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#cosa nostra: storia della mafia siciliana
rei-the-head-shaker · 11 months
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Another day, another coffee!
Trying to get back on track with my studies in the hope life got the memo and will stop being so fucking hectic and leave me to my things for a little bit...
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curiositasmundi · 9 months
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Un personaggio sempre sullo sfondo di vicende misteriose, che appare e scompare, di quelli che non finiscono sulle prime pagine dei giornali, ma il cui nome affiora più volte negli atti giudiziari degli ultimi trent’anni. A volte perché accostato alla mafia siciliana, più di recente alla ‘ndrangheta. L’uomo di cui parliamo ha quasi ottant’anni, è nato in Libia ma vive a Catania.
Si chiama Francesco Rapisarda e nel corso della vita ha stretto relazioni pericolose che – seppure non abbiano mai portato a imputazioni per associazione mafiosa – hanno contribuito ad alimentare sul suo conto ombre e misteri. Alcuni dei quali intrecciati con la massoneria. Ora che è al centro di inchieste dell’antimafia, il modo migliore per conoscerlo è risalire la linea del tempo.
Per ultimo il suo nome è comparso nell’inchiesta della procura di Catanzaro che, a inizio luglio, ha riacceso i riflettori sul villaggio Sayonara di Nicotera (Vibo Valentia), passato alla storia per avere ospitato, nell’estate ’92, uno dei summit in cui le ‘ndrine decisero di aderire alla strategia stragista inaugurata da Cosa nostra con le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e che, l’anno dopo, avrebbe portato le bombe a Firenze, Roma e Milano.
Per i magistrati, tre decenni dopo quella riunione, il Sayonara era ancora in mano alla ‘ndrangheta. E a dimostrarlo sarebbe proprio la presenza al suo interno di Rapisarda. Sayonara simbolo di un’alleanza duratura tra le organizzazioni mafiose divise dallo Stretto di Messina.
[...]
Per gli inquirenti, Rapisarda sarebbe arrivato al Sayonara forte di alcune referenze mafiose. In particolar modo da parte della famiglia Santapaola-Ercolano, che a Catania rappresenta Cosa nostra.
A sostegno di questa ipotesi, citano i fatti che nel 2016, l’anno prima di prendere la conduzione del lido, avevano portato Rapisarda e il fratello ai domiciliari nell’ambito dell’inchiesta Brotherood. Al centro dell’indagine erano finiti i punti di contatto tra esponenti della famiglia Ercolano e alcuni appartenenti a una loggia massonica di cui proprio Francesco Rapisarda era il sovrano.
Grazie a tali convergenze l’uomo, che è anche rappresentante di un’associazione che rimanda all’organo di governo del Rito Scozzese Antico ed Accettato, sarebbe riuscito a turbare un’asta giudiziaria e rientrare in possesso di un complesso industriale. Vicende per le quali Rapisarda è stato condannato a due anni e otto mesi in appello, dopo essere stato assolto in primo grado.
Per spiegare perché la vicinanza agli Ercolano avrebbe rappresentato un buon biglietto da visita agli occhi di Mancuso, i magistrati ricordano invece l’amicizia che lega il boss di Limbadi ad Aldo Ercolano, nipote del capomafia Nitto Santapaola e condannato all’ergastolo per diversi omicidi, tra cui quello del giornalista Giuseppe Fava.
[...]
l capitolo più misterioso della biografia di Francesco Rapisarda risale, però, a tempi più remoti. Si tratta di una vicenda in cui, in prima battuta, venne tirato in ballo insieme al fratello Carmelo, per poi uscire di scena: il duplice delitto della Megara.
È il 30 ottobre 1990 quando, nella zona industriale di Catania, l’auto su cui viaggiavano Alessandro Rovetta e Francesco Vecchio – amministratore e dirigente della più grande acciaieria di Sicilia – viene crivellata di colpi da un commando che, per gli investigatori dell’epoca, agì con «tecniche quasi militari».
Ad oggi non esistono colpevoli e l’indagine per tre volte è finita sul binario morto della richiesta di archiviazione. L’ultima attende il responso del gip, chiamato a valutare l’opposizione dei parenti delle vittime, convinti che non tutto il possibile sia stato fatto.
Sullo sfondo di questa storia c’è posto non solo la criminalità organizzata. Il 5 novembre 1990 una telefonata all’Ansa di Torino annunciò l’esecuzione di Rovetta e Vecchio per conto della Falange Armata, la sigla che ha accompagnato parte dei misteri italiani dagli anni Novanta in poi – dai delitti della Uno Bianca alle stragi – e che sarebbe sorta all’interno della settima divisione del Sismi, il servizio segreto militare. Di fatto, il duplice omicidio della Megara fu la seconda rivendicazione nella storia della Falange.
A mancare finora è stato anche il movente. L’acciaieria da tempo era nella morsa del racket e, con all’orizzonte una ristrutturazione miliardaria, Cosa nostra avrebbe avuto tutto l’interesse a evitare il clamore di un delitto eccellente.
È tra questi punti interrogativi che, a metà anni Novanta, compaiono sulla scena i fratelli Rapisarda: entrambi attivi nell’indotto della Megara, a citarli è il collaboratore di giustizia Giuseppe Ferone. Secondo il quale, Vecchio sarebbe stato ritenuto colpevole della riduzione di commesse a favore di una delle loro ditte e per questo destinatario di un’estorsione da parte degli emissari di un clan locale, a loro volta vicini ai Rapisarda.
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arcobalengo · 2 years
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Intanto don Masino svelava particolari inquietanti agli inquirenti statunitensi. Nella primavera del 1985, Buscetta raccontò di Giulio Andreotti, già cinque volte presidente del Consiglio e ministro di quasi tutti i governi del dopoguerra, come patron di Cosa Nostra al sostituto procuratore federale di New Work Richard Martin, collega e amico personale di Giovanni Falcone. Ma anche ad Antony Petrucci, agente della Dea. Anche la Cia mostrò interesse per i segreti di Buscetta: in cambio della sua collaborazione, ai suoi cari viene garantita una residenza negli Stati Uniti. Ma Buscetta, in cuor suo, sapeva che era meglio stare lontano dall’Agenzia. Sapeva quanto fosse pericolosa quella «congrega di killer di Stato», come lui stesso definì la Cia. Don Masino conosceva molti dei suoi segreti. Sapeva che negli anni Sessanta era stata la Cia a commissionare a Cosa Nostra l’assassinio del presidente dell’Eni Enrico Mattei, inviso alle sette sorelle del petrolio. Lui stesso aveva partecipato ai sopralluoghi che avevano preceduto il sabotaggio dell’aereo personale di Mattei, parcheggiato all’aeroporto di Catania. Alla fine dell’estate 1985, Totò Riina era latitante da sedici anni, Bernardo Provenzano da ventidue. Non li cercava nessuno. Palermo era spaccata in due: voglia di cambiare e voglia di mafia. Il Maxiprocesso stava per iniziare e c’erano giudici che si defilavano. Nessuno voleva fare il presidente della Corte. C’era chi si giustifica con problemi di salute, chi di famiglia. La sensazione era che nessuno voleva guai. Si faceva fatica a trovare un presidente per il “Processo alla mafia”. Il 10 febbraio del 1986 si aprì finalmente il dibattimento. Gli imputati accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso erano quattrocentosettantaquattro. Con loro, erano finiti nel carcere dell’Ucciardone anche l’ex sindaco Vito Ciancimino e gli esattori Nino e Ignazio Salvo. Alla fine ad accettare lo scranno bollente era stato Alfonso Giordano, sarebbe stato lui presidente della Corte di Assise alla fine. Veniva dal civile, era una grande sorpresa. Il giudice a latere era Pietro Grasso, i pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino. «Silenzio, entra la Corte», scrisse in prima pagina “Il Giornale di Sicilia”. Un titolo perfetto per il processo dove per la prima volta c’erano mafiosi che volevano parlare. Per diciotto mesi Palermo, e il resto d’Italia, furono catturati da quanto accadde nell’aula bunker. Il 16 dicembre 1987, dopo trentacinque giorni di camera di consiglio, trecentoquarantanove udienze, mille e trecentoquattordici interrogatori, seicentotrentacinque arringhe difensive, Cosa Nostra siciliana incassò la sconfitta più dura della sua storia: diciannove ergastoli e duemila e seicentosessantacinque anni di carcere. «La mafia è in ginocchio», dichiararono pomposamente i ministri di Roma. La notizia delle condanne al Maxiprocesso di Palermo fece il giro del mondo. Era una vittoria per il pool, per Giovanni Falcone, quello delle «comiche figure» e delle «sceneggiate » descritte sul quotidiano cittadino. Tutti erano certi che ormai la mafia era alle corde, ferita mortalmente. C’è solo un uomo che non si fece travolgere dalla sbornia del successo: Falcone. Sapeva troppe cose sulla mafia e i suoi complici. Aveva intuito, accantonato, ma non dimenticato, piste insolite sui delitti eccellenti e su organizzazioni nazionali e transnazionali, di cui nessuno parlava. Sapeva che stava per arrivare il momento più difficile. Anche perché seimila chilometri più a occidente c’era qualcuno di molto potente che “il processo alla mafia” proprio non l’aveva mandato giù. Proprio adesso che la solidità dell’accordo Italy Project era fondamentale per il futuro del mondo doveva saltare tutto in aria. Non era accettabile. L’alleanza doveva essere ripristinata, anche a costo di versare del sangue, tanto sangue.
