagna irpina (è originario di San Barbato, non dimentichiamolo mai) che dall’insistenza delle giovanili smanie di cambiare il mondo, denunciandone alcune aberranti storture, attraverso la satira, l’irriverenza o la semplice cronaca. 
Mauro – per inciso, mio compagno di liceo - è diventato Scrittore per caso (ma anche un po’ per necessità) ed è questo il titolo dell’incontro di domenica 7 aprile, dalle 17, organizzato dalla Pro Loco Mons Militum presso la biblioteca “Franco Basile”, in Piazza Umberto I a Montemiletto, un’occasione per riconsiderare storia, cronaca, politica e Irpinia da una prospettiva sui generis. 
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marikabi · 4 months
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Caro Babbo Natale, war edition (cosa chiedevamo nel 2022)
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Carissimo.
Carissimo insomma...
Rieccomi. Sono la tua coscienza pessimista e critica, il tuo Grillo Parlante cinico e sconsolato, la tua jella annuale (ormai da decenni).
Con la mia tazzona di caffè, fedele compagna di scrivania, anche quest'anno ti rompo le scatole, scrivendoti una lettera aperta.
Buon Natale, caro Babbo Natale.
Ma che dico? Ma buon natale manco pe' gnente.
Ma lo vedi, lo vedi come stiamo combinati?
Tra tutti i guai (pandemia, guerra, Calenda in Ukraina, crisi energetica, disastri idrogeologici, vernice rossa delle casette del mercatino che cola sulla piazza), ci mancava l'ultima ciliegina: la beffa del Qatar che minaccia ritorsioni energetiche all'Europa perché l'Europa ha accusato l'emirato di aver corrotto alcuni europarlamentari.
Della favola di lupus et agnus (Do you remember, Santa? Hai studiato Fedro, spero, babbonata' ?) nun je fa 'nbaffo a 'sti qatarioti, come si dice nel nuovo politichese.
Imbrodati nella nostra convinzione di superiorità morale e civile ci siamo fatti incastrare malamente sui fondamentali del nostro europeo snobismo: le fonti energetiche. Già, anche noi ci siamo scordati di Fedro, evidentemente.
Eh no, non resisteremo per i trent'anni necessari a sviluppare lo sfruttamento industriale della fusione nucleare, una delle poche belle notizie del 2022. L'evento - sai - mi ha ricordato il film Ritorno al Futuro, quando Doc metteva la buccia di banana e la lattina ammaccata nel reattore nucleare miniaturizzato della DeLorean. Ah, quei bei tempi futuri. Ou sont les neiges de demain?
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Stiamo proprio messi male e chissene della vittoria dell'Argentina ai Mondiali. Alla fine, meglio non aver partecipato (anche se per demeriti sportivi, non per meriti etici, precisiamo) ad un mondiale da dimenticare.
Eh no, babbo boomer non ci provare: non è la stessa condizione della Davis in Cile.
La tristezza generale (su tutti quella di Macron, sfanculato pure da 'Mbappè) non viene rischiarata mica dalla gloria di Leo Messi (il quale gioca in una squadra francese di proprietà del Qatar, che garbuglio!). Ma davvero vi siete emozionati quando Messi ha dovuto alzare la coppa indossando l'abito da cerimonia tipico dell'emirato?
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Anyway.
Il 2022 è stato ancor di più l'anno del populismo. Come persone, come classi sociali e come nazioni, siamo stati ancora - statisticamente ed elettoralmente parlando - abbacinati da discorsi demagogici, pensieri magici, istanze grossolane ed iper-egoistiche.
D'altronde, come ben puoi immaginare anche tu - che sei il personaggio fantasy nato per dare una direzione, per quanto stagionale, ai desideri da centro commerciale - quando non c'è raziocinio o buonsenso ad aiutare le genti (in tempi di 'grossa crisi' guzzantiana) ci si butta sull'assurdo, sull'impossibile, sulle istanze intestinali, quelle grossier.
Un po' come già c'insegnavano (i pur politicamente antitetici) Gramsci e Croce, ovvero come ci raccontava la Serao (caro Klaus - in amicizia - hai letto Il ventre di Napoli, sì vero?): la magia premiante del gioco del lotto, ovverosia la speranza di un falsamente meritocratico riscatto per mano d i un misericordioso e giusto Destino (Dio, Babbonatale, Sorte, Fede, Provvidenza, fate Voi) quale oppio della miseria. Anche morale, non solo economica.
Oggi, più che nel lotto, intontiti dalla politica social, abbiamo deciso di riporre fiducia nello scostamento di bilancio statale, come se ci fosse una inesauribile fabbrica dei soldi; chiediamo una rigorosa e restringente regolamentazione dei porti, come se solo così si potesse mettere fine alle ondate migratorie; tifiamo per l'abolizione delle restrizioni anti-covid per debellare un morbo che non è ancora endemico. E abbiamo votato, sicuri di estrarre il terno vincente.
Ci potevamo ribellare agli evasori fiscali, alle tangenti, alla corruzione, al pizzo, all'usura. Potevamo scendere in piazza contro i tagli alla sanità, il lavoro precario, la violenza contro le donne, il caporalato, le morti sul lavoro (stagisti e studenti compresi), la mafia, gli extra-profitti delle aziende energetiche, un distorto mercato del lavoro. Invece abbiamo scelto di protestare contro i vaccini e la 'spietata' dittatura sanitaria, contro il MES, contro il POS ed il limite al contante, contro lo SPID e i rave parties. Abbiamo inneggiato al bonus fiscale per chi si sposava in chiesa e fatto la ola all'abolizione del reddito di cittadinanza per punire i fannulloni.
Babbonata', dillo agli Italiani tutti che qui, da noi, di lavoro proprio non ce n'è e quando si trova qualcosa, questo qualcosa è quasi sempre a nero, a chiamata, a voucher, a sfruttamento, sottopagato, sottodimensionato, precario, ricattato, mischiato alla NASPI, travestito da CIG fittizia (come è massicciamente accaduto durante il lockdown). Vale per gli operai, come per i ricercatori universitari, per gli âgée come per le giovani generazioni.
Ti vorrei chiedere, dunque, caro barbuto buonuomo, di dire la verità, ti prego, sull'economia. Almeno un anno, almeno per il prossimo: facci aprire gli occhi. Spiega a chiunque che le commissioni sulle transazioni elettroniche sono azzerata sotto i 5 euro e che per 20 euro si pagano solo 10 centesimi.
Però, mi voglio allargare. Ti chiedo un investimento per il futuro, non solo di elargire utili informazioni e nozioni economico-finanziarie, che con la nostra memoria di pesce rosso durano l'espace d'un matin.
Ti ricordi, Babbonatale, quello che scrisse Isaac Asimov agli inizi degli Anni '80? «Una vena di anti-intellettualismo si è insinuata nei gangli vitali della nostra politica e cultura, alimentata dalla falsa nozione che democrazia significhi "la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza"».
Ecco, quell'insinuazione oggi è il mainstream ('uno vale uno') ed è per questo che oso chiederti di dare maggiori e migliori strumenti cognitivi alle persone: falle leggere di più ("Il fascismo si cura leggendo", scrisse Miguel de Unamuno), aiutale a smascherare rapidamente bufale e fattoidi, cialtronerie e imbonimenti.
Rinforza il sistema scolastico ("La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari, sentenziò Gesualdo Bufalino), fai capire ai genitori che prima del tablet ai bambini vanno dati e letti libri, sennò verranno schiavizzati dal primo e schiferanno i secondi, alimentando, tra gli altri, anche il mito populista dell'uguaglianza nell'ignoranza, ahimè blandito e rinforzato dai social.
Ed infine, un mio desiderio personale: introduci massicciamente la fisica quantistica nei programmi scolastici. Come tanti, nonché per irreparabili mie ferite famigliari, ricado spesso nel terrore di non poter rivedere più i miei più profondi affetti. Pure Stephen Hawking (un serio laico, l'astrofisico teorico dei buchi neri) diceva che «L'universo è poca roba di per sé, se non fosse per le persone che ami». I legami sono tutto e la meccanica quantistica - con il multiverso, con Dirac (a proposito dei legami indissolubili), con l'entanglement, con la relatività del tempo e dello spazio, con l'incompletezza di Goedel - di sicuro ci darebbe più speranze che non un dio (uno qualunque), un Verbo, un mito o un rito.
