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#io non sono nemmeno ligure
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Purtroppo non sono ligure, ma mi sarei unito molto volentieri 😢🎤
Nemmeno io sono ligure, nessun campanilismo/regionalismo. Chiunque è ben accetto
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maarigolds · 3 years
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The fact that they actually put potatoes and green beans in the pasta al pesto... finally some Italian culture done right, thank you very much
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abatelunare · 3 years
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Cheeeeeeeese
Nel corso della mia breve ma travagliata esistenza non ho avuto molte macchine fotografiche. La prima è stata una mitica Polaroid. Scattavi, strappavi fuori la foto a mano, azionavi l'orologino e attendevi lo sviluppo dell'immagine. Erano più quelle che sbagliavo per impazienza di quelle che riuscivano con colori credibili. I miei me la regalarono durante le vacanze estive, che trascorrevamo in quel di Pietra Ligure. L'ho tenuta finché non ha smesso di funzionare. Dpo di che, sono passato a una roba più seria: una compatta Olimpus TRIP-AF. Anche quella è stata un regalo dei miei, che me la presero mentre eravamo in vacanza in Alta Valtellina. Aveva due soli inconvenienti. Il primo era il cosiddetto errore di parallasse. Tu inquadravi il soggetto, ma veniva fuori qualcos'altro perché risultava sballato di non so quanto. Il secondo era la pallicola. Dovevo sempre farmela inserire dai rivenditori, perché io non ero chiaramente capace. Facevo solo del casino. Comunque mi è durata parecchio. La terza macchina me la sono regalata io. In un negozio di fotografia che non so nemmeno se ancora esiste. Era una reflex (giusto per mandare a quel paese quello stronzo del parallasse). Per la precisione una Pentax P30N. A parte le difficoltà nel metterci su la pellicola, mi sono trovato bene. Mi ero fatto tutta un'attrezzatura incredibile. Cavalletto, scatto flessibili, filtri e portafiltri della Cokin, flash, bolla per l'allineamento, kit per la pulizia, due obiettivi e non ricordo che altro. Ho smesso di usarla perché non era un'autofocus. Il che mi creava parecchi problemi, perché essendo io di molto miope, faticavo a capire quando l'immagine era a fuoco. Non ho idea di che fine abbia fatto. Credo di avere regalato tutto a non so chi. Anche la quarta me la sono regalata io. Una compatta digitale della Kodak. Mi ha servito fedelmente per anni. Poi è successo che la sua meccanica era talmente obsoleta da richiedere pile molto potenti. L'ho rimpiazzata con una Canon compatta digitale usata. L'acquisto è stato più che incauto, giacché aveva un difetto che poi le è risultato fatale. In pratica e in sintesi, non era più in grado di attingere la carica elettrica dalle pile. (Ecco perché me l'hanno venduta a soli trenta euri). Ora ne ho una di una marca che non conosco. Che dimostra una mia radicata convinzione. Più uno strumento tecnologico è recente, più complicato è il suo funzionamento. Se non altro, ha la batteria ricaricabile. Così risparmio almeno sulle pile.
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badolasblog · 3 years
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In questi giorni si è parlato parecchio, sui blog che più o meno seguo, di razzismo e mi pare che quasi sia venuta fuori una rissa. La realtà è che gli italiani sono razzisti o almeno fortemente campanilisti, I torinesi odiano i milanesi per vari motivi più o meno leciti. Ovvero, Milano ha sottratto un sacco di cose a Torino, vedi saloni vari, ma Torino se li è fatti portare via senza battere ciglio. I "napuli o" terun" venuti a Torino nel boom economico hanno sconvolto la città, ma credo che si siano sconvolti loro stessi per quello che hanno trovato qui.Mia cognata molisana odia i piemontesi, ma l'unico vero piemontese che conosce sono io, gli altri sono tutti nati qui da genitori misti. Da me, al mio paesello, i veneti erano chiamati i "terroni del nord" quando arrivavano senza nemmeno la famosa valigia di cartone, io sono cresciuto sentendo la frase" a l'è un napuli ma l'è brav". Quando vado in Molise dai parenti di mia moglie mi prendono per il culo per tutto il tempo perché sono un "polentone". In realtà prima di essere piemontese ero un ligure, cugino stretto dei galli.Insoma,perdiamo tanto di quel tempo a etichettare le persone che ci stanno intorno senza che poi ce ne sia un motivo reale. Non cambieremo mai purtroppo, tanto c'è sempre qualcuno più a nord di noi.
