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#ero sotto anestesia
spettriedemoni · 8 months
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Dalla dentista
Oggi mi sono addormentato sulla poltrona della dentista.
Nonostante trapano e bocca aperta mi sono addormentato. Non ci si crede.
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risingvibrations · 1 year
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L' Importanza dell' Equilibrio tra gli Emisferi Celebrali.
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L' Importanza dell' Equilibrio tra gli Emisferi Celebrali. Periodicamente mi capita di ricadere nell' onicofagia e questo disturbo che mi perseguita ormai da 42 anni, provoca in me un profondo disagio e abbassamento della mia autostima. Cerco di lavorare assiduamente su questo disturbo attraverso meditazioni, allineamento ed equilibrio dei chakra, auto-trattamenti reiki, auto-trattamenti di guarigione sciamanica, ecc......... ma mi rendo conto che la "guarigione" legata all' onicofagia dura qualche mese e poi si ripresenta. La scorsa notte rassegnata e sconsolata, mi sono coricata domandando all' Universo perche' mi stia capitando questo disturbo ricorrente, perche' questo disturbo (l'onicofagia) si ripresenta con cadenze ben precise. Ho rivolto all' Universo il chiaro desiderio di voler smettere di essere sopraffatta dall' onicofagia, non la voglio piu' e non capisco nemmeno da dove derivi! Mi sono addormentata e mi sono ritrovata in un luogo con presenza di luce bianca, ero nell' appartamento in cui ho vissuto da piccola, mi sono guardata attorno e c'ero solamente io. Mi sono avvicinata alla porta della sala e li c'era mia madre con i suoi lunghi capelli a boccoli neri che, seduta sul divano fumava e piangendo ascoltava le canzoni di Julio Iglesias; nella mano destra teneva la sigaretta e la mano sinitra era destinata all' atto di mangiarsi le unghie, irrequieta, nervosa, frustrata, insoddisfatta. Sono rimasta li sulla porta della sala triste per cio' a cui avevo assistito e in quell' istante mi sono immediatamente trovata in un ambiente diverso; ero in un ospedale seduta su una sedia (sembrava una sedia da dentista), difronte a me vedevo solamente una parete bianca e due uomini alle mie spalle che parlavano. I due medici si confrontavano e il medico dientro la mia spalla sinistra diceva all'altro : come vogliamo procedere? Il secondo medico dietro alla mia spalla destra ha ribattuto dopo qualche istante di silenzio : il problema e' qui, dobbiamo operare! Ho percepito qualcosa che in modo delicato mi rasava la testa sul lato destro. Il medico dietro la mia spalla destra si e' posto di fronte a me e mi ha detto : dobbiamo operarti la testa, il problema e' qui! Ha preso in mano uno specchio e mi ha mostrato il mio cranio rasato (solo sul lato destro); appena sotto la pelle era visibile una protuberanza che aveva una forma rettangolare e sopra di essa era presente un' altra forma (sembrava una pastiglia-capsula). Sconvolta da quella protuberanza senza pensarci troppo a grande voce ho risposto : operatemi subito, rimuovetela immediatamente! Ma sentiro' dolore? Il medico dietro alla mia spalla sinistra ha detto a voce alta : No tranquilla, ti faremo un anestesia che addormentera' tutta la scatola cranica e non sentirai assolutamente nulla!
Mi sono svegliata alla mattina e istintivamente ho iniziato a fare ricerche : anatomia del cervello, composizione del cervello, composizione degli emisferi celebrali, funzione degli emisferi celebrali, insomma ho cercato e ricercato finche' non ho appreso. Ho capito dalle mie ricerche che e' molto importante portare equilibrio tra gli emisferi celebrali, molti disturbi che si presentano nell' individuo spesso sono causati proprio dall' assenza di equilibrio tra l' emisfero sinistro e l' emisfero destro. Ho appreso personalmente che se l' emisfero sinistro e' attivo ma l' emisfero destro no (mancanza di equilibrio), compaiono sintomi quali : depressione, insoddisfazione, frustrazione, apatia, mancanza di iniziativa, onicofagia, stanchezza costante, mancanza di motivazione e molto altro. Associavo questi sintomi al cambio di stagione, forse alla noia, ma poi ho iniziato a lavorare con esercizi che mi aiutassero a portare in sintonia ed equilibrio i miei emisferi celebrali, cosi mi sono resa conto in modo immediato che questi sintomi venivano immediatamente sostituiti con nuova motivazione, nuova creativita' , nuovo entusiasmo, insomma ho sentito come una finestra che si apriva su un paesaggio verde e pieno di fiori! Da cio' che e' stata la mia esperienza personale, e' molto importante imparare ad ascoltare e connettersi attivamente al proprio corpo e ai suoi meccanismi di difesa. Ho intrapreso cosi anche questo lavoro su me stessa, tenere equilibrati gli emisferi celebrali perche' e' grazie ad esso se riusciamo a dar vita alla vera essenza di noi stessi, a quella parte pura e autentica che risiede in noi! Vi allego qui sotto la meditazione / esercizio che utilizzo io per mantenere in equilibrio gli emisferi celebrali : https://youtu.be/YLu8dnCJQiA Sentitevi liberi di fornirmi spunti per migliorare ed apprendere maggiormente su questo tema molto importante per me, importante per la mia crescita personale! Grazie a tutti i miei lettori!
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theladybike · 1 year
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Diario di un crociato in ricostruzione: seconda puntata
Vuoi sapere cosa succede esattamente quando si fa la ricostruzione del crociato? Dall'anestesia al ritorno a casa, l'intervento passo dopo passo
Devo dire che la mia più grande preoccupazione, giusto prima di andare sotto i ferri, era l’anestesia spinale: ho partorito due figli senza anestesia, non mi piacciono le punture, soprattutto dopo che tanti anni fa (ero adolescente) mi han operato ad un’ernia al disco: operazione di cui – anestesia inclusa – ho un pessimo ricordo. Ma questa volta devo dire, non ho sentito (quasi) nulla: e…
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sciatu · 5 years
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Piccoli Fiori e Serlone
This Nouvelle is dedicated to Kimmie66 one of my oldest follower.
Si svegliò d’improvviso con la paura nel cuore. Si guardò intorno e vide solo le tre pareti della sua gabbia e quella in rete metallica che dava sul corridoio su cui si affacciavano tutte le gabbie del canile e dove c’era la porta anch’essa in rete metallica. Testa Chiara non c’era. Lei era buona, gli grattava sempre la schiena dove Lupo gli aveva quasi staccato la carne. Guardò la porta sdraiato in un angolo della gabbia, in un punto dove il sole non arrivava e li si sentiva sicuro. Mosse il naso a destra e sinistra cercando di sentire se c’era qualche odore noto ma non percepì niente. Sentì dei rumori e si mise seduto aspettando. Apparve Occhi Grandi, con quegli occhi larghi e piatti e con il suo profumo di umido. “Serlone, vieni – gli disse agitando qualcosa che sapeva di secco – guarda…. C’è un biscotto, prendilo…” Lui non si mosse. Si fidava solo di Testa Chiara. Lei lo aveva preso “nell’altro posto”, dove c’erano Lupo, il Grigio e il Padrone, e lo aveva curato, parlandogli, e imboccandolo perché non aveva più forza e con le ferite dei morsi che si erano infettate, non riusciva neanche a stare in piedi. Occhi Grandi alla fine capi che lui non gli avrebbe dato alcuna confidenza e sospirando se ne andò. Nell’aria smossa da Occhi Grandi sentì l’odore degli altri cani e la cosa lo riempì di rabbia perché odiava tutti i suoi simili; non poteva farci niente, era stato addestrato per questo. Ma ora non voleva combattere, gli mancava Testa Chiara, voleva le sue carezze e le sue coccole. Si sdraio di nuovo, chiudendo gli occhi ed aspettando.
Si sveglio d’improvviso con la paura nel cuore. Si guardò intorno vedendo solo le pareti della sua camera da letto e la porta che dava sul corridoio su cui si affacciavano tutte le altre porte della sua piccola casa. Si guardò intorno fermandosi ad osservare la cornice d’argento dove c’era la foto di quando si era sposata. Aveva ritagliato la foto di suo marito e dopo averla strappata in piccoli pezzi li aveva buttati nel cesso. Era per questo che odiava tutti i suoi simili: perché erano pronti a tradire. Tutti. Si alzò lentamente perché la cicatrice nel petto le dava fastidio. Andò in bagno e si sciacquò la faccia, guardandosi allo specchio. Si vedeva vecchia, con i capelli dove si notava la ricrescita e le borse sotto gli occhi. Vide anche un principio di quelle macchie che vedeva sulla mani di sua madre quando veniva a trovarla in ospedale. Doveva uscire, non poteva restare li. Fece tutto di fretta, come quando doveva andare al lavoro, si lavò, si vestì ed usci prendendo la macchina. Guidò per mezzora senza una meta, poi uscì dalla nazionale che portava da Messina a Catania ed entrò in una strada secondaria che saliva verso l’alto, in collina, voleva fermarsi in un punto panoramico e osservare lo stretto come quando, finito il liceo, doveva scegliere cosa fare. Voleva tenersi occupata, per non pensare a quello che le faceva paura e schifo, per dimenticare quello che sapeva di non poter dimenticare. Mentre andava vide sul bordo di cemento a lato della strada una scritta “Solo chi ama sopravvive” Sorrise scettica. Anche lei aveva dato una grande importanza all’amore, tanto che tutta la sua vita, con il matrimonio in età giovanissima ne era sta influenzata e ora distrutta. “Basta parlare d’ amore e altre cazzate del genere, se per sopravvivere bisogna amare allora io mi considero già morta” Si disse sconsolata perché non solo non amava nessuno, ma odiava ingiustamente anche se stessa per aver vissuto sempre sulla superfice delle cose, tradita dai suoi buoni sentimenti e dalla fiducia nella vita e in chi amava, che per buona parte del suo tempo, erano stati purtroppo la stessa cosa. Continuò sulla strada che invece che restare di fronte al mare entrava verso l’interno costeggiando un vallone. Stava quasi per tornare indietro ma di fronte ad un cancello sul lato della strada, vide una Land Rover gialla ricoperta di fiori rossi. Frenò di colpo. “Marisa! – si disse stupita – solo lei è così pazza da avere una macchina simile” E sorrise pensando alla sua vecchia compagna di classe famosa per il suo amore per la natura e gli animali. Accostò e scese dalla macchina seguendo un sentiero che partiva poco dopo la Land Rover. Arrivò ad una masseria da cui sentiva abbaiare dei cani. Entrò. L’abbaiare si moltiplicò. L’interno della masseria era diviso in tanti box che seguivano il perimetro, ed in ogni box c’erano due o tre cani di grossa taglia. Vide una ragazza con un enorme paio di occhiali stava accarezzando un grosso Bulldog e avvicinandosi le chiese sorridendo. “ciao per caso c’è Marisa? Sono una sua vecchia amica” La ragazza l’osservò attraverso gli occhiali grandi e spessi che le ingrandivano gli occhi “Ah ciao è in ambulatorio, la terza porta sulla destra.” Si diresse verso la porta indicata ed entrò dopo aver bussato velocemente. Entrata vide una donna in camice bianco con i capelli completamente bianchi, malgrado avesse la sua età. Quando entrò la donna con il camice si girò, tralasciando per un minuto un cane che messo su un tavolo ricoperto da una stoffa verde, la guardava tremando. Marisa strinse gli occhi per osservarla e una volta focalizzato chi era, allargando le braccia le andò incontro sorridendo “Questa si che è una bella sorpresa – disse felice e commossa – pensavo di non rivederti più” e mentre la stringeva continuò “ero venuta in ospedale quando ti hanno operata, ma eri sotto anestesia e non mi hai vista – poi si staccò e guardandola negli occhi continuò costernata – ho saputo di tuo marito e di Marta! Mi dispiace! Come hanno potuto fare quello che hanno fatto mentre eri tra la vita e la morte! È incredibile!” “Che vuoi fare- rispose lei – forse pensavano come tutti che sarei morta sotto i ferri, ed hanno incominciato a festeggiare troppo presto!” “È terribile! stavi con lui dalle superiori, siete cresciuti insieme… “ “infatti, forse da troppo tempo – poi volle cambiare discorso – e tu che fai qua?” “Questo era un canile clandestino, quando i carabinieri lo hanno scoperto, hanno trovato decine di cani morti buttati in un fosso qua vicino. Organizzavano incontri tra i cani dove il vincitore uccideva il perdente, c’era un giro di scommesse controllato dalla malavita. Ogni cane  qui dentro ha cicatrici ovunque, nel corpo e nell’anima” “un po' come me” penso lei “Lo hanno affidato alla nostra organizzazione per recuperare i cani ed affidarli a qualcuno. – continuò Marisa - hanno un istinto fortissimo ad uccidere i loro simili e noi cerchiamo si trasformarli in cani normali. Vieni te ne mostro qualcuno, a te i cani sono sempre piaciuti vero?” “si, ma ne mio padre ne mio marito ne volevano uno, in questo mi devo ancora emancipare” “magari te ne puoi prendere qualcuno: un cane non tradisce mai” “Allora è meglio degli uomini” rispose sorridendo e chissà perché gli venne in mente la scritta sul muro. “in questo non c’è dubbio” fece seria Marisa. Girarono tra i box per una diecina di minuti. Appena si avvicinavano alla rete su cui c’era la porta, gli ospiti del box si avvicinavano felici, cercando carezze e sguardi. Ve ne erano di tutti i tipi, da grossi alani a piccoli beagle e tutti avevano fame di affetto come le spiegava Marisa. “I cani più grossi erano addestrati per diventare campioni, i più piccoli servivano per allenarli ad essere feroci e ad uccidere” “Ma è terribile, come hanno potuto fare una cosa del genere” “Gli uomini sai, sono gli animali più spietati” “E’ vero - rispose lei e pensò subito a suo marito – magari me ne prenderò uno piccolo, uno facile da gestire” e pensò subito a un cucciolotto da stringere ed accarezzare quando era triste. Arrivarono in fondo al corridoio dove vi era una gabbia nascosta nell’oscurità; Marisa neanche la considerò tirando dritta come se non esistesse. Lei invece passando vide che dentro c’era qualcosa e si fermò a guardare, mentre Marisa proseguiva continuando a parlare, senza rendersi conto che lei era rimasta indietro. Nel buio in cui era immersa la gabbia vide due occhi marroni che la guardavano.