Sostituiamo l'ora di religione con l'ora di Meccanica quantistica, insomma.
Come puoi leggere, quest'anno ribatto sulla buona istruzione e sull'investimento culturale, beni immateriali (ancorché fin troppo labili nelle popolazioni, le quali hanno memorie cortissime) che devono essere gratuiti e diffusi, come una eterna endemia buona.
Per il resto, proprio come scriveva Cesare Pavese, c'è una vita da vivere ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere.
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(Qui è Gallipoli)
P.S.: Bene, anche per quest'anno la letterina è andata ed il caffè è pure finito. Non cambia niente, lo so, ma cambiare le persone non sarà mai affar tuo, che sei un feticcio consumistico, né pietto mio (come direbbe il Direttore Staglianò). Ma almeno, anche quest'anno, te ne ho cantate quattro. Cià.
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marikabi · 4 months
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'o Schustèr
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Per scrivere questo pezzo (che è un articolo, ma anche una storia, un racconto di sensazioni ed emozioni, una cartolina da un luogo della memoria, una recensione emotiva di nuove canzoni, un invito. Fate voi) ho scelto di non appoggiarmi all’amicizia che ho da molto tempo con Massimo Vietri, o alla stima che provavo per il padre (avuto come preside e poi ritrovato come sodale in tante manifestazioni d’impegno civile e sociale, nonché amico nonostante la grande differenza d’età).
Ho dovuto cancellare il ricordo di tutti i discorsi fatti con entrambi intorno all’Irpinia, circa Avellino e sugli ultimi, sui poveri e sui dimenticati di questa e di tante terre nel mondo.
Ho voluto scordarmi dei Lumanera (o della Lumanera, come dice Massimo) e del video risbaldente e colorato che è ’O ballo r’ ’o Schustèr (trovabilissimo su YouTube), perché sennò mi partiva la nostalgia e quella - si sa - ti porta lontano, nelle lande del dolore e della hopelessness.
Ho ricominciato daccapo. Ho ricominciato dalle parole delle sue canzoni, quelle contenute nel suo ultimo disco, il primo da solista, che ha titolo, appunto, Schustér .
(Massimo guadagna questo soprannome da ragazzino - dall’estroso ma ’ncapotico libero tedesco che giocò in più squadre spagnole - a motivo della passione per il pallone e dell’infantile bionditudine, di cui il piccolo Nicola - suo figlio - è ora erede.)
Ho voluto incontrare Massimo preparando l’incontro di venerdì 1° dicembre, (ore 18 all’Angolo delle Storie) e prima della presentazione alla città della sua nuova raccolta di canzoni (mercoledì 6 dicembre - San Nicola! - all’Auditorium del Polo Giovani della Città).
Il curatore della Rassegna del Tè letterario, Federico Curci di InfoIrpinia, ha scelto di ospitare - tra tante altre interessanti proposte - anche Massimo Vietri, la sua musica, la sua poesia, ma soprattutto la sua cosmogonia.
Già, perché l’Irpinia cantata da Schustèr è un cosmo dilatabile. Magari parte da piazza Macello, ma arriva ai cieli blu della terra dell’osso. Sosta sotto i portici del luogo più attraversato amato-ed-odiato della Città, però poi vola fino agli speroni del brandello di Appennino che ci è toccato in sorte, facendo il giro lungo per Cuba, per il Mediterraneo e il Medioriente.
Canta di un’Avellino che non c’è più e che ha perso l’occasione di essere migliore. La città di Schustèr ragazzino era trepidante e speranzosa, quale entomata in difetto (cit. Dante Alighieri), ma è oggi antropologicamente e socialmente avvizzita. (Politicamente, poi, è pressoché defunta.)
Mediante la sua icastica poesia, canta la terra, la nonna, i detti, la solidarietà svanita (ci siamo persi tutti nel dopo-terremoto) e una comunità tralignante, affogata nella ’rassa (che non è l’opulenza, bensì la comodità, l’agio, l’ozio, il consumismo narcotizzante).
Racconta di una Storia cui anche la nostra vituperata città ha fatto parte, ma di cui ha perso memoria e nobiltà (Maria de Cardona).
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Massimo-Schustér è il canta-operaio (o il canta-contadino, perché ha vissuto molte esperienze) delle cose semplici, quelle che appianerebbero le rughe dell’uomo moderno, il quale ha perso il senso della vita e del tempo.
Quasi sicuramente, il senso della vita e del tempo - sub specie aeternitatis - non esiste (mi auguro che magari sia semplicemente non intelligibile ai mortali), tuttavia aiutano a vivere le storie di piccole cose, di povera gente, di quando anche i clochard erano nel tessuto iconografico e solidaristico del territorio (Mariniello, ’o mammone, dall’incredibile storia umana).
Schustér ha preso tutto quello che la città (e l’Irpinia) gli ha offerto, in bene e in male. Ha egli stesso frugato negli angoli ed anfratti - dei vicoli e dei cuori - per scoprire perle di sguardi e di storie, diventate canzoni.
Schustér è un nostalgico. Schustér si commuove raccontando di sé, della nonna sua, del padre, e Schustèr è cresciuto, soprattutto musicalmente. Ha introdotto musicalità e sonorità che esondano dall’Irpinia (il cosmo dilatabile, appunto), la quale rimane sempre e comunque l’inizio e la fine del viaggio.
(photo courtesy, Federico Curci)
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marikabi · 1 year
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Il fantacalcio pedagogico
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Ma tu sai che cos'è il fantacalcio?
Mi ha chiesto mio cugino qualche sera fa, intravedendo nelle sue parole un nonsoché di scettico, mentre passeggiavamo per il Corso.
Sì sì, lo so cos'è il fantacalcio. Conosco storie di gente che ci perde l'essere, nel creare squadre vincenti e dannarsi nei tornei, col calciomercato, per gli scambi e le cessioni. Insomma un universo parallelo, ed ugualmente caotico, al calcio giocato, ché già quest'ultimo è una perdizione.
Ho fatto una piccolissima indagine famigliare e mio figlio mi ha raccontato di non aver retto che due mesi al fantacalcio: troppa tensione, troppe regole, troppe condizioni da tenere a mente. Insomma, troppa fatica. Non comprendeva - e tuttora io con lui - il senso di tutto questo rodersi per dimostrare di averci visto lungo sulle capacità dei singoli giocatori, non bastasse il rosicamento quando perde la nostra squadra del cuore.
(Poi scopri che è tutta una questione di fattore ‘C’, come tutto del resto.)
Ma mio figlio è un po’ pigro, molto più fantasioso nella sua tigna di speculatore filosofico che disciplinato nel seguire qualsiasi tipo di regole, fossero pure quelle del Gioco dell’Oca.
Eppure il fantacalcio prende. Tant'è che la formula è stata applicata anche in altri ambiti e con requisiti perfino lontanissimi dalla bravura e dalle capacità positive degli inserimenti in squadra. Per esempio, al Fantacitorio vince punti il politico che fa la cazzata stratosferica, non il più serio o il più capace e la bravura del fantacitorista è quella di accaparrarsi i politici più cazzari/incompetenti/sboroni/narcisisti, e davvero ce n’è di imbarazzo nella scelta.
(Ma diciamocela tutta: il politico di oggi cerca visibilità e non esiste strumento migliore che sparare cazzate e/o sboronare al fine di attirare l'attenzione e polarizzare l'opinione pubblica. Non c'è bisogno di un talento particolare, attualmente la classe politica è quasi tutta una gran manica di incompetenti e boriosi in cerca di palcoscenici.)
Il fantacalcio - ho recentemente scoperto - è anche un mezzo per crescere, per capire il mondo e le persone, per formarsi insomma. L'ho capito leggendo un testo fresco e spigliato, divertente qubbì, quasi un trattato di insospettabile sociologia della post-adolescenza, ai tempi dei social ed anche del covid.
