Tumgik
#brucia fiori del male
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Puoi parlare piano tanto gli occhi parlano per te
— brucia fiori del male
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klimt7 · 2 years
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Perchè ti odio
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Odio il modo in cui mi parli ma non, il tuo taglio di capelli. Odio i tuoi anfibi, ma non come leggi e sai tutto quello che penso. Forse ti odio così tanto, che allora, si spiega il mio stare male dallo stare bene e da scrivere stupide poesie o pensieri in forma di fiori, fiori di parole colorate e piene di linfa vitale, con radici affondate nella terra e nel mare, come piante vere.
Odio le parole che non ti dico e che poi trovo scritte, piovute sparse, sui fogli sui quali disegno.
Mi impegno a non darti spazio e tu mi invadi. Mi occupi ogni cellula, con ricordi antichi presi dal nostro comune futuro.
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Mi odio quando non posso che darti ragione e scrivere al posto tuo, molti pensieri che ti galleggiano dentro, da un sacco di tempo. O quelli che ancora non hai avuto modo, di mettere a fuoco.
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Sono flash quelli che mi accendi in testa. Talvolta sento bruciare frasi e fiamme sotto i capelli  e dietro la fronte e mi brucia la gola per ogni silenzio che vi si impiglia, quanto rimango soprapensiero a contemplare il tramonto.
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Odio davvero quando mi fai sorridere o commuovere per un qualcosa che tu chiami difetto e che io guardando meglio, scopro essere un frammento di gentilezza di cui Tu, nemmeno ti rendi più conto.
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Odio che non ci sei e che occupi tutta la mia giornata.
Odio quando ricordi da dove vieni, perché poi lì, mi ci perdo e vorrei guardare il mondo da ogni finestra, dietro cui ti sei fermata quel giorno, a fissare gli alberi e i rami quasi stilizzati d’inverno. Quelli che spiccano scuri, contro il grigio scabro del cielo che promette neve. E più oltre, si sente la vibrazione dei fiumi. Quelli che ancora oggi, scorrono continuamente dentro i cassetti della tua stanza.
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Ecco, sto imparando tutte le finestre e le stanze e la pioggia che è scesa nei luoghi che hai frequentato. Odio la cascata ininterotta di attimi, che ti hanno visto diventare quella che io conosco soltanto oggi. Odio il tempo che ti ha allevata perché ha dimenticato di occuparsi di me, perché quasi sicuramente, io pure c’ero, nascosto in qualche piccola tasca. Dei jeans o dello zaino. E poi tu che camminavi e correvi su un tappeto di foglie cadute e croccanti dai colori ancora sgargianti.
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Ma la cosa che odio di più in assoluto, è che io non riesca ad odiarti forte, come si deve o come si dovrebbe.
No. Quello proprio no, ci provo e niente, non mi riesce e allora vorrei dirtelo, gridarlo forte, riempire il tramonto con parole sussurrate sotto l’arancio tenue del sole, che va sotto l'orizzonte tracciato sul mare. E forse, sono proprio quelle le parole che pronunciano i colori, nella sera che avanza, mentre il sole s'immerge.
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Poi mi sveglio e trovo che è un peccato che non mi chiami, perché potrei scrivere al telefono, un libro di parole sorridenti, quanto gli occhi che avresti ad ascoltarle.
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tso-party · 1 year
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mi sono persa. le navi da crociera sono grandi come 10 palazzi, si sdraiano sulle città mentre i fiori continuano a sbocciare. le piccole imprese della vita mi piegano in due a suon di pugni nella pancia, mi fanno sudare, oscillare, il marciapiede vorrebbe limonarmi ma io mi reggo in piedi reggendomi all'emicrania, lasciandomi portare lontano dal dolore. faccio il mio dovere e lascio che i miei successi scorrano via lungo i torrenti mentre io mi perdo ancora. ho costruito un'altra dimensione nella mia testa, ci ho messo 30 anni, ho costruito la mia casa dagli occhi vitrei ma ora quando ci vado ho paura di non tornare. passeggio e mi chiedo come ci sono finita qua, non riesco a svegliarmi del tutto, rimango stordita sotto le case di amici e nemici domandandomi se mi vedono dalle finestre e cosa pensano di me, della distanza. sono sempre stata un disastro, la belva travestita da cucciolo indifeso, ad un certo punto cerco di sbranare tutti, credo casini emotivi enormi, troppo grandi perché una persona possa contenerli. tutto quello che mi abita dentro è troppo grande e le mie ossa sembrano sul punto di cedere, la mia pelle brucia e io dovrei essere una fortezza, dovrei toccare il cielo per essere verosimile. molte cose sono solo quello che noi crediamo che siano. ti scrivo un messaggio e sparisco, tutto si ripete ed è noioso come cadere nel vuoto 300 volte al giorno, non so mai cosa voglio ma so che è più di questo. non voglio che il male si ripeta identico a se stesso ancora e ancora, questo è un giochetto per una ragazzina che non mangia, indossa vestitini azzurri e vuole farsi portare via dal buio. ora ho una ruga sull'occhio e capelli d'argento che sfidano la tinta e brillano attorno al mio viso e voglio di più.
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aliceisinchains · 1 year
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La tua foto ora è vicino a quella dei tuoi cari nell'altare che avevi dedicato alla famiglia. Ho cambiato i fiori con delle peonie ed ho acceso tre candele bianche: inciso il tuo nome e accanto un sigillo di protezione. Ho versato nel calice un po' del tuo liquore preferito, tra le mani una foto di noi due ad un mio (credo)compleanno. Rilasso i muscoli e svuoto la mente di tutti i pensieri vani, pronuncio parole che non ho preparato, sono improvvisate ma so che sono quelle giuste. Il tuo corpo si sarà ormai consumato come la cera delle candele, la tua anima brucia alta come la fiamma e mai si spegnerà. Spero di incontrare la parte di te che giace in me e riconoscerla abbracciandola. Sei stata come una seconda madre, un'amica e un'insegnante per me, ti amerò sempre nonna. So che non viviamo per i morti, viviamo per la vita, la morte altro non è che un ciclo terreno che si chiude, il tuo si è chiuso e non devo continuare a soffrire per questo. La tua morte mi fa male perché non la comprendo, non ci è possibile conoscere ogni cosa e forse è meglio così. Mi piace pensare che la tua anima fosse ormai troppo luminosa e avessi bisogno di un luogo più armonioso dove riposare. Lascio andare tutto il dolore. Rimane solo l'affetto.
Non riesco a dormire stasera, penso che girerò per casa ricordando i momenti passati insieme a ridere.
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lunamagicablu · 2 years
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Forse per ricominciare, a volte, bisogna passare attraverso l’autunno. Scivolarci in mezzo, in silenzio, assaporando la gioia semplice ed essenziale dell’essere vivi, lasciandola galleggiare sopra a tutto il resto, permettendole, per una volta, di essere più forte di tutto il resto. Camminare in silenzio per una strada buia di periferia, una strada non pericolosa, solo vuota, solo squallida, illuminata di giallo aranciato da lampioni nuovi, altissimi. Sapere che è la strada che ti riporta a casa. Sapere che non c’è nulla di brutto, nulla di male, nulla di sbagliato. Sapere che, sapere questo, non basta a riempire quel senso di vuoto. Non ci sono fiori a decorare questa strada. Non ci sono vetrine, non ci sono profumi. Ma va bene così. Ti può bastare, per stasera.
Ti può bastare sentire il fresco traspirare attraverso la stoffa della camicia, e provarne piacere. Ti può bastare il rumore cadenzato dei tuoi passi sull’asfalto, l’idea di andare a casa. Verrà di nuovo il momento in cui non basterà. Verrà di nuovo e dovrai pensare a cosa fare – come guarirti, dove vagare, quali cose che non ti va di fare sforzarti di fare per riempire solchi, o voragini, per mimetizzare cicatrici. Per ricoprirli di cose a caso, quasi tutta spazzatura, sperando di trovare in mezzo, con un colpo di fortuna, qualcosa di bello, qualcosa di buono, qualcosa per cui possa valere la pena – di essersi sforzati. O di farsi di nuovo male. Ma per adesso può bastare. Per quanto sottile, friabile, già quasi trasparente, per una sera almeno vuoi fartelo bastare. Vuoi provare a non sentire la cenere – la cenere che sei diventato, la cenere di quello che mi è rimasto di te. La cenere che hai scelto di diventare per me. La cenere che vola leggera e spietata ogni volta che respiro: si ferma in gola e mi brucia, devo respirare più forte per non soffocare. Però se non ci penso, se mi distraggo, se mi tengo occupata, se parlo, rido, lavoro, corro, quasi me la dimentico: è così sottile, si confonde con l’aria. Si disperde. E non so più dire – se nell’aria sparisce, oppure se è diventata parte dell’aria stessa. Però quando mi fermo, quando c’è silenzio, quando è sera, mi rendo conto del grigio – e allora mi ricordo della cenere.