Aveva sentito Testa Chiara arrivare e aveva alzato la testa sperando che si fermasse, invece lei aveva continuato la sua strada senza far caso a lui. Qualcuno però si fermò e due occhi scuri fissarono i suoi. Lui annusò l’aria e senti un profumo di quei fiori piccoli e bianchi che nascevano quando c’era tanto caldo. Senti anche un altro odore. Era l’odore della carne che si cicatrizzava, lo stesso odore che sentiva lui sul suo corpo dopo ogni lotta, quando le sue ferite dovevano rimarginarsi. Si concentrò sugli occhi che lo guardavano . Erano senza cattiveria e senza paura. Sentì che chi era arrivato con Testa Chiara era simile a lui e l’osservo con maggior curiosità.
Lei allungò la mano come a porgere qualcosa “Ciao piccolo, come stai?” gli disse sorridendo. “No, non lo fare !!” gridò spaventata Marisa tornata di corsa su i suoi passi “Cosa” “Mettere la mano li dentro: Serlone non è cattivo, ma a volte attacca senza motivo e la mano te la potrebbe staccare” “Serlone? ma che nome gli avete dato?” rispose lei incurante, non poteva credere con un cane con gli occhi così buoni potesse essere cattivo “Non ti ricordi, il professore di storia mentre ci raccontava della battaglia di Geraci quando Sir Serlone con trenta cavalieri Normanni attaccò tremila cavalieri arabi e li mise in fuga….” Lei si ricordò il vecchio professore che con un lungo righello in mano mimava la lotta tra Serlone ed i nemici, dicendo che era il più valoroso dei cavalieri del Grande Conte Ruggero ed esaltato dall’ epica storia aggiungeva particolari poco realistici,  fino a che il loro compagno Alfio, in fondo alla classe, non gli gridò “Fozza professuri ci rumpissi i corna a s’arabi docu….” E il professore, arrabbiato per la presa in giro, diede cinque pagine di versione per il giorno dopo. Lo ricordò a Marisa e si misero a ridere “Si è per questo che l’ho chiamato Serlone perché come quel conte normanno lui non ha paura di lottare anche quando nessuno potrebbe credere nella sua vittoria. Lui è un incrocio di Pitt-Bull di taglia piccola e qualche altro cane. Gli hanno rotto i denti davanti perché non ferisse i campioni che allenava. Da ogni allenamento usciva mezzo distrutto ma non si arrendeva mai, anche ferito combatteva sempre fino alla fine, fino a che non lo rimettevano in gabbia più morto che vivo. I carabinieri mi hanno fatto vedere dei filmati strazianti di lui lotta contro due cani enormi, un lupo Cecoslovacco e un mastino napoletano grigio. Ma non si è mai arreso e non è mai stato ucciso: ha sempre lottato senza paura. Questa è stata la sua sfortuna.” “Un po' come me - fece lei triste – anch’io ho tante ferite e ho avuto la sfortuna di sopravvivere a tutte le mie disgrazie. Alle volte un punto è quello che da senso a tutta una frase! Come vedi abbiamo molto in comune.” Marisa non si arrese “Serlone non è il tipo che accetta un padrone qualsiasi – disse con sicurezza - Prova a chiamarlo, non verrà da te. Diffida di tutti: è qualcuno che degli altri ha conosciuto solo il lato peggiore. Chiamalo, se si alzasse e venisse da te, cosa che non credo, allora te lo puoi portare a patto che non lo fai avvicinare da nessun cane: anche senza denti, un cane comune non sopravvivrebbe contro di lui” Apri la porta della gabbia lasciò l’amica sull’ingresso. Lei si abbassò ed allungo la mano “Vieni piccolo, usciamo fuori da questo posto orribile ed andiamocene lontano, dove non ci sono uomini cattivi che ti usano e appena possono ti tradiscono….” Serlone la guardò. Gli arrivò l’odore dolce dei piccoli fiori e l’odore della carne offesa. Gli piaceva la sua voce e penso che doveva essere morbida. I suoi occhi dicevano che doveva essere dolce anche se lui sentiva che vi era dentro una tristezza simile alla sua. Si alzò lentamente. Restò a guardarla odorando l’aria con il suo muso pieno di cicatrici come quello di un vecchio pugile, poi si avvicinò a lei con un passo lento e deciso, da gladiatore. Annuso la sua mano e questa l’accarezzò sulla testa e poi lo grattò dietro all’orecchia. La cosa era piacevole e lui si strusciò contro di lei. Le sue mani ora gli accarezzavano le cicatrici e la cosa gli piacque moltissimo, si strusciò di più sentendo che era morbida come l’aveva pensata. Sarebbe stato volentieri con Piccoli Fiori, gli piaceva, sentiva che non gli avrebbe mai fatto del male. Era diversa dagli altri: aveva sofferto quanto aveva sofferto lui e allora voleva dire che verso tutti aveva una diffidenza e un bisogno che chi era stato sempre felice, non poteva capire. Lei guardò Marisa e sorrise mentre grattava la pancia di Serlone. “Ha scelto” disse stupita Marisa e osservò Serlone non capendo come mai si fosse comportato in quel modo. Andarono nello studio di Marisa con Serlone che la seguiva passo passo, guardandosi intorno curioso ma tornando sempre a cercare i suoi occhi, forse timoroso e preoccupato di quel mondo che non conosceva. Marisa le diede un sacco di croccantini, la coperta su cui il grosso cane si sdraiava per dormire, un pupazzetto verde che doveva essere una rana, due ciotole in acciaio, un collare ed una corda grossa un dito come guinzaglio
“Qui ci sono i suoi documenti, ha fatto tutti i vaccini ma forte com’è, resisterebbe a qualsiasi malattia. Non gli fare avvicinare nessun cane. Sono stati addestrati a non muoversi fino a quando non possono attaccare e quando attaccano lo fanno per uccidere. Non ti illudere quindi se non si muove, sta solo preparandosi a lottare fino alla morte. Ti prego stai attenta, Serlone ha sofferto tantissimo,  se ti ha scelto e se ti segue vuol dire che crede in te: non deluderlo Lei la guardò “io non ho mai tradito nessuno” Disse sottolineando  inutilmente “io”. Così usci con il cagnone e tutta la mercanzia che le avevano dato. Arrivati alla macchina mise tutto nel portabagagli e messa la coperta sul sedile posteriore disse decisa “Sali!” Lui la guardò seduto accanto la portiera aperta “ho detto Sali!” ripeté Ma Serlano non si mosse osservando con un’aria ancor più interrogativa Lei gli prese le zampe davanti e le appoggiò sul sedile posteriore, poi lo spinse da dietro. Serlone capì cosa voleva e con un agile balzo sali di dietro, accomodandosi pacificamente. Lei si mise al volante ed incominciò a dirigersi verso casa con Serlone seduto dietro che la guardava. “Allora – incominciò lei– patti chiari e amicizia lunga: non devi fare la pipì sulle mie rose in giardino, non devi scavare nell’orto, non devi abbaiare di notte, non devi mordere i mobili e soprattutto non devi leccarti le palle quando ci sono ospiti…! Io vi conosco bene a voi maschi, pensate solo a fare i comodi vostri e ve ne fregate della decenza e del rispetto!” Lo disse seccata e seria, tanto che Serlone osservando lo sguardo severo e sentendo il tono di voce perentorio, penso che avesse qualche problema, così saltò sul piccolo sedile davanti dove si accoccolò alla meno peggio; appoggiò il testone sulla coscia di lei e la guardò, come a dire “non ti preoccupare, ci sono io” e poi chiuse gli occhi come a sonnecchiare. Lei lo guardò stupita da quello che aveva fatto ed osservò gli occhi di lui semichiusi per guardarla anche se riposava. “Ho esagerato?” chiese a se stessa. Aveva messo i puntini sugli i ancora prima di scrivere la frase. Forse doveva rilassarsi. Serlone aveva già sofferto, non c’era bisogno di mettergli una museruola anche quando non abbaiava. Forse, se con il marito avesse fatto lo stesso, lui non l’avrebbe tradita. Sentì qualcosa di umido sulla mano. Era Serlone che ad occhi chiusi le leccava la mano che gli grattava la testa. “Va bene -  gli disse -  non faccio la vittima. Lui era uno stronzo e basta. Capitolo chiuso, ora devo pensare solo a me. Hai ragione!” Serlone sbuffò, come per chiudere l’argomento.