Franco Fracassi - The Italy Project
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personal-reporter · 11 months
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23 maggio 1992 La strage di Capaci: un attentato terroristico-mafioso che ha cambiato la storia italiana
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La strage di Capaci è stata un attentato terroristico-mafioso compiuto da Cosa Nostra il 23 maggio 1992 nei pressi di Capaci, in Sicilia. L'attentato ha causato la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di tre agenti di scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. L'esplosione dell'autostrada Palermo-Trapani, dove viaggiava il giudice Falcone, è stata un evento che ha segnato profondamente la storia italiana. Le cause Secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, l'attentato di Capaci fu eseguito per danneggiare il senatore Giulio Andreotti: infatti la strage avvenne nei giorni in cui il Senato avrebbe dovuto votare la fiducia al governo Andreotti VII. Tuttavia, nonostante le indagini siano state condotte per anni, non è mai stata trovata una prova concreta che collegasse l'attentato alla politica. Le conseguenze La strage di Capaci ha rappresentato un punto di svolta nella lotta contro la mafia in Italia. L'attentato ha scosso profondamente l'opinione pubblica e ha portato a una maggiore consapevolezza dell'esistenza e dell'influenza della mafia nel Paese. Inoltre, ha spinto le autorità a intensificare gli sforzi per combattere la criminalità organizzata. Le indagini Le indagini sulla strage di Capaci sono state molto complesse e hanno richiesto anni di lavoro da parte delle autorità italiane. Nel giugno 2008 Gaspare Spatuzza (ex mafioso di Brancaccio) iniziò a collaborare con la giustizia e dichiarò ai magistrati di Caltanissetta che circa un mese prima della strage di Capaci si recò a Porticello insieme ad altri mafiosi per incontrare i vertici della mafia siciliana. Secondo Spatuzza, durante l'incontro fu deciso di organizzare l'attentato contro il giudice Falcone. La commemorazione delle vittime Ogni anno, il 23 maggio, si tiene a Palermo e Capaci una lunga serie di attività, in commemorazione della morte del magistrato Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo. Le cerimonie includono momenti di preghiera, deposizione di fiori e corone d'alloro presso i luoghi dove sono avvenuti gli attentati e discorsi delle autorità locali e nazionali. Conclusioni La strage di Capaci è stata un evento tragico che ha segnato profondamente la storia italiana. L'attentato terroristico-mafioso ha causato la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e di tre agenti di scorta ed è stato un punto di svolta nella lotta contro la mafia in Italia. Nonostante siano passati molti anni dall'attentato, ogni anno si tiene una cerimonia per commemorare le vittime e ribadire l'importanza della lotta contro la criminalità organizzata. FONTI https://www.ilpost.it/2022/05/23/strage-capaci-giovanni-falcone/ https://www.skuola.net/temi-saggi-svolti/temi/strage-capaci-morte-falcone.html Read the full article
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lamilanomagazine · 1 year
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45 anni fa l'uccisione di Peppino Impastato
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45 anni fa l'uccisione di Peppino Impastato Sono passati 45 anni da quando la mafia, nonostante i tentativi di depistaggio, ha ucciso Peppino Impastato rendendolo una figura chiave della lotta alla mafia. Un "eroe civile" da non dimenticare, una di quelle "persone che hanno sacrificato la loro vita nonostante avrebbero potuto fare un'altra scelta", ha detto di lui il procuratore capo Maurizio De Lucia intervenendo ieri a un’iniziativa organizzata da Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato proprio in occasione dell’anniversario dell’omicidio del giornalista e militante della Democrazia Proletaria, trucidato a Cinisi nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978. Anche il presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, ha dedicato alla sua memoria un necrologio definendolo un "fulgido esempio di coraggio e fedeltà ai principi di libertà e legalità". Impastato era diventato ormai noto nel suo paese per i suoi ricorrenti attacchi alla mafia e le sue denunce a Cosa nostra, nonostante provenisse da una famiglia d’onore. La sua sete di giustizia lo portò a chiudere completamente ogni rapporto con padre Luigi, anche lui noto esponente mafioso di Cinisi. La sua, come quella di molti giornalisti dell’epoca, era una voce scomoda che denunciava pubblicamente i malaffari di Gaetano Badalamenti, che aveva soprannominato ironicamente "Tano Seduto”. Alcuni brandelli del suo corpo furono trovati sopra a dei binari della ferrovia, c'era del tritolo. Cosa nostra aveva intenzione di far passare la sua morte per un attentato terroristico di stampo comunista fallito. In un primo momento ci riuscì, soltanto grazie all’impegno del fratello Giovanni e della madre Felicia Bartolotta, la verità venne a galla. “La storia di Peppino Impastato è più attuale che mai - ha detto al Giornale Ismaele La Vardera, vicepresidente della commissione Antimafia dell’Ars - la sua lotta ancora oggi fa rumore. Il fatto che ancora oggi la storia di Peppino metta in crisi certe persone da dimostrazione che il suo ricordo deve continuare nelle nostre menti”. Come ogni anno sono numero gli eventi programmati per commemorare l’impegno civile di Impastato. Il primo questa mattina, alle 10, a Casa Felicia (Contrada Napoli, Cinisi), dove i referenti di alcune associazioni, i familiari e compagni di Peppino. Alle 16 è previsto un corteo antifascista e contro la mafia, da Radio Aut (Terrasini) a Casa Memoria (Cinisi) passando per il liceo linguistico con l'inaugurazione della targa d’intitolazione proprio all’eroe militante. Seguiranno gli interventi, dal balcone di Casa Memoria, di Luisa Impastato (presidente di Casa Memoria), Annalisa Savino (preside del liceo Leonardo da Vinci di Firenze), Serena Sorrentino (segretaria generale Funzione pubblica Cgil), Umberto Santino (presidente Centro Impastato-No mafia Memorial), Carlo Bommarito (presidente associazione "Peppino Impastato"), Ottavio Terranova (presidente Anpi Sicilia) e Adelmo Cervi, sette figlio di uno fratelli Cervi che sono stati fucilati dai fascisti, al poligono di tiro di Reggio Emilia, il 28 dicembre del 1943. A conclusione della giornata il concerto per Peppino Impastato con la partecipazione di Cisco, Serena Ganci, Roy Paci, Shakalab, Angelo Sicurella, Enzo Rao e il coro dei bambini della scuola di Cinisi. A presentare la serata, in corso Umberto I a Cinisi, ci sarà Martina Martorano.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Letizia Battaglia - Palermo, 5 marzo 1935 – Cefalù, 13 aprile 2022
Letizia Battaglia – la storia di Palermo in un rullinoLa fotografa siciliana è al centro del documentario Shooting the Mafia, diretto da Kim Longinotto«Se le tue foto non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino». Robert CapaRobert Capa ha assolutamente ragione. Se si vuole inquadrare un oggetto o una figura, bisogna porsi nella giusta distanza e aspettare il momento più adatto. 
È questione di un attimo, e in men che non si dica la foto non è più la stessa di quella che l’occhio (e, di conseguenza, la mente) aveva previsto.Dietro a quella frase, però, c’è dell’altro. Capa nel pronunciare quelle parole ha lasciato intendere un altro aspetto dell’essere un fotografo: essere lì, vivere quel momento e sentire quando è momento di fermare il tempo. È ciò che ha fatto Letizia Battaglia, che oltre a essere una fotoreporter, è una vera combattente. A raccontarla ci pensa Kim Longinotto con il documentario Shooting the Mafia, presentato a Milano in occasione della decima edizione del Weworld festival.
 L’evento è organizzato dall’associazione WeWorld Onlus, che da anni si occupa della condizione delle donne e dei bambini nel mondo.La carriera di Letizia Battaglia parte ufficialmente verso la fine degli anni ‘60, quando decide di prendere in mano la macchina fotografica contribuendo con i suoi scatti ad arricchire le pagine della rivista L’Ora. Dopo essere stata per alcuni anni a Milano, decide di tornare a Palermo, una città che ha bisogno di tanto rullino per raccogliere tutto il patrimonio instaurato nel corso della storia.
Eppure la seconda metà del Novecento ha messo Palermo nella condizione di dover convivere con la paura, che in questo caso ha il volto di Cosa Nostra. La testimonianza di Letizia Battaglia da questo punto di vista è la perfetta dimostrazione della ferita che all’epoca faticava a rimarginarsi.La fotografia ha il pregio (in alcuni casi si può parlare anche di fardello) di immortalare un’emozione, che può essere la gioia in un momento di svago, o il dolore di fronte alla morte. 
La sua fama cresce principalmente su quest’ultimo punto, con un repertorio d’immagini che descrivono l’orrore che ha travolto Palermo dagli anni ’70 in poi.È storia quella fotografia che ritrae uno dei tanti momenti bui che ha coinvolto la città, il frammento che segna la scomparsa del Presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella , il fratello dell’odierno Capo dello Stato Sergio Mattarella.La Mafia, con la sua striscia di sangue e di delitti, andava per forza raccontata. E non solo per il diritto di cronaca, un servizio utile al cittadino e a una democrazia liberale come l’Italia, ma per quelle persone verso le quali spesso si dimentica del grande lavoro svolto da Letizia Battaglia.Il contributo più grande si vede infatti quando al centro dell’obiettivo ci stanno figure umili, coloro che più di ogni altra si trovano a fronteggiare quel grosso macigno sociale che non smette di colpirle. I bambini, ad esempio, sono più volte raccontati nello sfondo di alcune zone corrose dal potere criminale, come il quartiere Zen.
Il discorso si fa ancora più interessante quando è la donna a essere messa a fuoco dall’autrice, nel pieno di un’emancipazione che, anche se a piccoli passi, comincia a migliorare la condizione di vita femminile.Una delle foto più rappresentative è senza dubbio il ritratto del lutto di Rosaria Costa, la consorte di Vito Schifani , uno degli uomini della scorta che ha perso la vita insieme al magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morbillo, e i colleghi dell’arma Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. In quella foto il dolore spicca grazie alla scelta del chiaro scuro che divide in due il suo volto. La sofferenza, percepibile nei suoi occhi, le conferirà invece un coraggio che si tramuta in un discorso rivolto agli assassini di Capaci nella chiesa di San Domenico: «io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio». Una sfida così potente alla Mafia è il primo passo verso il cambiamento, l’esito di un lungo percorso tracciato dalle immagini di una donna altrettanto temeraria come Letizia Battaglia, la prima in Europa a ricevere il Premio Eugene Smith, ottenuto nel 1985 insieme alla collega americana Donna Ferrato.
Di Riccardo Lo Re
Letizia Battaglia di Francesca Esposito:La grande fotografa, attivista per i diritti, se ne è andata. La ricordiamo con questa bellissima intervista che ha rilasciato a Francesca Esposito in occasione del progetto - Site Specific Meraviglioso Reale - a L’AquilaPer ricordare Letizia Battaglia, che ci ha lasciati qualche ora fa, riproponiamo questa intervista, originariamente pubblicata il 2 febbraio 2022.
L.B. "Non me ne accorgevo di essere libera, di volere cose diverse. Ho sempre vissuto per quello che sentivo, non per gli altri. Io stessa non sapevo che stavo lottando, mi sembrava normale".
L.B. "Ho provato a cercare la bellezza interiore. Ho cercato di imporre alla mia macchina fotografica soprattutto la parte che spera, quella che vuole lottare".F.E. Un nome, un destino quello di Letizia Battaglia: che “fotografa la bellezza interiore”, è convinta che “bisogna essere di parte” e “prendere sempre una posizione”.
La incontriamo in occasione del progetto - Site Specific Meraviglioso Reale a L’Aquila -: gigantografie di suoi scatti campeggiano sui ponteggi della futura Casa delle Donne dell’associazione Donne TerreMutate. L’iniziativa è a cura di Camilla Carè di Off Site Art che, dal 2014 accompagna i lavori di riedificazione del centro storico dopo il sisma.F.E. Ma chi è Letizia Battaglia?Classe 1935, fotogiornalista palermitana pluripremiata, nel 1985 Letizia Battaglia è la prima donna europea a ricevere il premio Eugene Smith per i suoi scatti di impegno sociale. Nel 2017 viene inserita dal New York Times tra le 11 donne più influenti al mondo.Ha esposto le sue fotografie in musei e istituzioni, dalla Francia al Canada, passando per il Brasile. Sulla sua vita è stato realizzato il documentario Shooting the Mafia (2019), diretto dalla regista britannica Kim Longinotto. Dal 1991 dirige la rivista di sole donne «Mezzocielo» e dal 2017 il Centro Internazionale di Fotografia di Palermo, per cui organizza workshop e incontri. Roberto Andò ha da poco finito di girare una serie tv dedicata alla sua vita.
F.E. In Meraviglioso Reale possiamo dire che il mezzo è il messaggio: cosa pensa delle donne di oggi?
L.B. Potrebbero fare molto di più, per loro stesse e per l’umanità. Questo mondo ha bisogno che le donne amministrino, che governino. Non 4 su 100, ma 50 e 50: insieme devono gestire il mondo a secondo delle loro qualità. Devono imparare a imporsi nei partiti, nei luoghi di lavoro. Ovunque le donne in qualche modo accettano. Non ne posso più della retorica, le donne devono gestire la loro vita. La nostra, quella di tutti.
F.E. Perché?