E mi ricordo di questo dolore che è tornato, come dieci anni fa. Dieci anni fa, quando ero in mezzo ad altra cenere. E mi dicevo che andava bene – perché, se anche non fosse andata, non avrei saputo in che altro modo farla andare. E allora ci aveva pensato il mio corpo a spiegarmi che cosa mi mancava. Ad urlarmi che cosa mi mancava. In dieci anni ho imparato ad amarmi. A fasi alterne, certo, ma così è l’amore: non sta mai fermo, se lo dai per scontato si prosciuga, chiede sempre nuovi punti di equilibrio, ha sempre qualche sfida, o qualche sfiga, che lo mette alla prova. Io mi amo a volte con entusiasmo, a volte con pigrizia. Con poca dedizione nelle cose pratiche, nelle cure esteriori, ma con tante coccole e follie in tutto quello che nutre l’anima. In dieci anni ho imparato ad accettarmi, a non odiare più i miei difetti, a non nasconderli come polvere sotto il tappeto: a volte li sventolo ridendo, e quelle sono le giornate buone; a volte pesano come macigni e ancora mi schiacciano, e quelle sono le giornate cattive – ma, sempre, li guardo in faccia, dritti negli occhi. In dieci anni ho imparato a tirare fuori più volte di quanto lascio dentro; a fregarmene un po’, il giusto; a preferire la felicità alla perfezione. Ad essere più simile alla persona che vorrei essere.
Non so se in dieci anni ho anche imparato ad amare. E non so se sia solo stata colpa mia. Finisco sempre per inseguire cose impossibili, ma non so se sono proprio io a cercarmele, o se sono loro che cercano me. Non so se sono egoista, se ho bisogno di cercare vie di fuga prima ancora di entrare, o se, qui, non ho ancora imparato ad avere il coraggio di tirare fuori più di quello che preferisco tenere dentro. Se ho bisogno di sognare prima ancora che di vivere. Se in fin dei conti mi sento sempre non abbastanza ed è questo ciò che finisco per attrarre. Questo, oppure qualcosa che invece non è abbastanza per me. O se, in realtà, tutto ciò alla fine non è poi tanto diverso da quello che accade anche a tanti altri, a quasi tutti – ma che tanti altri, quasi tutti, al contrario di me, finiscono per portare avanti lo stesso: perché sono meno egoisti, perché ne hanno più bisogno, perché sono meno abituati a stare soli, perché hanno meno paura a lasciarsi andare, perché si fanno meno domande, perché ci sperano ugualmente, perché sono più coraggiose o più illuse, perché hanno bisogno di un simbolo, di uno status, e poco gli importa della sostanza…
Perché… Non lo so perché. Non l’ho mai saputo. Continuo a non saperlo. E no, non mi basta… di Serena Chiarle ************************ Perhaps to start over, sometimes, you have to go through autumn. Slip through it, in silence, savoring the simple and essential joy of being alive, letting it float above everything else, allowing it, for once, to be stronger than everything else. Walking in silence on a dark suburban street, a non-dangerous street, only empty, only squalid, illuminated with orange-yellow by new, very high street lamps. Knowing it's the way back home. Knowing that there is nothing bad, nothing bad, nothing wrong. Knowing that, knowing this, is not enough to fill that sense of emptiness. There are no flowers to decorate this street. There are no shop windows, there are no perfumes. But that's okay. That may be enough for you tonight.
It is enough for you to feel the coolness transpire through the fabric of the shirt, and feel pleasure from it. The rhythmic sound of your footsteps on the asphalt, the idea of ​​going home, may be enough for you. The time will come again when it will not be enough. It will come again and you will have to think about what to do - how to heal yourself, where to wander, what things you don't feel like doing the effort to do to fill in grooves, or chasms, to camouflage scars. To cover them with random things, almost all garbage, hoping to find in the middle, with a stroke of luck, something beautiful, something good, something that might be worthwhile - to have made an effort. Or get hurt again. But that's enough for now. However thin, crumbly, already almost transparent, for one evening at least you want to make it enough. You want to try not to feel the ash - the ash you've become, the ash of what's left of you. The ash you chose to become for me. The ash that flies lightly and mercilessly every time I breathe: it stops in my throat and burns me, I have to breathe harder so as not to suffocate. But if I don't think about it, if I get distracted, if I keep busy, if I talk, laugh, work, run, I almost forget it: it's so subtle, it blends into the air. It disperses. And I can't say anymore - if it disappears in the air, or if it has become part of the air itself. But when I stop, when there is silence, when it is evening, I realize the gray - and then I remember the ash.
And I remember this pain that has returned, like ten years ago. Ten years ago, when I was in the middle of more ashes. And I told myself it was okay - because even if it didn't go, I wouldn't know how else to make it go. And then my body had thought of explaining what I was missing. To scream at me what I was missing. In ten years I have learned to love myself. In alternating phases, of course, but love is like this: it never stands still, if you take it for granted it dries up, always asks for new points of balance, always has some challenges, or some bad luck, which puts it to the test. I love myself sometimes with enthusiasm, sometimes with laziness. With little dedication to practical things, to external care, but with lots of pampering and folly in everything that nourishes the soul. In ten years I have learned to accept myself, to no longer hate my defects, not to hide them like dust under the carpet: sometimes I wave them laughing, and those are the good days; sometimes they weigh like boulders and still crush me, and those are the bad days - but, always, I look them in the face, straight in the eye. In ten years I have learned to pull out more times than I let in; to give a damn, the right; to prefer happiness to perfection. To be more like the person I would like to be.
I don't know if in ten years I have also learned to love. And I don't know if it was just my fault. I always end up chasing impossible things, but I don't know if I am looking for them, or if they are looking for me. I do not know if I am selfish, if I need to look for escape routes before I even enter, or if, here, I have not yet learned to have the courage to bring out more of what I prefer to keep inside. If I need to dream even before living. If in the end I always feel not enough and this is what I end up attracting. This, or something that is not enough for me. Or if, in reality, all this in the end is not so different from what happens to many others, to almost all - but that many others, almost all, unlike me, end up carrying on the same: because I am less selfish, because they need it more, because they are less used to being alone, because they are less afraid of letting go, because they ask less questions, because they still hope, because they are more courageous or more deluded, because they need a symbol , of a status, and little cares about the substance ...
Because… I do not know why. I never knew. I still don't know. And no, that's not enough for me ... by Serena Chiarle
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lile-n · 4 years
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1.Bevi un bicchiere d’acqua ogni ora. Ti farà sentire piena.
2.Bevi acqua ghiacciata. Il tuo corpo brucerà calorie per riportare l’acqua a una temperatura adatta per la digestione. È anche ottimo per la tua carnagione.
3.Bevi 3 tazze di tè verde al giorno. Aiuterà a dare una spinta al tuo metabolismo, in più è antiossidante, rende più bella la pelle.
4. Assumi vitamine ogni giorno. Non assumerle a stomaco vuoto, altrimenti non hanno nulla con cui catalizzarsi.
5. Mangia ghiaccio o gomme da masticare quando hai fame. Questo farà pensare al tuo corpo che ha ricevuto cibo ma senza calorie.
6. Fai aerobica fino a sentirti venire meno.
7. Mangia cibi piccanti. Accelerano il tuo metabolismo.
8. Fai delle docce fredde perché il tuo corpo brucerà calorie per riscaldarti.
9. NON assumere lassativi. Non ti aiutano a perdere peso.
10. NON assumere diuretici. Ti disidratano e basta.
11. Lavati costantemente i denti, così non sarai tentata di mangiare in seguito.
12. Lega un elastico attorno al polso e fallo schioccare quando vuoi mangiare.
13. Pulisci qualcosa di schifoso (bagno, secchio dell’immondizia, lettiera del gatto, armadio del tuo ragazzo) quando hai voglia di mangiare. Non avrai più voglia di mangiare dopo aver pulito.
14. Mantieni i tuoi capelli in buone condizioni, così nessuno sospetterà nulla.
15. Trova un lavoro, così avrai da lavorare durante l’orario dei pasti.
16. Fai esercizio il doppio dell’ammontare delle calorie che hai mangiato.
17. Usa piatti e posate piccole, ti sembrerà di aver mangiato di più.
18. Mastica completamente ogni boccone di cibo e bevi un sorso d’acqua fra un boccone e l’altro. Ti sentirai piena velocemente senza aver mangiato molto.
19. Racconta che stai andando a mangiare a casa di un’amica e invece vai a camminare. Brucerai calorie anziché assumerne.
20. Compra dei vestiti di taglie più piccole e appendili dove li puoi vedere. Ti motiverà a perdere peso per poterli indossare.
21. Dormi almeno 6 ore a notte. Dormire meno di 6 ore diminuisce il tuo metabolismo del 15 %.
22. Se incominci a sentire fame fai addominali o datti dei pugni nello stomaco. Non sentirai più fame.
23. Viziati! Fai una maschera, mettiti lo smalto sulle unghie, tutto ciò che ti fa sentire carina.
24. Preparati uno snack, ma anziché mangiarlo gettalo via. Lascia il piatto sporco dove i tuoi genitori lo possano trovare, così penseranno che tu abbia mangiato.
25. Preparati una lista di scuse per cui non puoi mangiare: sei malata, sei vegetariana, sei allergica, ecc. Ti meraviglierai per quante scuse esistano.