L'autore di questo simpaticissimo Il prossimo anno non contatemi (Urbone publishing, già esaurita la prima edizione!), Giuseppe Maria de Maio, racconta i carpiati delle sue emozioni di post-adolescente, descrivendo il contesto umano in cui vive, durante un anno - di tanti - stra-impegnato col fantacalcio (quasi salta la tesi), ripromettendosi di smettere all’eventuale riuscita dell'impresa.
Ritroviamo Edo, il protagonista, alle prese con una fauna giovanile che i miei concittadini riconosceranno autoctona, ma passioni, modi e aspirazioni sono comuni a quasi tutta la gioventù italica.
Tra un motto in vernacolo ed uno aulico, una cadenza partenopea e una partenirpina (con spuntature in romanesco, che si porta tanto), Edo e i suoi amici sciamano per le strade (e i bar) di una cittadina a loro indifferente (ma vi garantisco che il sentimento è reciproco) impattando a raffica gioie e delusioni, filosofie e regole, rifiuti, passioni, innamoramenti e finanche magiche epifanie orientali.
Edo, o meglio l’alter-eDo dell’autore, è un ragazzo comunque allegro e sereno, consapevole dell’importanza della sorte come della sfiga, sfidate continuamente dalla sua caparbia giovane età.
Che Edo vinca o meno al fantacalcio, lo scoprirete solo leggendo, ma vi appassionerete inseguendolo sulle montagne russe dove scorrazzano le sue emozioni.
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marikabi · 1 year
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Come banane
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Siamo come banane perché siamo etichettati da chi ci conosce (o pensa di conoscerci) e a nostra volta etichettiamo chiunque e qualunque cosa, spesso anche a sproposito. Lo facciamo per comodità, perché la nostra mente ama le categorizzazioni al fine di non perdersi nella complessità e nella stragrandissima varietà che trovansi nell’universo.
Più etichettiamo e infiliamo roba (volti, eventi, situazioni, persone) nei nostri archivi mentali più c’illudiamo di aver chiarito e pulito i nostri pensieri e riordinato le nostre scale di valori, confermandole invece che confutarle con sani e spesso salvifici dubbi.
Le categorie, ovvero anche le tassonomie - elenchi più o meno esaustivi di cose, persone, animali, piante, santi, interessi e nemici di Salvini, marchi sponsorizzati dalla Ferragni, astri, colori Pantone, libri di Andrea Camilleri - hanno nell’antichità rappresentato lo scibile e dalle tassonomie di un tempo derivano anche le prime enciclopedie. Un paio di esempi - estremi - per tutti: Bouvard et Pécuchet (personaggi di un incompiuto romanzo di Flaubert che volevano categorizzare le conoscenze scientifiche e si ritrovarono a catalogare i luoghi comuni) e Linneo (celeberrimo e puntiglioso naturalista svedese).
Se Charles Darwin non avesse avuto la fissa di catalogare piante, insetti, animali, ciottoli, ossa, conchiglie e fiori sin da piccolo, noi non avremmo avuto la più completa e ragionata disamina delle dinamiche evoluzionistiche che hanno rifondato la filogenesi.
Anche le categorie che applichiamo agli umani (belli, brutti, intelligenti, superbi, cafoni, bizzarri e tanto altro) aiutano ad orientarci, quindi. Lo facciamo da sempre, da quando eravamo cavernicoli, onde evitare personaggi poco raccomandabili ed associarci a soggetti che - già allora - rinforzavano la nostra comfort zone e la nostra bolla, nel senso che non rappresenta(va)no minacce per la nostra sopravvivenza, fisica e psichica: gente simile a noi, che la pensava come noi, con gli stessi gusti gastronomici, e così via fino a categorizzarci per religioni, colore della pelle, politica, squadre di calcio, marche di caffè, pandoro o panettone.
Marc’Aurelio cominciò appunto con un piccolo elenco di personaggi da evitare nel suo A sé stesso.
Nulla di nuovo, pertanto, se abbiamo importato le categorie anche sui social, luoghi pieni delle cosiddette bolle, dove elenchi e selezioni di argomenti e persone vengono peraltro favoriti e/o aggravati da perversi algoritmi.
I social - non si sbaglia mai a ricordare che sono mezzi, come il telefono, la radio, YouTube - sono diventati un’estensione di noi stessi. Hanno ampliato la cerchia di conoscenze (l’amicizia è altra ed alta cosa) e le categorizzazioni risultano vieppiù importanti ed utili nel selezionare o farci selezionare le persone da seguire.
Proprio nel 2023 cade il ventennale della creazione di Facemash, il prototipo di Facebook, da parte di Mark Zuckerberg. Dal momento in cui venne messo in rete, questo totem dei social (ancora il più diffuso al mondo) ha creato una rete così vasta da diventare - virtualmente - la terza nazione più popolosa sul pianeta.
Pensate che Facebook - assieme agli altri social - ci abbia fornito amicizie e vero conforto? Ovviamente no. Seppur nati per mettere in contatto gente, i social sono diventati un palcoscenico personale, più che un salotto accogliente per chiacchierare amabilmente. 
Un palcoscenico siffatto divora quotidianamente storie ed emozioni. C’è chi non sta al gioco al massacro delle proprie immagini, dei propri sentimenti (e della propria vita privata) e diminuisce lo sharenting (la condivisione parossistica) magari aspirando al ghosting (scomparire). C’è chi invece cerca spasmodicamente la ribalta: fare l’influencer diventa il sogno di chi un tempo aspirava a diventare facilmente famoso come calciatore (o moglie di)/cantante/attore/modella.
(Va da sé che diventare famosi come Astrosamantha - alias di Samantha Cristoforetti - non è impresa semplice, pertanto non risulta comunemente appetibile e l’astrofisica - la materia di studio, cioè - non riscuote lo stesso gradimento del gossip.)
Adesso si può diventare famosi semplicemente ossessionando la gente con le proprie immagini, con la propria quotidianità (non sempre esaltante e dorata) e - ahimè - anche con le proprie miserie umane.
Nasce mediante tali sistemi il fenomeno Kardashian, prototipo di vita spiata a favor di telecamera: famiglia famosa per la faccia da esibizionisti che hanno saputo mantenere negli anni.
Tuttavia, non tutti sono così abili con immagini e parole. Infatti, non tutti siamo diventati Kardashian o Ferragnez e tanti, pur di farsi notare, esagerano nell’esporsi, esagerano nelle parole e nei toni e nei filtri fotografici, sia sui social pubblici (Twitter, Instagram, TikTok), che sulle chat.
Lunga premessa - anche un po’ storica - per arrivare al tema: comportarsi nelle chat.
Ormai non possiamo più farne a meno: Whatsapp soprattutto, ma anche Telegram ci aiutano perfino al lavoro.
La cosiddetta comunicazione differita, tramite messaggi scritti, vocali e video, è il sistema imperante, avendo scalzato le telefonate. Il differimento ci fa sentire quasi onnipotenti, perché, nel momento in cui registriamo, il destinatario non può ribattere. Magari lo farà appena dopo, ma nel momento siamo noi, le nostre idee e soprattutto le nostre parole ad imporsi, in quanto non siamo costretti ad ascoltare l’interlocutore. Non ci piace ascoltare nessuno, se non noi stessi. (Fateci caso, anche nei talk-show televisivi: ci sono giornalisti che prima di fare una domanda all’ospite fanno comizietti di un quarto d’ora e l’ospite, poi, risponde spesso off topics, interessato solo alle proprie idee comunque sia.)
E poi c’è il filtro, la lontananza, il rapporto diadico tra noi e l’apparecchio, più che tra noi e il destinatario del messaggio. Così, inconsapevolmente aggiungiamo un sentore di arroganza in più a ciò che diciamo.
A dir la verità, molti aggiungono più che un sentore, guastando irreparabilmente la comunicazione, la quale diventa ostile.
E non ce ne accorgiamo mica. Liti, incomprensioni, bannamenti, ingiurie ed improperi sono sempre in agguato, dentro una chat o in un thread di Twitter: l’incomprensione è l’humus sul quale prolifica l’ostilità digitale.