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parolerandagie · 5 years
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Senza mai avere visto il mare
Il nonno di Dante era nato ed aveva vissuto tutta la vita in un paesino sulle prealpi eporediesi, ad un passo dalla Valle d'Aosta, a due passi da quei giganti di granito che, senza che nemmeno quasi più noi canavesani ce se ne accorga, dominano l'orizzonte, se guardi verso nord, facendoci sentire un po' protetti od un po' chiusi, dipende dai giorni e dal nostro umore.
Il nonno di Dante, quando pensava alla città pensava ad Ivrea, nonostante i venticinquemila abitanti male contati la proiettasse più verso i paesoni che le metropoli, e, quando pensava ad un luogo di meraviglie e stupore, allora pensava al mercato di Ivrea, quello del Venerdì, quello grande.
Aveva imparato a leggere da solo, il nonno di Dante, che le due classi elementari che aveva frequentato gli avevano lasciato poco d'altro se non il ricordo vivo degli schiaffoni di una maestra crudele e prigioniera delle sue frustrazioni di vecchia zitella (madamìna frùsta, la definiva ancora, a distanza di decenni, il nonno di Dante, letteralmente signorina usurata, in piemontese), aveva imparato a leggere da solo e non mancò giorno in cui non si prese il lusso di un caffè al bar del paese accompagnato da una attenta lettura de La Stampa.
Coltivava la terra, per vivere, ed allevava vitelli.
E quando Dante rimase solo ed orfano, il nonno di Dante che era nel frattempo rimasto vedovo, se lo prese in casa con un sorriso ed una carezza, e lo fece ridere di nuovo, con i suoi aneddoti strampalati, con le sue facce buffe, e gli raccontò tutto quello che sapeva, tutto quello che poteva, utilizzando un cuore gigantesco che faceva da contraltare alla dimensione minima dei suoi orizzonti, per rendere comunque bella la vita di quel ragazzino che ne aveva già viste più di quanto era il caso: perché se una cosa sapeva fare, il nonno di Dante, era volere bene.
E bene voluto, si sentì Dante.
Non si sentì mai senza famiglia, non si sentì mai solo: il pensiero di tornare a casa e trovare suo nonno, ad aspettarlo, a chiedergli di raccontare cosa aveva fatto a scuola, ed a commentare con uno stupore fanciullesco ogni cosa Dante dicesse, gli scaldava il cuore e la vita. 
Crebbe, Dante, trovò lavoro come operaio, abbandonò casa del nonno per farsene una sua, ma  mai abbandonò il nonno, che visitava regolarmente, più volte la settimana, per mangiare insieme la polenta concia, che come la faceva il nonno di Dante, nel paiolo appeso sopra al camino, nessun'altro al Mondo, per Dante, se non altro.
Poi il nonno di Dante morì.
Morì con un sorriso e dentro un sorriso, raccontò Dante, ad un'età in cui, come disse Dante, non ci si può lamentare di morire.
Ed al funerale del nonno di Dante andammo tutti: tutti quelli che lo avevano conosciuto bene ed anche tutti quelli che lo avevano solo sfiorato per caso.
E Dante ci parlò di suo nonno, quando gli diedero la parola.
Non parlò di una persona eccezionale che gli aveva fatto da padre, da famiglia, da maestro, da guida, che noi le sapevamo già tutte, queste cose, non parlò di una vita vissuta sempre contento ma mai inconsapevole delle brutture e delle ingiustizie del Mondo, che sapevamo tutti anche quello, e neppure del suo vino, che faceva ed orgoglioso beveva ed offriva, o del formaggio, che altrettanto.
No.
Dante iniziò a parlarci di suo nonno con un'affermazione, forte, che disegnava i tratti di quell'uomo, che ce lo fece vedere sotto una luce che mai avevamo intuito: vivere e morire al paese, senza mai avere visto il mare.
Perchè il mare, il nonno di Dante, non lo aveva mai visto.
Pensateci un attimo, provate a pensare ad un'esistenza, durata più di 90 anni, chiusa tutta dentro un'area minima, un cerchio ideale di raggio non superiore ai 50 kilometri, tutto tutto lì dentro, noi che prendiamo treni ed aerei, noi che di mari ne abbiamo visti cento.