26. Esci di casa! Sei non ci sei nessuno può infastidirti per il fatto che non mangi.
27. Frequenta un gruppo pro-ana o crea un tuo sito web personale. Qualsiasi cosa che ti mantenga motivata.
28. Fai un album Ana con ritagli di modelle magre. Scrivi sotto tutte le ragioni per cui desideri perdere peso. Segna tutto ciò che mangi. Sfoglialo ogni giorno per ispirarti a dimagrire.
29. Mantieniti la postura eretta, brucia il 10 % di kcal.
30. Invece del cibo compra qualcos’altro, una nuova maglietta, fiori, bigiotteria.
31. Fai una lista di tutti i cibi “cattivi” che desideri insistentemente e fai attenzione quando li mangi. Ogni giorno, scegline uno da togliere assolutamente dalla tua dieta, non importa quale, non mangiarlo più. Togline uno dalla lista ogni giorno fino a quando non ci saranno più cibi “cattivi” che ancora assumi.
32. Evita l’alcool! Un cicchetto di liquore ha 100-120 kcal, un bicchiere di vino ha 80 kcal, una piccola birra 110-120 kcal, e una birra normale 140-170 kcal.
33. Non mangiare mai nulla più grande di circa una tazza, il tuo stomaco si espanderebbe e poi avresti ancora fame.
34. Mangia nuda di fronte a uno specchio. Guarda quanto potrai mangiare in seguito!
35. Pare che l’odore del caffè sopprima l’appetito.
36. Truccati la bocca perfettamente. Ti renderà più conscia di cosa metti in bocca. Inoltre, quelli ai gusti aiutano con ciò che desideri insistentemente.
37. Fai 6 piccoli pasti al giorno. Prendi 2 mele, e dividile così da avere 6 pasti. In questo modo ingannerai il tuo corpo, il quale penserà che sta mangiando di più.
38. Una cioccolata bollente a contenuto calorico ridotto, domina il desiderio di cioccolata e ti fa sentire piena.
39. Assumi pillole contro il bruciore di stomaco se hai molta fame. Neutralizzeranno l’acido che si forma e ti fa sentire affamata.
40. Prendi una tua foto in cui indossi un costume da bagno o qualcosa di simile che riveli il tuo corpo. Guardala ogni volta che vuoi mangiare.
41. Ci vogliono 20 minuti affinché il cervello realizzi che lo stomaco è pieno.
42. Quando hai i crampi per la fame,arricciati come una palla,li farà andare via
43. Se sei una fumatrice ed hai fame, accenditi una sigaretta. Dominerà il tuo appetito.
44. Mangia molte fibre. Ti fan sentire piena e portano via il grasso dal tuo corpo quando andrai di corpo. La naturale pulizia dell’intestino aiuta sia il tuo livello di energia sia la tua sensazione di benessere.
45. Prima di precipitarti su quella torta, busta di patatine, caramelle, o quel che sia, fai un grosso respiro e conta fino a 100. Di solito prima ancora che sei arrivata a 100 avrai convinto te stessa che non ne hai veramente voglia.
46. Quando hai fame bevi velocemente 2 bicchieri (o quanti te ne servono) di acqua liscia. Ti sentirai così sazia e nauseabonda che avrai completamente perso l’appetito.
47. Il sedano brucia calorie. Ogni ora mangiane un gambo. Non solo ti sazierà ma contribuirà a velocizzare il tuo metabolismo.
48. Pesati sempre prima e dopo aver mangiato. Non solo eviterai di mangiare cose superflue ma ti verrà voglia di mangiare meno ogni volta che vedrai che i numeri sulla bilancia crescono.
49. Leggi sempre le tabelle nutrizionali. Ricorda senza grassi non vuol dire senza calorie. Inoltre tieni d’occhio la quantità di fibre che gli alimenti contengono. Mangia più fibre che puoi invece taglia calorie e grassi.
50. Non mangiare tanto e tutto insieme. Dividi il cibo durante il giorno. Questo ti aiuterà ad evitare le abbuffate e velocizzerà il tuo metabolismo.
51. Se ti piace bere alcolici,questa idea ti piacerà. Datti una regola:Puoi bere solo se perdi 1 chilo,quindi se perdi 2 chili a settimana puoi bere sia venerdì che sabato sera,se invece hai perso solo 1 chilo puoi bere solo una sera!
52. Non mangiare davanti alla televisione o al computer. Ti distrae dal senso di sazietà.
53. Salva i soldi che avresti dovuto spendere per un pasto in un barattolo. Oppure salva i soldi in una bottiglia trasparente e guarda ogni giorno i soldi che aumentano.
54. Stai alla larga dagli alimenti definiti “sicuri” come ad esempio gli snack della “pesoforma”. Dai un occhiata alla tabella alimentare e capirai il perché. Con le stesse calorie e carboidrati sarebbe la stessa cosa andare a mangiare un pezzo di una fottuta torta. Per non parlare dei prezzi ridicoli di questi alimenti “sicuri”… Salva i soldi e le calorie.
55. Invece di comprare del cibo, con gli stessi soldi comprati dei fiori. Il cibo è deprimente, i fiori ti renderanno felice.
56. Quando hai i crampi allo stomaco per la fame bevi un paio di bicchieri d’acqua con qualche fetta di limone e conta fino a 100…dovrebbero andare via.
57. Mangiare 100 calorie 4 volte al giorno è meglio che mangiare 400 calorie tutte insieme in un pasto.
58. Un abbuffata occasionale non ti farà male, soprattutto se hai smesso di perdere peso, il tuo corpo penserà che hai smesso di digiunare e perderai sicuramente mezzo chilo il giorno dopo! Ma non abbuffarti regolarmente!
59. Se ti fai un bagno in acqua ghiacciata per 15-30 minuti, la tua temperatura corporea si abbasserà e brucerai sulle 200 calorie per far salire di nuovo la tua temperatura corporea ad un livello normale.
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erosioni · 3 years
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Il resto è QUI
Leggevo libri di magia e tutto quello che si trovava su Satana e sull’Anticristo. Ascoltavo gruppi strani (strani per quegli stronzi della mia scuola, ora sono considerati tipo Bach). Mi vestivo come capitava. Il ragazzo ideale da invitare alle feste dove ascoltavano il Blasco e gli Europe con le Timberland e le Clarks ai piedi. Però ero bravo in filosofia. Anche se non studiavo più un cazzo leggevo di tutto. Nietzsche, Bergson, Freud, Bataille, quello stronzo di Spengler, che neanche era in programma, e il professore di filosofia fascista era tutto contento di prestarmi. Avevo tutti cinque e sei di pietà e poi otto in filosofia.
Mi potresti spiegare Nietzsche? Io non ci capisco niente.
Era una ragazza molto carina. Me lo chiese durante l’intervallo. Penso che fosse la prima volta che una ragazza della mia classe mi diceva qualcosa di normale dopo le condoglianze di due anni prima. Famiglia ricca, proprietari terrieri. Ovviamente comunista. La guardai male. Lei e le sue amiche mi prendevano per il culo e non si sforzavano neanche di nasconderlo. Sicuramente me ne sarei pentito. 
Sono andato comunque a casa di A. per spiegarle Nietzsche un pomeriggio tardi. Avevo paura. Però alla fine cosa poteva farmi? Insultarmi, umiliarmi, c’era già mezza scuola che mi insultava. Forse voleva vedere Satana da vicino. Mentre parlavamo l’imbarazzo se ne andava un po’. Lei faceva la simpatica come se ci fossimo sempre frequentati. In effetti di filosofia non capiva una ceppa, ma aveva un sorriso che sapeva usare fin troppo bene per ottenere quello che voleva. Per esempio io non avevo idea di che cazzo ci facevo in una stanzetta tutta rosa con il poster di Che Guevara a parlare della morte di Dio. Poi lei mi ha baciato sulla bocca. Su un angolo, perché non me l’aspettavo. Non ti piaccio? Era come una vertigine. Non ho risposto. Il secondo bacio mi è venuto malissimo, per poco non abbiamo urtato i denti. Non avevo mai baciato nessuno, tanto meno S. con quella bocca sottile e sprezzante. 
Il corpo di A. era caldo e profumato di talco, di balsamo, di dio sa che. Persino la sua saliva aveva un gusto buono. Le sue mani si muovevano sul mio corpo dandomi i brividi. Era come la febbre alta solo che avevo anche il cazzo durissimo. Non riuscivo tanto bene a mettere a fuoco, solo a toccare le forme di quel corpo così caldo e morbido che mi toccava. Neppure con le mani sotto i vestiti. L’ha fatto lei. Mi ha infilato le mani sotto la maglia per toccarmi sul petto e mi ha strappato un mugolio. Allora ci siamo levati tutto, in fretta, e mi ha tirato verso il suo letto rosa a fiori rosa del cazzo. Si è sdraiata e io le sono andato sopra. 