L.B. Il problema è che le donne non votano per le donne. Lavorano meno degli uomini, sono costrette spesso a lasciare l’impiego quando hanno dei figli, hanno salari più bassi dei colleghi maschi. Serve un cambiamento nel nostro atteggiamento, dobbiamo esigere rispetto per il lavoro che facciamo. Serve solidarietà umana per vincere questa battaglia.
F.E. Lei è femminista?
L.B. Sono più che femminista. Non è vero che le femministe siano dispettose con le altre donne, sono donne che fanno comunità. Non possiamo più accontentarci perché poi va avanti il pensiero maschile che naturalmente è diverso quello femminile. Se lavorassimo insieme le cose avrebbero più armonia. Noi siamo più generose, più coraggiose, più amanti dell’ambiente e della natura.
F.E. Lo storico Alessandro Barbero si è chiesto se le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi.
L.B. Governare è un dovere, il dovere di esserci e di occuparsi del pianeta che va in malora, dell’inquinamento, dei popoli oppressi. Le donne non sarebbero lì solo parlare, ma farebbero meglio.
F.E. Come si fa contro il patriarcato?
L.B. Nel loro privato le donne devono essere decise, ma anche nei partiti. Con fiducia e certezza, il ricatto con gli uomini bisogna farlo. E dobbiamo uscirne, altrimenti c’è la disperazione.
F.E. Impegno civile, giustizia e libertà. Tanti i suoi valori, più di tutto la bellezza. Cosa è per lei?
L.B. Sono anni che fotografo la bellezza. È innocenza, freschezza del comportamento. Con la macchina fotografica cerco lo sguardo puro, nel senso più ampio del termine.
F.E. Dove trovare la purezza?
L.B. La purezza sono le bambine, le donne. Ho fotografato recentemente alcune donne che hanno il cancro, arrivavano da tutta Italia. Ho provato a cercare la bellezza interiore. Ho cercato di imporre alla mia macchina fotografica soprattutto la parte che spera, quella che vuole lottare.
F.E. Lei come si sente?
L.B. Meravigliosa. So che sono così. Il punto qui è amare se stessi. Ho quasi 87 anni, ammalata con tanti problemi. Sono euforica per il fatto di aver condotto una vita come la mia. Sono felice di aver lottato.
F.E. Lo scrittore Emanuele Trevi dice che tenderemo ad assomigliare al nostro nome.
L.B. Non mi piace il mio cognome, è troppo esplicito.
F.E. Lei si definisce una fotografa militante. Cosa significa?
L.B.  Denunciare al mondo quello che il mondo non vuole vedere, vuol dire non avere scrupoli nel raccontare e denunciare. Bisogna essere di parte. Prendere una posizione. Non sono una che fa le foto per venderle ai giornali, per metterle nei libri o per fare le mostre. Ho sempre scelto da che parte stare. Ho sempre sentito questa urgenza.F.E. Di fotografare?L.B. Non sono una brava fotografa, ho riconosciuto errori e pensato che avrei potuto fare meglio. Più che una fotografa sono una persona che fotografa, ho avuto una vita incredibile. Ho fatto volontariato psichiatrico, teatro, ho avuto l’amore.
F.E. L’amore per Santi Caleca, un punto di riferimento ancora oggi. Poi quello per Franco Zecchin. Come andò?
L.B. Ero andata a vedere uno spettacolo di Grotowski, partita da Palermo con il treno per Venezia. Uno dei componenti della compagnia, mentre ero nel pubblico, è venuto da me e mi ha chiesto di partecipare a uno stage promosso dalla Biennale di Venezia.Dopo qualche mese sono partita, mi hanno chiamata e lì ho conosciuto Franco Zecchin. C’erano francesi, giapponesi. Era proibito fotografare, invece io trasgredii e feci qualche scatto. Fecero la spia e mi chiesero i rullini. Franco, di corsa, uscì fuori da questa villa e mi comprò dei rullini con cui scambiarli. Era stato coraggioso e solidale. Pochi giorni dopo siamo usciti in barca a Venezia, lui fece scolare un po’ di acqua del mare sulla mia mano. Era un tipo così, timido non stucchevole. E questo fu il suo gesto d’attenzione. Quella notte, anziché dormire insieme agli altri con il sacco a pelo, ci spostammo da soli in una stanza che ospitava un allestimento scenico pieno di foglie secche sul pavimento. Quella notte cominciammo a conoscerci.
F.E. Cosa è l’amore?
L.B. Non posso raccontare l’amore di chi ho fotografato. Però posso dire che non è innamoramento, che è non vero e pericoloso. L’amore è rispetto ed empatia. È piacersi molto, anche fisicamente. Fotografare, ad esempio, è un atto d’amore.
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marcoleopa · 6 years
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Condivido ogni vocale, parola e frase, del Procuratore Scarpinato, sempre valide a distanza di 26 anni.
L'ennesima vergogna, conclusa nel 2012 con l’assoluzione in seno al CSM che, dopo aver sollevato il polverone mediatico, fece marcia indietro, poichè,  “non c’era alcun presupposto per un’azione.”
In breve in prima, seconda, terza fila etc…siedono e continuano a sedersi uomini e donne che puzzano di compromesso morale, ancora oggi.
“Caro Paolo,
oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.
E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e abarattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.
Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.
Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.
Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.
Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti diBassano del Grappa ripetesti: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.
E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.
Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso.
Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “ Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.
Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.
Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca,Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”.
Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.
Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.
Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.
Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.
E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito.
Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.
Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.
Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.
E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.
Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.
Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo.
Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.
Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.
E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti.
Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.
Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito.
Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.
Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte.
E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.
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giancarlonicoli · 3 years
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19 gen 2021 09:11
"EM.MA" FOR EVER – SE NE VA A 96 ANNI EMANUELE MACALUSO, STORICO DIRIGENTE COMUNISTA – DA CAPO DEL SINDACATO ALLE SFIDE AI BOSS DI COSA NOSTRA. "TOGLIATTI? PASSAVA PER UOMO FREDDO, MA ERA SOPRATTUTTO TIMIDO”. BERLINGUER? IO FUI L'UNICO CUI CONFIDÒ CHE L'INCIDENTE STRADALE DEL '73 IN BULGARIA ERA UN ATTENTATO”, L’AMICIZIA CON NAPOLITANO - NEGLI ANNI '40 FINÌ IN CARCERE PER ADULTERIO. GRANDI AMORI, MA ANCHE DOLORI TERRIBILI. UNA SUA COMPAGNA SI UCCISE DOPO CHE LUI L'AVEVA LASCIATA. UN FIGLIO È DECEDUTO A 65 ANNI, ALL’IMPROVVISO, PER UN ICTUS – I GIUDIZI IMPIETOSI SU M5s, PD, CONTE E SALVINI
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Concetto Vecchio per repubblica.it
Fino all'ultimo Emanuele Macaluso, morto oggi a 96 anni, ha mantenuto uno sguardo curioso sul mondo. Era sorprendentemente sul pezzo. Ogni mattina si svegliava alle sei, leggeva il pacco di quotidiani comprati all'edicola della piazza di Testaccio, quindi, dopo la passeggiata sul Lungotevere, dettava all’ex giornalista dell’Unità Sergio Sergi il commento scritto a mano sul tavolo della cucina. Sergi lo postava materialmente sulla pagina Facebook Em.Ma in corsivo. Una rubrica di successo.
A Macaluso però non importavano i riscontri. Non aveva nemmeno un computer. “Se non scrivo i miei pensieri mi sento morire”, mi disse una volta, seduto nel salotto del piccolo appartamento ingombro di libri. “Togliatti una volta mi spiegò: un uomo politico che non scrive è un politico dimezzato”.  Il primo pezzo uscì nel 1942 sull'Unità allora clandestina: una denuncia delle condizioni di lavoro degli zolfatari nisseni. Macaluso aveva 18 anni.
Eppure, nel finale di stagione, avrebbe potuto soprattutto voltarsi indietro. Parlare solo del passato. Aveva attraversato il Novecento come dentro a un romanzo. Grandi responsabilità pubbliche sin da giovanissimo: capo della Cgil siciliana a 23 anni, leader  dei deputati regionali del Pci  a 28, con cui ideò la controversa operazione Milazzo, parlamentare per sette legislature, direttore dell'Unità, amico personale di Napolitano, Berlinguer, Guttuso, Sciascia, Di Vittorio. A sedici anni scampò per miracolo alla tubercolosi.
Negli anni Quaranta finì in carcere per adulterio. Nel 1960 fu latitante per otto mesi in un casolare del Modenese perché per la legge di allora i figli avuti da Lina, “donna già sposata”, non potevano essere i suoi, dopo una denuncia della Dc, che pensava così di metterlo fuorigioco. Grandi amori, ma anche dolori terribili. Una sua compagna si uccise dopo che lui l'aveva lasciata. Un figlio, Pompeo, è deceduto a 65 anni, all’improvviso, per un ictus.  Ha mai avuto paura di morire?: “Qualche volta. Con Girolamo Li Causi nel settembre 1944 andammo a Villalba, uno dei feudi della mafia, a sfidare il boss Calogero Vizzini e ci spararono addosso”.
Ci voleva un gran fegato, negli anni di Portella della Ginestra e del separatismo banditesco, a fare opposizione in Sicilia, avendo come avversari gli agrari legati a Cosa Nostra. Macaluso, da capo del sindacato, batté l'isola palmo a palmo, occupò le terre nella zona d'influenza di Genco Russo, guidò i contadini nell'occupazione dei feudi, aprì sezioni del partito ovunque. “Non c'è paese in cui non abbia fatto un comizio, una volta con Calogero Boccadutri, il capo del Pci clandestino a Caltanissetta, andammo a Riesi percorrendo cinquanta chilometri a piedi. Con trentasei sindacalisti uccisi, la lotta alla mafia allora non si faceva a chiacchiere”. Queste esperienze, talvolta estreme, questo suo stare sempre nel cuore della lotta civile e sociale, hanno rappresentato un deposito di conoscenze che hanno fatto di lui, in questi anni di crisi della politica, un vegliardo da interpellare spesso. Uno strepitoso impasto di ruvida umanità e lucidità analitica. Più invecchiava e più il suo sguardo si faceva acuminato, specie sul presente. Leggeva in continuazione. Perito minerario aveva avuto sempre un complesso d'inferiorità verso la cultura, un gap che aveva cercato di colmare divorando letteralmente tutti i classici. Per quelli della sua generazione la politica andava nutrita di studi, di libri. Fino all'ultimo ha girato per casa con un classico in mano.
All'immediato Dopoguerra risale la sua conoscenza con Togliatti: “Passava per uomo freddo, ma era soprattutto timido”. Fece con lui un viaggio con lui a Mosca. Quindi Togliatti lo chiamò nella sua segreteria nel 1963. Macaluso era già qualcuno.  A Roma, anni dopo, divise la stanza di Botteghe Oscure, la sede del Pci, con Enrico Berlinguer. “Era capace di non pronunciare una sola parola per ore: io fui l'unico cui confidò che l'incidente stradale del '73 in Bulgaria era un attentato”. Pur avendo criticato, con Giorgio Napolitano, il compromesso storico con la Dc, nell'aprile 1982 Berlinguer gli affidò il risanamento dell'Unità: il giornale vendeva ancora 150mila copie, ma era pieno di debiti. Macaluso lo svecchiò: introdusse i listini di borsa, scoprì Staino e la satira, aumento la dose di polemica, continuando a siglare i suoi corsivi con l'acronimo Emma, un'invenzione che si deve a Giorgio Frasca Polara. Quando, nel giugno 1984, Berlinguer morì toccò a Macaluso fare i titoli cubitali della prima pagina: quel “Tutti”, uscito all’indomani dei funerali, è storia.