Un'esistenza, durata più di 90 anni, chiusa tutta dentro un'area minima, un cerchio ideale di raggio non superiore ai 50 kilometri, eppure significativa, eppure densa, eppure degna, a differenza di tanti di noi che prendiamo treni ed aerei e di mari ne abbiamo visti cento.
Invece, il nonno di Dante, il mare non lo aveva mai visto, nemmeno quello ligure.
E Dante ci disse come, questa cosa, nemmeno lui non la aveva mai realizzata, fino a quando, già grande, a cena, mentre lui e suo nonno mangiavano una polenta concia e bevevano del vino, era uscita fuori chiacchierando, detta da suo nonno, naturalmente senza il minimo risentimento, senza una briciola di rammarico.
Ed allora, Dante, contento come mai di avere trovato qualcosa con cui fare pari a tutto il bene che da suo nonno aveva ricevuto, si offrì di portarlo, al mare, già la mattina dopo se voleva, avrebbe preso ferie, per farlo.
Ma il nonno di dante rispose di no, che non necessitava di vederlo, che gli bastava che Dante glielo raccontasse, gli parlasse ancora di cosa era, di come era, di come, il mare, ti faceva sentire.
Ma perché, chiese Dante, perché non lo vuoi vedere?
Perché non lo ho visto per ottant'anni e se adesso lo vedo e scopro che mi piace, se scopro che cosa magnifica mi sono perso? rispose il nonno, naturalmente con un sorriso, lasciando Dante ancora una volta senza parole.
Senza parole, senza commento, come me adesso.
Questa cosa è capitata almeno vent'anni fa, che il nonno di Dante era del 1906, e non so perché mi è venuta in mente, adesso; ma ho pensato che di quel ragionamento (e se adesso lo vedo e scopro che mi piace?) dovevo darvi notizia, chiedendovi se mi aiutate a coglierne l'immensa profondità, che io ancora non ci sono riuscito.
Come non riesco a fare, paradossalmente, per la profondità del mare.
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paukzen · 3 years
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Appennino Bike Tour
Venuti a conoscenza della neo-nata ciclovia Appennino Bike Tour (ovvero l'attraversamento dell'Italia lungo gli appennini, appunto), io e Mattia decidiamo di percorrerla un po' in anticipo sui tempi (il percorso finale dovrebbe essere definito nei particolari proprio negli stessi giorni) e quindi coltiviamo il pensiero che saremo i primi a percorrerlo da "utenti", quale onore!
Un po' di preoccupazione c'è perchè abbiamo 17 giorni (ce ne metteremo in realtà 15) e, da parte mia, oltre al chilometraggio e al dislivello, temo anche il caldo, considerato che la partenza è fissata per sabato 7 agosto.
Le tracce si trovano sempre sul sito ufficiale ma spero verranno riviste dall'organizzazione in alcuni punti.
Si parte in bici da corsa e in modalità bikepacking (mooolto light). L'abbigliamento è minimal: due cambi completi da bici e per la sera un paio di "scarpe" tipo scoglio (che io a suo tempo avevo pagato molto meno di quanto vedo ora su Amazon), un paio di pantaloncini, una maglietta (che perderò presto, ma che ricomprerò), un antivento/antipioggia (ah! ah! ah!) e una camicia che all'uopo mi servirà per le serate in quota un po' più fresche e pure in bici nel caso (ma non servirà). Due borracce grandi che non saranno mai abbastanza e luci, perchè siamo previdenti e io conosco il mio socio.
Spoiler: problemi di trovare acqua sulla strada non ce ne saranno per quasi tutto il viaggio; solo nelle ultime due tappe un po' più difficile, ma niente che metta veramente in crisi.
I km ufficiali sarebbero circa 2.600 con 46.000 m di dislivello ma il nostro percorso terminerà a Villa San Giovanni (RC), rinunciando quindi alla parte siciliana, sia per disponibilità di giorni, sia perchè ci convince un po' meno anche per logistica (ritorno più complicato).
Inoltre il nostro viaggio partirà da Savona, invece che da Altare, per il fatto che semplicemente il treno da Milano ci porterà lì (si aggiungono quindi 15 km e 500 m di dislivello circa). Il percorso ufficiale prevede fino a Villa San Giovanni 37 tappe, quindi ci toccherà più che raddoppiarle ogni giorno.