Non avevo mai visto due tette vere da così vicino, ma questo l’ho pensato solo dopo. Mi ha guidato il pene dentro questo spazio caldo e bagnato e morbido che mi ero solo immaginato guardando le foto porno su Le Ore. Tra l’immaginazione e la realtà c’era un abisso. Sono stato sverginato sotto l’occhio severo di Che Guevara appeso al muro. Mi fa sesso pure oggi Che Guevara. Vorrei dire che è stata la più bella scopata della mia vita, ma no. Mentre mi muovevo dentro di lei, A. ha cominciato ad ansimare e ha chiuso gli occhi. Questo mi ha fatto impazzire. Sono uscito appena in tempo per venirle sulla coscia con un grido strozzato. Ma nooo cazzo! - si è arrabbiata lei –  cazzo! Non capivo neppure cosa volesse dire. Tanto ero coglione, pensavo si incazzasse perché avevo schizzato il letto rosa. – Scusa, scusami… ora cerco di pulirlo - La voce mi è morta in gola perché A. si è messa a ridere e io pensavo che stesse ridendo di me. E forse era anche così. Oppure rideva della situazione stupida. 
Comunque volevo solo scappare. Da quella stanza, dallo sguardo di lei. Mi sentivo più nudo che nello stanzone della leva. Lo sguardo degli altri ti brucia. Ho cominciato a raccogliere i miei vestiti, incazzato. Lei diceva: dai, ma dove vai, scemo. Ce l’hai una sigaretta almeno? Non ce le avevo le sigarette. Lei era ancora mezza svestita. Mi ha detto quasi con indifferenza, ma con una certa soddisfazione: allora non è vero che sei gay. (Ovviamente non ha detto “gay”, mocciosi, ha detto “frocio” nel volgarissimo dialetto locale, ma qui vi accontenterete di questo doppiaggio del cazzo, tipo Netflix). Ecco tutto. Volevano solo sapere se ero un mostro e quanto ero mostro. Sapevo che giravano voci sul mio conto, ma sentirselo dire in faccia è un’altra cosa. È vero che tu sei una gran troia però, avrei dovuto rispondere, se fossi stato meno avvilito, meno giovane e meno coglione.
Invece ho solo detto in dialetto: portami tua sorella. Portami tua sorella. Come dicono i mocciosi di dieci anni quando litigano. Altre risate. Mi sono tappato in casa come se avessi commesso un omicidio. Neppure mio padre con le minacce è riuscito a farmi alzare dal letto. Mi passavano davanti immagini rapidissime. Le tette di A.. La bocca di S.. Lo sguardo di Che Guevara. La riga di sangue e sborra sulla ceramica bianca del cesso. Il mio corpo. Il mio corpo nudo. Il mio corpo a pezzi. Sulla ruota. Mangiato dai vermi. Inculato. Nudo. Il sapore della lingua di A.. L’avevo vista veramente nuda? Rosa, ton sur ton. La sborra sulla coscia. Finivo per masturbarmi.
Lunedì sono tornato in classe. O così o mio padre minacciava di chiamare il medico e farmi ricoverare. Mi girava la testa perché avevo bevuto prima di entrare. A. era indifferente come al solito. Non era cambiato niente né in meglio né in peggio. Era una cosa triste, ma non terribile. Solo molto triste. Forse lo sapevano tutti o nessuno. Pensavo a Nietzsche che scriveva: “È terribile morire di sete nel mare. Dovete proprio mettere tanto sale nella vostra verità, così che non possa più spegnere la sete?” e contavo i giorni dall’esame di maturità. Dal momento che me ne sarei andato di lì. A. mi aveva rivelato quanto è diverso fare sesso con una ragazza e anche che mi piaceva farlo. Se per farmi i cazzi miei dovevo imparare a essere “normale” potevo farlo. Non sarebbe stato un sacrificio. Certo non nella mia scuola, ormai, ma potevo. Potevo. (continua).
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sydmorrisonblog · 3 years
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LA DISTRUZIONE Incessantemente, vicino a me, s'agita il Demonio, e mi vagola dattorno come un'aria impalpabile; io l'inghiotto e sento che mi brucia i polmoni e li riempie d'un desiderio eterno e colpevole. Conoscendo il mio grande amore per l'Arte prende, qualche volta, le sembianze della più seducente delle donne, e con speciosi pretesti da ipocrita avvezza le mie labbra ai filtri più infami. Lontano dallo sguardo di Dio, mi porta, ansante, rotto dalla stanchezza, nelle profonde e deserte piane della Noia, e getta sui miei occhi confusi vesti lordate, ferite aperte, tutto il sanguinoso apparato della Distruzione!
Charles Baudelaire - I fiori del male
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2ndhex · 4 years
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Quando la casa brucia
«Tutto quello che faccio non ha senso, se la casa brucia». Eppure proprio mentre la casa brucia occorre continuare come sempre, fare tutto con cura e precisione, forse ancora più studiosamente – anche se nessuno dovesse accorgersene. Può darsi che la vita sparisca dalla terra, che nessuna memoria resti di quello che è stato fatto, nel bene e nel male. Ma tu continua come prima, è tardi per cambiare, non c’è più tempo.
«Quel che accade intorno a te / non è più affar tuo». Come la geografia di un paese che devi lasciare per sempre. Eppure in che modo ancora ti riguarda? Proprio ora che non è più affar tuo, che tutto sembra finito, ogni cosa e ogni luogo appaiono nella loro veste più vera, ti toccano in qualche modo più da vicino – così come sono: splendore e miseria.
La filosofia, lingua morta. «La lingua dei poeti è sempre una lingua morta… curioso a dirsi: lingua morta che si usa a dar maggior vita al pensiero». Forse non una lingua morta, ma un dialetto. Che filosofia e poesia parlino in una lingua che è più meno della lingua, questo dà la misura del loro rango, della loro speciale vitalità. Pesare, giudicare il mondo commisurandolo a un dialetto, a una lingua morta e, tuttavia, sorgiva, dove non c’è da cambiare nemmeno una virgola. Continua a parlare questo dialetto, ora che la casa brucia. Quale casa sta bruciando? Il paese dove vivi o l’Europa o il mondo intero? Forse le case, le città sono già bruciate, non sappiamo da quanto tempo, in un unico immenso rogo, che abbiamo finto di non vedere. Di alcune restano solo dei pezzi di muro, una parete affrescata, un lembo del tetto, dei nomi, moltissimi nomi, già morsi dal fuoco. E, tuttavia, li ricopriamo così accuratamente con intonachi bianchi e parole mendaci, che sembrano intatti. Viviamo in case, in città arse da cima a fondo come se stessero ancora in piedi, la gente finge di abitarci ed esce per strada mascherata fra le rovine quasi fossero ancora i familiari rioni di un tempo. E ora la fiamma ha cambiato forma e natura, si è fatta digitale, invisibile e fredda, ma proprio per questo è ancora più vicina, ci sta addosso e circonda in ogni istante. Che una civiltà – una barbarie – sprofondi per non più risollevarsi, questo è già avvenuto e gli storici sono abituati a segnare e datare cesure e naufragi. Ma come testimoniare di un mondo che va in rovina con gli occhi bendati e il viso coperto, di una repubblica che crolla senza lucidità né fierezza, in abiezione e paura? La cecità è tanto più disperata, perché i naufraghi pretendono di governare il proprio naufragio, giurano che tutto può essere tenuto tecnicamente sotto controllo, che non c’è bisogno né di un nuovo dio né di un nuovo cielo – soltanto di divieti, di esperti e di medici. Panico e furfanteria. Che cosa sarebbe un Dio al quale non si rivolgessero né preghiere né sacrifici? E che cosa sarebbe una legge che non conoscesse né comando né esecuzione? E che cosa una parola che non significa né comanda, ma si tiene veramente nel principio – anzi prima di esso? Una cultura che si sente alla fine, senza più vita, cerca di governare come può la sua rovina attraverso uno stato di eccezione permanente. La mobilitazione totale nella quale Jünger vedeva il carattere essenziale del nostro tempo va vista in questa prospettiva. Gli uomini devono essere mobilitati, devono sentirsi ogni istante in una condizione di emergenza, regolata nei minimi particolari da chi ha il potere di deciderla. Ma mentre la mobilitazione aveva in passato lo scopo di avvicinare gli uomini, ora mira a isolarli e a distanziarli gli uni dagli altri. Da quanto tempo la casa brucia? Da quanto tempo è bruciata? Certamente un secolo fa, fra il 1914 e il 1918, qualcosa è avvenuto in Europa che ha gettato nelle fiamme e nella follia tutto quello che sembrava restare di integro e vivo; poi nuovamente, trent’anni dopo, il rogo è divampato ovunque e da allora non cessa di ardere, senza tregua, sommesso, appena visibile sotto la cenere. Ma forse l’incendio è cominciato già molto prima, quando il cieco impulso dell’umanità verso la salvezza e il progresso si è unito alla potenza del fuoco e delle macchine. Tutto questo è noto e non serve ripeterlo. Piuttosto occorre chiedersi come abbiamo potuto continuare a vivere e pensare mentre tutto bruciava, che cosa restava in qualche modo integro nel centro del rogo o ai suoi margini. Come siamo riusciti a respirare fra le fiamme, che cosa abbiamo perduto, a quale relitto – o a quale impostura – ci siamo attaccati. Ed ora che non ci sono più fiamme, ma solo numeri, cifre e menzogne, siamo certamente più deboli e soli, ma senza possibili compromessi, lucidi come mai prima d’ora. Se solo nella casa in fiamme diventa visibile il problema architettonico fondamentale, allora puoi ora vedere la posta in gioco nella vicenda dell’Occidente, che cosa essa ha cercato a ogni costo di cogliere e perché non poteva che