L'impegno antimafia, ma da posizioni garantiste, il primato della politica come stella polare, ma venato da posizioni eretiche: Macaluso è stato allo stesso tempo disciplinato e libertario, fuori e dentro la grande chiesa comunista. Era sferzante, aspro, difficile da maneggiare, ricordava più le vicende pubbliche di quelle private. E' stato un rompiscatole intelligente e libero, perché gli si potevano fare tutte le domande. Pur sentendosi estraneo a questo tempo, ha continuato a indagarne le contraddizioni. La crisi della sinistra, a cui aveva dedicato la vita, lo crucciava. I suoi corsivi mattutini, anche nella stagione sbrigativa del tweet, sono stati lampi di intelligenza. Non ha mai smesso di viaggiare, finché ha potuto. Lo chiamavi ed era da qualche parte in Italia: presentazioni di libri, commemorazioni, convegni.
Il Covid lo aveva immalinconito, reso prigioniero. Non se ne faceva una ragione. Anche la morte lo indispettiva. Soffriva per i vecchi compagni che se ne andavano, all'ultimo si è sentito anche molto solo. "Voglio andarmene nel sonno", ripeteva. Ma fino all'ultimo si è aggrappato alla vita. Se si voleva chiacchierare con lui sul suo divano rosso bisognava mettere in conto continue interruzioni per le telefonate che riceveva. Poi riprendeva il filo delle sue analisi esattamente dal punto laddove lo aveva lasciato e ogni suo ragionare aveva sempre il taglio del racconto.
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paoloxl · 7 years
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Pochi giorni dopo le elezioni regionali che hanno visto il successo del blocco Pci-Psi, l’appuntamento di sindacale per festeggiare il 1 maggio a Portella della Ginestra si trasforma in un massacro. 11 persone rimangono uccise sotto il fuoco dei mitra della banda di Salvatore Giuliano, separatista al servizio degli agrari. Ma già il rapporto dei carabinieri indica come possibili mandanti, “elementi reazionari in combutta con mafiosi locali”. Gaspare Pisciotta affermerà poi davanti alla corte d’assise che i mandanti politici della strage erano i monarchici Gianfranco Alliata di Montereale e il democristiano Bernardo Mattarella. «… e nto sangu di cumpagni ammazzati» Portella della Ginestra- C’è una lapide di pietra bianca sulla spianata di Portella della Ginestra dove è incisa una poesia in dialetto di Ignazio Buttitta, marchiata con i caratteri rosso vivo: “ U me cori doppu tantanni è a Putedda e’ nta petri e nto sangu di cumpagni ammazzati”. Dopo vent’anni, i tre leader sindacali confederali Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo hanno deciso di tornare proprio a Portella, sulle montagne grigie di Palermo, a celebrare quest’anno il Primo maggio. Portella è un luogo della memoria collettiva, quasi di culto per i siciliani. Qui a distanza di settanta anni la ferita rimane ancora aperta. Uno degli ultimi sopravvissuti della strage del primo maggio 1947, Mario Nicosia, amava ripetere agli studenti che ‘ il cinquanta per cento di lotta alla mafia l’abbiamo fatto noi, il restante cinquanta è compito vostro”. Nicosia è morto l’anno scorso, a 91 anni. Il suo più grande rammarico è stato non arrivare a celebrare il 70esimo anno dalla strage il Primo maggio. Per il resto, ha lottato fino all’ultimo per fare conoscere la verità. Aveva 25 anni quando riuscì a sfuggire ai colpi degli uomini del bandito Salvatore Giuliano contro i contadini che per la festa del lavoro si erano riuniti davanti al “Sasso di Barbato”. Nicosia vide cadere attorno a sé tanti compagni ma anche donne e bambini. Si trovava accanto a Giorgio Cusenza, una delle vittime colpite dal fuoco e tornò a casa con la bandiera del sindacatopiena di sangue. Quel giorno a prendere la parola sarebbe dovuto essere un prestigioso leader comunista, Gerolamo Li Causi. Ma Li Causi aveva fatto sapere che era impegnato in un’altra manifestazione e non sarebbe intervenuto. Al suo posto era stato chiamato un giovane sindacalista, Francesco Renda. Ma proprio quel Primo maggio a Renda si era rotta la moto nei pressi di Altofonte e così ad esser interrotto dagli spari, dal sangue, dalla morte, si trovò un povero calzolaio, Gia- como Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato. Alla fine si contarono 11 morti ( due erano bambini) e 27 feriti. Ma Nicosia, protagonista delle lotte contadine degli anni Cinquanta, non fu mai sentito, come del resto tanti altri testimoni, al processo di Viterbo concluso con la condanna degli organizzatori e degli esecutori mentre non sono stati mai individuati i mandanti. Portella della Ginestra fu la prima strage di Stato italiana. Una strage che Leonardo Sciascia battezzò come “l’Italia delle menzogne”. Nonostante siano stati scritti fiumi di inchiostro e di parole su quel Primo maggio di settant’anni fa, la verità non è mai venuta a galla. Anzi, tanti rimangono ancora i segreti ed i misteri di quel capitolo doloroso della storia siciliana. “Una cosa è certa: la strage fu consumata dopo che il grande movimento di contadini aveva contribuito a ribaltare il risultato elettorale in Sicilia per le elezioni per la Costituente assicurando al Blocco del popolo una grande vittoria”, è stata sempre la tesi di Emanuele Macaluso, storico dirigente del sindacato e del Pci, che oggi a 92 anni lucidamente portati ed è tra i pochi sopravvissuti di quella stagione politica e sociale. “Agrari, mafiosi e politici non tollerarono la cosa e incaricarono la banda di Salvatore Giuliano di fare quel che ha fatto a Portella della Ginestra. Punto”, ha sempre tagliato corto Macaluso. Ma nel corso dei decenni hanno continuato ad accavallarsi ipotesi, congetture e ricostruzioni. Ognuna con le proprie verità, frutto anche di letture appassionate dei fatti, talvolta parziali, talvolta interessate. Tra i partecipanti alla manifestazione di quel Primo maggio del 1947 c’è chi asserisce di aver sentito alcuni giorni prima mormorare a Piana degli Albanesi una frase premonitrice: “ Parteciperete cantando, tornerete piangendo”. Chissà se è vero. Altre ricostruzioni fantasiose hanno ipotizzato che i colpi mortali siano stati esplosi da personaggi mescolati tra la folla e non dalle alture che circondano Portella. Qualcuno ha messo in campo l’ipotesi che in realtà fosse stata la mafia per far ricadere la colpa su Giuliano, diventato ormai troppo ambizioso ed ingestibile. Le zone intorno a Portella erano attraversate da un’antica tradizione rossa e di lotte per la terra che vedevano contrapporsi mafia e movimento contadino. Nell’immediato dopoguerra, nei latifondi dei grandi proprietari terrieri, cominciò uno scontro durissimo per la decisione che fu presa a Roma dal governo di abolire la mezzadria. La reazione dei contadini fu immediata: occuparono le terre dei proprietari e questo provocò gravi conseguenze che si trasformarono in veri e propri scontri a fuoco. Placido Rizzotto, Nicolò Azoti, Accursio Miraglia sono alcuni dei sindacalisti che pagarono con la propria vita la scelta coraggiosa di appoggiare le rivendicazioni dei contadini affamati. Ed è in questo caotico agitarsi tra banditismo, legami mafiosi e pretenziosità politica che si inserisce la strage di Portella, condotta dagli uomini di Giuliano con ferocia e per ragioni che oggi possono apparire fuori dal clima politico del dopoguerra e lontani dall’ ‘ humus’ della società siciliana dell’epoca. Sta di fatto che Gaspare Pisciotta, cognato e poi assassino del bandito Giuliano, nel controverso processo di Viterbo diede volutamente versioni confuse, contrastanti, intese a coinvolgere più gente possibile per scompaginare meglio le acque. Perché lo fece? Chi voleva proteggere o incastrare? Mario Scelba, chiamato il giorno dopo gli avvenimenti a rispondere davanti al’Assemblea Costituente dichiarò che non si era trattato di una strage politica. “ Non può essere un delitto politico perchè nessuna organizzazione politica potrebbe rivendicare a sé la manifestazione e la sua organizzazione’. Socialisti e comunisti sostennero la tesi opposta, e cioè che i mandanti dovevano essere cercati tra gli agrari ed i mafiosi in combutta con alcuni ambiente politici della Democrazia Cristiana, ma soprattutto della destra siciliana ed esponenti del separatismo. È una versione dei fatti non con- divisa da chi ha sempre ipotizzato che il mandante della strage di Portella potesse essere l’avvocato Antonino Varvaro, esponente del movimento separatista di Finocchiaro Aprile. Una ricostruzione bollata come “incredibile” da Emanuele Macaluso che tuttavia coincide in parte con quella di uno storico attento come Salvatore Lupo. Nella sua prefazione ad un libro pregevole frutto di una accurata ricerca di Francesco Petrotta, lo storico catanese sostiene che “ sarebbe fuori strada chi vedesse la strage di Portella come il primo manifestarsi delle forze oscure che hanno inquinato la vita democratica della nostra Repubblica”. L’indubbio collegamento del dramma con la politica regionale e nazionale del tempo non significa che i mandanti vadano necessariamente cercati a Roma o a Palermo. Soprattutto non deve occultare il contesto locale in cui esso si realizzò. “ La mafia esisteva e ammazzava sindacalisti già in una fase antecedente alla seconda guerra mondiale ed alla guerra fredda”, sottolinea Lupo. L’avvocato Varvaro si presentò nel collegio dominato dalla banda Giuliano ed ottenne un modesto successo con il suo movimento della sinistra separatista. Era possibile che il bandito avesse promesso ai separatisti una quantità di voti e che avesse preso contatti con qualcuno che non gli portò i voti promessi. In sostanza, il movimento separatista di Varvaro non ebbe successo perché la sinistra resse ed anzi resse bene. Così Giuliano, che era stato arruolato dai separatisti per la loro escalation estremistica, volle punirli con il terrore o fu convinto a farlo da qualcuno che voleva drammatizzare lo scontro. Forse questa potrebbe essere una chiave interpretativa più realistica. Ma per chi ha perso nonni, moglie e figli in quella tragica mattina di settant’anni fa, Portella della Ginestra resterà, forse per sempre, la strage senza mandanti. (SALVO GUGLIELMINO)
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italianaradio · 4 years
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Top 10 2019 della redazione di Cinefilos.it
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La redazione di Cinefilos.it si è espressa e, partendo dalle dieci preferenze di ogni redattore, è stata stabilita una classifica che rispecchia per buona parte le scelte, i gusti e le preferenze di redattori.
Come per ogni classifica, restano esclusi alcuni titoli importanti, che però sono stati scelti almeno da un redattore. Tra questi ci sono Ricordi? di Valerio Mieli, Midsommar – Il Villaggio dei Dannati di Ari Aster, ma anche Martin Eden, Se la strada potesse parlare, Booksmart e tanti altri titoli che per una mera questione di calcolo non sono stati inseriti.