Se si può, la situazione peggiora quando gli agenti (emittenti e destinatari) sono ragazzi, pre-adolescenti o adolescenti. 
La strutturazione adolescenziale del Sé è faccenda complessa e nel Terzo millennio è diventata addirittura tragica. Si legge da più parti della debolezza psichica dei nostri ragazzi e ragazzini che non reggono il peso del giudizio del branco, fosse anche quella dei partecipanti alla chat della scuola/della palestra/dell’oratorio o gli spietati confronti di immagini su Instagram (dopo esserci smostrati a colpi di filtri, tipo Mona Insta in gallery).
Ci vorrebbe una materia di studio ad hoc, ma poiché non siamo in Norvegia (a scuola è previsto un corso educazione alla comunicazione digitale), dobbiamo correre ai ripari in autonomia.
Tuttavia, abbiamo un aiuto nel (densissimo) manuale  scritto da Carlotta Cubeddu e Federico Taddia: Penso, parlo, posto (il castoro ed.), che abbiamo presentato sabato 11 febbraio 2023 nella sala ragazzi della Biblioteca provinciale (a Corso Europa) nell’ambito del Festival della letteratura per ragazzi organizzato dall’associazione Ebbridilibri, capitanata dall’infaticabile Marina Siniscalchi.
Carlotta ha intensamente interagito con il pubblico, ponendo domande insidiose per dimostrarci come la comunicazione digitale può essere pericolosa, ma ci ha anche insegnato a difenderci con le parole non ostili, come pure a non diventare banane.
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marikabi · 1 year
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Caro Babbo Natale. Omicron edition (cosa chiedevamo nel 2021)
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(per ricordarci un anno fa cosa chiedevamo)
Caro Babbo Natale,
te lo confesso, proprio non la volevo scrivere la letterina, quest’anno.
Il primo motivo è che qualcuno ha autorevolmente ribadito coram populo che tu non esisti. Abbiamo percepito lo sgomento bi-partizan di bambini e genitori, privati, rispettivamente, di una favola e di una scusante ipocrita. Ma è stato un attimo.
Poi, il marketing (per scontate esigenza economiche ed imprenditoriali) ha rimesso a posto le cose, anzi le pure migliorate: abbiamo versioni pubblicitarie di te in coupè fiammanti, o in bomber vistosi, tricologicamente curatissimo che manco Vacchi, va’.
Detto fra noi, marketing o no, anche la Befana è un’invenzione, solo che per vetustà di apparizione – ovverosia di epifania, etimologicamente discettando - nessuno ne contesta più di tanto l’esistenza e/o la tradizione, ormai anche anacronistica dal punto di vista commerciale.
Il secondo motivo è che rileggendo (qui e qui), per promemoria (ma anche per vanità), le letterine che ti ho dedicato negli ultimi due anni, ho constatato che quasi niente è cambiato, né per la nostra Città (compresa l’umiliante e perdurante posizione nella classifica della vivibilità urbana e gli scazzi nel Piddì locale), tanto meno per l’umanità.
Abbiamo ancora gli stessi problemi (non nell’ordine): pandemia dilagante, validazione tessere del PD irpino, gente no-vax, classi dirigenti locali inadeguate, maleducazione civica, gente no-greenpass, servizio sanitario locale molto discutibile, precarietà del lavoro, povertà in aumento, giovani senza futuro né pensione, mortalità sul lavoro, violenze domestiche, episodi criminali nel nostro Capoluogo, disastri ambientali, guerre e diaspore, divisioni sindacali, sfacelo dei piani di zona. And counting, come si dice adesso.
In più, l’inflazione (cara vecchia compagna di decenni passati) è tornata a farsi sentire, così come il caro-combustibili, memoria di un’austerity con indiscussa dignità storica. Neanche i nostri piissimi desideri sono cambiati (vorremmo città pulite, persone meno maleducate, guidatori meno incivili, liste di attesa sanitarie almeno accettabili, trasporti decenti, esponenti politici adeguati e competenti, scuole nuove e più ampie, asili nido, and much more counting, anche qui), per cui diventa inutile e ridicolo ripetersi epistolarmente a cadenze annuali, data anche l’inerzia nel non risolvere i problemi quotidiani più sentiti.
Ci sarebbe pure un terzo motivo: me.
Quest’anno, ho provato un’immensa gioia, durata il tempo di un’estate, ma attualmente vivo una disperazione senza fine. Dopo più di vent’anni di grande e puro amore, quest’estate ci eravamo sposati, e dopo neanche tre mesi, una rapida e impensabile malattia si è portato via il mio adorato compagno/complice/amico/marito. Egli era il mio tutto. Il mio mondo attuale è stravolto e ho sbattuto violentemente la mia ragione contro il senso (assurdo) dell’universo, religioni comprese. Roba da cui si esce (chi ce la fa) molto malconci. Non so venir fuori dalla mia depressione e non so come sublimare l’incolmabile perdita e l’incommensurabile dolore che ne è derivato. Vorrei chiederti di restituirmelo, il mio amore immenso, ma è irrealtà e per questa irrealtà, nonché per l’assurdità dell’accaduto, io sto impazzendo. Vorrei soprattutto chiederti perché te lo sei portato via.
Tuttavia, ti scrivo, perché così mi sfogo (un po’ come le comari che inveiscono malamente contro San Gennaro quando non si scioglie il sangue nell’ampolla) avendoti (come molti) sovrapposto all’idea di Centro-Regolatore-Massimo-con-interfaccia-umana, una specie di icona/avatar di Padreterno, magari più intelligibile da noi umani. Sì, Babbonatale, da quest’anno ce l’ho ferocemente contro di te, perché hai trasformato la felicità e soprattutto la grande serenità che avevamo conquistato in strazio inguaribile.
Tralascio – per pietà nei confronti dei Lettori - le mie dolorose vicende personali, e mi dedico al solito bilancio di fine anno, con annesse nuove e/o reiterate richieste.
Indubbiamente, la migliore buona nuova per il pianeta è stata la formulazione di più vaccini anti SARSCov2. Siamo a cinque, escludendo per ora il vaccino cubano che promette meraviglie. La cattiva notizia, di converso, è che non tutti ne hanno accesso. La prima richiesta che ti rivolgo è, dunque, che tutti possano usufruire dell’immunizzazione vaccinale.
Non ti chiedo, conseguentemente, di far cambiare idea ai no-vax, anzi agli anti-scienza, come è più giusto definirli (perché no-vax potrebbe identificare anche coloro che non possono accedere ai vaccini, come ci ha spiegato Michele Serra). Immagino che la loro protesta sia più contro un indefinito/indeterminato sistema general-generico in cui intendono non riconoscersi (per svariatissimi motivi, che non sempre essi stessi riescono a descrivere intelligibilmente, le cui analisi sarebbero oggetto di trattati di sociologia, o di psicologia) che contro la formula bio-chimica di un preparato, sicuramente non più dannoso di altri farmaci in commercio.
Io mi fido della scienza: sono un’eroina della doppia dose di AstraZeneca. Non mi fido dei media che cercano il click-baiting, la rissa, il traffic-whore, per qualche punto in più di auditel, o qualche copia in più venduta in edicola (in un mercato editoriale al lumicino), alla stessa stregua del politicante che vuole pescare in tutti i bacini, come una raccolta di punticini a briscola.
Anche i no-greenpass vivono una sindrome di antagonismo ad un non ben delineato ‘sistema’ che ritengono in ogni caso coercitivo. (Sarei curiosa di sapere che ne pensano gli abitanti di Minsk dei nostri no-green-pass. Giusto per.)
Il mondo è molto variegato, indubbiamente. Tuttavia, mi dispiace molto (considerata la tragedia planetaria che viviamo) che si dia sproporzionato (come ha detto pure il nostro amato Mattarella) spazio a minoranze, le quali hanno sì il diritto di protestare (non viviamo in una dittatura, nonostante i loro slogan), ma non quello di essere sovra-rappresentate dai media , creando distopie e dissonanze nell’opinione pubblica, cercando lo scontro in diretta video, il sensazionalismo e l’audience-a-tutti-i-costi.