Il resto della giornata finì con lei che mostrava a Serlone la piccola casa dove ora viveva. Per fortuna c’era un giardino abbastanza grande da contenere un patio dove si tenevano le grigliate festive ed un grande orto con diversi alberi da frutto. L’orto era il risultato di anni di fatica di suo padre per cui, anche se lei non ne capiva molto e suo padre non c’era più, pagava un vecchio vicino perché mantenesse l’orto com’era sempre stato. Serlone la seguiva dovunque andasse segnando qua e la il territorio. Le piaceva la sua voce, la sua mano che l’accarezzava appena lui si avvicinava. Lui non capiva molto di quello che diceva, ma la sua voce e il suo profumo, insieme alla sua presenza e al suo continuo parlargli, lo facevano stare bene. Poi quel posto era pieno di odori nuovi che lo incuriosivano anche se alla fine, quello che sentiva e seguiva era solo quello di lei, ed era quello che dava senso a tutto, senza quel profumo tutti gli altri non contavano. Dopo mangiato gli mise la sua coperta in cucina, dicendogli che doveva dormire li e dopo che lui si sdraiò sulla coperta lo salutò. Quando lei andò in camera da letto, e chiuse la porta, lui si alzò e si sdraiò sul divano in salotto. In fondo era più comodo ed era pieno del profumo di lei. Appoggiò la testa contro il bracciolo che era morbido e caldo come la coscia di lei e, con la pancia all’aria si disse che Piccoli Fiori aveva proprio una bella cuccia e che li sarebbe stato bene.
Lei si svegliò al solito verso le quattro. Questa volta non perché stava sognando di morire mentre suo marito la guardava seccato con indifferenza. Si era svegliata per abitudine. Si mise a pensare a quello che era successo, a Marisa, al canile, alla lotta tra cani e a Serlone. Forse aveva sbagliato a prenderlo. Al massimo doveva prendere un cucciolotto, qualcuno di tenero che guardasse il mondo tremando dalle sue braccia. Non quel cagnone che era un killer e che si muoveva come un lottatore. Forse doveva riportarlo indietro. Si ricordò che aveva detto che lei non aveva mai tradito, e si vergognò  della sua presunzione e arroganza. Marisa forse avrebbe capito se lo avesse riportato, in fondo lo aveva lasciato andare con un po' di dispiacere. Si aveva sbagliato ancora una volta, non era adatto a lei, era fuori misura per un’imbranata come lei. Era un altro sbaglio che aveva fatto, la prova che la sua vita era un insieme caotico di sbagli. Incominciando da suo marito, passando per il male che aveva avuto e che aveva sottovalutato per arrivare a Serlone. Si mise a piangere, compatendosi e vergognandosi perché si comportava in quel modo debole e irrazionale da bambina viziata, ma si sentiva sola e doveva affrontare tutto il mondo che c’era la fuori e la sofferenza che gli dava. Come poteva farcela…..? Sentiva le lacrime scendere e bagnare la federa del cuscino ed i suoi singhiozzi volare nel buio della stanza. Aveva sempre sbagliato tutto, non riusciva a capire come girava il mondo; aveva pensato di ribellarsi al passato adottando Serlone. Ma cosa voleva fare? Sostituire un marito con un cane? Sentirsi indipendente perché aveva fatto quello che suo padre e suo marito le avevano sempre proibito? Alla fine aveva solo fatto il solito casino con l’aggravante di confermare la sua incapacità di vivere ed essere autonoma e di far del male a qualcuno che non aveva colpe e che era un povero cane. La porta della camera da letto si aprì e apparve il grosso cane. Si avvicinò con la sua andatura dondolante ed i muscoli che nella penombra si gonfiavano ad ogni passo. Arrivato vicino al letto si appoggiò con le zampe davanti sul letto e si alzò mostrandosi. “Serlone che fai?” gli chiese preoccupata. Poi vide che in bocca aveva il suo giocattolino, il pupazzo con la forma di rana. Lui lo appoggiò delicatamente accanto a lei e poi scese dal letto osservandola. Lei guardò il vecchio pupazzo sbavato e mezzo rotto prendendolo con due dita e tenendolo di fronte a lei e a Serlone. “Mi ha sentito piangere e ha pensato che ero triste, così mi ha portato il suo giocattolo per coccolarlo.” si disse. Lo guardò negli occhi.
“Piccoli Fiori non serve essere triste – penso lui – se ti stringi a Coso ti passerà tutto. Quando sono triste io gioco sempre con Coso. Se lo prendi tra i denti e lo butti all’aria vedrai che ti passa tutto….”
“Ho capito – disse lei a voce alta – non piango più. Vieni che ti coccolo” e incominciò a grattargli la testa. Lui si sdraio accanto al letto, dove la mano di lei arrivava a grattargli la pancia e si assopì. “Non lo riporto indietro – si disse lei -  lui ha sempre lottato contro tutti ed io farò come lui. Non mi ingabbierò nella paura. Devo avere coraggio, il suo coraggio e non arrendermi. Posso farcela da sola.” Mentre grattava la testa a Serlone si addormentò senza accorgersene e sognò che si stava preparando alla festa grande del paese, e che era felice. Il mattino dopo fecero colazione e lei decise di portare Serlone sulla spiaggia dove poteva fare i suoi bisogni senza rovinare le zucchine nell’orto. Lo prese e mettendogli la grossa corda al collo, attraverso la strada e si infilò nei vicoli delle case basse dei pescatori che arrivavano fino all’inizio della spiaggia. Una volta in spiaggia, visto che non c’era nessuno liberò Serlone che fino a quel momento le era venuto dietro preoccupato per tutti quegli odori strani che sentiva. Odori forte come la spazzatura sugli angoli della strada che doveva essere raccolta, l’odore intenso del sangue e delle interiora dei pesci lasciati dai pescatori, l’odore di urina di gatti e di cani che non aveva mai sentito. Sulla spiaggia Serlone rimase un po' sconcertato e lo preoccupò il fatto che lei lo liberasse, interrompendo quel continuo contatto che fino ad allora avevano avuto. Incominciò a camminare sentendo gli odori in quella terra morbida in cui le sue zampe affondavano. Poi si accorse che quel posto era enorme, vi era un sacco di spazio a destra e a sinistra e davanti aveva un enorme distesa di qualcosa che aveva un odore strano di acqua. Incominciò a correre senza sapere dove andare, solo perché ora si sentiva libero.
“Guarda Piccoli Fiori, guarda -  abbaiò -  è una gabbia tanto grande che non vedo nemmeno le pareti “ Arrivò in riva al mare ed osservò un’onda arrivare e scomparire in un rigoglio gioioso di schiuma “E’ acqua… , è acqua… – le abbaio – ma non si può bere. Vieni Piccoli Fiori, vieni che corriamo….” Lei lo osservava stupita per la gioia che provava nel correre in quell’enorme spazio. Lei non andava mai in spiaggia per la paura di trovare qualcuno che poteva chiederle del marito. Quella grande distesa la immalinconiva ed impauriva. La faceva sentire troppo sola, abbandonata a se stessa. Per lui era invece un mondo meraviglioso dove sentirsi libero e felice. “Era questa la differenza tra di loro: lui non aveva paura, non aveva paura a sbagliare e soffrire, per lui soffrire era naturale – si disse lei stupita - non era la sofferenza a definire la qualità della sua vita di cui lui vede solo le opportunità che scopriva oppure quanto gli dava un’emozione. Era per questo che si erano scelti, perché ognuno dava all’altro il senso della vita”. Serlone andava avanti e indietro, a volte si fermava a scavare una buca e subito rincominciava a correre abbaiando, oppure entrava in acqua e ne usciva di corsa correndo sulla spiaggia dove ad un certo punto si sdraio grattandosi la schiena, restò fermo a pancia all’aria qualche secondo e poi incominciò a correre di nuovo allontanandosi e tornando a cercarla in un andirivieni senza fine. “Serlone vieni qua” Lui la sentì e le corse incontro, poi vide un grosso ramo ed afferrandolo se lo portò dietro trascinandolo sulla sabbia. “Guarda Piccoli Fiori, guarda com’è grosso, vediamo se me lo prendi, dai prova a prenderlo” Le abbaiava seduto sulla sabbia come una sfinge con il ramo davanti a lui. “Ser, lascialo stare, dai vieni qua…” Lui si irrigidì. Davanti a lui, a meno di un centinaio di metri, apparve un cagnolino, un piccolo bastardino che stupito di vederlo, si fermò anche lui con una zampetta alzata. “Serlone – grido più forte lei - vieni qua , vieni …. Serlone”
Lui non le faceva caso, guardava solo il cagnolino, già immaginando di prenderlo di dietro per il collo, di sbatterlo a destra e sinistra per spezzargli il collo e poi di buttarlo in alto per piombargli addosso appena toccava terra. Lei si mise a correre nella speranza di raggiungerlo prima che lui si avventasse contro il piccolino. “Serlone, Serlone vieni qua, subito…” Ma lui sembrava non sentirla. Attendeva come il Padrone gli aveva insegnato che l’altro cane si avvicinasse abbastanza da non avere più scampo. Dietro al cagnolino apparve un uomo che osservò stupito Serlone pronto a scattare e a lei che correva per prenderlo. “Lo prenda in braccio -  gli gridò lei – prenda il suo cane in braccio se no il mio lo sbrana…” L’uomo sembrava non capire, ma guardando lei che correva concitata, si abbassò e con il braccio prese il cagnolino. “Serlone …. Serloneeee “ Gridava con tutto il poco fiato che aveva, affannata perché era la prima volta che correva negli ultimi quaranta anni e sentiva ancora addosso la debolezza dell’intervento. Le mancò la terra sotto i piedi. Qualcuno aveva scavato un canale e di fronte a lei c’era solo un metro di vuoto dentro a cui cadde a peso morto gridando.