Il nostro totale finale sarà di 2.310 km e 44.628 m d+ e attraverseremo 13 regioni, una ventina di parchi e, dice la guida ufficiale, anche circa 300 comuni, ma vabbè, contateli voi. A proposito, una cosa che ho pensato di fare troppo tardi è quella di fotografare i cartelli di tutti i paesi che hanno una parte del nome che contiene i termini sasso o pietra (Pietralunga, Pietrapertosa, Sassello, ecc...) ma appunto non l'ho fatto, sarà per la prossima volta 😊.
Nota: Nel post ci sono solo 10 foto perchè questo è il limite di Tumbrl, cercherò di non sprecarle.
1. Savona / Altare / Sassello / Rossignole / Ronco Scrivia / Albera Ligure: 163,42 km e 3.293 m d+
Alè, si comincia :)!
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Oggi c'è anche il nostro amico Federico LM, che ha deciso di accompagnarci per un paio di tappe, grazie!
Almeno all'inizio i paesaggi sono conosciuti, per es. si passa dal parco del Beigua e dal Monferrato (questo un po' di striscio in realtà) ma l'entroterra della Liguria è sempre un piacere. Poiché attraversiamo un po' anche il Piemonte, siamo già a 2 regioni.
Non fa nemmeno caldissimo e si mangia focaccia, quindi bene. Anzi benissimo, considerato che andiamo subito in vantaggio con la media dei km e del dislivello previsti, anche se mi ripeto che all'inizio devo stare attento a non esagerare.
Nel tragitto si fa un po' di sterrato, niente di che ma è un avviso per il proseguo.
Alloggio: Hotel Ristorante da Bruno, costo normale, camere un po' vetuste e cena casereccia non superlativa. Bruno, una volta visto il nostro abbigliamento da serata, ci relega nella parte "informale" del ristorante, vabbè.
2. Albera Ligure / Capanne di Cosola / Brallo di Pergola / Val Trebbia / Bobbio / Passo Santa Barbara e Sella dei Generali / Val Nure / Groppallo / Bardi: 124,21 km e 3.363 m d+
Anche oggi paesaggi conosciuti/molto conosciuti e secondo e ultimo giorno in compagnia di Federico LM.
La tappa inizia subito con la salita alle Capanne di Cosola (10 km al 4,6%) che avevo già fatto e ricordavo (e si conferma) bella. In cima c'è un albergo dove prima o poi mi piacerebbe dormire. E' per esempio sul percorso di una delle Vie del Sale (trekking).
Al Brallo ci si arriva più o meno da in quota, quindi non difficilissimo, e da un lato che non avevo mai fatto. In cima spicca la presenza del Luxury Shop di Ivo del Brallo, anche se ormai Ivo punta a vendere pellicce a Dubai (sic.). E' tra l'altro l'unico passaggio in Lombardia e che quindi conteggiamo nel numero delle regioni attraversate (ora 3 e prima della fine fine tappa arriveremo a 4 con l'Emilia Romagna).
Il giro prosegue con discesona, anche questa inedita per me: cioè non si arriva dal Penice ma da strada alternativa che passa da Ceci (dove tra l'altro c'è una pista da fondo che prima o poi vorrei provare) fino alla superaffollata Bobbio dove ci procacciamo un panino di dimensioni da vergogna e che consumiamo al parchetto (dove buco la prima delle due volte del giro, il mio socio in questa speciale classifica mi surclasserà).
Foto d'obbligo al Ponte Gobbo (che non posto per il limite di cui sopra) e si riparte.
Da quì la traccia ufficiale (che noi seguiamo pedissequamente) ci conduce alla Sella dei Generali passando dal Passo di Santa Barbara che si raggiunge via direttissima, quindi con muri molto impegnativi, e in questa particolare occasione sotto il sole.
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E quì è però d'obbligo il primo appunto sulla traccia ufficiale. Che senso ha inserire questi muri che arrivano al 20% quando da Bobbio si può arrivare alla Sella dei Generali su strada altrettanto bella, meno ripida e passando da paesini? Se vuole essere un giro per tutti, imho, questi tagli inutili (ce ne saranno tanti lungo il percorso) sono da eliminare.
Dalla Sella dei Generali si scende poi a Farini (val Nure) su strada sterrata a tratti impegnativa (per le nostre ruote da 25) e infatti cadiamo 2 su 3 senza conseguenze (io a 1 cm dalla fine, quasi da fermo). Non lunga per carità, e l'alternativa non la conosco, ma essendo la SP per Farini in discesa mi viene ancora il dubbio che la sterrata si potrebbe evitare permettendo quindi a più gente possibile di percorrere la ciclovia senza difficoltà gratuite con ogni tipo di bici.