fallire. È come se il potere cercasse di afferrare a ogni costo la nuda vita che ha prodotto e, tuttavia, per quanto si sforzi di appropriarsene e controllarla con ogni possibile dispositivo, non più soltanto poliziesco, ma anche medico e tecnologico, essa non potrà che sfuggirgli, perché è per definizione inafferrabile. Governare la nuda vita è la follia del nostro tempo. Uomini ridotti alla loro pura esistenza biologica non sono più umani, governo degli uomini e governo delle cose coincidono. L’altra casa, quella che non potrò mai abitare, ma che è la mia vera casa, l’altra vita, quella che non ho vissuto mentre credevo di viverla, l’altra lingua, che compitavo sillaba per sillaba senza mai riuscire a parlarla – così mie che non potrò mai averle… Quando pensiero e linguaggio si dividono, si crede di poter parlare dimenticando che si sta parlando. Poesia e filosofia, mentre dicono qualcosa, non dimenticano che stanno dicendo, ricordano il linguaggio. Se ci si ricorda del linguaggio, se non si dimentica che possiamo parlare, allora siamo più liberi, non siamo costretti alle cose e alle regole. Il linguaggio non è uno strumento, è il nostro volto, l’aperto in cui siamo. Il volto è la cosa più umana, l’uomo ha un volto e non semplicemente un muso o una faccia, perché dimora nell’aperto, perché nel suo volto si espone e comunica. Per questo il volto è il luogo della politica. Il nostro tempo impolitico non vuole vedere il proprio volto, lo tiene a distanza, lo maschera e copre. Non devono esserci più volti, ma solo numeri e cifre. Anche il tiranno è senza volto. Sentirsi vivere: essere affetti dalla propria sensibilità, essere delicatamente consegnati al proprio gesto senza poterlo assumere né evitare. Sentirmi vivere mi rende la vita possibile, fossi anche chiuso in una gabbia. E nulla è così reale come questa possibilità. Negli anni a venire ci saranno solo monaci e delinquenti. E, tuttavia, non è possibile farsi semplicemente da parte, credere di potersi trar fuori dalle macerie del mondo che ci è crollato intorno. Perché il crollo ci riguarda e ci apostrofa, siamo anche noi soltanto una di quelle macerie. E dovremo imparare cautamente a usarle nel modo più giusto, senza farci notare. Invecchiare: «crescere solo nelle radici, non più nei rami». Sprofondare nelle radici, senza più fiori né foglie. O, piuttosto, come una farfalla ebbra svolare su ciò che è stato vissuto. Ci sono ancora rami e fiori nel passato. E se ne può fare ancora miele. Il viso è in Dio, ma le ossa sono atee. Fuori, tutto ci spinge verso Dio; dentro, l’ostinato, beffardo ateismo dello scheletro. Che l’anima e il corpo siano indissolubilmente congiunti – questo è spirituale. Lo spirito non è un terzo fra l’anima e il corpo: è soltanto la loro inerme, meravigliosa coincidenza. La vita biologica è un’astrazione ed è questa astrazione che si pretende di governare e curare. Per noi da soli non ci può essere salvezza: c’è salvezza perché ci sono altri. E questo non per ragioni morali, perché io dovrei agire per il loro bene. Soltanto perché non sono solo c’è salvezza: posso salvarmi solo come uno fra tanti, come altro fra gli altri. Da solo – questa è la speciale verità della solitudine – non ho bisogno di salvezza, sono anzi propriamente insalvabile. La salvezza è la dimensione che si apre perché non sono solo, perché c’è pluralità e moltitudine. Dio, incarnandosi, ha cessato di essere unico, è diventato un uomo fra tanti. Per questo il cristianesimo ha dovuto legarsi alla storia e seguirne fino in fondo le sorti – e quando la storia, come oggi sembra avvenire, si spegne e decade, anche il cristianesimo si avvicina al suo tramonto. La sua insanabile contraddizione è che esso cercava, nella storia e attraverso la storia, una salvezza al di là della storia e quando questa finisce, il terreno gli manca sotto i piedi. La chiesa era in realtà solidale non della salvezza, ma della storia della salvezza e poiché cercava la salvezza attraverso la storia, non poteva che finire nella salute. E quando il momento è venuto, non ha esitato a sacrificare alla salute la salvezza. Occorre strappare la salvezza dal suo contesto storico, trovare una pluralità non storica, una pluralità come via di uscita dalla storia. Uscire da un luogo o da una situazione senza entrare in altri territori, lasciare un’identità e un nome senza assumerne altri. Verso il presente si può solo regredire, mentre nel passato si procede diritto. Ciò che chiamiamo passato non è che la nostra lunga regressione verso il presente. Separarci dal nostro passato è la prima risorsa del potere. Quel che ci libera dal peso è il respiro. Nel respiro non abbiamo più peso, siamo spinti come in volo al di là della forza di gravità. Dovremo imparare da capo a giudicare, ma con un giudizio che non punisce né premia, non assolve né condanna. Un atto senza scopo, che sottrae l’esistenza a ogni finalità, necessariamente ingiusta e falsa. Solo un’interruzione, un istante in bilico fra il tempo e l’eterno, in cui balena appena l’immagine di una vita senza fine né progetti, senza nome né memoria – per questo salva, non nell’eternità, ma in una «specie di eternità». Un giudizio senza criteri prestabiliti e, tuttavia, proprio per questo politico, perché restituisce la vita alla sua naturalezza. Sentire e sentirsi, sensazione e autoaffezione sono contemporanei. In ogni sensazione c’è un sentirsi sentire, in ogni sensazione di sé un sentire altro, un’amicizia e un volto. La realtà è il velo attraverso cui percepiamo il possibile, ciò che possiamo o non possiamo fare. Saper riconoscere quali dei nostri desideri infantili sono stati esauditi non è facile. E, soprattutto, se la parte dell’esaudito che confina con l’inesaudibile sia sufficiente a farci accettare di continuare a vivere. Si ha paura della morte perché la parte dei desideri inesauditi è cresciuta senza possibile misura. «I bufali e i cavalli hanno quattro zampe: ecco ciò che io chiamo Cielo. Mettere la cavezza ai cavalli, perforare le narici del bufalo: ecco ciò che chiamo umano. Per questo dico: bada che l’umano non distrugga il Cielo dentro di te, bada che l’intenzionale non distrugga il celeste». Resta, nella casa che brucia, la lingua. Non la lingua, ma le immemorabili, preistoriche, deboli forze che la custodiscono e ricordano, la filosofia e la poesia. E che cosa custodiscono, che cosa ricordano della lingua? Non questa o quella proposizione significante, non questo o quell’articolo di fede o di malafede. Piuttosto, il fatto stesso che vi è linguaggio, che senza nome siamo aperti nel nome e in questo aperto, in un gesto, in un volto siamo inconoscibili e esposti. La poesia, la parola è la sola cosa che ci è rimasta di quando non sapevamo ancora parlare, un canto oscuro dentro la lingua, un dialetto o un idioma che non riusciamo a intendere pienamente, ma che non possiamo fare a meno di ascoltare – anche se la casa brucia, anche se nella loro lingua che brucia gli uomini continuano a parlare a vanvera. Ma c’è una lingua della filosofia, come c’è una lingua della poesia? Come la poesia, la filosofia dimora integralmente nel linguaggio e solo il modo di questa dimora la distingue dalla poesia. Due tensioni nel campo della lingua, che s’incrociano in un punto per poi instancabilmente separarsi. E chiunque dice una parola giusta, una semplice, sorgiva parola dimora in questa tensione. Chi si accorge che la casa brucia, può essere spinto a guardare i suoi simili che sembrano non accorgersene con disdegno e disprezzo. Eppure non saranno proprio questi uomini che non vedono e non pensano i lemuri cui dovrai rendere conto nell’ultimo giorno? Accorgersi che la casa brucia non t’innalza al di sopra degli altri: al contrario, è con loro che dovrai scambiare un ultimo sguardo quando le fiamme si faranno più vicine. Che cosa potrai dire per giustificare la tua pretesa coscienza a questi uomini così inconsapevoli da sembrare quasi innocenti? Nella casa che brucia continui a fare quello che facevi prima – ma non puoi non vedere quello che ora le fiamme ti mostrano a nudo. Qualcosa è cambiato, non in quello che fai, ma nel modo in cui lo lasci andare nel mondo. Una poesia scritta nella casa che brucia è più giusta e più vera, perché nessuno potrà ascoltarla, perché nulla assicura che possa scampare alle fiamme. Ma se, per un caso, essa trova un lettore, allora questi non potrà in nessun modo sottrarsi all’apostrofe che lo chiama da quell’inerme, inspiegabile, sommesso vocìo. Può dire la verità solo chi non ha nessuna probabilità di essere ascoltato, solo chi parla da una casa che intorno a lui le fiamme stanno implacabilmente consumando. L’uomo oggi scompare, come un viso di sabbia cancellato sul bagnasciuga. Ma ciò che ne prende il posto non ha più un mondo, è solo una nuda vita muta e senza storia, in balia dei calcoli del potere e della scienza. Forse è però soltanto a partire da questo scempio che qualcos’altro potrà un giorno lentamente o bruscamente apparire – non un dio, certo, ma nemmeno un altro uomo – un nuovo animale, forse, un’anima altrimenti vivente…
5 ottobre 2020 Giorgio Agamben
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vefa321 · 4 years
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Quella sporca dozzina...