(Fra poco, l’attenzione dei media si sposterà sulle elezioni quirinalizie. I media apriranno altre piste nel confuso circo tra giornalismo e spettacolo.)
Anyway. Noi Italians potremmo annoverare come ottime notizie tutte le vittorie sportive, i successi scientifici ed artistici, come pure l’unico successo politico dopo decenni di sprofondo, ovverosia, Mario Draghi Presidente del Consiglio (il quale è un po’ anche orgoglio altirpino, lo sapevi Babbonata’?). Di ciò ce ne stiamo compiacendo, nel combinato disposto del complimentone della Merkel, la quale auspicava per la Germania la stessa situazione vaccinale dell’Italia e l’articolone su The Economist, come miglior Paese per cambiamenti positivi.
Siamo il Paese dell’Anno, abbiamo superato i blasonati, in particolare il Regno Unito, cui rode parecchio assai. Non te l’avevamo chiesto l’anno scorso, ma grazie lo stesso per i regali: da Jacobs a Tamberi, da Vio a Goggia, dai Maneskin, agli Azzurri, da Parisi a Palmisano. Il Colosseo è il patrimonio UNESCO più visitato al mondo, l’Italia è il Paese che nel mondo ha più siti UNESCO (di cui cinque solo in Campania, prima tra tutte le Regioni). Siamo finanche diventati primi in Europa per riciclo rifiuti.
(Dài su, manca solo l’Oscar a Sorrentino e facciamo cappotto.)
A noi, tapini com’eravamo ed intimamente ci sentivamo, sarebbe bastato sfangarla con la pandemia, tornare a ballare sulle spiagge e durante i veglioni di Capodanno, farci di mojitos d’estate e di spritz d’inverno, alla faccia del CoVid-19, nelle più plausibili declinazioni del nostro ingenuo ‘andrà tutto bene’.
Ci hai messo una grande responsabilità sulle spalle, invero, regalandoci – oltre ai successi sportivi, culturali, scientifici ed artistici – anche del buonsenso, che finora ci difettava. Però, noi – Paese dell’Anno - abbiamo avuto in dono anche Sergio Mattarella e Mario Draghi. Non uno, bensì due pazienti veltri dotati di ottimo buonsenso, due conducatores e non uno soltanto, tanto invocati e anelati da populisti incalliti (qual siamo da sempre) ma fino a ieri in scacco di leader e leaderini abbaianti e straparlanti.
Ecco, posso dirlo? Il tessuto socio-culturale si sta smacchiando del populismo più deleterio e materico grazie a scienza e competenza, e ciò è un bene. La nuance che rimarrà potrebbe serenamente rientrare nella categoria della socialdemocrazia, di cui l’Unione Europea penserà a ridefinire la giusta tonalità.
A ben pensarci, approfittando, ti chiederei di far riscrivere la lista delle istanze di sinistra al Piddì (sempreché voglia rimanere un partito di sinistra, beninteso), perché adesso c’è una gran confusione.
Il lavoro, la sua sicurezza economico-contrattuale e fisica, la ricostruzione e il rafforzamento del welfare state, una più equa e progressiva tassazione, il primato del pubblico nell’istruzione e nella sanità sono temi che devono ritornare nel loro alveo politico-ideologico naturale, non più oggetto di contesa mediatica per slogan, urlati alla bisogna (sempre per quella storia dell’audience) da partiti la cui storia è andata – fino a ieri – in altra direzione.
(Mmh, questo paragrafo sembra scritto da Landini.)
Poi rimangono ancora i temi della cittadinanza, dell’integrazione, della legge Zan, dell’estensione dei diritti civili ...
Vabbe’. La chiudo qui. Per quel che mi riguarda, già non ero fan delle festività stagionali invernali (mi adeguo alla lessicologia politicamente corretta comunitaria), ma da quest’anno odierò ogni altra festa, per il fatto di ricordarmi tempi migliori, da me ormai persi per sempre.
Per quello che riguarda Voi Lettori, beh, Vi auguro almeno serenità e tanta salute (le migliori forme di felicità) e tanta pazienza ancora.
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marikabi · 1 year
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Darwin forever
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Darwin non passa mai di moda.
Vuoi che se ne parli con cognizione, vuoi che lo si citi a sproposito (nelle accezioni più estreme del concetto di 'darwinismo sociale').
Darwin ai più è noto in associazione geografica con le Isole Galàpagos, ma soprattutto perché il volgo ha travisato (e continua a travisare) la di lui teoria dell'evoluzione, banalizzandola in discendenza diretta dell'uomo dalle scimmie.
(Psst! Non è una linea retta come tanti - ahimè - continuano a credere: noi e le scimmie, tutt'al più, siamo cugini. Per i non impegnati: ripassatevi il film Il pianeta delle scimmie - o leggete il libro di Pierre Boulle - e poi ne riparliamo.)
Darwin è sempre attuale, da rinverdire tuttavia continuamente negli insegnamenti alla luce di recenti quanto anacronistici ed inopportuni negazionismi: neo-creazionismi anacronistici da esagitazione religiosa al pari dei nonsense terrapiattisti, vistose spinte al revisionismo storico-etnologico (talvolta supportate addirittura ope legis), nonché complottismi fantasy (cito vicende quali pizza-connection e QAnon), includendo pure diversi variopinti deliri generatisi durante la pandemia.
Darwin, per frenare tali letali derive ideologiche, andrebbe studiato di più e meglio, a cominciare dalla sua interessantissima biografia.
Appunto.
Dell'uomo Darwin - scienziato che ha rivoluzionato conoscenze scientifiche al pari di Galileo, Copernico, Newton ed Einstein - quanto sappiamo?
Com'è diventato lo scienziato (al tempo si diceva naturalista, titolo che comprendeva tutto lo scibile dell'ambito) le cui teorie hanno scardinato ataviche concrezioni concettuali e culturali sull’origine delle specie e soprattutto dell’uomo, sconvolgendo opinione pubblica e accademici del tempo, minando irreparabilmente le fondamenta creazionistiche delle religioni? (Sul tema dell'irruzione di Darwin nella scienza e nella religione, consiglierei di Piergiorgio Odifreddi In principio era Darwin, Longanesi 2009)
Darwin era davvero un gran personaggio, non assolutamente per l'altisonanza da accademico che non gli apparteneva, bensì per la sua modestia, i suoi perenni dubbi, le sue peripatetiche riflessioni (riordinava le idee e le sue intuizioni scientifiche passeggiando di mattina presto in un vialetto della sua casa, il celeberrimo Sandwalk), la sua meticolosità e la sua tenacia (soffriva il mal di mare eppure s'imbarcò in una circumnavigazione del globo durata 57 mesi).
Darwin divenne quello che era perché il carattere e l'indole di un uomo sono il suo destino.
Darwin da bambino era un collezionista, di qualunque cosa: ciottoli, francobolli, insetti, conchiglie, piante. Analizzava i suoi reperti con tanto scrupolo (annotando ogni cosa) e ben presto imparò a riconoscere microscopiche diversità tra gli esemplari. Quel solitario e tenace (per lui piacevole e appagante) hobbistico allenamento d'infanzia e adolescenza lo trasformò nel più poderoso conoscitore della Natura, finanche più esperto e perspicace del tassonomo naturalista per eccellenza, Linneo, riuscendo a ricomporre tante linee evolutive di innumerevoli esseri (animali e vegetali) tra quelli viventi e quelli estinti, inserendo nelle esatte sequenze i record fossili.
Le tassonomie hanno rappresentato nei secoli (come ci ha descritto compiutamente Michel Focault, nel suo complicato seppur affascinante Le parole e le cose, BUR) le prime forme di riordino della conoscenza: serie e serie di elenchi ordinati e riordinati hanno stimolato la ricerca di analogie, assonanze, somiglianze e identità. Darwin - trasformando la sua passione infantile in un metodo - ha portato lo strumento (ma anche l'arte) della tassonomia ad un livello superiore, spingendo in primo piano le linee evolutive in una sorta di 'teoria del tutto' nelle scienze biologiche. (Teoria del tutto che ha subito comunque modifiche e contraddittori, come si legge in questa sintesi.)