Comunque da Farini, dopo l'ultima fatica di giornata - il valico di Groppallo (7 km al 6,6%) - giungiamo a Bardi, bella cittadina parmense che forse si prende un po' troppo sul serio ;). Lei, la sua Fortezza e i suoi "nobili".
Prima di arrivare a Bardi, in discesa Mattia buca rovinando anche il copertone e quindi il tema del giorno successivo sarà quello di trovare un ciclista. Ci penseremo.
Alloggio: Alberto Ristorante Bue Rosso, dalle recensioni non proprio idilliache: comunque spendiamo il giusto, dormiamo e mangiamo degnamente (pappardelle ai funghi porcini, io al secondo giorno consecutivo).
3. Bardi / Valmozzola / Berceto / Passo di Silara / Corniglio / Passo di Ticchiano / Castelnuovo ne' Monti: 138,46 km e 3211 m d+
Tappa in compagnia di Michele della Bardiani CSF Faizanè (o almeno di cui aveva la maglia 😉), che approfitto per salutare.
Le asperità principali di giornata sono rappresentate da:
Un passo che non so come si chiama - Valmozzola? Boh - come tra l'altro la maggior parte dei passi che faremo... A proposito, appello ai sindaci: ma mettetelo un cartello, eh! Ai ciclisti fa piacere!
Passo di Silara (18 km al 4,9 %), scritto alcune volte con 1 "L", altre volte con 2, vai a sapere.
Passo del Ticchiano: 12,23 km al 3,2 %
6 km circa di mazzate (muri dall'8% al 12%), da Selvanizza
Si passa quindi dalla bella cittadina di Berceto: "la città di montagna più vicina al mare" recita il cartello di benvenuto (e questo sarà tema di molte battute nel corso del viaggio) e dall'altrettanto carina Corniglio, con relativo castello di serie.
Oggi tappa mono-regionale in Emilia Romagna - e questa sarà una rarità del giro, cioè tutta la giornata in un'unica regione - che finisce a Castelnuovo ne' Monti, fuori dal percorso ma cittadina dotata di ciclista da cui ci approvvigioniamo di copertoni e camere d'aria (nel frattempo Mattia aveva bucato altre due volte). Così ci rilassiamo.
Comunque entriamo anche nel Parco Nazionale dell'Appenino Tosco-Emiliano.
Alloggio: Albergo Miramonti: senza infamia, senza lode.
4. Castelnuovo ne' Monti / Lama Mocogno / Montese / Gaggio Montano: 157,50 km e 2.757 m d+
Avevo detto che le tappe mono-regionali erano rare? Avevo ragione ma eccone subito un'altra e sempre in Emilia Romagna. Per la prima volta scendiamo sotto i 3.000 m di dislivello.
Dopo un po' di saliscendi iniziale, affrontiamo 20 km di discesa/pianura su SP che costeggia il fiume Secchia. Lo stradun è brutto brutto e con tratti molto trafficati (altro punto che l'organizzazione dovrebbe rivedere, anche se non sembrano esserci alternative senza sconvolgere il giro).
Purtroppo non sono il massimo (traffico) neanche la salita per Gombola/Polignano (8,54 km al 4,7%) e poi il saliscendi verso Lama Mocogno.
La tappa è però caratterizzata soprattutto (come le seguenti) per il gran caldo, motivo per il quale prendiamo la drastica decisione, da questo momento in poi, di anticipare la partenza (fino ad oggi eravamo partiti sempre verso le 8,00) e così faremo. In 3-4 gg arriveremo a mettere la sveglia alle 5,00, per poi partire tra le 5,30 e le 6,00, noi uomini duri.
Arrivati a Lama Mocogno mangiamo e ci facciamo un bel pisolo all'ombra, ignari di quello che ci aspetta e cioè, dopo la discesa a fondovalle, una serie di muri, in parte sterrati, micidiali - al 15% quando andava bene - per Montese.