Mesi, messi male, solo mezzi di passaggio.
Abbiamo tutti un mese che non sta in sé, come fuori posto, quasi fuori luogo, una specie di stortura, una vertigini tra i capelli.
Gennaio, è la somma senza la soma, o forse solo la differenza senza ancora il valore aggiunto. Il resto come riporto.
Però un anno sono, Dodici fatiche, che poi quelle di Ercole erano tredici, niente da aggiungere, quasi scansafatiche. Più colori di un arcobaleno, più giorni di una settimana. Insomma una sporca dozzina...
Gennaio è il bianco, colore della neve, per molti il non colore, solo una voce silenziosa come la neve, fredda e distaccata, il mese che brucia dentro i resti delle feste, la sua malinconia in una tazza fumante. Il buonista detto er foco.
Febbraio è più perlato con iridescenza e colorati riflessi, carnevalesca espressioni e coriandoleschi distrazioni, un tratto corto e tirato per i capelli, quest'anno lo si vuole più lungo e più présente.il mese dei sorrisi, risi... Il giocherellone detto La Maschera
Marzo è un timido giallino con piccole macchie verdine, annuncia la primavera, spesso caldo le sue giornate e tremendi le sue notti. Si ricomincia ad uscire, come se il mondo aprisse di nuovo le finestre. Il tenero detto Primiera
Aprile, non ha buona reputazione, trattasi di un mese versatile ed ingannevole, un colore violetto leggero, quaresima, una pasqua perfetta. Il ladro o Barabba.
Maggio, scrive gli arcobaleni, con i fiori disegna i prati, si vive sdraiati nelle scampagnate, un bel mese per amarsi. Il mese degli sposi, senza veli. Er core de mamma
Giugno, fa i suoi primi bilanci, pagelle e conti in tasca, chi avrà o potrà andare in vacanza, colore sfumato o nitido, ancora incertezze. Un giro di boa, botto o bocciato. Il contabile "O ragioniere"
Luglio è conclamato, l'estate si è insediato, il mare ci ha richiamato, la montagna ci rinfrescherà. Ovunque, il mese del perché no. Il girovago detto "arrivo e me ne vado.
Agosto, già si piange addosso, appena passato Ferragosto, sbuffa e lagna, la ancora lontana normalità che verrà. I temporali prendono il posto, si fa strada tra ombrelli ed ombrelloni. Er pianto.
Settembre non è mai un tenero amante, mese di rientri e troppe pretese. La valigia sul letto, nemmeno fosse quella di un lungo viaggio, è ancora da disfare. Doveri ed oneri, dolori ed onorari da saldare. Il Boss "O Professor"
Ottobre, si fa caldo dentro e fuori i ricci di castagne, spunta una sciarpa, ed anche un ombrello. Un mese affettuoso, mite e generoso. Detto "Caldarrosta"
Novembre, si fa tempestoso, vento e pioggie grige e nebbiose. Il mese dei ricordi, delle anime smemorati, dello sconforto, del mondo fuori le finestre. Er Tempesta.
Dicembre è il bambino che fa capolinea, sbircia e ride, aspetta e spera, sogna e crede... Ancora ed ancora, un velo di nostalgica malinconia, spolverata con lustrini e polvere di strenne. O Monello.
Il giro del calendario, è uno schioccare di dita, un batter di ciglie, dodici volti per evadere dal tempo, una fuga che dura da anni e si ripete sempre. O forse, un carcere senza sbarre, una prigione, un ergastolo.
Un anno, dodici mesi, cinquanta due settimane, trecentosessantasei giorni(almeno questo)...
Una dozzina di ladri, pronti a rubare il tempo, a fregare i giorni ed a depredare le notti.
@vefa321
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k-erelle · 4 years
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FARFALLE NOTTURNE
Attraverso il tavolo di legno massiccio del bar , lei infila l’ unico braccio sano tra due tazzine di caffè ormai freddo. Tocca piano la mano di lui con la sua. Lui guarda fuori. Non vediamo la sua faccia. Non la vogliamo vedere perché la immaginiamo bella , devastata da un dolore atroce . Impossibile da guardare .
Comincia a piovere forte. Sul vetro una farfalla notturna , scura , immobile sotto i colpi delle gocce di pioggia.
Lei gli chiede - guardami , lui non risponde, non la guarda. Non può guardarla.
Un braccio rotto, frattura allo zigomo sinistro , costole incrinate. Per tutti è Lulù ma il padre si ostina a chiamarla ancora Ludovico. Sognava l’ operazione definitiva. Ci è andata vicino. Poi gli amanti le rubano ogni cosa. Con la piccola riserva segreta paga a stento la badante per la madre.
Lei piange e con un filo di voce gli dice - non volevano farmi male , non sono ragazzi cattivi. Sto diventando vecchia e mi ferisco con niente.
Lulù piange piano. Ma non per sé. Per lui che soffre e non le parla. Di lui sa solo quello che ha sentito dire. All’ improvviso è tornato in città dopo molti anni. È povero e nessuno sa niente del suo passato , tranne che è amico d'infanzia di S.
Lulù sognava di diventare come S. , bella, ricca e desiderata da tutti.
Li aveva visti insieme una mattina al bar.
Anche S. piangeva. Era pallida e molto magra. Per camminare doveva sostenersi a lui che le parlava piano. Nel parcheggio la gente del bar girava intorno alla Maserati di lei.
Lui era così calmo. Stava raccontando a S. una favola che Lulù non conosceva. Ma conosceva bene gli uomini. Dietro quel volto impassibile poteva veder scintillare ogni singola lacrima .
Così quel giorno si è fatta coraggio e gli ha offerto un caffè.
Vediamo, ora ,che lui solleva un braccio e strofina il dito sul vetro. Al di là la farfalla notturna è sempre immobile. Sembra morta. Lulù vuole morire. Vuole diventare una farfalla. Anche lui vorrebbe morire ma non può . È già morto troppe volte. Può solo sparire dai contorni delle cose . Non è infelice.
Lei ritira la mano. Ha smesso di piangere. Vorrebbe sentire una favola. Ha paura di chiederlo. Allora lo chiede davvero e ricomincia a piangere.
È solo un sussurro. Per un attimo lei crede che quella che sente è la voce della farfalla oltre il vetro.
- Lei è in penombra, immobile sul palcoscenico. Porta un lungo vestito rosso molto scollato. I capelli lunghi e neri le coprono la metà deturpata del volto.
Lui la guarda dall’ alto del palco reale. È seduto su una sedia speciale, alta, in bronzo e avorio . I suoi piedi non toccano terra.
Il re gli dice che gli dispiace ma deve farlo. Lui dice che non importa . Il re piange.
Lui la guarda mentre avanza verso il pubblico. Zoppica impercettibilmente. Lei è il segreto. Solo lui e il re conoscevano il segreto. Lei inizia a cantare. Il pubblico è una marea di fiori fluttuanti che stillano lacrime di neve.
Il re posa la testa sul grembo di lui e piange. -Perdonami , mio grande , mio unico, amatissimo amico, lo devo fare.
Lui accarezza il volto del re con la sua piccola mano.
- Non importa , dice al re, ho avuto una vita felice .
Quelle piccole mani bellissime come farfalle. Domani sarà tutto finito .
I due ambasciatori avevano visto il segreto ballare nuda nella camera del re una notte d'estate e non sono riusciti a sopportare quella bellezza. L'hanno dovuta distruggere.
Con un calcio lui fece rotolare le loro teste ai piedi del re . Un sorriso feroce sulla sua piccola faccia da giullare.
Lei ha finito di cantare. Il pubblico le getta delle rose bianche. Una nuvola di petali la avvolgono. Sembra una farfalla. Lei guarda in alto verso il palco reale e sorride al giullare piangendo dai suoi occhi verdi.
Al tramonto la piazza è ormai deserta . Oscillando piano contro il sole morente , un piccolo corpo appeso alla forca sembra quasi una crisalide.
Lei è vestita di nero con un velo che le copre il volto. Sale i pochi gradini ,infila una rosa rossa nella sua piccola giubba . Infine alza il velo e depone un lungo , lieve bacio sulle labbra livide di lui .
Oltre il vetro pensiamo di vedere un fremito di ali. Ma forse non è così. La falena notturna continua a rimanere immobile. Lulù solleva il volto. Apre gli occhi. Lui non c'è più. È sola. Prende la tazzina di caffè di lui mezza piena. Con timore posa le labbra sul bordo della tazzina dove è rimasto il segno della sua bocca . La tazzina brucia da quanto è gelida. E sorride.