In un anno estremamente ricco di film che hanno imposto al pubblico la loro presenza e la loro bellezza, ecco la Top 10 dei migliori dieci film del 2019 secondo la redazione di Cinefilos.it:
Dolore e Gloria
Ha conquistato il cuore della stampa (e del pubblico, visto che è in sala in Italia dal 17 maggio) Dolor y Gloria, il nuovo film di Pedro Almodovar che torna a lavorare con Antonio Banderas e Penelope Cruz e realizza uno dei migliori film della sua carriera.
Dalla trasgressione dei primi film, fino al tono meditabondo delle pellicole della sua produzione più recente, il regista non ha mai rinunciato a raccontare la grande vitalità dell’essere umano, anche di quello più sofferente, derelitto e solitario.
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Noi
Il travolgente successo della sua opera prima, con tanto di Oscar alla sceneggiatura originale, ha proiettato Jordan Peele nel cono di interesse dei cinefili e di coloro che hanno apprezzato Scappa – Get Out, ma anche di quelli che, scettici, lo stanno aspettando “al varco”. Con Noi, in sala dal 4 aprile, il regista, sceneggiatore e produttore si mette di nuovo alla prova, allargando i suoi orizzonti e quelli della sua storia, uscendo dai confini che aveva dimostrato di padroneggiare e allungando il getto della sua ambizione.
Noi racconta la storia di una giovane donna, Adelaide, che, tornata nella casa delle vacanze della sua infanzia, con il marito e i suoi due bambini, si trova a fronteggiare una circostanza spaventosa: delle persone li prendono in ostaggio e li minacciano, persone che sono le loro copie, un po’ più rozze, feroci e selvagge, ma esattamente come loro… come noi.
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La Belle Epoquè
Dopo il delizioso esordio con Un amore sopra le righe, Nicolas Bedos torna a dirigere (e scrivere) per il cinema e realizza La belle époque, una commedia nostalgica e tanto romantica, interpretata da Daniel Auteuil, Fanny Ardant, Guillaume Canet e Doria Tillier.
La storia è quella di Victor, un uomo all’antica che odia la tecnologia, il digitale, il presente, l’innovazione. Sua moglie, Marianne, non potrebbe essere più diversa: ancora molto affascinante, è curiosa di ogni novità, e questo suo atteggiamento la allontana dal marito. Quando un eccentrico imprenditore propone a Victor di rivivere un giorno del passato, l’uomo non ha dubbi, sceglia di rivivere il giorno in cui ha conosciuto la donna della sua vita: proprio Marianne.
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Il traditore
Marco Bellocchio torna a raccontare la storia dell’Italia, e lo fa presentando in concorso al Festival di Cannes 2019 il film Il Traditore, basato sulla figura di Tommaso Buscetta, l’uomo che ha permesso di sferrare uno dei più duri colpi alla mafia che si ricordi. Il film, costruito sulle forti spalle di Pierfrancesco Favino, presenta un ritratto fedele e non indulgente sugli eventi che si snodano tra gli anni ottanta e i primi 2000, sulla figura di una personalità ambigua e di un paese diviso internamente.
Ha inizio nei primi anni ’80 il racconto, nel bel mezzo di una vera e propria guerra tra i boss della mafia siciliana. Tommaso Buscetta (Pierfrancesco Favino), conosciuto come il “boss dei due mondi”, fugge per nascondersi in Brasile. Qui viene però arrestato ed estradato in Italia dalla polizia. Buscetta si trova a questo punto davanti ad un scelta, e deciderà di incontrare il giudice Giovanni Falcone e tradire l’eterno voto fatto a Cosa Nostra.
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La Favorita
Approda a Venezia un affresco barocco intrigante, che occhieggia alla pittura del tardo seicento con uno sguardo totalmente personale, moderno e dissacrante. Si tratta del nuovo film di Yorgos Lanthimos: La Favorita.
La storia è ambientata nell’Inghilterra del XVIII secolo, dove la triste Regina Anna decide le sorti del suo popolo protetta dalla sua reggia isolata nel cuore della campagna inglese. La sua corte, popolata di nobili, servi e consiglieri, sembra giocare freddamente con la vita e la morte della povera gente, in maniera distaccata e annoiata, dando più importanza ai banchetti, alle corse di anatre, alle tresche e al tiro a volo, piuttosto che alle inevitabili conseguenze belliche di quel  conflitto sanguinoso con la Francia, che si protrae ormai da lungo tempo.
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C’era una volta a Hollywood
C’è un momento ben preciso in C’era una volta a… Hollywood, dove Quentin Tarantino sembra racchiudere il cuore del suo film. Avviene quando la Sharon Tate interpretata con grande grazia da Margot Robbie, si reca al cinema per guardare The Wrecking Crew, film del 1969 con la stessa Tate tra i protagonisti. Nel buio della sala, osserviamo la copia ammirare l’originale, in un gioco di doppi che ha un che di straniante e ammaliante allo stesso tempo. In questa breve scena il regista fa esplodere, silenziosamente, la differenza tra ciò che è e ciò che appare, la quale connota non solo il film ma l’intera arte cinematografica e che una volta compresa apre una scissione che evidenzia ancor di più il momento di passaggio, storico e cinematografico, che la pellicola va a ritrarre.
Siamo nel 1969, un periodo di grandi cambiamenti ad Hollywood. L’attore Rick Dalton, interpretato da Leonardo DiCaprio, sta attraversando una fase discendente della sua carriera, dopo numerosi ruoli da protagonista tra western e gangster movie. Come lui, la sua fidata controfigura Cliff Booth, interpretato da Brad Pitt, cerca di non cadere nell’anonimato. Circondati da un’industria a loro sempre più estranea, i due si troveranno a fare i conti con novità impreviste, come la nuova vicina di casa di Dalton, l’attrice Sharon Tate.
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The Irishman
È l’evento cinematografico dell’anno, il nuovo film di Martin Scorsese, vecchio maestro della settima arte, che però si rivolge a Netflix, simbolo della modernità del cinema, per realizzare la sua visione: The Irishman è attesissimo, e a buon diritto!
La storia tocca il mondo della mafia italo-americana, ambiente caro allo Scorsese cinematografico, e si concentra sulla vita di Frank Sheeran (a sua volta raccontata nel libro I Heard You Paint Houses scritto da Charles Brandt). Frank è un veterano di guerra, che ha imparato ad uccidere nella campagna in Italia e che riesce ad entrare nelle grazie dei vertici della mafia, diventando “l’uomo che imbianca case”, ovvero il killer deputato a fare pulizia. Efficace, preciso, servizievole, Frank è l’impiegato modello, che esegue gli ordini e non fa domande, un vero soldato.
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Storia di un Matrimonio
Andare a vedere un film di Noah Baumbach presuppone una certa dose di certezze, come con tutti gli autori che mostrano sempre con grande chiarezza quali sono i loro punti di forza e il loro modo di affrontare le storie. Il regista di Brooklyn, presentando Storia di un Matrimonio a Venezia 76, in Concorso, conferma questo assunto, offrendo al pubblico un quadro realistico, attento e prepotentemente emozionante di una storia d’amore che viene fotografata sul suo concludersi.
Nicole e Charlie sono una giovane coppia che dopo anni di matrimonio, un figlio, e progetti comuni importanti (sono regista e attrice principale di una compagnia di teatro di New York), si separano, affrontando così il dolore, ma anche le dinamiche pratiche, i compromessi, le assurdità, che la separazione e il divorzio comportano.
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Joker
È stato proiettato in concorso uno dei film più attesi della 76° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Joker di Todd Phillip, interpretato da un superlativo Joaquin Phoenix, nei panni del noto, quanto ilare, acerrimo nemico di Batman.
Nei film di supereroi, ma anche nei fumetti o nella letteratura, i nemici e i cattivi destano da sempre empatia e fascino, tanto da surclassare spesso le meste figure, che bardandosi con la bandiera del bene e dell’ordine pubblico, si prodigano per combatterli. Joker è di certo uno dei più popolari di questi antieroi e il ritratto che ne costruisce Todd Phillips contribuisce a donargli spessore, umanità e motivazioni. Il suo oscuro affresco metropolitano fa comprendere che il male non è sempre dalla stessa parte e che molte volte i paladini della giustizia combattono contro chi ha invece ragione da vendere. Joker è intriso di tanta disperazione e forse avrebbe anche più diritti rispetto a chi lo combatte e deve mantenere il controllo della legalità.
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Parasite
La recensione di Parasite non può non partire dalla riflessione generale sul lavoro del suo regista, quel Bong Joon-Ho che, dopo aver lavorato in USA, producendo Snowpiercer e Okja, torna nella sua Corea del Sud, per affrontare di nuovo il conflitto di classe. Lo fa con un film dalla precisione geometrica e dall’animo tumultuoso, una storia che nel suo schema perfetto incasella ambizioni, appetiti, brutture, bassezze umane.
La storia ruota intorno al rapporto in parte inconsapevole tra due famiglie. Da una parte, in un seminterrato umido, c’è la famiglia Ki-taek, dall’altro invece, in cima a una collina, nella zona residenziale della città, in una villa luminosa ed elegante, c’è la famiglia Park, che possiede ed ottiene tutto ciò che i soldi possono comprare. Due famiglie a loro modo felici, ma complementari l’una all’altra.
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Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Top 10 2019 della redazione di Cinefilos.it
La redazione di Cinefilos.it si è espressa e, partendo dalle dieci preferenze di ogni redattore, è stata stabilita una classifica che rispecchia per buona parte le scelte, i gusti e le preferenze di redattori. Come per ogni classifica, restano esclusi alcuni titoli importanti, che però sono stati scelti almeno da un redattore. Tra questi ci […]
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Redazione
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tmnotizie · 5 years
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ROMA  -Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani in occasione della Giornata della Legalità, in cui si commemora il XXVII anniversario dalla Strage di Capaci dove persero la vita il giudice Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta,  intende ricordare il coraggio e il sacrificio degli uomini grandi che hanno amato il proprio Paese e sono entrati nella storia nazionale come pochi in precedenza.
Il 23 maggio è diventata ormai una data simbolo nella lotta contro tutte le mafie. Questa giornata ci riporta all’attentato di 27 anni fa in cui Cosa Nostra, in un violento atto terroristico tra i più tragici della storia recente dello Stato italiano, uccise Giovanni Falcone, il più coraggioso “servitore dello Stato”. L’attentato segnò un capitolo dolorosissimo per la storia d’Italia: fu l’inizio della guerra tra Mafia e Stato.
E fu una ferita profondissima per l’Italia, di quelle che lasciano la cicatrice permanente. Lo Stato, bestia trafitta e stordita, seppe però rialzarsi e iniziò subito la sua battaglia contro la Mafia che mai, così palesemente, lo aveva sfidato. “Cominciò l’inizio della fine di Cosa Nostra”. E dopo quasi due mesi, con la Strage di via D’Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta, lo Stato proclamò la sua dichiarazione  di morte a Cosa Nostra: a poche ore dalla morte di Paolo Borsellino, scattò l’art. 41.bis, la legge sul carcere duro.
Dopo l’attentato di Capaci, cambiarono tante cose nel nostro Paese. Cambiò il sentire dell’uomo comune: dal silenzio omertoso che aveva paralizzato intere comunità per lungo tempo, si giunse al risveglio civile, anzi a una nuova coscienza civile. E quella frattura tra cittadini e istituzioni, in cui si era infiltrato il marciume di Cosa Nostra, iniziò a saldarsi. La gente iniziò a interessarsi alla cosa pubblica e fu unita nella condanna e nel disprezzo contro il crimine organizzato. La coscienza antimafia diventò sentire comune in tutto il Paese. Iniziò gradualmente la riabilitazione morale degli italiani.