(Precisiamo, per amor di verità, che già Aristotele intuì [libro II della Fisica, NdR] la selezione naturale e l'evoluzione. Dopo secoli di buio teistico, le ipotesi sull'evoluzionismo irruppero con Diderot, Buffon, Lamarck, ma solo con Darwin ebbero quella sistemizzazione scientifica da trasformarla in teoria. (Sulla definizione scientifica di 'teoria', consiglio questa simpatica video-spiegazione.)
Darwin fu tormentato da dubbi religiosi e fideistici fino alla decisione finale di pubblicare L'origine delle specie, ma le sue teorie erano così talmente e ripetutamente confermate dalle ricerche che non ritornò mai sui suoi passi.
La vita di Darwin è stata così intensa e piena che esistono fondazioni culturali e scientifiche le quali ancora scrutano nei suoi taccuini, nei luoghi della sua esistenza, convalidano le sue intuizioni, stupendosi delle sue pre-monizioni.
La vita di Darwin merita di essere raccontata ancora e ancora, affinché ci si lasci affascinare dalle scienze naturali, affinché le giovani generazioni si entusiasmino per la ricerca scientifica moderna, nata come un gioco per un ragazzino inglese del 1800.
Charles Darwin. L'uomo, il suo grande viaggio e la teoria dell'evoluzione (Valtrend editore) è il testo che mancava: un Darwin per tutti.
Scritto da John Van Wyhe (storico della scienza), tradotto ed arricchito dal nostro Roberto Sandulli (Ordinario di Zoologia all'Università Parthenope), prefato da Chiara Ceci (comunicatrice di scienza, studiosa del grande naturalista inglese e biografa della moglie di Darwin), il volume - ricco in illustrazioni e digressioni - verrà presentato in première nazionale, venerdì 2 dicembre alle 17, nel salone del Circolo della Stampa.
Locandina in gallery. Siateci.
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Esempio darwiniano di selezione del più adatto (ai social)
Ai pigri consiglio la serie YouTube di chalessart, un vero spettacolo di semplicità ed efficacia, divertendosi.
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marikabi · 1 year
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Il martedì mattina
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Per capire bene il mood della nostra Città, basta farsi una camminata per strada (una qualunque) la mattina prima delle otto. Se proprio volete approfondire, scegliete il martedì mattina (o anche il sabato mattina).
Perché l'ora, ma soprattutto perché il martedì?
Beh, si esca presto perché c'è meno gente per strada e si è più attenti al contesto ambientale, laddove il martedì (e il sabato) è il giorno dopo la raccolta notturna della cosiddetta 'frazione organica' dei rifiuti (l'umido, familiarmente) e lo spettacolo, certe mattine, è rabbiosamente avvilente.
No, non è l'ennesimo j'accuse contro la società di raccolta (che pure ha altre sue colpe), bensì l'analisi socio-antropologica - per quanto sottoforma di amara reprimenda - degli abitanti di questo poco ameno luogo.
Mica siamo la sorridente, seppur lievemente decadente, Matera dei gialli con Imma Tataranni sostituto procuratore?
Siamo un'umida e scontentissima cittadina, la cui totale perdita di speranza si declina e si ritrova nettamente nei comportamenti quotidiani.
In particolare, quando maneggiamo il pattume.
Scrive Filippo Ceccarelli - il migliore tra i notisti italiani viventi, secondo solo alla buonanima di Edmondo Berselli - nel suo consigliatissimo trattato sul trash italico (Lì dentro, Feltrinelli) che "è proprio sull'immondizia ai bordi delle strade [...] che si misura il fallimento di ogni politica, nazionale e municipale. [...] Lo sporco parla, lo sporco rivela." In altre parole, il nostro grado di civiltà viene sicuramente misurato dal grado di sporcizia urbana. (Nonché dai contenuti dei social, ci avverte principalmente Ceccarelli.)
Ripeto, non è solo una questione di aziende di raccolta (e la Roma dei racconti di Ceccarelli non solo è una delle città più sporche d'Italia, resort per cinghiali, ma ha anche una municipalizzata molto scarcagnata), bensì anche di cittadini, la cosiddetta ggente.
Vediamo più volte al giorno la pubblicità (prima affidata alla poco incisiva Licia Colò e poi ai più aggressivi Elio e le storie tese) sul corretto smaltimento del vetro e dei cristalli, poiché le persone in tutta Italia mischiano vetro, cristallo, ceramica, terracotta, porcellana sversando tutto assieme poco appassionatamente in sacchetti, per giunta. (Va da sé che è impossibile il riciclo di tali materiali, qualora così assemblati.)
Ma fosse solo questo il problema. La ggente, anche nella nostra disillusa Città, odia - per esempio - i bidoni della raccolta, siano essi quelli condominiali o gli individuali. A dirla tutta, odia peggio proprio i bidoncini individuali e si scoccia malamente di portarli giù la sera per ritirali la mattina successiva. Così, a qualunque ora, depone sotto il portone (a volte anche di altri edifici, perché siamo dispettosi e vendicativi e ci crediamo furbi e cazzimmosi) il proprio sacchetto di pattume, quel sacchetto in cui contenuto la mattina successiva si trova troppo spesso ben sparso sui marciapiedi, e quando si tratta di frazione organica lo spettacolo è vergognoso. Una mattina trovai per terra (in pieno centro città) anche dei sacchetti (ovviamente usati) per colon stomizzati, allo schifo si associò la rabbia.
Le persone sono molto scostumate, strafottenti e dispettose, in questi anni più di prima. Sarà la perdurante crisi economica, peggiorata ora dalla guerra, saranno stati i mesi di feroce pandemia, tutte le scuse sono buone, forse, si sono anche convinte di pagare troppo il servizio di raccolta e gestiscono il pattume nel peggior modo.
Dice ancora Ceccarelli che la gestione incorretta dei rifiuti domestici non è un problema di censo, o di quartieri. L'andazzo è trasversale a zone e a redditi. C'è chi ritiene di pagare (troppo) il servizio e fa quel che vuole, chi pensa di doversi vendicare per un servizio pessimo/per la vita che non gli arride/perché ha il coniuge fedifrago/per il Governo che non gli piace/perché i prof ce l'hanno con il figlio/etc, tutti costoro cercano inutili rivalse usando il pattume per sfogare rabbia e cercare vendetta, chi infine semplicemente s'en fout, alla francese.
Di gente che s'en fout ce n'è di varia tipologia, oltre ai nostri malgestori di poubelle (sempre il pattume, ma alla francese, che mistifica un po' lo schifo): vogliamo parlare di quegli idioti che lasciano accese le auto in sosta?
Ce n'è uno recidivo che ogni mattina staziona davanti al portone di un edificio - lungo la strada che percorro a piedi per andare al lavoro - ed aspetta qualcuno (un collega, la moglie?) con il suo gippone diesel acceso, appestando l'aria d'intorno. Tutti i giorni, con qualunque tempo, imperterrito. Non gli passa proprio per l'anticamera del suo a-sinaptico cerebro che sta agendo da criminale: semplicemente s'en fout.
Piccola e finale digressione sulle emissioni: certamente molti avvertiti miei concittadini avranno considerato che a causa della creazione dei nuovi sensi unici e dei restringimenti di carreggiate al fine di far circolare la neo-filovia, aumentando la lunghezza dei tragitti e di conseguenza dei tempi di percorrenza delle automobili, si è incrementata la quantità delle emissioni che si volevano (forse) diminuire con i bus ecologici. Che geni, che geni!
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marikabi · 2 years
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Non mi esasperare con le tue angherie!
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Noi adulti ci stiamo disabituando alla magia ed al valore dei libri, quest'ultimo anche al di là del contenuto.
Leggere un libro (ma anche ascoltarlo in podcast, dalla voce di un genitore o di un nonno, di una zia, di un fratello maggiore...) è molto meglio di mezz'orette a scrollare feed sul web, che siano social, chat, e-commerce, e altre diavolerie dal nome rigorosamente in inglese.