Kerelle
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come-stellecadenti · 4 years
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e va bene così. ritorno ad indossare la mia pelle, a lottare da sola e sciogliere i miei nodi con le mie forze e basta. mi fa male il cuore certo, se ripenso a noi ancora mi brucia dentro in un punto che non so definire, ma. stamattina nel parchetto vicino il collegio l’erba è diventata alta e con lei sono comparsi i fiori, quelli che se soffi volano e si disperdono, così io. ne ho raccolti un pò, poi ho preso anche delle margherite tutte gialle, che sembrano piccoli girasoli. gli uccellini cantavano e il vento è tornato a sferzarmi il viso, è stato come sentire millemila baci. sono stata un pò felice. posso tornare ad esserlo. anche dopo la fine di un altro amore. tu dici, dovresti esserti fatta le ossa ormai. e invece no, perchè ogni volta è peggio. io dopo il primo amore c’ho messo un botto a riprendermi. anni. e proprio quando stavo finalmente costruendo il mio equilibrio, ecco qua. l’amore è tornato. più forte di prima. mi ha travolta che io non c’ho capito più niente, e se ci ripenso, dio com’ero felice però. ascoltare delle canzoni ed associarle a te, ai nostri baci, mi faccio del male a scrivere e rivivere questi ricordi, lo so, ma tanto sto di merda uguale quindi, almeno non rimane tutto ingarbugliato nella mia mente. e adesso, mi hai lasciata vuota, e sto correndo in avanti un pò indietro all’impazzata in realtà e nel mentre cerco di capire cosa fare della mia vita e cerco di ricompormi a fatica, di nuovo, e dio, dio com’è facile doverlo fare con te ad un metro costante da me, che quando sei triste mi influenzi l’umore e quando sei felice penso solo a quanto cazzo sei bello. eh. io non esisto invece più per te, nulla è esistito, sono una delle tante, sei tornato con lei e non mi rende triste questo mi fa tremendamente incazzare perchè il vostro no, non è amore. ma tant’è. ormai ognuna per la sua no? io devo cercare altri occhi, HO BISOGNO DI ALTRI OCCHI ALTRE MANI ALTRA PELLE SULLA MIA. basta. non voglio più parlare di te, non voglio più pensarti, voglio ossessionarmi della mia persona e me soltanto adesso. non me lo meritavo tutto questo, no. ma la vita quando mai è giusta, eh?
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demvlitionlcvers · 4 years
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welcome to the Hotel California
Del dolce sanguinar di un'anima in pena, ad Aris non importava nulla; non avrebbe mai scomodato se stesso per aiutare nessuno, non avrebbe mai sacrificato quel tempo che, inarrestabile, gli scorreva tra le dita. Egoista, abituale consumatore dei piaceri dell'essere, non una volta aveva chinato il capo affinché i suoi occhi incontrassero quelli puri e sconsolati di qualcuno in difficoltà; il mondo, diceva, non era un posto adatto a lui. Le creature che vi appartengono, non erano adatte a lui. Nulla, in effetti, era adatto alle sue macabre esigenze di sporco truffatore, di paladino della propria fortezza, di protettore delle mura che egli stesso aveva costruito con tenacia. Mura di orgoglio, indifferenza, presunzione. Mura che l'avevano allontanato da qualsiasi sentimento. Eppure, quella sera, qualcosa s'insinuò fra le crepe di quella fortezza, lo colpì all'altezza del petto con ferocia.
Su un'autostrada buia e deserta, con il vento fresco tra i capelli un caldo profumo di colitas, si solleva nell'aria più avanti in lontananza, vidi una luce scintillante la mia testa divenne pesante e la mia vista si indebolì dovetti fermarmi per la notte
Quella canzone. Quante volte l'aveva ascoltata,quella sera? Tante, forse troppe, sufficienti a fargli perdere i sensi, la concezione del tempo, la voglia di dimenticare. Invano tentò di mantenere il controllo delle proprie membra, dei propri arti,ora deboli e molli, come se le ossa fossero evaporate ed avessero preso il posto delle nuvole, la cui sostanza si mischiava col suo sangue, d'un rosso vermiglio ed ardente. Quella piccola dose stava facendo effetto; la sua Trilly gli aveva fornito la polvere magica e lui, eterno Peter-Pan, ne aveva abusato ancora, forse per trovare la sua Wendy. Abbandonò la testa contro il sedile, stremato, le tempie che pulsavano incontrollabilmente, tanto da fargli pensare che tutti quei sentimenti, tutte quelle emozioni represse stessero bussando alla porta del suo essere, chiedendo d'uscire. Ed Aris concesse loro la libertà, le lasciò aleggiare tra gli interni della sua Camaro, forse distruggendo le pareti delle sue vene, l'atmosfera, il suo falso,ridicolo mondo. Le mani tremavano, ancorate al volante, mentre le palpebre si abbassavano caute, come il sole all'orizzonte, che sembra affogare in quel mare agrodolce, nell'immensità dell'ignoto; fu un attimo, come un lampo, un fulmine dispettoso, un bagliore e le iridi perse si mostrarono a quel posto sconosciuto,scrutarono curiose l'imponente edificio dinnanzi a sé. Blu, le pareti erano blu come la notte impertinente, amica di tutti ed amica di nessuno. Adultera, donna lussuriosa, le curve misteriose e dolci; come chioma i raggi morbidi, come viso la Luna, rotonda e luminosa. Come occhi aveva le stelle, come labbra le foglie. Ladra, assassina, distratta madre della guerra, della paura. Del perdono. Ed Aris, il volto pallido e le mani lungo i fianchi, le chiedeva perdono, inerme, aspettando che questa lo guidasse ancora una volta. Non ebbe risposta dalla dea curiosa ed infinita, buia..o forse sì? Abbassò lo sguardo sull'uscio di quella struttura, ed ecco che una ninfa, forse ancella della calda Notte, lo incitava a correre, correre verso l'Hotel.
Lei stava sulla soglia ed io udii il campanello d'allarme mentre pensavo tra me 'potrebbe essere il paradiso o potrebbe essere l'inferno' poi lei accese la candela e mi mostrò la strada si udivano nelle voci nei corridoi e credevo che dicessero....
« Hai paura, Aris? » rossi capelli fluenti, labbra carnose, gonfie di baci. I seni prosperosi, la coscia tonica, gli occhi smeraldini come un'arma, tutto di quella donna lo attirava; e ne bramava la carne, il sangue, il respiro irregolare.
Benvenuto all'Hotel California un posto così amabile un volto così amabile ci sono tante camere all'Hotel California in ogni momento dell'anno puoi trovarne una
《No.》rantolò, i pensieri impuri che si dissolvevano pian piano, pronti a sciogliersi come neve al sole. Era bella, e lui dannato. Condannato a trascorrere il resto della propria esistenza privo di lei, privo di qualsiasi concreta gioia; perché sapeva, oh se lo sapeva, che quella era solo l'ennesima visione data dalla maga malvagia, dalla polvere bianca che si ostinata a voler assumere quotidianamente, senza fermarsi. Le sue mani delicate afferano il colletto della camicia stropicciata, lo trascinano all'interno della struttura; gli sorride maliziosa, avvicina le labbra alle sue, poi scappa. E torna, torna più veloce di prima; lo costringe a camminare a passo spedito verso una delle tante camere. La mente di Aris trascina le proprie idee, strappa ogni convinzione dalle radici del pensiero; cosa fare, ora?
Svegliati, Aris.
Non può, non ci riesce.
《Forza, Aris, cosa stai aspettando?》
La sua mente è perversa, ha le curvature di una Mercedes ha tanti bei ragazzi che chiama amici danzano nel cortile, sudati per la dolce estate alcuni danzano per ricordare, altri per dimenticare
《Danza anche tu, Aris.》lo invita, e la sua voce è il canto di una sirena. Un giardino,i cui fiori sono le dolci anime perdute, incapaci di dimenticare,si estende per tutto il suo campo visivo, circonda ogni angolo di quell'immenso spazio; e loro, angeli dannati, demoni dal volto bello e prezioso, muovono le braccia in alto, ballano come fate, come se quella fosse la loro polvere magica. Il loro credo è unico, il loro Dio un giovanotto invaghito della vita.
《 Loro sono ciò che tu non sei, ma che potresti essere. Sono le tue idee, la tua vita. Il travagliato percorso che potrebbe cambiarti. In meglio, o in peggio, Aris?》
E ride, ride divertita mentre indica le molteplici anime dalla variabile forma; alcune si colorano delle emozioni del ragazzo, altre degli attimi che ha sprecato. Lei danza con i suoi amici, fin quando non le scende una lacrima solitaria sul viso pallido La scaccia via, come un fastidioso ostacolo. Perché, dopotutto, deve portare a termine anche quella difficile e confusa missione. Lei, hostess dell'aereo bianco e candido.
D'un tratto, il suo ballo s'interrompe. La sua voce brucia ancora contro le muscolose braccia di Aris, mentre lo guida verso la propria stanza.
《 sii passionale. Sii te stesso. Vivi, poiché le imperfezioni sono libertà. E tu, tu non sei libero. la tua droga ti rende perfetto, impeccabile. Privo di emozioni. E, se il concetto di perfezione è soggettivo, allora..》 《Allora nessuno è libero?》la interruppe, forse ammaliato da quel candido discorso.