Da allora sono passati 27 anni. E’ inevitabile pensare a quei tragici momenti passati e fare un confronto con il presente, per capire quanta strada abbiamo percorso e quanta ancora ne dobbiamo fare.
IL CNDDU, alla vigilia di una ricorrenza così sentita dai cittadini italiani, intende fare una riflessione e condividerla soprattutto con i docenti, per cercare di capire, tutti insieme, quali possano essere oggi le strade ancora da percorrere  per poter affermare di essere veramente liberi dalla criminalità organizzata. Intende, inoltre, capire quale possa essere l’antidoto alle Mafie. Come sempre, ribadiamo il ruolo fondamentale che ricopre la memoria storica, ovvero il ricordo vivo di ciò che è stato, e la conseguente condivisione di una storia comune da consegnare alle nuove generazioni in tutta la sua orribile e assordante verità.
E’ fondamentale e doveroso recuperare, in tal senso, la straordinaria  forza della parola per poter abbattere i muri del silenzio che, purtroppo, ancora ci circondano. Questa è l’unica strada percorribile. Perché è la strada che ci hanno indicato i grandi uomini, i nostri eroi. Ed è la sola strada che ci permette di sentire nella parte più profonda della nostra coscienza quell’eredità morale, che non è morta né sull’asfalto dell’A29, né sull’asfalto di via d’Amelio.
“Il CNDDU -scrive la  prof.ssa Rosa Manco– intende riaffermare, con animo commosso, che il 23 maggio è un importante giorno di mobilitazione democratica per rivendicare verità e giustizia per tutte le vittime delle mafie. Per questo si rivolge soprattutto ai docenti della scuola italiana di ogni ordine e grado i quali hanno un compito importantissimo che è quello di educare i giovani al rispetto delle regole sociali e delle leggi. Noi tutti, e lo affermiamo con grande orgoglio, siamo per i nostri giovani i fari della legalità.
Cerchiamo, quindi, di coinvolgere costantemente le istituzioni scolastiche per realizzare incontri, seminari e interventi che possano far nascere negli studenti  ideali di giustizia e legalità. La Giornata della Legalità, è una ricorrenza singolare in cui il nostro Paese sceglie di parlare soprattutto a loro, ai giovani”.
E’ dal 2002, in occasione del decennale della Strage di Capaci, che il Ministero della Pubblica Istruzione, dell’Università e della Ricerca, in collaborazione con la Fondazione Falcone, si rivolge alle scuole di tutta Italia per realizzare insieme iniziative di educazione alla legalità. Anche quest’anno, infatti, saranno circa 70.000 gli studenti che parteciperanno alla poderosa manifestazione  #PalermoChiamaItalia per dire No alle mafie.
Tantissimi studenti riempiranno  l’Aula Bunker dell’Ucciardone, luogo simbolo del Maxiprocesso a Cosa Nostra, prima di recarsi sotto l’Albero di Falcone, per il Silenzio, alle 17:58, l’ora della Strage di Capaci. Infine, la mattina del 23 maggio arriverà a Palermo la Nave della Legalità, che salperà il giorno prima da Civitavecchia.
Il CNDDU sarà presente con il cuore a Palermo e in ogni singola città che commemorerà Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E sarà vicino a tutti i 70.000 giovani che riempiranno le strade della città siciliana per dire No alle mafie, gli stessi giovani che combattono ogni giorno, armati di zaini, libri e guidati dai loro fari della legalità, per costruire una società migliore.
“Gli insegnanti ci permettono di far camminare le idee di Giovanni sulle gambe di tanti giovani”, così afferma Maria Falcone. E noi ci crediamo fermamente, e aspettiamo con animo commosso il 23 maggio per veder camminare  le idee di Giovanni sulle gambe dei nostri giovani.
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camjlla2punto0 · 7 years
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paolo borsellino
19 gennaio 1940, palermo. 19 luglio 1992, palermo.
magistrato e giudice inquirente
borsellino si iscrive presso la facoltà di Giurisprudenza di Palermo dove consegue la laurea con il massimo dei voti. pochi giorni dopo il padre muore e oltre alla responsabilità della famiglia, il ragazzo si impegna a gestire la farmacia di famiglia in attesa della laurea in farmacia della sorella. continuando comunque a studiare, e nel 63 supera il concorso di magistratura. nei seguenti 12 anni lavora nel tribunale civile di enna, e nella pretura di monreale. E’ il 1975 quando Paolo Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo; a luglio entra all'Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. 5 anni più tardi avviene il primo arresto di sei mafiosi e l’uccisione del collega e amico Basile, e da li la sua vita cambia: il rapporto della famiglia muterà e sarà sempre scortato ovunque  Viene costituito un pool antimafia che comprende quattro magistrati. Falcone, Borsellino e Barrile lavorano uno a fianco all'altro, sotto la guida di Rocco Chinnici. in cui il proprio borsellino cominciò la diretta conversazione con giovani e i genitori di essi per riuscire a sopprimere la cultura mafiosa. 4 agosto 83 chinnici muore a causa di un autobomba, e presto viene a sostituirlo il giudice caponnetto. finalmente il pool arriva ai primi risultati in cui scovano un boss e un altro si pente. ed è per questo che una lunga serie di magistrati e giudici vengono a mancare, quindi falcone e borsellino vengono spostati sull’isola di assinara dove si preparano al maxi processo contro “cosa nostra”, un’organizzazione mafiosa e qui borsellino si fa trasferire al tribunale di marsala dove vivrà in un appartamento nella caserma dei carabinieri per maggiore protezione. caponnetto deve dimettersi per motivi di salute e di conseguenza pare che il pool rischi di sciogliersi, allora borsellino entra in una lotta politica dove rischia di prendere un provvedimento disciplinare e la gente che lo sosteneva comincia a diffidare. solo il presidente della repubblica cossiga sta dalla sua parte e fa partire delle indagini anche contro alcuni politici. in seguito borsellino viene riabilitato e torna a marsala in compagnia di nuovi magistrati e cominciano a indagare in presunti collegamenti fra mafia e politica. e gli attentati a borsellino diventano giornalieri. nel 91 ottiene il trasferimento a palermo dove gli vengono tolte le indagini sulla mafia siciliana e viene incaricato su quella di trapani e agrigento. nel maggio del 92 avviene la “strage di Capaci”: Giovanni Falcone viene ucciso insieme alla moglie. gli viene offerto il posto di falcone, ma rifiuta e continua il suo lavoro a palermo, mentre cosa nostra prende sempre più piede. il 19 luglio del 92 borsellino va a villagrazia per rilassarsi e accompagnando la madre dal medico muore dopo l’esplosione di un autobomba. muoiono anche tutti gli uomini della sua scorta
Le caratteristiche della caparbietà, dell'allegria e della passione per il suo lavoro fanno di Borsellino una persona speciale, un esempio, capace di trasmettere dei valori positivi per le generazioni future.
giovanni falcone
18 maggio 1939,palermo. 23 maggio 92 palermo
falcone breve esperienza presso l'Accademia navale di Livorno. Decide di tornare nella città Natale per iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza e consegue la laurea nel 1961. dopo il 64 si trasferisce come procuratore a trapani dove si avvicinava al settore penale.79 torna a palermo lavorando nell’ufficio istruzione processi penali. 80 gli viene affidato (da chinnici) un caso che comprende anche la criminalità statunitense e decide che occorre avviare indagini patrimoniali e bancarie. 84 con l’interrogatorio di Tommaso Buscetta un pentito vengono a conoscenza di nuove informazioni sulla mafia, e soprattutto sulla struttura di Cosa Nostra. Viene trasferito presso il carcere di asinara. 87 maxiprocesso contro cosa nostra. 88 chiede di essere trasferito in un altro ufficio, e viene accusato da meli (successore di caponnetto) per aver favorito un sospettato e quindi scioglie il pool (Borsellino ebbe a ricordare: "La protervia del consigliere istruttore Meli l'intervento nefasto della Corte di cassazione cominciato allora e continuato fino a oggi, non impedirono a Falcone di continuare a lavorare con impegno".). 88 collabora con un procuratore statunitense e scovano 2 famiglie che contrabbandavano eroina. 89  "Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi". Seguito dal periodo detto del “corvo” per le lettere anonime arrivategli. 90 arresta altri 14 trafficanti siciliani e colombiani, in cui un pentito gli rivelò di aver scaricato in un porto siciliano 596 kg di cocaina (88). 90 viene candidato come giudice nelle liste “movimento per la giustizia” e “proposta 88”, con purtroppo esito negativo. Ma accetta di dirigere gli affari penali del ministero. 23 maggio 92 quando alle 17 e 56, all'altezza del paese siciliano di Capaci, cinquecento chili di tritolo fanno saltare in aria l'auto su cui viaggia il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta
ha lottato in prima persona con tutte le sue forze per tutelare la propria autonomia di giudice in trincea contro la mafia, e oggi è considerato a tutti gli effetti un simbolo positivo, una storia da non dimenticare.
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giancarlonicoli · 3 years
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13 dic 2020 11:00
CHI RIPAGHERA’ MANNINO DI 30 ANNI DI PROCESSI PER MAFIA? L’EX MINISTRO, PROSCIOLTO DEFINITIVAMENTE DALLE ACCUSE SULLA TRATTATIVA STATO-COSA NOSTRA, SPIEGA: "30 ANNI DI PROCESSO SONO GIÀ UNA CONDANNA. UN GRUPPETTO DI MAGISTRATI ATTORNO A CASELLI MI HA TENUTO SU QUELLA CROCE PER 30 ANNI, NONOSTANTE 12 ASSOLUZIONI E 3 SENTENZE DELLA CASSAZIONE - LA MAFIA, QUANDO DEVE COLPIRE UNA PERSONA, O RIESCE PER TEMPO AD UCCIDERLA OPPURE RIESCE A 'MASCARIARLA', A COLPIRLA CON PARADOSSALI INIZIATIVE GIUDIZIARIE” – LE ACCUSE A CIANCIMINO E L’AMMISSIONE DI UN ERRORE...
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Mario Ajello per il Messaggero
Onorevole Mannino, 30 anni di accuse e processi per mafia, 12 assoluzioni e ora la Cassazione ha eliminato ogni ombra sul suo conto. Che cosa prova oltre alla gioia?
«Salvatore Satta, grande giurista e grande scrittore, diceva che il processo di per sé è una condanna. Proprio per questo, per me, questi 30 anni sono stati durissimi. La sofferenza è ancora più grande quando sai che l' accusa è infondata ed è strumento di un' altra ragione».
La mafia voleva farla fuori politicamente perché ha sempre combattuto la mafia?
«Il discorso è complesso e riguarda le vicende politiche italiane della fine degli anni 80 e dentro di queste la storia del maxi-processo contro la mafia del quale è stato autore Giovanni Falcone. Nel mio caso, rispetto a Cosa Nostra, era possibile solo un rapporto di contrasto e di lotta molto decisa.
Nel '79, da vicepresidente del gruppo Dc alla Camera, avevo assunto l' iniziativa della presentazione al Parlamento di una mozione che approvasse le conclusioni della Commissione Anti-mafia presieduta da Cattani. La Commissione Anti-mafia per due legislature non aveva visto le sue conclusioni in aula. Ma gli anni 70 erano stati caratterizzati dalla priorità della lotta al terrorismo».
Poi finalmente anche la mafia diventa una grave emergenza?