Serlone sentì il suo grido. “Piccoli Fiori…” Pensò istintivamente voltandosi, ma non vedendola, si mise a correre verso la direzione dove l’aveva vista l’ultima volta. “Piccoli Fiori... “ abbaiava inquieto fino a che la vide accucciata in una fossa con un po' di sangue che le usciva dalla fronte che aveva battuto. Entro di corsa nel canale e con le zampe le sali addosso leccandola “Serlone, sto bene sto bene “ diceva lei mentre con un fazzoletto tamponava la fronte e lo stringeva agganciando la corda alla sua pettorina. Lui era felice che fosse li. L’aveva persa un’ attimo e si era preoccupato, ora si faceva stringere da lei leccandole le mani ed il collo. “Dai andiamo, aiutami ad uscire” fece lei alzandosi e guardando preoccupata il bordo del canalone. Lui non ci penso due volte e piantando i piedi incominciò a risalire il canalone tirandosela dietro a forza. Arrivati in cima trovarono davanti il signore con il cagnolino che li osservava stupito “Va tutto bene?” “Si, si - rispose lei sbrigativamente – tenga lontano il suo cucciolo che il mio cane è un killer” L’uomo guardando gli occhi di Serlone che fissavano il suo cagnolino con intenzioni omicida lo allontano da lui e precisò “Non è il mio cane. Me lo ha dato mia figlia per tenerlo una settimana mentre è in ferie. Io non sono pratico. Si è fatta male?” “No, niente di particolare “ “Le posso offrire qualcosa? un caffè così magari si tira su? io ne ho bisogno a vedere la sua corsa mi sono preoccupato” “La ringrazio” fece lei dolorante e indecisa. “Ci dev’essere un bar qui vicino, ci andavo sempre con mia moglie. In effetti volevo passarci per ricordare quando andavo li con lei. Ora purtroppo è mancata ed è la prima volta che torno qui da anni.” Lei lo guardò sott’occhi. Capì che per lui quella spiaggia era quello che era stata per lei la prima volta che Serlone si era messo a correre: un luogo dove sentirsi soli e abbandonati. Ed anche l’invito che lui gli aveva fatto, non era per farsi perdonare una colpa che non aveva, voleva solo darle quanto per lui contava moltissimo, come il ricordo di un giorno felice; aveva fatto come Serlone con il pupazzetto, le aveva dato qualcosa che per lui era importantissimo anche se per lei non aveva alcun valore. Anche lui era come loro. Solo che non aveva ancora capito che nella vita non devi aver paura di soffrire; ogni momento è una lotta e non bisogna arrendersi per la paura di farsi male. Questo aveva capito quando Serlone nella gabbia si era alzato al suo richiamo. Se fosse vissuto nella malinconia e nella paura del fallimento come viveva lei prima di incontrarlo, sarebbe rimasto nascosto nel suo angolo buio. Lui però era un lottatore e aveva capito che se qualcuno può meritare la tua fiducia, non devi aver paura a dargliela anche se questo potrebbe voler dire soffrire. Era questo che le aveva insegnato. “Magari un caffè – disse lei sorridendo - così mi pulisco la ferita. Tenga il suo cane però in braccio, il mio potrebbe fare il birichino” “Non si preoccupi – disse lui sorridendo – sta tremando dalla paura. È una femmina” “Allora forse la può far scendere, perché Serlone attacca solo i maschi. Ma faremo la prova più tardi” Fu lui a sorridere pensando che ci sarebbe stato un “più tardi”, perché in fondo aveva paura a restare solo in quella spiaggia. “Va bene – fece contento - dovrebbe essere da quella parte” Lei lo seguì chiedendogli il nome e lui rispose sorridendo mentre la cagnetta nelle sue braccia seguiva curiosa i movimenti di Serlone. Lei pensò che quell’uomo era un tipo troppo diverso da lei perché venisse fuori qualcosa, ma a veder Serlone per strada avrebbe detto che non sarebbe mai stato il suo cane; forse bisognava vedere e giudicare le persone per quello che avevano dentro, non per quello che sembrano. Aveva fatto così con il suo cagnone, erano stati i suoi occhi a dirgli che era il cane giusto per lei. Ormai il tempo della paura era finito, Serlone le aveva dato la sua forza e lei sentiva che poteva essere ancora felice come a lui quando correva sulla spiaggia. Serlone vide che si muovevano e si mise dietro di loro seguendoli sicuro, legato al guinzaglio con la sua andatura dinoccolata da lottatore, come fa un vero capobranco quando il suo branco si muove.
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uglyshinigami · 6 years
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Un cuore artificiale io vorrei, nessun suono, non questo pianoforte pieno di violini, non questo slancio che nasconde sotto ali così immense, non quei sogni, nessun suono, meccanismo meccanico perfetto, spietato ed infallibile, robottino di ceramica a comando, non provare nulla, ritrovarsi la distanza necessaria perché neppure mi sfiori il sentimento, l’amore straziato dal lirismo, nessun suono, nessun volo verso l’alto alla ricerca di bellezza, non dolcezza, non dolore, non speranza, non la rabbia, non la delicata voglia delle braccia che ti tengono per sempre, nessun suono, non cadere per l’affanno di trovare della luce laggiù in fondo, nessun suono, non questo pianoforte pieno di violini, non questo slancio che nasconde sotto ali così immense, non quei sogni, nessun suono. Un cuore artificiale io vorrei, ferro duro sotto il petto, guerriera che non soffre nella lotta, questa tregua, questa anestesia grandissima, questa corsa in mezzo al sangue senza lacrime, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica. Dai prova a ferirmi, io non sento, non ci sono, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica. Dai prova a ferirmi, colpisci con potenza, fammi fuori, urlami qualcosa di terribile, sbranami, dai sbranami, io non sento, non ci sono, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica.
Ho questo cuore, ho questo cuore difettoso, questo cuore mostruoso, questo cuore spaventato, questo cuore che chiede, questo cuore che cerca l’amore, lui cerca l’amore, lui cerca la vittoria, lui mi vuole presente, lui vuole vincere, lui vuole essere orgoglioso di me, lui mi vuole applaudire, lui mi vuole vedere combattere, lui mi vuole vedere gioire, lui vuole esultare, lui vuole la mia tenerezza, lui vuole essere amato, lui vuole essere protetto, lui è mio figlio. Madre del mio cuore, madre temibilissima, madre fragile, madre che vacilla, madre che sbaglia, madre che soffre, madre cattiva, madre dolce, madre instabile, madre generosa, madre afflitta, madre felice, madre egoista, madre spaventata, madre folle, madre sola, madre feroce, madre buona, madre vanitosa, madre insicura, madre ridicola, madre irresponsabile, madre giocosa, madre potente, madre libera, madre carnefice, madre incosciente, madre bambina, madre coraggiosa, madre dentro le sue stanze, madre che scrive, madre che crede, madre che grida, madre senza una madre, madre di un cuore. 
Questa bambina che ero, e poi all’asilo nei giochi, lontana dalle loro risate, in disparte, contro il muretto, osservavo. Dimmi dov’era allora il mio cuore, come funzionava. Un cuore piccolo incastrato dentro la carne come un giocattolo perso in mezzo alla terra, sepolto. Questa bambina osservante, immobile verso la gioia degli altri, come sentiva la vita, come vedeva. Bambini che si rincorrevano, la loro gioia, l’istinto, rotolarsi per terra, animali, questo vedeva, animali sopra la polvere, i denti lucenti come lame pulite, figli degli ippopotami, figli di un sole cocente. Ricordo le scale, mia madre vicino, ciò che pensavo, sei anni appena, un desiderio soltanto, mai l’abbandono da lei, mai questo strazio del cuore. Indivisibile da quella forma di donna ai miei occhi grandiosa, monumento d’amore, estremo bisogno di quella presenza, nient’altro, nessuno, vuoto incolmabile, vuoto incolmabile, nient’altro, nessuno. Un corridoio con in fondo la luce, lì ho trascorso l’infanzia, come ora, un corridoio con in fondo la luce, lì mi sono nascosta. Un corridoio con in fondo la luce, ancora pensieri, ancora mia madre, ancora vedevo il muretto, io ferma a osservare bambini come ippopotami bruciati dal sole, ancora non comprendevo le grida, la felicità che provavano sbattendosi contro in quei giochi di lotta, ancora rimanevo distante a osservare nessuno. L’infanzia, droga potentissima, stato di grazia, un buco profondo è rimasto quando ti ho perso, un buco profondo in cui mi sono nascosta, corridoio con in fondo la luce, nuovo ventre di donna in cui trattenermi per sempre, laggiù, in mezzo alla terra, sepolta. Ricordo le bambole, il tappeto della mia camera, io che m’improvvisavo un’adulta, la partoriente del mostro di plastica, che la cullavo, sgridavo, che la legavo al mio collo, l’infanzia. L’infanzia ha un cuore piccolo così veloce, che scappa, è un volo continuo, continue prove rivolte verso l’azzurro, più in alto, slancio che non controlli, sempre in te, sempre altrove, sempre provare, mai fermarsi, sempre un corridoio con in fondo la luce. Madre mia, madre mai persa, se tu sapessi cosa ho sentito crescendo, diventavo te stessa e morivo, un corridoio con in fondo la luce, un corridoio con in fondo il tuo viso, un corridoio con in fondo nessuno. 
Me stessa, stesso cuore che divarica gli anni, lui, il mio passante nel corpo, la carne come una strada in penombra, la vita. Giorni continui, ripetizioni di luce, la notte, poi l’alba, poi il resto, poi dopo il tramonto, me stessa. Diventavo qualcosa, modificata bambina nella statura che cresce, il cambiamento del viso, la bocca, lo sguardo, il sorriso diverso, le gambe, cambiare del tutto, e poi ripetere "io sono un maschio". Il rifiuto della femmina addosso, no, non per me, un altro sesso dicevo, come il fratello, come quello più piccolo, "io sono un maschio". Nessuna gonna, non una spilla, capelli corti, maglietta con i bottoni contro alla gola, abbracciare il respiro, spezzarlo, "io sono un maschio", la crisi. 
Suonavo, pianoforte a otto anni, un ragazzino a guardarmi, l’amore, non doveva sapere che ero una donna, non mettevo gli anelli, lui che osservava le mie dita sui tasti, pensami come te, questo volevo, pensami un maschio, innamorati. I capelli cortissimi, pantaloni pieni di scacchi, nessun orpello, nulla che mi tradisse, camuffavo la voce perché non sentisse quel tono da femmina, quale spavento sapesse, "io sono un maschio", innamorati., "io sono un maschio", innamorati. E poi le suore alla scuola, elementari grandiose, quel banco, le penne sui fogli, imparare le lettere, entrare nel mondo fantastico in cui parli in silenzio, "io sono un maschio", innamorati. Nelle mattine del glicine appeso nei ferri, il cortile con gli altri compagni, le suore col velo, quelle apparizioni funeree, bellissime, l’alfabeto dovunque, riempire i quaderni, inventare la vita, la mia, tutta diversa, tutta magnifica, io l’archeologa che trovava i tesori, io l’avventuriera senza paura, io che raccontavo bugie per andarmene, diventare mai nata, sempre nel ventre, sempre scavare, sempre tesori, sepolta. Mi sono vista, un filmino che ha fatto mio padre, c’è solo il mio viso, la culla, sei mesi, occhi enormi sgranati verso il soffitto, lo smarrimento negli occhi, paura tremenda negli occhi, vergogna enorme negli occhi, nessuno. Ancora le suore, la chiesa d’estate, l’incenso nell’aria, candele accese in fila come donnine in attesa, Dio quel grandioso strumento che sovrastava il silenzio dei marmi, un sole scagliato contro la pace, il rumore di un credo che iniziava a riempirmi, quel suono sbattente che il cuore prendeva succhiando, credimi sempre, nello sconforto, ti penso. Mi sono vista, un filmino che ha fatto mio padre, c’è solo il mio viso, la culla, sei mesi, occhi enormi sgranati verso il soffitto, lo smarrimento negli occhi, paura tremenda negli occhi, vergogna enorme negli occhi, nessuno. Mi sono vista, un filmino che ha fatto mio padre, una culla, io dentro, quegli occhi, nessuno. 