Ma lei rise ancora, scuotendo il capo oramai divertita ed al contempo rassegnata. Forse lo credeva uno stupido? O forse...
《Se vuoi uscire da questo labirinto, corri dal tuo Capitano, dal centro del tuo corpo. Mente o cuore, ti chiederai. Il tuo subconscio sa cosa rispondere.》
Chiamai il Capitano, 'Per favore, mi porti del vino', lui disse 'non abbiamo quel tipo di bevanda dal 1969'
Ad Aris mai era piaciuto il vino. Eppure, sapeva che quella bevanda rappresentava la vita che realmente doveva vivere; e da quanto, da quanto non viveva? Da quanto non beveva? Forse da quell'anno? Forse da quel tempo, in cui nulla gli era negato né concesso?
ed ancora quelle voci si facevano udire da lontano ti svegliavano nel mezzo della notte solo per sentirle sussurrare...
《Aris》 Un brivido freddo che percorre il corpo stanco, le sue labbra soffici contro il lobo dell'orecchio. Eccola, dea tentatrice. Soffoca il desiderio, risveglia i piaceri intensi. Queste gioie fanno presto a bruciare, e fatica a resistere. Questi amori sono carboni ardenti, tizzoni rossi, pietre dell'inferno; si scagliano contro la dolce vita, infuocano l'animo. E l'hotel, oh, dannata dimora del caldo sole, trattiene e stringe a sé il male, la passione. Il proibito profumo della dipendenza dalla libertà.
Benvenuto all'Hotel California un posto così amabile un volto così amabile si stanno divertendo molto all'Hotel California che bella sorpresa, ti porge le sue scuse
Ma qualcosa è andato storto, all'Hotel California. Qualcosa ha interrotto il viaggio, sviscerato il sogno; le dita oscure scorrono tra i fili di rame, carezzano gli zigomi alti e pallidi. 《Rivelami il tuo nome》le sussurra, e le iridi verdi afferrano la ragione. Strappano brandelli della carne pura, annientano i pensieri.
《Katherine.》un roco sospiro, un lamento sincero. Per la prima volta, ella mostra la sua natura umana, ma anche l'appartenenza a quel posto dannato ed infimo.
Si alza, abbandona il grembo del confuso ospite.
《Scusami, Aris.》e gli schiamazzi dei suoi amici si fanno più forti. La portano via, via da lui. Arma più potente di tutte è quella che lei tiene tra le mani. Ed è troppo tardi, per Aris, quando si accorge che gli ha strappato il cuore.
Specchi sul soffitto champagne rosato sul ghiaccio e lei disse 'Noi siamo tutti prigionieri del nostro nuovo congegno' e nella camera del padrone si sono raccolti per il banchetto lo trafiggono con i loro coltelli in acciaio ma non possono uccidere la bestia
Urla, grida disperate. Canti come gemiti, ferite come fonti. Calda è la notte in cui la ragione tenta di prevalere sulla bestia dalle iridi biancastre, fredda è l'aria che inspira il corpo vuoto. Spazi immensi, vuoti ma colmi di anime spezzate. Di vite ricucite. E lo sente, sente quanto sia forte e pericoloso l'effetto che svanisce. La sua donna ha, ora, il fuoco tra i capelli; il fango al posto delle iridi, due rose appassite al posto delle labbra. Ed ecco che la bella diventa la bestia, che il mare diventa l'oblio.
《Aris! ARIS! 》brucia sulla pelle, il marchio della droga. Brucia tra le vene, la vita che appassisce. E mentre corre, il vento lo tormenta. Trafigge la carne, come un vampiro ghiotto di vino, di vita.
L'ultima cosa che ricordo è che stavo correndo verso la porta cercai il passaggio che mi riportasse indietro nel posto in cui ero prima 'Rilassati' disse l'uomo della notte 'noi siamo programmati per ricevere tu puoi lasciare l'albergo quando vuoi, ma non potrai mai abbandonarci '
Su un'autostrada buia e deserta, con il vento fresco tra i capelli Aris sfrecciava fiero, l'effetto della coca prossimo a sparire. E con una pistola tra le dita, il sorriso fiero dipinto come la più inquietante delle maschere, si apprestava a raggiungere il proprio inferno. La propria ninfa, il proprio credo. Il proprio hotel. L'Hotel California.
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migisiblog · 4 years
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Ieri notte, nell’attesa di riuscire a prendere sonno, stavo riflettendo sul mio nome. Me lo immaginavo scritto a penna su un foglio bianco, in maiuscolo, in minuscolo, in corsivo, in grassottello: è un gran bel nome. Va ammesso.
Mi piace come suona, in modo quasi armonioso, dolce, calmo. Insomma, il mio contrario, e forse è la parte che mi piace di più del mio nome: il suo suono non ha nulla a che vedere con la mia personalità.
Però è stato pensato e scelto con cura, da mio nonno. Dovevo nascere ad agosto, per questo non appena saputo il sesso nonno Antonio si è fiondato al calendario per individuare il miglior nome femminile di quel mese. Sono nata in ritardo, a metà settembre.
E’ stata l’unica volta della mia vita in cui ho fatto tardi.
Ho sempre amato il mio nome, l’ho sempre scritto con orgoglio sui documenti e sui compiti in classe che avevo quando andavo a scuola, però quando sono cresciuta e mi sono dedicata alla scrittura, scaricandomi l’applicazione sul telefono di una piattaforma nella quale avrei potuto dare sfogo alla mia creatività, mi sono cercata un nome d’arte che potesse rappresentarmi, capitando in un sito che forniva un elenco infinito di nomi dei nativi americani con rispettivo significato: ho continuato a leggere solo per curiosità, da sempre incantata dalla storia e la cultura di quella popolazione che ha fatto la storia del paese che tanto m’intriga.
Poi ne ho letto uno, che mi è entrato nel cuore. Keezheekoni, fuoco che brucia.
Era il mio. Era senza dubbio il mio. Diciasettenne, testarda, senza sapere dove andare a sbattere la testa, senza sapere cosa desideravo dal mio futuro, passavo le mie giornate a scrivere, scrivere, scrivere fino ad avere male persino a battere le dita contro la tastiera per digitare parole sullo schermo, mi sentivo sola ed incompresa, un pessimo esempio per mia sorella, una delusione per i miei genitori e una preoccupazione in più per i miei amici. Quindi quello che percepivo dentro al mio stomaco era proprio quello: un fuoco che bruciava, che ardeva, vivo e letale, pronto a distruggere tutto quanto, me per prima.
Ma non è accaduto, è arrivata l’acqua: questa però è un’altra storia.
Crescendo, ho smesso di sentire mio quel nome. Sono tornata a quello di origine, il mio opposto, fragile e delicato.
Poi ho avuto necessità di andare a ravanare nello stesso sito dove anni fa ho recuperato quel nome, e ne ho trovato un altro, per caso: mi serviva un nome per una storiella che stavo scrivendo, avevo bisogno di qualcosa che descrivesse una ragazza fragile, debole, terrorizzata dalla vita e da sé stessa, ma ho solamente trovato il mio. E io credo nel destino, credo ne avessi bisogno in quel momento, in quel giorno. Migisi.
Quando sono stata a Barcellona, in vacanza, camminando per il centro ho trovato un negozio Incas veramente delizioso, sono entrata come se fossi stata attirata da una forza che non ero veramente in grado di controllare, e una volta dentro ho provato quella sensazione di tranquillità, e felicità, e appagamento, che ancora oggi non sono in grado di spiegare: e’ forse la cosa migliore di Barcellona, tutt’ora lo penso, pur non rientrando nelle attrazioni per i turisti. L’odore leggero di incenso aromatizzato riempiva l’aria, la classica musica che ci fa pensare a quell’epoca risuonava piacevolmente e tutti gli accessori, i ponci, le statuine, le borse erano fatti a mano. Era strabiliante, incantevole, mi piaceva davvero tanto, non sarei mai voluta uscire. Poi l’ho vista. Insieme a tante altre, ho visto una collana, nel fondo del negozio. Il filo era nero, classico, e il ciondolo rappresentava un’aquila. L’ho sentito mio prima ancora di prenderlo in mano, per il significato che conosciamo di quel volatile. Libertà. Ed era così che mi sentivo in quella settimana di vacanza, costantemente libera di fare, dire, provare, qualsiasi cosa.
Sono del segno zodiacale della vergine. Ho sempre creduto fermamente nell’oroscopo. Elemento? Terra. Pietra? Turchese: peccato, mi piace lo zaffiro. Giorno: mercoledì: sarà un caso, ma è il mio giorno di riposo a lavorare. Fiori: Margherita. Metallo? Mercurio. Animale spirituale? Aquila.
L’aquila è coraggiosa, è ribelle. E’ forte, indistruttibile. Si sente potente. E’ libera.
Esattamente come mi sento io, come sono io.
Barcellona: aquila.
Vergine: aquila.
Migisi: aquila.
Quindi mi presento: sono Migisi, e questo è il mio blog.
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frasiiitmblrrr · 4 years
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Prima avevamo le persone, ma non il tempo, ora abbiano il tempo, ma ci mancano le persone.
-@brucia-fiori-del-male
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