La maggior parte dei libri non danneggia quanto il web, a meno che non si tratti di Mein Kampf ed affini, beninteso, ma anche in tali casi il cattivo libro insegna a diffidarne. C'è una teoria che ci imporrebbe di leggere anche i libri che non ci garbano, proprio per poter apprezzare meglio il valore dei migliori esempi, ovvero ad evitare il ripetersi degli scempi (letterari e storici).
Tutta questa possibilità di riflessione, rielaborazione, assimilazione (le fasi della trasformazione della conoscenza in Cultura, cioè) non ci è data abbeverandoci dal web. Si spegne l'immaginazione, quando il pasto narrativo (sia in video che in parola) è un fast food, cucinato male e presentato frettolosamente, in batteria, massivamente: diventa junk food, roba immangiabile che fa anche molto male al metabolismo. Ma fosse solo una questione d'immaginazione che va ramengo: veniamo anche deformati dal punto di vista espressivo, linguistico e concettuale.
Anche un fumetto è molto meglio di uno smartphone. Tanto per cominciare, i fumetti parlano decisamente un italiano migliore di quello che usiamo e leggiamo nei social. (Nel novero dei fumetti, va da sé, si escludono gli esempi di slang, che - comunque - hanno valore di attestazione socio-antropologica, tipo le graphic novel alla Zerocalcare, che peraltro apprezzo molto.)
Ce lo ha confermato il Prof. Leonardo Acone, docente di Letteratura per l'infanzia e Sroria della scuola nonché concertista, durante la conferenza stampa [martedì 4 ottobre, NdR] di presentazione della rassegna Incantautori in Città, Festival della Letteratura per bambini e ragazzi, organizzato dalla tenace, appassionata e garbatissima Marina Siniscalchi. (Vd programma in gallery.)
La lingua che si parla a Topolinia e Paperopoli è di gran lunga più corretta e forbita (anche in tema di insulti) di quella che si legge nei post e si ascolta su YouTube. (Voglio annoverare all'elenco dei cattivi esempi anche certi sgangherati e sgrammaticati speaker radiofonici che inquinano dolorosamente sintassi e grammatica. Anche in tivvù, però, ci sono diversi soggetti linguisticamente tossici. È lo Zungezeitgeist, il riprovevole spirito linguistico di questi nostri disgraziati tempi.)
Per amore (e mestiere) di madre, spesso devo sorbirmi il domestico sottofondo audio di certi video su YouTube, in cui ragazzotti pretenziosi (che parlano della qualunque) sgarrano l'ottanta percento dei congiuntivi e piazzano il relativo 'dove' anche nelle temporali, senza citare altri orrori sintattico-grammaticali. Mi s'infiammano le tempie.
Qualche giorno fa sentivo uno di questi autoproclamatisi esperti discettare delle teorie Redpill (sorta di neo machisti, mezzi cavernicoli, misogini), ripetendo in varie e banali forme un unico concetto. Quale apporto può dare al miglioramento degli strumenti linguistici e cognitivi dei ragazzi uno che ha un vocabolario limitato, parla per slogan e usa i meme per aiutarsi? Per quanto critico sulle aberranti teorie redpilliane (neologismo di cui la clip è piena).
Anyway.
A riprova della bontà linguistica dei fumetti, il Prof. Acone ha citato l'esempio di sua figlia ragazzina che in un battibecco generazionale ha urlato al padre di smetterla con le angherie. Ha proferito proprio 'angherie', uno di quei termini che il web bollerebbe come obsoleto, lessema che viene affibbiato ai device tecnologici non recentissimi. Angheria, è termine desueto (non obsoleto, quindi) nell'eloquio informale e parlato, non in quello letterario, tanto meno in quello usato a Topolinia e Paperopoli. Il pur squinternato Paperino urla allo Zio Paperone di smetterla con le sue angherie, per esempio.
Ma vi è di più. Mio figlio, all'epoca, piccolo alunno di scuola elementare, un giorno mi urlò "Sei egasperante proprio!". Egasperante? What's egasperante, vi chiederete e mi chiesi anch'io. La parola, usata appropriatamente seppur unicamente nella logica di un ragazzino alle prese con i primi scazzi generazionali, era nel titolo di una storia su Topolino (starring Paperoga, il mio preferito), solo che nell'elaborazione grafica esagerata, la esse arrivò a sembrargli una gi minuscola. Egasperante o esasperante, insomma, mio figlio aveva imparato un termine utile, un condensato concettuale appropriato e me lo aveva urlato contro, invece di prodursi in improperi singultanti e banali, in mancanza di termini per rifinire a modino la sua rabbia.
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Più il termine è complesso, più il pensiero sotteso attiva un maggior numero di sinapsi, più si diventa intelligenti. Lo affermava (con altre parole) Umberto Eco, lo ripeteva Tullio De Mauro, lo ipotizzò tra i primi Lev Vygotskij.
Bisogna alzare il livello semantico dei lemmi utilizzati per scrivere e parlare, costringendo la crescita linguistica e neuronale, dei ragazzi e di tantissimi adulti, non abbassarlo per un malinteso senso di democrazia, in un'epoca in cui la legge suprema è 'la mia ignoranza vale quanto la tua competenza'.
Tale legge-del-popolo ha deformato le campagne elettorali degli ultimi vent'anni, abbassando il livello cognitivo, alzando quello del populismo e dell'orgoglio pecoreccio, rovinando governi e opinione pubblica, squassando i pilastri di numerose democrazie, alimentando costantemente assolutismi, spesso letali in alcune comunità già infestate da estremismi religiosi e/o ideologici. Laddove i popoli perdono le parole per definire i propri bisogni e conoscere i propri diritti di esseri senzienti, l'ira sostituirà sempre più il confronto.
Le parole vanno difese e talvolta riconquistate, come c'insegna il libro di Enrico Galiano La società segreta dei salvaparole.
Specialmente su YouTube e TikTok, grammatica, sintattica e spesso anche fonetica vengono martirizzate ed il vocabolario decimato. E ciò riferendomi all'aspetto dell'esposizione. Vogliamo parlare di contenuti?
La vacuità più assoluta. Il niente viene fritto in decine e decine di modi. Ma - si sa - fritta anche una ciabatta diventa edibile.
Puah. Si leggerebbe con un'onomatopea su Topolino. La mia generazione è cresciuta con Topolino (ma anche con il Corriere dei Piccoli, il Corriere dei Ragazzi, tutti i Manuali Disney, compreso quello di Nonna Papera, lo junior Master Chef dei miei tempi. Nulla s'inventa) e devo dire che ne sono quasi orgogliosa, visti i tempi.
Morale?
Un libro salva la cultura, ma spesso anche la vita perché leggendo tanti libri vengono demoliti i pregiudizi e l'aumento di conoscenze e competenza è il miglior salvacondotto dal pericolo di esclusione sociale, nonché di fazionismi ideologici.
Per conoscere il prezioso cammino di salvaparole, attivato dalla appassionata Marina Siniscalchi e la sua Associazione, vi aspetto agli appuntamenti della rassegna. Il primo, sabato 8 ottobre dalle 16:30 in Piazzetta de Pascale (davanti alla Mondadori, cioè), con la sfavillante Ornella della Libera e le sue crude storie vere.
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marikabi · 2 years
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(Quasi) tutte le grinze della mia Città
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Anche io - come il Direttore Staglianò - cammino per la Città. Mi muovo con passo alacre, sempre per lavoro o commissioni, ahimè pressoché mai per diletto o svago.
Le mattine d’estate sono la scenografia migliore per soffermarsi sui dettagli urbani, urbanistici ed antropici: non c’è folla, l’aria è fresca ed ancora tersa. Odori e colori (ma anche brutture e afrori, stonature e tristitudini) si stagliano netti ai sensi.
Diversamente dal mio amico Marco (sempre il Direttore, ma in amicizia), non ho cameraman che mi precedano e la Città me la racconto spesso da sola, correndo appresso ai miei pensieri (tanto che devo chiedere sempre scusa ad amici e conoscenti per non averli riconosciuti o salutati per strada).
Dopo il caffè del risveglio, si è anche pronti e recettivi: sono io il mio cameraman per il mio podcast privato e quotidiano.
Oggi, tuttavia, mi va di condividere.