Cuore mio prova a tenermi, questo ti chiedo, diventa una culla, un terremoto di estrema dolcezza, un vento leggero che mi sollevi più in alto, verso il divino, dove finisce la luce, sopra la voce di Dio, nella sua bocca, diventa un canto, musica che mi sconvolga, protegga, per sempre. Io resto immobile, aspetto che il miracolo avvenga, un cuore come una culla, un cuore che la natura ribalta, un vento leggero che mi sollevi più in alto, verso il divino, dentro la luce, un Dio che protegga, per sempre. Cuore mio, figlio che il dolore hai raccolto, tu sai cos’è successo, dov’ero quando ti ho fatto, prova ad odiarmi. Per questi sbagli che si ripetono, per non apprendere l’arte della lucidità senza punte, che non ferisce, non si conficca dentro di te, nella tua morbida carne. Come posso capire il movimento da farsi per schivare la morte di ogni gioia possibile, quanto devo studiare per non ucciderti ogni volta che incontro nessuno. L’abilità della danza, questo mi serve, trasformarmi in equilibrista sporca di grazia, una fune sottile nel cielo immobile, il vento a sorreggermi, ballare con furia abbracciando la follia che mantengo a distanza, questo vorrei, perdere ogni controllo, questo vorrei, perdere la lucidità che posseggo, questo vorrei, ingoiare e sputare la mente, questo vorrei, diventare magnifica. Una foto soltanto nel cortile del glicine appeso nei ferri, gli alunni in fila, io in mezzo agli altri nell’ultimo giorno, un ombra nel grembiule bianco al posto del corpo, nient’altro, nessuno. Quinta elementare dell’abbandono, sapere che domani è la fine, non più quella suora vicino, lei di cui ero l’orgoglio, lei per cui ero qualcuno, lei che sapeva dov’ero, lei che capiva la forza, lei che non avrei più rivisto. Suora tu non lo sai cos’hai fatto, ancora ci penso, io dovrei dirtelo, per me è stato tutto incontrarti, per me è stato nascere, uscire da dentro il mio stomaco, per me è stato scriverti. Dammi la forza di crescere anche senza di te, di lottare con questo spavento, con i demoni che non m’abbandonano, con il buio che continua a cercarmi, con la solitudine che già sento mentre ti perdo. Non scrivo più, questo ho pensato, ora senza di lei a cosa mi serve, ora senza di lei solo il silenzio. Isabella con i vestiti da maschio, mettiti una gonna mi ha detto, prima di lasciarla nel cortile l’abbraccio, il suo velo come capelli in cotone nerissimi, mettiti una gonna mi ha detto, questo il regalo prima d’andarsene e poi nient’atro, nessuno, vuoto incolmabile, vuoto incolmabile, nient’altro, nessuno. 
Un cuore artificiale io vorrei, nessun suono, non questo pianoforte pieno di violini, non questo slancio che nasconde sotto ali così immense, non quei sogni, nessun suono, meccanismo meccanico perfetto, spietato ed infallibile, robottino di ceramica a comando, non provare nulla, ritrovarsi la distanza necessaria perché neppure mi sfiori il sentimento, l’amore straziato dal lirismo, nessun suono, nessun volo verso l’alto alla ricerca di bellezza, non dolcezza, non dolore, non speranza, non la rabbia, non la delicata voglia delle braccia che ti tengono per sempre, nessun suono, non cadere per l’affanno di trovare della luce laggiù in fondo, nessun suono, non questo pianoforte pieno di violini, non questo slancio che nasconde sotto ali così immense, non quei sogni, nessun suono. Un cuore artificiale io vorrei, ferro duro sotto il petto, guerriera che non soffre nella lotta, questa tregua, questa anestesia grandissima, questa corsa in mezzo al sangue senza lacrime, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica. Dai prova a ferirmi, io non sento, non ci sono, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica. Dai prova a ferirmi, colpisci con potenza, fammi fuori, urlami qualcosa di terribile, sbranami, dai sbranami, io non sento, non ci sono, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica. 
È nella perdita dell’infanzia che ho ritrovato me stessa, l’ho fatto per ritornarci. È stato un istante, un millimetro che si gira di scatto, ho perso l’incanto per poi riprenderlo subito. Un’infanzia feroce che guardo con uno specchietto, quante volte l’ho fatto, un rettangolo in mano cercando il riflesso, stesa nel letto, in penombra, sdoppiare la faccia alla bambina che finge di essere morta, la solitudine. Rumori e fantasmi si muovono nelle mie stanze di notte, allora mi sveglio, vengo da te e provo a scriverti, così io ti parlo, voce che si trasforma in inchiostro per non sentirmi, per ascoltare altre voci che stanno arrivando. Solo nel buio io vedo le parole, solo negli atroci silenzi, solo quando il dolore viene a trovarmi, con lui davanti io ti cerco. Il dolore ha occhi che non finiscono, cosa ne sanno loro, quelli che giudicano, gli sciacalli fuori dalle finestre, così com’è successo all’uomo elefante, gente che ride digrignando le ossa, che si diverte del mostro da solo dentro la stanza, l’uomo che costruiva un castello di carta sognando sua madre, quella foto nel palmo, bastardi. Avrei voluto esserci quando è successo, quando sono entrati dentro il suo regno per uccidere il loro spavento, avrei voluto prenderli a calci, massacragli con un ferro la testa, avrei voluto sventrarli, il loro sangue per quello scempio della purezza, avrei voluto salvarlo. Enorme e straordinaria bellezza deforme, punizione divina per il prescelto con la testa reclina verso un concluso tramonto, cosa capiscono le piccole bestie con il buio dovunque, sotto la terra, da sotto la terra sporgono gli occhi. Un giorno avrò membra di ferro, un cuore d’acciaio, diventerò una piccola fessura nell’aria. 
Cosa posso io, nell’attesa una prigione di parole, cosa posso io, dove scappare, salire, verticali che il cielo attraversano, cosa posso io, solo restare in queste stanze presenti che osservano sedie diventare le braccia, le braccia di altri, sconosciuti mai presi, non l’incontro, non quello, sedie che tengono in vita l’ombra di una mano che sul vetro si sposta, i disegni, vorticosi ricami su carta, filo d’inchiostro che sbatte sui fogli come il vento sulle finestre di notte, allora e così io rimango. Ascoltami, quasi fosse possibile, ascoltami, quasi arrivasse la voce, ascoltami, non posso altro, parlarti, solo questo posso, nell’attesa una prigione di parole. Piccole bambine accese negli angoli, il dolore ha questi occhi che non finiscono, con loro io vedo il presente e i ricordi. Mia nonna dentro la macchina, i suoi capelli sopra la strada, lei immobile contro la vita, i suoi colori sotto la terra come giocattoli persi in mezzo alla polvere. Nel salotto dei soprammobili lucidi io la ricordo, quel tempio che curava come una serra cercandosi, una foto soltanto, lei che si muove là dentro, che pulisce i suoi sogni. Mi hanno parlato delle tue grida, di una vasca da bagno, dell’acqua gelida in cui t’immergevano per nascondere la loro vergogna, ti credevano pazza, figlia di nobili che mischiavano il sangue, ti mettevano dentro quel ventre in ceramica cercando di farti rinascere. Avrei voluto sollevarti la testa, fare ciò che nessuno ha mai fatto, tenere nelle mie mani il coraggio che nascondevi dentro i capelli. L’incomprensione, c’era questo negli urli, la noncuranza di quegli ignari passanti che hai avuto al tuo fianco per sempre, anche per te io abbasso la testa sui fogli, per sollevare la tua, per parlarti. Sedie che tengono in vita l’ombra di una mano che sul vetro si sposta, i disegni, vorticosi ricami su carta, filo d’inchiostro che sbatte sui fogli come il vento sulle finestre di notte, allora e così io rimango. Dio, mia madre, una suora, mia nonna, queste le persone importanti, nient’altro, nessuno, vuoto incolmabile, vuoto incolmabile, nient’altro nessuno. Sollevare le braccia stesa nel letto, crocefissa postura del corpo, lo sguardo a centrare il soffitto, e poi dopo i fantasmi che passano davanti alla porta, movimenti che spostano l’aria di una solitudine immensa, questo io sono, il ricordo degli altri. 
Vi ho scritto una lettera, il cielo non c’era, la pioggia cadendo l’aveva sepolto, una sciabola in mezzo alle dita, per ore siete tornate a guardarmi. Vi scrivo una lettera, ogni sera lo faccio, mi sveglio alla mattina per questo, per ritrovarvi. Accendo la musica nelle mie stanze, preparo l’incontro per poi lasciarvi in mezzo alla folla che lentamente si ferma davanti al mio tavolo, e vedo tutto mentre racconto, un cortile con il glicine appeso nei ferri, la donna con il velo come capelli in cotone nerissimi, grandioso abbandono, il secondo dopo quello del parto, il primo delle figure femminili importanti. Avevo pensato alla fine quando ti ho visto lasciarmi, invece poi la gonna l’ho messa, avevo pensato che non avrei mai più scritto quando ti ho visto lasciarmi, invece anche per te abbasso la testa sui fogli, una prigione piena di parole, un corridoio con in fondo la luce, un corridoio con in fondo nessuno. 
Cuore mio prova a tenermi, questo ti chiedo, diventa una culla, un terremoto di estrema dolcezza, un vento leggero che mi sollevi più in alto, verso il divino, dove finisce la luce, sopra la voce di Dio, nella sua bocca, diventa un canto, musica che mi sconvolga, protegga, per sempre. Io resto immobile, aspetto che il miracolo avvenga, un cuore come una culla, un cuore che la natura ribalta, un vento leggero che mi sollevi più in alto, verso il divino, dentro la luce, un Dio che protegga, per sempre. Cuore mio, figlio che il dolore hai raccolto, tu sai cos’è successo, dov’ero quando ti ho fatto, prova ad odiarmi. Per questi sbagli che si ripetono, per non apprendere l’arte della lucidità senza punte, che non ferisce, non si conficca dentro di te, nella tua morbida carne. Come posso capire il movimento da farsi per schivare la morte di ogni gioia possibile, quanto devo studiare per non ucciderti ogni volta che incontro nessuno. L’abilità della danza, questo mi serve, trasformarmi in equilibrista sporca di grazia, una fune sottile nel cielo immobile, il vento a sorreggermi, ballare con furia abbracciando la follia che mantengo a distanza, questo vorrei, perdere ogni controllo, questo vorrei, perdere la lucidità che posseggo, questo vorrei, ingoiare e sputare la mente, questo vorrei, diventare magnifica. Ho questo cuore, ho questo cuore difettoso, questo cuore mostruoso, questo cuore spaventato, questo cuore che chiede, questo cuore che cerca l’amore, lui cerca l’amore, lui cerca la vittoria, lui mi vuole presente, lui vuole vincere, lui vuole essere orgoglioso di me, lui mi vuole applaudire, lui mi vuole vedere combattere, lui mi vuole vedere gioire, lui vuole esultare, lui vuole la mia tenerezza, lui vuole essere amato, lui vuole essere protetto, lui è mio figlio. Madre del mio cuore, madre temibilissima, madre fragile, madre che vacilla, madre che sbaglia, madre che soffre, madre cattiva, madre dolce, madre instabile, madre generosa, madre afflitta, madre felice, madre egoista, madre spaventata, madre folle, madre sola, madre feroce, madre buona, madre vanitosa, madre insicura, madre ridicola, madre irresponsabile, madre giocosa, madre potente, madre libera, madre carnefice, madre incosciente, madre bambina, madre coraggiosa, madre dentro le sue stanze, madre che scrive, madre che crede, madre che grida, madre senza una madre, madre di un cuore. 