«A marzo '80, la Camera ha affrontato questo tema e le conclusioni della Commissione.
Erano state compendiate da un documento approvato dal direttivo del gruppo Dc e elaborato da me. In quel documento vengono avanzati dei punti programmatici per l' azione di contrasto a Cosa Nostra. L' introduzione del reato associativo, il 416 bis; l' introduzione delle misure patrimoniali contro la criminalità mafiosa; la creazione di una struttura di coordinamento delle forze di polizia, praticamente quella che in seguito sarebbe stata la Dia».
Gliel' hanno fatta pagare per questo?
«Lì si apre il conto della mafia contro di me. Perché i mafiosi sono più attenti di altri che non lo sono. Nell' 82, vengono assassinati l' onorevole Pio La Torre e il generale Dalla Chiesa. La Torre aveva presentato un disegno di legge sul 416 bis. Il governo Spadolini, con Rognoni al Viminale, aveva presentato un disegno di legge di riordino delle misure di prevenzione contro la mafia.
Non era stato introdotto il 416 bis. Avvenuti gli omicidi di La Torre e di Dalla Chiesa, il consiglio dei ministri dà incarico a Rognoni, per accelerare l' introduzione del 416 bis, di assumere il disegno di legge di La Torre. Tra parentesi: Cosa Nostra sapeva ciò che altri non sapevano. Ma continuo: nell' 82, c' è il congresso nazionale della Dc. E vi partecipa anche la corrente siciliana di Ciancimino».
Sta dicendo che la mafia e Ciancimino hanno deciso di farla fuori accusandola di mafiosità?
«Aspetti. Nell' 83, si svolge il congresso regionale della Dc.
Al quale partecipano i delegati della potente corrente di Ciancimino. In quella sede chiedo l' estromissione dalla Dc del gruppo di Ciancimino. E per il fatto che in quel tempo la mia era la posizione più autorevole nel partito, passa quella linea».
Ciancimino escluso dalla Dc organizzò la tremenda vendetta tramite mafiosi pentiti amici suoi?
«Ci sono dichiarazioni in documenti giudiziari da cui risulta che Riina e Provenzano seguivano il congresso Dc».
In tutto ciò il fatto più rilevante non fu il maxiprocesso?
«Fu quello. E determinò l' apertura di una crisi nella Dc. De Mita, segretario nazionale, nominò Sergio Mattarella commissario provinciale della Dc a Palermo, e fino a quel momento Ciancimino era stato segretario comunale del partito. Mentre io vengo nominato da De Mita segretario regionale della Dc. Inizia una nuova fase, che permetterà al nostro partito un recupero di immagine e anche di voti a livello nazionale».
Ma lei viene fatto fuori usando l' arma giudiziaria?
«La mafia, quando deve colpire una persona, o riesce per tempo ad ucciderla oppure riesce - e qui si apre un interrogativo assai inquietante - a mascariarla».
Nota espressione siciliana che significa?
«Colpirlo con paradossali iniziative giudiziarie a carattere giudiziario».
Ce l' ha con il giudice Caselli che la mise nel mirino?
«Un gruppetto di magistrati attorno a Caselli mi ha messo in croce mi ha tenuto su quella croce per 30 anni, nonostante 12 assoluzioni e 3 sentenze della Cassazione».
E ora qualcuno pagherà?
«Tra i miei errori, c' è quello di aver sostenuto con altri deputati Dc una soluzione del problema sollevato dall' esito di un referendum sulla responsabilità civile dei giudici, nei termini di un' attribuzione di un debito a carico dello Stato. E quindi, il magistrato che ha fatto un errore grave, quando lo ha fatto deliberatamente, non è responsabile. Ecco, questo è stato il mio grande sbaglio».
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giancarlonicoli · 5 years
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29 APR 2019 13:33
È POSSIBILE CHE DENTRO CONFINDUSTRIA NESSUNO SI SIA MAI OPPOSTO A MONTANTE? - STASERA LA PUNTATA DI “REPORT” SULL'EX PALADINO DELL’ANTIMAFIA ACCUSATO DI CORRUZIONE, SPIONAGGIO, E INDAGATO PER CONCORSO ESTERNO A COSA NOSTRA - NEL 2008, APPENA ELETTA PRESIDENTE DI CONFINDUSTRIA, EMMA MARCEGAGLIA AFFIDÒ A MONTANTE LA DELEGA PER LA LEGALITÀ CHE GLI REGALÒ I RAPPORTI CON I VERTICI DI MAGISTRATURA, CARABINIERI E SERVIZI SEGRETI - LA RISSA SFIORATA CON IVAN LO BELLO  
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Giorgio Meletti per il “Fatto quotidiano”
Le prime immagini dell' inchiesta di Paolo Mondani (Il codice Montante) dicono tutto. È il 30 maggio 2008 e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nomina Cavaliere del lavoro Antonello Montante, imprenditore rampante poco più che quarantenne. Accanto a lui Benito Benedini, boss della Confindustria milanese oggi imputato per falso in bilancio nel crac del Sole 24 Ore: domani gli azionisti del quotidiano economico voteranno l'azione di responsabilità contro l'ex presidente, l'ex amministratore delegato Donatella Treu e l'ex direttore Roberto Napoletano.
Nella puntata di Report, in onda questa sera su Raitre, Sigfrido Ranucci lancia la nuova inchiesta su uno scandalo tanto grave - per le ramificazioni del sistema di potere illecito attribuito dalla procura di Caltanissetta all'imprenditore - quanto ignorato dai media. Ma soprattutto ignorato dalla Confindustria, che preferisce lasciare Montante nel limbo della sospensione, mentre l'altro siciliano Marco Venturi è stato fatto fuori dall'associazione già quattro anni fa proprio per le sue accuse a Montante. Sulla doppia faccia di Montante l'attuale presidente Vincenzo Boccia è stato serafico: "Ce ne potevamo accorgere noi? Non se n'è accorto nessuno".
Eppure, nota Mondani, "i magistrati che indagano su Montante sospettano che nel suo sterminato archivio sia finito il segreto per eccellenza": le famose intercettazioni telefoniche tra l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino e Napolitano, ufficialmente distrutte nel 2012 per ordine della Corte Costituzionale. Quelle intercettazioni erano nella disponibilità del colonnello dei Carabinieri Giuseppe D' Agata, capo centro della Dia (direzione investigativa antimafia) di Palermo. D'Agata a un certo punto viene portato a lavorare per i servizi segreti dal generale Arturo Esposito, direttore dell' Aisi.
Entrambi sono indagati con Montante, con l'ipotesi che abbiano fornito al sedicente eroe antimafia notizie riservate sull'inchiesta a suo carico. "Il figlio di D'Agata - segnala Report - è assunto a Banca Nuova, la moglie viene piazzata da Montante in un ente regionale".
La vicenda parte da lontano: "Costruttore di biciclette e ammortizzatori, per dieci anni il Cavalier Antonello Montante è stato il paladino dell' antimafia nazionale.
Poi, nel 2015 finisce sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa e a maggio 2018 il Tribunale di Caltanissetta lo arresta per corruzione, spionaggio e accesso abusivo al sistema informatico. Oggi è ai domiciliari nella sua bella villa di Serradifalco". Il 23 aprile scorso la procura di Caltanissetta ha chiesto per lui dieci anni e sei mesi di carcere per corruzione.
Un capitolo inquietante nella storia di Montante riguarda Banca Nuova, la controllata siciliana della Popolare di Vicenza di Gianni Zonin, che appare ormai come vero e proprio strumento dei servizi segreti. Banca Nuova aveva la sua sede a Roma in via Nazionale 230, nello stesso edificio in cui nel 2006 la procura di Milano scopre l'ufficio riservato del Sismi dove il capo di allora Nicolò Pollari "aveva installato lo spione Pio Pompa a preparare dossier su politici, magistrati e giornalisti".
Commenta l' ex direttore generale di Banca Nuova Adriano Cauduro, che sull' argomento ha scritto uno scottante memoriale: "È strano che in una città come Roma, con tutti gli immobili che ci sono, ritorni nuovamente un rapporto di vicinanza tra le proprietà di Banca Nuova e i Servizi Io quello che posso dire è che ho incontrato personalmente Pollari durante uno dei miei giri a Roma in filiale ed era chiaramente, tranquillamente seduto alla scrivania del direttore della filiale". Questo incontro avviene nel 2017, scandisce Cauduro. Dopo la precedente puntata dedicata da Report al caso Montante, nello scorso novembre, Pollari smentì rapporti particolari con la banca, a parte averci avuto il conto corrente come Montante.
Mentre dispiegava la sua rete di rapporti eccellenti, accumulando nel suo poderoso archivio tutto ciò che poteva servire a ricattare i potenti d'Italia, l'imprenditore di Serradifalco sembrava avere ai suoi ordini la Confindustria. Mondani si chiede: "Ma è possibile che dentro Confindustria nessuno si sia mai opposto a Montante?".
E un anonimo ex dirigente di viale dell'Astronomia gli risponde: "Ci provò Giampaolo Galli (era direttore generale, oggi è deputato Pd, ndr) ma non ci riuscì e fu costretto ad andarsene. Montante era troppo cresciuto con la Marcegaglia, poi lo appoggia anche Squinzi e Boccia lo nomina capo delle Reti di Impresa (quando era già indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr). La Panucci che oggi è direttore generale l'ha sempre difeso".
Nel 2008, appena eletta presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia affida a Montante, al quale è legatissima, la preziosa delega per la legalità che gli propizia i rapporti con i vertici di magistratura, carabinieri e servizi segreti.
Racconta a Report Marco Venturi: "Ci siamo resi conto di quello che è stato l'imbroglio di Confindustria, una stagione che era partita bene, per fare la lotta alla mafia e al racket nel 2006. Però subito si inceppò perché quando si cominciò a parlare di lotta al lavoro nero, lotta agli imprenditori che non pagavano gli stipendi, toglievano il 50 per cento dalle buste paga, lì cominciarono dei freni, cominciò la paura di molti".
Nel 2015 Venturi lascia Confindustria, quando è presidente Squinzi: "Mi fecero capire che mi avrebbero buttato fuori quindi io in quel momento rassegno le dimissioni. Squinzi, io avevo cercato di parlarci ma lui parlava con Montante, eseguiva gli ordini di Montante".
Ivan Lo Bello, un altro ex alleato di Montante nella finta Confindustria antimafia, racconta a Mondani di quando, il 5 marzo del 2015 all'Hotel Majestic di Roma, si incontra con Montante, la sua amica Linda Vancheri (da lui imposta come dirigente di Confindustria nazionale) e l'ex magistrato Antonio Ingroia. Montante è da poco indagato per mafia e Lo Bello si rifiuta di sottoscrivere un documento a suo sostegno. "È finita quasi a botte".
L'anonimo ex dirigente di Confindustria riferisce un dettaglio sconcertante: "Riuscì ad imporre il suo capo della sicurezza personale come capo della sicurezza di tutta Confindustria. Ma pensi che poco prima dei suoi guai giudiziari a Confindustria arrivò uno scatolone pieno di cassette registrate, inviato a Giancarlo Coccia da Montante. Furono messe nel caveau di Confindustria. Sarà stato verso l' agosto del 2017". Chiede Mondani: "E la polizia non sa nulla dello scatolone?".