Ogni mattina - per recarmi al lavoro - esco presto e a piedi raggiungo la sede.
Ogni mattina - anche d’inverno - incontro gli stessi netturbini, gli stessi (spesso improbabili) runners, gli stessi passeggiatori di cani, gli stessi furgoni dei panettieri/pasticceri, gli stessi negozianti. Tutti volti noti, tanto che se ne manco uno mi preoccupo.
Ogni mattina attraverso a passo svelto le stesse zaffate: quelle disgustose dalle grate dei tombini, quelle acide di cornetti in scongelamento nei fornetti dei bar, più raramente quelle profumate di tigli e di caffè.
La nostra Città è ancora una di quelle in cui certe mattine, nel centro storico, a mo’ di paesello, talvolta si può sentire l’odore del soffritto per il ragù, delle cipolle per la genovese, della verdura stufata, dei fagioli per la zuppa.
Ogni mattina, devo praticare lo stesso slalom tra deiezioni canine - sia libere che già imbustate, maledetti proprietari di cani! - e le buste di pattume squarciate appartenenti a cittadini che non si peritano di utilizzare manco il bidoncino familiare.
(Vogliamo parlare della sindrome del cuculo per i rifiuti ingombranti e RAAE? Ignoti stronzi piazzano con più frequenza di prima ciò di cui vogliono disfarsi accanto ai bidoni condominiali altrui. La foto di copertina è recentissima e svela tutto: in un giorno in cui si raccoglie umido, cuculi lasciano carta e RAEE. Per giorni e giorni si vedono elettrodomestici, vecchi arredi, ciarpame vario stazionare distribuiti sotto i portoni della città, in particolare quelli più defilati alla vista. Sono, altresì, certa che tale sindrome non emerga da un’unica causa - la perfidia - ma implichi anche difficoltà di relazione con l’azienda di raccolta. Ma questa è un’altra storia.)
M’infelicitano anche quelli che si pensano furbi e infilano pattume anche nel retro delle cabine Enel (vd foto).
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Il mio dilemma è questo: i netturbini sono tenuti a rimuovere anche questi anfratti? Temo che ciò non sia, dalla quantità di siti impropri per liberarsi del pattume (ma mettere più cestini, no?), nonché dall’enormità di tempo che è trascorso da quando segnalai l’evento narrato in questo pezzullo, cui rimando. Quei rifiuti ingombranti sono ancora là, dopo tre anni. Forse per questo la città è e sarà sempre più sporca.
Ci lamentiamo - noi umani - delle routines che avvelenano l’esistenza, tuttavia quando manca un tassello al nostro puzzle di riti quotidiani, i quali sono i veri riferimenti esistenziali (senza scomodare gli universali filosofici e culturali o i pantheon che riempiamo), avvertiamo una grinza.
(Quando poi arriva uno tsunami che ci disperde i tasselli, è un miracolo se rimaniamo vivi. Ma anche questa è un’altra storia. Oggi, infatti, vi parlo delle grinze sociali, non degli tsunami psicologici.)
L’unica routine di cui vorrei disfarmi - vi confesso - è il raeggeton estivo, diventato lagna clonata e petulante. Ma non divaghiamo.
Vi racconto qui di ulteriori grinze o spiegazzamenti, sgualciture e strappi (le cui pecette sono spesso crimini e non soluzioni) al panorama cittadino, piccole cose che creano segni e lanciano segnali, restituendo nuovi significati sociali urbani locali, di segno spesso negativo.
Grinze sono i birilli gialli (quelle installazioni atte a delimitare il tracciato della metro leggera) già deceduti, per esempio. I birilli gialli concettualmente andrebbero pure bene, se fossimo automobilisti disciplinati, ovverosia che non giocano a GTA divellendo questi scheletri di Minions, durante la notte, e se togliessero i parcheggi dalla corsia opposta per allargare la ristretta carreggiata.
I birilli gialli sono necessari, perché la nostra autodisciplina di automobilisti fa - appunto - grinze da tutte le parti. Solo che siamo altrettanto scostumati (altra spiegazzatura sociale perdurante) da parcheggiare anche in presenza di divieti. Il caso più classico è Via Carducci, ma dappertutto (e non solo da noi) resistono i soliti arroganti e prepotenti fermi sui passi carrabili, sulle strisce pedonali, sui parcheggi per disabili, in doppia fila, transitanti controsenso, o che bellamente aspettano che tu passi per parcheggiare sul marciapiede. Annovero tra queste prepotenze anche il sostare con auto accesa (se è un diesel, è anche più sfregioso), alla faccia del cambiamento climatico. L’auto d’estate non si spegna per via dell’aria condizionata accesa, una doppia sberla all’etica ecologica, cioè.
Grinzosa è la nuova ZTL serale. Anche qui, il concetto sarebbe buono ed utile. Ma le conseguenze declinate in città hanno più l’aspetto di cascami che non di vantaggi. La mattina dopo, la ZTL è lo scenario di un day after. Qualche mattina fa, l’area era così lercia (anche di bicchieri rotti) che al posto del solito netturbino gentile (che saluto ogni mattina) c’era una squadra con spazzatrice, spazzoloni e soffioni. Ciò mi ha destabilizzato: stiamo peggiorando come cittadini disperati di sagre, mojitos e calzoni fritti o siamo diventati più efficienti, per via delle spazzatrici e della squadra (tipo Ghostbusters) a supporto?
Grinze sono gli inspiegabili ammanchi di sampietrini, anche in assenza di cantieri o posacavi, che deturpano e rendono pericoloso la deambulazione (vd foto).
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Poi, all’improvviso, trovi raduni di sampietrini cumulati in posti indecenti (vd altra foto).
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Grinzosa ed esteticamente triste pure la vista di alcuni barili di carburante utilizzati a mo’ di tavolini, in un minuscolo dehors del centro. Al cattivo gusto non c’è mai fine, ho pensato in un primo momento, ma rinsavendo pochi istanti dopo mi sono rimproverata da sola per non aver riconosciuto che il gestore del bar ha solo intuito e rappresentato l’esprit du temps: barile-sineddoche degli idrocarburi come valore massimo in questa nostra afflittissima epoca.
Vogliamo parlare di quante grinze fanno i dehors?
Ci sono alcune zone ormai impraticabili dai pedoni per sovraffollamento ed espansione indiscriminata di arredi esterni, organizzati a ranghi multipli e serrati, come gli ombrelloni a Trentova (nota e risicatissima spiaggia agropolese). Capisco la voglia di mascherarsi da Città vacanziera e spensierata, ma c’infiliamo nel ridicolo lasciando intuire solo un’avida smania di allargarsi il più possibile, quasi a sfregio di pedoni, buon gusto e decoro urbano.
Ridicoli poi pure gli arredi arrangiati su marciapiedi stretti, accanto ai quali le auto passano radenti: scomodità e inquinamento serviti con gli anacardi e i frittini. Ho sempre immaginato che mangiare ’fuori locale’ dovesse rappresentare un miglioramento dell’esperienza prandiale. Piuttosto, compro una pizza per mangiarla sul terrazzino di casa.
Volete una grinza acustica? Certe volte, a Corso Umberto si sovrappongono più dj-set/karaoke/piano bar. Non vi dico lo strazio della baraonda sonora risultante.
Per la teoria del benaltrismo, tutte queste grinze singolarmente prese non sono una minaccia letale, ma l’aumento, l’intensità e la loro persistenza trasformano una comunità in un’orda distruttrice dei propri stessi luoghi di vita, abbassandone la qualità.
Più allarghiamo le maglie dell’indifferenza, più dilagano il trash, l’incuria e la scostumatezza. Più ci rintaniamo nello scontento solitario e solipsistico, più aumentano i decibel degli imbecilli che a qualunque ora della notte pompano abnormi casse stereo delle auto.
Abitiamo la città come la ranocchia nel pentolone di acqua sul fuoco, del noto aneddoto: non ci stiamo accorgendo del pericolo.
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marikabi · 2 years
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marikabi · 2 years
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marikabi · 2 years
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marikabi · 2 years
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marikabi · 2 years
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marikabi · 2 years
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marikabi · 2 years
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