Un cuore artificiale io vorrei, nessun suono, non questo pianoforte pieno di violini, non questo slancio che nasconde sotto ali così immense, non quei sogni, nessun suono, meccanismo meccanico perfetto, spietato ed infallibile, robottino di ceramica a comando, non provare nulla, ritrovarsi la distanza necessaria perché neppure mi sfiori il sentimento, l’amore straziato dal lirismo, nessun suono, nessun volo verso l’alto alla ricerca di bellezza, non dolcezza, non dolore, non speranza, non la rabbia, non la delicata voglia delle braccia che ti tengono per sempre, nessun suono, non cadere per l’affanno di trovare della luce laggiù in fondo, nessun suono, non questo pianoforte pieno di violini, non questo slancio che nasconde sotto ali così immense, non quei sogni, nessun suono. Un cuore artificiale io vorrei, ferro duro sotto il petto, guerriera che non soffre nella lotta, questa tregua, questa anestesia grandissima, questa corsa in mezzo al sangue senza lacrime, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica. Dai prova a ferirmi, io non sento, non ci sono, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica. Dai prova a ferirmi, colpisci con potenza, fammi fuori, urlami qualcosa di terribile, sbranami, dai sbranami, io non sento, non ci sono, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile, magnifica.
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wdonnait · 4 years
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Raffaella Mennoia tiroidectomia: tumore alla tiroide ma lei è salva per miracolo
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Raffaella Mennoia tiroidectomia: tumore alla tiroide ma lei è salva per miracolo
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Sapevate che Raffaella Mennoia si fosse sottoposta alla tiroidectomia?
Esso è un intervento chirurgico che mira alla rimozione della tiroide, parziale o totale. Ne ha parlato proprio recentemente in un post su Instagram. La nota autrice televisiva si è mostrata in un selfie dove indossava un cerotto proprio nella zona interessata. E ha aggiunto la seguente didascalia:
“Non ho mai detto quanto l’operazione ha cambiato il mio corpo e la mia anima. Questa foto l’ho scattata meno di due anni fa a una settimana dalla mia tiroidectomia, ancora non sapevo le complicazioni che un intervento del genere mi avrebbe causato, ma ero comunque felice di poter essere curata”.
Ha continuato dicendo:
“Da allora a causa di questo problema, sono successe altre mille complicazioni tra cui un isolamento totale di 3 giorni in ospedale per sottopormi alla medicina nucleare. Non parlo mai e con nessuno di quanto ogni cambio di terapia influisca sul mio fisico e sul mio umore. La mia pagina è all’80% femminile e l’incidenza maggiore di tumore alla tiroide è proprio sulle donne. In molte sapendo della mia esperienza mi hanno scritto e molte altre hanno eseguito controlli e di questo sono fiera.
Dinanzi a questa sua dichiarazione, i messaggi di solidarietà non sono mancati affatto. Specialmente da parte dei suoi colleghi. Si può dire che la Mennoia sia salva per miracolo. Tuttavia, ha voluto raccontare la sua esperienza per sensibilizzare un po’ tutti ed invitare alla prevenzione:
“La mia esperienza di vita mi porta a pochi consigli da dare ma posso dire con certezza che se non mi fossi controllata con una semplice ecografia un pomeriggio di due anni fa oggi non starei qui a parlarvi di me. Controllatevi. Basta poco”.
Tiroidectomia intervento cosa c’è da sapere
Come vi abbiamo detto in precedenza, la tiroidectomia è la procedura chirurgica utilizzata per rimuovere la tiroide (tutta o in parte).
Tale operazione si esegue nel momento in cui il paziente presenta una delle seguenti condizioni:
Tumore maligno della tiroide
Ipertiroidismo
Gozzo (ossia il rigonfiamento della zona)
Presenza di noduli tiroidei
Nella maggior parte dei casi, si tratta di un intervento abbastanza sicuro. Ovviamente, per definirlo tale, risulta fondamentale mettersi nelle mani di una persona esperta. Tuttavia, non si escludono rare e possibili complicanze, come ad esempio:
Ostruzione delle vie aeree
Emorragie improvvise
Cambi di fonazione
Aumento di peso
Ipotiroidismo
Infezione batterica
Tiroidectomia come funziona
Dal punto di vista della preparazione, la tiroidectomia si effettua con anestesia.
Di conseguenza, risulta necessario che il paziente si presenti a digiuno (da almeno 12 ore). Si tratta di un aspetto molto importante. Se ciò non dovesse accadere, il medico potrebbe suggerire un rinvio dell’operazione, poiché il cibo potrebbe causare il rischio di soffocamento.
Nel momento in cui il soggetto è sotto anestesia, il chirurgo effettua una serie di incisioni sul collo (talvolta sul torace). La loro entità varia a seconda del caso specifico. In termini di tempistiche, l’intervento di tiroidectomia dura più o meno un’oretta.
Per far sì che la situazione resti sempre sotto controllo, egli sarà collegato a dei dispositivi di monitoraggio riguardanti:
I livelli di ossigeno nel sangue
Il battito cardiaco
La pressione sanguigna
Inoltre, è possibile scegliere tra due modalità di tiroidectomia: tradizionale o endoscopica.
La prima, detta anche convenzionale, si basa su delle incisioni nella zona centrale del collo. E’ un po’ invasiva e lascerà una bella cicatrice. Quella endoscopica (o mininvasiva) invece, sfrutta l’impiego dell’endoscopio. Di conseguenza, richiede meno punti di sutura.
Una volta terminato l’intervento, il paziente dovrà restare in osservazione in modo che possa riprendersi dall’anestesia. Dopodiché, potrà tornare presso la propria abitazione e seguire una fase post-operatoria che richiederà almeno una decina di giorni di riposo e di accortezze.
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3-dicembre-2017 · 7 years
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Ho messo in STOP i miei sentimenti. Non riesco a provare niente, dolore, felicità come se fossi sotto anestesia continuamente. Non so esattamente quando qualcuno ha deciso di cliccare chissà quale pulsante di spegnimento, e PUF, le mie emozioni non ci sono più, spente, sparite, scomparse. Non so in quale preciso istante ho iniziato a non sopportare nemmeno la felicità degli altri, anzi se devo essere del tutto sincera, non sopporto più niente degli altri. Non sopporto le persone in sé. Non voglio essere così, fingere felicità quando qualcuno mi da una bella notizia, ma non riesco a provare niente, ed è una cosa straziante. Ho passato anni a migliorare, ho passato anni a riprendere in mano la mia vita, a non essere più quella persona che ero diventata. E ora sono qui, di nuovo punto e a capo. Perché? Perché di nuovo la vita ha voluto stendermi a terra, e farmi essere di nuovo l'amica stronza, quella antipatica, quella che non ci frega niente, quella che non sorride mai. Perché? Anzi, sto mentendo, se c'è un sentimento che provo è disgusto, disgusto per una vita che non è quella che io vorrei.
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spettriedemoni · 6 years
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Sembra passato un secolo
Più di un anno fa ero in ospedale, in una città che non conosco.
Era sotto natale, sicuramente il Natale più strano della mia vita. Mi ricordo i colloqui con il medico che mi spiega come sarebbe stato l'intervento, con l'anestesista, un ragazzo più giovane di me che quasi subito mi ha voluto tranquillizzare suo fatto che non sarebbe stato solo in sala operatoria. Sapevo come si sarebbe svolto l'intervento, me lo aveva spiegato il direttore del reparto, il primario come si chiamava una volta, mi aveva mimato dove avrebbe inciso con il bisturi, mi aveva spiegato che avrebbe spostato l'intestino per raggiungere la zona vicino ai reni dove avrebbe tolto i linfonodi ingrossati vicino alle arterie renali e all'aorta. Mi aveva fatto un disegno mostrandomi dove erano posizionati i linfonodi. Li avrebbe asportati assieme ad altri lì vicino anche se sani, era il miglior modo per tagliare la strada al male. Anestesia totale, intervento a cielo aperto: la laparoscopia era una strada troppo complicata.
Ho sempre avuto paura dell'anestesia totale, è stupido lo so, ma preferisco essere cosciente durante un intervento anche se in realtà credo cambi poco per il paziente.
Dopo una giornata a fare esami in giro per l'ospedale ricordo il colloquio con l'anestesista assieme a mia madre. Mi spiega che mi faranno due anestesie, una classica e un'altra epidurale. La seconda servirà soprattutto dopo l'intervento. L'epidurale sarà fatta con un ago che entrerà tra le vertebre e poi un cateterino entrerà per permettere il passaggio dell'anestetico. Potrò poggiarmi sulla schiena senza problemi. Mi chiede di fargli vedere la gola perché, mi spiega, durante l'intervento sarò intubato: i farmaci che mi inietteranno saranno talmente potenti che il mio cervello dimenticherà di respirare. Sarà importante, dopo l'intervento, tossire se ne sento la necessità perché, mi spiega, verranno espulsi possibili batteri in questo modo. Mi anticipa che non sarà facile perché potrei sentire dolore, ma è importante lo faccia. Mi mette in guardia sul fatto che l'epidurale potrebbe non andare bene e in quel caso si dovrebbe passare a farmaci via endovena e io potrei regolarmi il flusso ma è importante anche che io resista al dolore e che aumenti il flusso del farmaco solo quando è davvero troppo forte. Dentro di me spero riescano a farmi l'epidurale così la regola lui e sto tranquillo.
Il mattino dopo viene un infermiere a prendermi, ho già il mio camice, salgo sulla barella. Sono a digiuno dalla sera prima, solo un lassativo e un the. Nella sala operatoria fa freddo ma il personale è gentile. Ritrovo l'anestesista, c'è il suo collega più anziano che è poi poco più anziano. Cerco di allentare la tensione, mi metto come avevo fatto quando mi hanno fatto la lombare anche se mi spiegano che l'epidurale è un'altra cosa. Non trovano subito dove inserire l'ago. “Ecco”, penso, “dopo le vene difficili anche le vertebre difficili”. Ci mettono un po’, l'anestesista più anziano trova il punto e inserisce il catetere. Posso stendermi sulla schiena senza problemi come mi avevano detto.
Mi hanno detto che possono andarsene circa 8 ore in tutto, un paio per preparare l'anestesia, 4 per l'intervento in sé, altre due per il risveglio. Mi fa sempre paura rimanere incosciente, ma non c'è altra strada. Arriva il primario, scherza, mi dice che quasi quasi mi opera da sveglio. Mi fa posizionare sul tavolo operatorio, studia bene dove mi devo mettere per avere il campo ben illuminato. Parla di una strumentista che dovrà stare lì e che sta per arrivare. Vorrei fare un'altra battuta ma sto zitto. “Ci siamo”, penso. “Lo facciamo davvero, stavolta”. L'infermiere che mi ha portato giù dalla mia stanza prende la mascherina. “Questa è l'aria di Milano” vorrei resistere e rimanere sveglio, mi ripeto di stare tranquillo che andrà tutto bene, poi le voci diventano più lontane e io mi addormento nel sonno senza sogni dell'anestesia.
Quando mi risveglio ho la sensazione siano passati pochi minuti invece è quasi ora di pranzo. Sono passate circa 8 ore. Dove mi trovo? Intorno a me vedo altri pazienti su lettini. Un uomo con un camice scuro sta parlando, è andato tutto bene. Ho una coperta e sono quasi nudo. Sento dell'aria calda: mi hanno infilato un tubo sotto le coperte, un tubo che dall'altra parte ha una stufetta, un coso che sembra un Pinguino DeLonghi. Almeno non sento freddo. Ho un cerotto sull'addome, mi hanno richiuso dopo avermi aperto. Sento un tubicino sulla parte sinistra: è un drenaggio, mi spiega l'uomo col camice scuro. Ho un catetere vescicale, me ne accorgo perché sento come se stessi urinando in quel momento, è una sensazione strana.