Risposta: "No". Montante aveva imposto alla Marcegaglia l' assunzione di Diego Di Simone, ex commissario di Polizia della squadra mobile di Palermo, arrestato con lui il 14 maggio dello scorso anno. Il 31 marzo 2016 Di Simone è intercettato mentre comunica festante a un fornitore, Salvatore Calì, la notizia dell' elezione di Vincenzo Boccia che, annotano gli inquirenti, "rappresentava la continuità con la pregressa gestione". "Boccia, quello di Salerno è bellissimo", dice Di Simone, e Calì felice: "Quindi rimaniamo tutti, giusto?". L' unico inconsapevole (apparentemente) è proprio Boccia, come Squinzi prima di lui. È proprio strana la deriva della Confindustria.
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italianaradio · 4 years
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“Gotha” apre a Roma il percorso “MaiDireMafia” di daSud
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/gotha-apre-a-roma-il-percorso-maidiremafia-di-dasud/
“Gotha” apre a Roma il percorso “MaiDireMafia” di daSud
“Gotha” apre a Roma il percorso “MaiDireMafia” di daSud
E’ “Gotha – il legame indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi deviati” ad aprire il ciclo di incontri dell’associazione daSud dal titolo “MaiDireMafia” a Roma. Il libro-inchiesta del giornalista Claudio Cordova sarà presentato il 28 novembre nella capitale presso l’Accademia Popolare dell’Antimafia e dei Diritti a partire dalle 19. Il dibattito verrà moderato dal giornalista Danilo Chirico e, oltre all’autore, prevede gli interventi dei giornalisti Daniele Autieri, de La Repubblica, e Fabrizio Feo del Tg3. Nella sede di via Contardo Ferrini 83, nella zona di Cinecittà, verrà presentata l’inchiesta partecipata di daSud sul potere criminale a Roma, mettendo in agenda appuntamenti e riunioni, ragionando di come i clan calabresi operano sulla Capitale. Il dibattito prenderà le mosse dal lavoro di Cordova, edito da Paper First, la collana di libri del Fatto Quotidiano, che, dopo poco più di un mese dall’uscita, è già alla terza edizione. “Gotha” affonda le proprie radici nella storia della ‘ndrangheta, svelando e analizzando i legami con la massoneria, gli ambienti eversivi e il mondo delle Istituzioni. Attraverso un percorso che nasce dagli anni ’60 e che arriva all’attualità, il volume indaga sul lato più oscuro della criminalità organizzata, con l’obiettivo di scrostare l’immagine – tuttora presente, soprattutto fuori dalla Calabria – di una ‘ndrangheta agro-pastorale, fatta di riti ancestrali e folklore. Dalla lettura del libro emergono amicizie, relazioni e collegamenti di livello altissimo da parte di alcune tra le famiglie più potenti della ‘ndrangheta. Un sistema di potere radicato e quindi capace non solo di sopravvivere e rafforzarsi nel tempo, ma anche in grado di rigenerarsi, di mutare, nonostante le sanguinose guerre tra clan, le uccisioni, gli arresti. Perché non sono solo gli uomini a rappresentare la forza della ‘ndrangheta, ma, soprattutto, i legami con il mondo istituzionale e i segreti da tutelare. “E’ la massoneria il ponte per raggiungere quella “zona grigia” in cui convergono istituzioni, imprenditoria e criminalità organizzata. E’ soprattutto con i “pezzi” dello Stato, con gli infedeli appartenenti alle istituzioni, che la ‘ndrangheta assume un nuovo livello organizzativo” scrive nella sua prefazione il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho. Attraverso una mole molto ampia di fonti (alcune delle quali inedite), il libro dimostra come non solo la ‘ndrangheta non sia da decenni una organizzazione mafiosa di serie B, soprattutto se paragonata a Cosa Nostra, ma, anzi, racconta i legami fortissimi con la mafia siciliana. La ‘ndrangheta entra prepotentemente (anche se con la capacità di restare sotto traccia) in alcune delle storie più oscure d’Italia: dal tentato Golpe Borghese, alla strategia della tensione, passando per il rapimento di Aldo Moro, fino ad arrivare alla P2, ai traffici di rifiuti tossici e radioattivi e agli attentati contro le istituzioni negli anni ’90. Una ‘ndrangheta che si infiltra ovunque: nella politica, nell’economia, nel sociale, nella chiesa e negli ambienti para-istituzionali, come massoneria e servizi segreti deviati.
E’ “Gotha – il legame indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi deviati” ad aprire il ciclo di incontri dell’associazione daSud dal titolo “MaiDireMafia” a Roma. Il libro-inchiesta del giornalista Claudio Cordova sarà presentato il 28 novembre nella capitale presso l’Accademia Popolare dell’Antimafia e dei Diritti a partire dalle 19. Il dibattito verrà moderato dal giornalista Danilo Chirico e, oltre all’autore, prevede gli interventi dei giornalisti Daniele Autieri, de La Repubblica, e Fabrizio Feo del Tg3. Nella sede di via Contardo Ferrini 83, nella zona di Cinecittà, verrà presentata l’inchiesta partecipata di daSud sul potere criminale a Roma, mettendo in agenda appuntamenti e riunioni, ragionando di come i clan calabresi operano sulla Capitale. Il dibattito prenderà le mosse dal lavoro di Cordova, edito da Paper First, la collana di libri del Fatto Quotidiano, che, dopo poco più di un mese dall’uscita, è già alla terza edizione. “Gotha” affonda le proprie radici nella storia della ‘ndrangheta, svelando e analizzando i legami con la massoneria, gli ambienti eversivi e il mondo delle Istituzioni. Attraverso un percorso che nasce dagli anni ’60 e che arriva all’attualità, il volume indaga sul lato più oscuro della criminalità organizzata, con l’obiettivo di scrostare l’immagine – tuttora presente, soprattutto fuori dalla Calabria – di una ‘ndrangheta agro-pastorale, fatta di riti ancestrali e folklore. Dalla lettura del libro emergono amicizie, relazioni e collegamenti di livello altissimo da parte di alcune tra le famiglie più potenti della ‘ndrangheta. Un sistema di potere radicato e quindi capace non solo di sopravvivere e rafforzarsi nel tempo, ma anche in grado di rigenerarsi, di mutare, nonostante le sanguinose guerre tra clan, le uccisioni, gli arresti. Perché non sono solo gli uomini a rappresentare la forza della ‘ndrangheta, ma, soprattutto, i legami con il mondo istituzionale e i segreti da tutelare. “E’ la massoneria il ponte per raggiungere quella “zona grigia” in cui convergono istituzioni, imprenditoria e criminalità organizzata. E’ soprattutto con i “pezzi” dello Stato, con gli infedeli appartenenti alle istituzioni, che la ‘ndrangheta assume un nuovo livello organizzativo” scrive nella sua prefazione il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho. Attraverso una mole molto ampia di fonti (alcune delle quali inedite), il libro dimostra come non solo la ‘ndrangheta non sia da decenni una organizzazione mafiosa di serie B, soprattutto se paragonata a Cosa Nostra, ma, anzi, racconta i legami fortissimi con la mafia siciliana. La ‘ndrangheta entra prepotentemente (anche se con la capacità di restare sotto traccia) in alcune delle storie più oscure d’Italia: dal tentato Golpe Borghese, alla strategia della tensione, passando per il rapimento di Aldo Moro, fino ad arrivare alla P2, ai traffici di rifiuti tossici e radioattivi e agli attentati contro le istituzioni negli anni ’90. Una ‘ndrangheta che si infiltra ovunque: nella politica, nell’economia, nel sociale, nella chiesa e negli ambienti para-istituzionali, come massoneria e servizi segreti deviati.
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italianaradio · 5 years
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GOTHA E’ uscito il libro-inchiesta di Claudio Cordova su ‘ndrangheta, massoneria e servizi segreti. Il 30 la presentazione a Siderno
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GOTHA E’ uscito il libro-inchiesta di Claudio Cordova su ‘ndrangheta, massoneria e servizi segreti. Il 30 la presentazione a Siderno
GOTHA E’ uscito il libro-inchiesta di Claudio Cordova su ‘ndrangheta, massoneria e servizi segreti. Il 30 la presentazione a Siderno
GOTHA E’ uscito il libro-inchiesta di Claudio Cordova su ‘ndrangheta, massoneria e servizi segreti. Il 30 la presentazione a Siderno Lente Locale
E’ da oggi in libreria l’inchiesta di Claudio Cordova “Gotha – il legame indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi deviati”. Il volume è edito da Paper First, la collana di libri del Fatto Quotidiano e si avvale della prestigiosa prefazione del procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho.
“Gotha” affonda le proprie radici nella storia della ‘ndrangheta, svelando e analizzando i legami con la massoneria, gli ambienti eversivi e il mondo delle Istituzioni. Attraverso un percorso che nasce dagli anni ’60 e che arriva all’attualità, il volume indaga sul lato più oscuro della criminalità organizzata, con l’obiettivo di scrostare l’immagine – tuttora presente, soprattutto fuori dalla Calabria – di una ‘ndrangheta agro-pastorale, fatta di riti ancestrali e folklore.
Dalla lettura del libro emergono amicizie, relazioni e collegamenti di livello altissimo da parte di alcune tra le famiglie più potenti della ‘ndrangheta.  Un sistema di potere radicato e quindi capace non solo di sopravvivere e rafforzarsi nel tempo, ma anche in grado di rigenerarsi, di mutare, nonostante le sanguinose guerre tra clan, le uccisioni, gli arresti. Perché non sono solo gli uomini a rappresentare la forza della ‘ndrangheta, ma, soprattutto, i legami con il mondo istituzionale e i segreti da tutelare. 
Attraverso una mole molto ampia di fonti (alcune delle quali inedite), il libro dimostra come non solo la ‘ndrangheta non sia da decenni una organizzazione mafiosa di serie B, soprattutto se paragonata a Cosa Nostra, ma, anzi, racconta i legami fortissimi con la mafia siciliana. La ‘ndrangheta entra prepotentemente (anche se con la capacità di restare sotto traccia) in alcune delle storie più oscure d’Italia: dal tentato Golpe Borghese, alla strategia della tensione, passando per il rapimento di Aldo Moro, fino ad arrivare alla P2, ai traffici di rifiuti tossici e radioattivi e agli attentati contro le istituzioni negli anni ’90.
Una ‘ndrangheta che si infiltra ovunque: nella politica, nell’economia, nel sociale, nella chiesa e negli ambienti para-istituzionali, come massoneria e servizi segreti deviati.
“Gotha” verrà presentato a Siderno mercoledì 30 ottobre alle 18.30 nell’evento che sta organizzando lo spazio culturale “MAG. La ladra di libri”.
GOTHA E’ uscito il libro-inchiesta di Claudio Cordova su ‘ndrangheta, massoneria e servizi segreti. Il 30 la presentazione a Siderno Lente Locale
GOTHA E’ uscito il libro-inchiesta di Claudio Cordova su ‘ndrangheta, massoneria e servizi segreti. Il 30 la presentazione a Siderno Lente Locale
E’ da oggi in libreria l’inchiesta di Claudio Cordova “Gotha – il legame indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi deviati”. Il volume è edito da Paper First, la collana di libri del Fatto Quotidiano e si avvale della prestigiosa prefazione del procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho. “Gotha” affonda le proprie radici nella storia […]
GOTHA E’ uscito il libro-inchiesta di Claudio Cordova su ‘ndrangheta, massoneria e servizi segreti. Il 30 la presentazione a Siderno Lente Locale
Gianluca Albanese
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