L'uomo in camice scuro mi dà una specie di caramella, mi spiega che è l'unica cosa che potrò mangiare per un po’ e che è meglio evitare di ingoiarla subito. Tossisco, non avverto dolore, sarà contento l'anestesista che non mi aveva raccomandato altro. I miei bronchi sono stati invasi da ossigeno tramite tubi mentre mi operavano e questo ha seccato cavità di solito umide, da qui lo stimolo a tossire. Ovviamente la caramella (qualsiasi cosa fosse) la ingoio appena tossisco. Arriva l'altro anestesista, quello più anziano, mi dice che sto per tornare in stanza. Il mio è un intervento con poca perdita di sangue, tra una mezz'ora sarò nel mio letto. L'uomo in camice scuro controlla la ferita. Va tutto bene ma segna con un pennarello sul cerotto una zona un po’ umida, nulla di grave.
Torna l'infermiere per riportarmi su, vedo anche il primario mi saluta, mi chiede come sto. Quest'uomo ha fatto oltre 3000 interventi come primo operatore, il tipo di intervento che ha fatto a me pare lo faccia solo lui in tutta Italia. Ha detto di aver visto mia madre, l'ha tranquillizzata, gli mostro il segno col pennarello sul cerotto quando mi chiede come sto. Fa un gesto come a dire: “Dai, su che non è nulla di grave, qua c'è gente che sta male sul serio”, sorrido e assieme al mio traghettatore torno in reparto.
Mia madre è lì ad aspettare seduta nell'anticamera del reparto. Appena mi vede fa uno scatto impressionante per raggiungermi. L'infermiere le dice che viene lui non c'è bisogno che lei si alzi. Alla fine è gentile il mio Caronte.
Cerco una battuta per farla sorridere un po’ le dico: “Ci sei pure tu qui?” decisamente una battuta fiacca anche perché pensa sia ancora rintronato dall'anestesia quando invece sono lucido.
Torno nella mia stanza assieme agli altri 3 pazienti. Mi rimettono a letto. Sto bene. Ora viene il difficile: riprendere a vivere.
È andato tutto bene. Ora serve la forza e soprattutto il coraggio per rialzarsi.
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THE STORY OF MY LIFE
PRIMA PARTE Eccomi qui. Tre anni sono passati. Dio mio ancora non riesco a crederci… mi sembra ieri. Riesco a ricordare ancora tutto: il dolore, le paure, l'ansia, la sofferenza, le prime gioie, quel traumatico risveglio … Ricordo ancora quando ero così piccola, sgracile e incosciente. Quando per la prima volta sono entrata in quell'ospedale. Osservavo quei lunghi e profondi corridoi, pieni di colori e sculture fatte per tranquillizzare i bambini. A me non tranquillizzavano, per niente, buttavano ancora più angoscia. Mi facevano capire che in quell' edificio c'era bisogno di sdrammatizzare, di illudere i bambini, perché li regnava il dolore, la sofferenza e la malattia. Mi sentivo veramente così fuori posto, pensavo che non necessitavo di essere lì, volevo ritornare a casa a giocare con le mie bambole, non a stare li con lo sguardo di tutti quei medici puntato a dosso. I miei genitori mi accompagnarono a fare la prima visita con il famoso chirurgo tanto stimato. Ricordo ancora quel corridoi, quella stanza, quell'odore nauseante di disinfettante che mi provocava profondi conati di vomito. Ricordo ancora quando una volta entrata nel suo studio, il dottore mi ha fatto togliere la maglietta, per osservare il mio grave, gravissimo problema. Non dimenticherò mai l'espressione del suo viso appena mi ha vista. Mi ha guardata e mi ha chiesto :“ Marta sei preoccupata? Hai paura?” Qui bisogna assolutamente agire, il prima possibile, con un intervento chirurgico, prima che tu sia troppo grande. Sempre se però tu sarai consapevole di tutto ciò di cui andrai incontro. Mi sono sentita morire, appena sentita la sua frase ho subito pensato no, io non mi opero, non mi faccio aprire da lui, me lo tengo così il torace. Ma ero piccola non mi rendevo conto della gravità del mio problema… I mesi passavano e il mio problema si aggravava sempre di più. Fino a quando ricevetti quella terribile telefonata che mi diceva che a giugno sarei dovuta tornare a Firenze, per sottopormi all'intervento chirurgico. L'intervento non era semplice, per niente, era lungo, pericoloso e mi avevano già detto che avrei dovuto sopportare tanto dolore… ma non i “fastidi” che una bambina è abituata a sopportare a 12 anni… si trattava di un vero e proprio dolore. Ricordo ancora la sera prima che dovevo andare a Firenze, pregai Dio è gli dissi, “Aiutami, se mi vuoi bene e mi ascolti ti prego fammi svegliare domani con la giusta convinzione riguardo all'operazione”. Ci crederete o no, quando mia madre mi ha svegliata la prima cosa che mi sono sentita nella testa è stato un “ Sì.” Così, il 17 giugno mi hanno ricoverata all'ospedale Mayer di Firenze. Il giorno dopo dovevo affrontare l'operazione. Appena ricoverata il medici mi hanno portato in una camera, a vedere una bambina che qualche giorno prima era stata operata per il mio stesso problema. La vedevo così pallida, gracile, ho notato un cerotto dietro la sua schiena con un tubicino e una aflebo attaccata. “È quello che serve per iniettarti la morfina, almeno sentirai meno dolore” mi ha detto il medico. La sera prima mi hanno dato un foglio con tutti i rischi a cui sarei potuta andare incontro sottoponendomi a questo intervento. “Bene, quello che ci vuole per tranquillizzarmi …” ho pensato. Nemmeno lo avevo letto…ma già osservando la faccia di mia madre mentre lo leggeva mi aveva trasmesso tutto. La mattina seguente, appena aperti gli occhi la prima cosa che ho visto è stato un chirurgo tutto vestito di verde con mia madre vicino che mi diceva di sbrigarmi perché dovevo scendere in sala operatoria. Ero rilassata, a differenza delle sera precedente, sentivo la presenza di Dio accanto che mi accompagnava e proteggeva. Scesa di sotto ho visto un luogo completamente diverso… tutto bianco, vuoto, triste e tante piccole sale. La prima cosa che ho visto è stata una mamma, molto giovane, parlare con un medico e piangere disperata mentre tentavano di consolarla. Ho un vuoto riguardo a questo… ricordo solo che mi sono ritrovata in uno stanzino insieme a mia madre dentro la sala operatoria. Era gelida,un freddo micidiale. Mi hanno fatta spogliare foderare con della plastica e sdraiare su un lettino strettissimo. La dottoressa mi ha preso il braccio e con un ago iniettato un liquido. Mi ha detto:“ Pensa a qualcosa che ti piace, a un ragazzo, quel ragazzetto che ti piace tanto del 2C…” Ricordo ancora che non ho fatto in tempo a rispondere che dal racconto di mia madre il braccio mi è letteralmente crollato e sono caduta nel sonno sotto l'effetto dell’ anestesia totale. L'intervento è durato 4 ore. Ho ricordi confusi. Ricordo solamente il dolore micidiale che mi ha svegliata, sentivo qualcuno che mi spingeva le spalle al letto e teneva le gambe ferme. Non urlavo, ricordo solo che non riuscivo a respirare per il dolore della gabbia toracica che si espandeva quando ispiravo l'aria. È stato uno il dolore più forte mai provato in vita mia. Appena mi svegliai dall'anestesia e fui cosciente mia madre e mio padre mi disse tenendomi una mano che l'intervento era riuscito perfettamente. Che gioia! Non riuscivo a realizzare di essermi finalmente sbarazzata di quel problema. Mio padre mi fece una foto e mi fece guardare il mio torace, perché non potevo muovere nulla ne alzarmi. Finalmente ero normale! Non avevo più quel mostruoso buco immezzo al petto. È inutile stare a scrivere come ho passato quei terribili 8 giorni di ricovero: vomito, dolori, morfina, epidurale, medici scassacazzo che ti visitano in continuazione, urla di dolore dei bambini delle camere accanto. Però sai c'è stato un aspetto positivo li ho conosciuto un ragazzo. Veniva sempre a trovarmi dalla camera a fianco. Era simpatico, socievole, ci parlavo bene, ricordo ancora la sua espressione, quegli occhi blu e quelle labbra carnose. Dopo 8 giorni di ricovero solo potuta finalmente uscire dall'ospedale, non ne potevo più di stare li dentro. Ricordo ancora su quel corridoio quando andai a salutare il ragazzetto della camera accanto, mi disse "ciao Marta", stava per dire "ci vediamo", ma poi si è corretto e dicendo "ma quando ci vediamo..." Ed ha aggiunto "Addio". Come è brutta questa parola. Per me è come se una persona ti morisse. Secondo me il miglior modo per dire addio è ,non dirlo, non pronunciarlo. Ti distrugge il cuore vorresti entrare in quella persona ed abbracciarla fino a rompergli le costole e fonderti con lui. È inutile stare a dire come è andata a finire con questo ragazzo. Era di Ferrara. Stava molto lontana da me. Ci siamo risentiti al telefono e messaggiato una e poi non lo ho più sentito. Era inutile... Ritornando alla storia. Sono finalmente uscita dall'ospedale il 26 giugno. Finalmente ho potuto riammirare l'aria aperta, mi sentivo così forte, invincibile, ce l'avevo fatta!!! Non mi riconoscevo, mi sentivo così diversa, cambiata profondamente, cresciuta di botto. È da quell' estate che sono letteralmente cambiata, il carattere tutto. È nato dentro di me quel lato pazzo, unico, invincibile . Quella capacità di sopportare il dolore. Quest'anno, il 17 giugno dovrò ritornare a Firenze per subire il secondo intervento chirurgico per rimuovere le barre nel torace che mi hanno inserito 3 anni fa. Il 18 mi opereranno. Non ho paura, per ora... Il mio unico pensiero è come potrò fare a stare senza fare esercizio fisico per i giorni della convalescenza, che sono tanti... Ma si vedrà... Vi porterò con me. Vi aggiornerò giorno dopo giorno la mia seconda "avventura" all'ospedale . E che avventura... 'no sballo .
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Policinico
Son stata ricoverata d'urgenza al policinico per via che mi è successa una cosa veramente strana. Figurati che ho iniziato a tossire e dalla bocca mi è uscito un rospo ricoperto di peli e muco verdognolo. Nel complesso sto bene.
Qui è un concentrato di gente altruista che non vede l'ora di farmi un'iniezione letale per farmi morire in serenità. Mi sorridono. Io sorrido loro. Anche se ho sentito di straforo una frase tipo “uffa! ma quando schiatta questa?” ma sono certa si riferisse alla mia compagna di stanza con una dermatite atopica che la fa sembrare una tipa di colore e tutti la incontrano e le dicono frasi come “torna(tene) a casa (tua)” e lei sorride contenta. Ma sta per morire e a casa (in via Condotti) non ci torna più, purtroppo.
Mi hanno infilato una sonda nel bulbo oculare per passare nel tratto uditivo uscire nell'aorta e tornare nel dito mignolo sotto l'unghia muoversi verso la tempia per uscire nella gengiva e scivolare sottopelle dalla palpebra fino all'alluce, sempre sotto l'unghia; han sondato tutti gli organici anfratti, il tutto senza anestesia per evitare che venisse un'aritmia al mio cuore provato. C'era tanta gente intorno. Tutta sorridente. Tutti contenti. Chissà perché? Credo sempre per un fatto di volermi tenere su di morale facendomi sentire a mio agio. E io ero tutta un “grazie”.
Alla fine è risultato che mi son avvelenata mentre scrivevo poiché era caduto accidentalmente dell'alcol sulla gelatina verde e gli effluvi respirati per un paio d'ore mi hanno intossicata. Non si torna indietro. Dalla morte non si torna indietro. Nella vita non esiste il rewind. Questa è una delle cose più fastidiose dell'umana esistenza. Anche se pure aver vissuto l'epoca dei walkman, dotati sì di rewind, non è stata una cosa facile.
Perché non è tanto la morte in sé che dà fastidio ma tutto il suo contorno. L'attesa “ce la faccio. Non ce la faccio. Forse ce la faccio. No. Ma magari… no”. Poi magari questo momento sadico finisce e arriva la rassegnazione (quante volte l'ho vista negli occhi di quelli che stanno per morire), la risoluzione del quesito che diventa la staffetta nelle mani di qualcun altro, una cosa che ormai non ti riguarda più.
Mi stanno guardando. Hanno detto già ai miei parenti riapparsi come funghi all'odore di muffa che non c'è più nulla da fare. Vedo il loro sforzo nel far fuoriuscire una lacrima e mi chiedo a cosa stiano pensando perché il liquido scenda. Ma poco importa. È arrivata la mia ora. È giunto il mio momento di scomparire. Di non esserci più. Di riposare in pace. Ciao.
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tmnotizie · 4 years
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di Tonino Armata (presidente onorario associazione Città dei Bambini)
Egregio direttore,
Stamattina sono (ri)tornato sul tetto sopra l’undicesimo piano del mio palazzo a guardare San Benedetto con il suo bellissimo lungomare. Il sole sorgeva su un bel mare colore turchese arato dal vento. Erano anni che non vivevo una simile bellezza. Le palme respiravano, gioivano del giusto tempo sabbatico. E lì mi sono chiesto: saprò tornare alla normalità? Oppure è la normalità il problema? E se tutto tornasse come prima, anzi peggio, con libertà e democrazia già morte in un golpe silenzioso, nell’indifferenza di un popolo recluso e sotto anestesia?
Non potevo rassegarmi all’idea di poter ripensare, fra qualche mese, a questa reclusione come a uno dei momenti più felici della vita. Già mi vedevo, invecchiato, a dire a un amico: ti ricordi, che bei tempi quando facevamo il pane in casa e il trinciato di pomodori secchi, quando ci si parlava dai balconi, l’agenda era vuota di appuntamenti inutili e c’era tempo per raccontare fiabe ai nipotini lontani?
Oppure: oh cara, che giorni erano quelli, in cui ci si confrontava sui grandi temi in uno scambio di lettere vibranti tra i quattro angoli della Terra! Quel mondo senza smog, senza caselli, senza check-in, quando ci leggevamo storie ad alta voce, io prendevo appunti a notte fonda con la lampada frontale e poi mi alzavo al richiamo del merlo…
Guardavo il primo sole planare sulla città e il mio istinto si rifiutava di confinare nel mito la primavera del 2020. Contavo ancora, testardo, su un nuovo inizio. Ma l’angelo nero già mi sussurrava: svegliati ragazzo, la ricreazione è finita. Non vedi? Oltre i bollettini medici, oltre la protezione civile, le mascherine e i guanti c’è solo il vuoto; al comando non c’è nessun pilota; e presto tutti ci riabitueremo al rumore, ai gas, all’indifferenza, alla burocrazia soffocante, alla brutalità del saccheggio, al consumo, alle ronde, al sospetto, alle ammucchiate e allo stato di emergenza permanente.
Uno dei vantaggi della vecchiezza è sapere che la libertà è effimera, e quindi saper approfittare fino in fondo dei varchi in cui si manifesta. Ho scritto alcune cose su come vivere al tempo del coronavirus distillandone ogni sillaba come gioia e privilegio, ma anche con la certezza che tutto poteva finire e che un giorno sarei tornato al mio chiostro senza problemi. Già alcuni anni fa mi ero dato alla macchia, deciso a non scrivere più per un quotidiano online.
Troppi giri d’aria per il mio carattere. E poi non mi sono sentito a mio agio come quando lavoravo con la responsabilità di documentarista a Panorama (figura allora presente a Newsweek, Spiegel e Panorama) diretto da Lamberto Sechi, dal motto: “I fatti scissi dalle opinioni”, il quale, allora non era la voce dal padrone; ma, con l’Espresso rappresentava la voce del popolo di sinistra capace di reagire rapidamente ai fatti. A 60 anni, in pensione, i libri erano ormai il centro della mia vita.
Ora se ne va aprile, un mese dolce, che sa anche riderti in faccia. Con esso non se ne va l’emergenza, e anche il senso di questa mia quarantena piena di pensieri, speranze e illusioni. Ieri sera con ritardo ho acceso una candela per il 25 aprile e la nostra bistrattata Costituzione. Avevo visto metà del parlamento restar seduto al ricordo della Resistenza e avevo provato nausea.
Oggi Dante mi torna alle labbra «Ahi serva Italia di dolore ostello / nave senza nocchiero in gran tempesta / non donna di provincie, ma bordello» – e mi chiedo dove andrà a finire la bella energia espressa dalla parte migliore del Paese in questi giorni irripetibili. Dialoghi ricchi di speranza, che ho raccolto sotto forma di appunti, con la gioventù d’Europa.
I ragazzi della generazione Erasmus, cresciuti senza confini, che abbiamo fregato tre volte, prima con lo scoppio della bolla finanziaria del 2008, poi con l’emergenza terrorismo e ora col coprifuoco da Covid 19. Tre guerre che li hanno spinti ai margini di un mondo sempre più chiuso e rassegnato a perdere libertà civili; pagati meno di quanto si può incassare oggi col contributo Covid ai senza lavoro.
In questi 45 giorni ho partecipato a bei dibattiti online, scoprendo di avere davanti giovani capaci di rileggere la Resistenza in modo nuovo: come rifiuto dei vecchi equilibri e progetto di un mondo più frugale, verde, maturo, onesto. Qualcosa capace di rilanciare insieme la crescita, la solidarietà e l’ordine, i tre pilastri della comunità.
Mio nipote, recluso in casa, mi spiega che il petrolio non lo vuole più nessuno, e che oggi ti pagano per non comprarlo. Ormai il capitale punta trilioni di dollari sulle società smart. I vecchi pachidermi sono alla canna del gas, se hanno paura di una bambina come Greta, e magari si aggrappano ai Putin, ai Trump, ai cinesi, persino ai libici, gente che ricatta l’Europa coi profughi, o la indeboliscono con quinte colonne sovraniste nella politica e nell’informazione.
Questo mentre in Polonia e Ungheria si va allo smantellamento della democrazia con la scusa del virus. E ovunque – parole di Judith Denkmayr e Sofia Nerbrand – la società aperta subisce attacchi, mentre i più poveri diventano ancora più poveri. Scenari orwelliani. Ci sarà pure una scialuppa per raccogliere questa gioventù che sogna il ritorno all’agorà, segno distintivo dell’Europa.
Berengère Chauffeté, paesaggista francese a Berlino: «Torniamo alla terra, ma uscendo dall’approccio utilitaristico. La natura non è solo risorsa, è un partner». Lucia Pantone, da Tricarico in Basilicata: «la vigna esige di essere piantata anche se attorno c’è ancora morte e distruzione. È questa la durissima prova che il trauma esige e che non si potrà rinviare».
Niccolò Galli, banca di investimento a Zurigo: «C’è un vuoto politico da riempire, mancano statisti in grado di far capire ai paesi ricchi che ci rimettono anche loro, se i meno ricchi non risorgono». Marco Magini, specialista in environmental markets a Londra usa parole forti: «Questa lezione ci è servita a capire che l’uomo prospera solo nell’ambiente e che nel fronte di coloro che fomentano l’odio per Greta si è coalizzato il peggio di ciò che ci minaccia». E ancora: «Brexit è un segnale di insoddisfazione per un’Europa che resta fusione fredda e non diventa patria».
Tu, per esempio, Aleksandra, figlia della Serbia profonda, che sei rimasta muta fino a quando, a cinque anni, non hai incontrato un violino che ti ha sbloccato le corde vocali. E tu, Vasko, clarinetto di Macedonia, che ci incantavi con arcane melodie risalenti forse ai tempi di Alessandro il Grande. E tu Anastasya, che per raggiungerci con la tua viola ti sei fatta due giorni e mezzo di autobus da Kiev.
O tu, montanaro Johannes, che appena mollavi le percussioni ci commuovevi con romanze austriache alla fisarmonica. Per non parlare di te, Filippo, piccolo trombettista e mascotte, che a dodici anni hai fatto piangere mille persone suonando il “silenzio” sotto la pioggia per i Caduti della Grande Guerra.
«Tenebra, vento, schiume senza fine / l’immensità della notte cresceva / triremi di Pelasgi e di Liburni / ci remavano accanto a vele piene». Di notte il verso ti sveglia, riaccende la nostalgia di Europa e la voglia di fuga. Dai, scappiamo un’altra volta, Piero, mio capitano, che recitavi Omero al timone. La notte è perfetta, c’è poca Luna e a luci spente nessuno ci vedrà. Andiamo via, lontano da scartoffie, droni e capitanerie, splendidamente irreperibili, e vendiamo cara la pelle.
Al largo di San Benedetto incontreremo le balene. / Fuori, le sberle del mare. All’interno / solfeggio di respiri, in sintonia / col dormiveglia lungo del rollio. Nei porti andavi a caccia di buon vino, ma non per berlo subito. Lo centellinavi dopo, nei lunghi inverni sambenedettesi, per rivivere accanto al caldo i viaggi dell’estate. Oggi ho issato la bandiera stellata d’Europa fuori dal balcone. Alziamo le vele e via, con brezza di Ponente.
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annalistar · 4 years
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Mi sono presa un anno di tempo. Un anno di tono basso. Un anno di riflessione. Un anno di tensione. Un ribollire sommerso, come la lava pronta ad esplodere.
Non me ne sono accorta ma avevo bisogno di ritrovarmi. Di ritrovare me stessa dopo anni pieni. Mi sono fermata. Ero fiamma sotto la cenere.
Le vicissitudini della vita ti fanno capire di essere diventato adulto quando i problemi che affronti sembrano davvero più grandi di te.
Ma ora con un’energia ritrovata e un nuovo inizio mi rendo conto che forse c’è un approccio diverso anche per i problemi ma che forse devi passare per il fuoco per capirlo, per scioglierti.
Il Natale l’ho fatto tra i miei ricordi di infanzia. Incredibile ma riaffiorati uno a uno con annessi i ricordi, tanta malinconia e silenzio.(e lacrime)
Poi l’intervento. Una cosa piccola. Dieci minuti di anestesia e mi sveglio piangendo. Sono contenta. Poi mi sveglio con una nuova voglia, qualcosa di mio ma latente. Rieccoti occhi vivi. Mi sono ritrovata nello specchio. Ho fatto un selfie. Sono bella! Come non mai. Un nuovo vigore mi spinge a nuove sfide. La vita è piena di contraddizioni e cicli. L’importante è non perdersi nei tornanti.
Ho ripreso a pregare da quando sono stata nella cripta di San Francesco. Forse lui mi voleva lì.
Fremo e non dormo.
Aspettando domani e domani ❤️☮️
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