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E quì è d'obbligo un altro appunto per gli organizzatori: sono proprio necessari considerato che a Montese si sale anche da strada provinciale??? La strada sarà forse (sicuramente) un po' meno bella ma affrontabile da tutti anche senza bici elettrica o senza essere Contador. Io per esempio sono sceso dalla bici (il mio socio no) e mi ritengo abbastanza o molto allenato rispetto alla media. Aggiungo anche che in queste strade secondarie (ma anche terziarie e oltre) non c'è nulla: ne' acqua (in realtà questa la "scroccheremo" in una casa privata), ne' altro.
Alloggio: Antica Locanda La Posta, per ora il miglior posto del viaggio, anche considerato la simpatia della cuoca e della cameriera che hanno con gli ospiti una confidenza livello pro e che mi piace. Vicino c'è anche una lavanderia a gettoni così laviamo tutto bene per la prima volta.
5. Gaggio Montano / Porretta Terme / Barberino del Mugello / Croce dei Morì / Pratovecchio Stia / Poppi / Subbiano: 172,43 km e 2.564 m d+
Come dicevo, si parte prima - e i km percorsi ne sono la dimostrazione, anche se si pecca un po' nel dislivello - e si arriva in Toscana (regione n. 5).
Si parte in discesa passando da Porretta Terme - e a proposito uno degli obiettivi mancati è stato entrare in una termA (😂?, L'Accademia della Crusca dice di no) - e successivamente saliamo verso il lago di Suviana (e poi un po' oltre fino ad un passo che tanto per cambiare non ha un nome) a cui facciamo svogliatamente delle foto, ma comunque non fondamentale.
Sono stato breve perchè la tappa non è che sia stata delle migliori. Non riusciamo neanche ad annoverare tra i parchi attraversati il Parco del Casentino, a cui passiamo solo vicino.
Alloggio: da Chenno, spendiamo 45 € per una doppia con il bagno in condivisione, quindi per me ottimo (il mio socio è più riluttante per questo tipo di soluzioni). La cena invece è alla Corte dell'Oca, ristorante un po' sostenuto dove mangiamo bene e spendiamo un po' più del solito. Poichè siamo in Toscana io rispolvero il mio menù collaudatissimo da Tuscany Trail: ribollita per primo e pasta cacio e pepe per secondo.
6. Subbiano / Anghiari / Citerna / Gubbio / Assisi / Ponte S. Lucia: 166,39 km e 3.029 m d+
Dopo 2 giorni sotto i 3.000 m d+, torniamo a superarli in questa tappa tra Toscana e Umbria (regione n. 6) in cui comincio a sentire un po' la stanchezza e insisto con il mio socio a cercare una sistemazione con piscina, complice anche il caldo che da mezzogiorno in poi è devastante. Ad Assisi per esempio registriamo i 47 gradi, quarantasette! Avrei anche come testimonianza la foto del Garmin fatta da Mattia ma non mi voglio giocare una delle 10 del post, quindi fidatevi.
Il percorso è caratterizzato da due super salite, indovinate un po', senza nome: la prima di 6,8 km al 6,3%, ma con punte che superano il 10% e l'altra di 12,50 km ma con gli ultimi 5 km al 7,5% e anche quì con muri vari.
Comunque, come anticipato, siamo tra Toscana e Umbria e quindi, OVVIAMENTE, passiamo da posti da cartolina e paesi bellissimi quali Anghiari, Citerna, Spello, Gubbio e Assisi, dove mangiamo un gelato spettacolare contro ogni previsione (sembrava un bar per turisti) per giungere infine all'alloggio deluxe con piscina, posizionato a metà di una salita (che proseguiremo il giorno dopo).
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Aneddoto: sulla salita a fine tappa, sotto il sole e con 2 km all'8% si ferma un signore appassionato di bici che ci disseta e ci chiede se saliamo, come faceva lui, con il 53 (😂, non ce l'ho neanche il 53!) PS Questa cosa del 53 diventerà un altro tormentone del giro.
Alloggio: Guesia Village Hotel (con piscina) che è abbastanza di lusso in confronto ai nostri standard (e in effetti si rivelerà, a parte Scilla, il posto dove spendiamo di più). Anche la cena è sofisticata e per primo prendo, per dire, la pasta cacio e pepe con cozze (comunque non male, lo ammetto). Per il secondo (rombo) ci fanno attendere cento anni (non dico 1000 solo per una successiva esperienza). In definitiva, non fosse per la piscina, bocciato.
7. Ponte S. Lucia / Cerreto di Spoleto / Visso / Castelluccio / Arquata del Tronto / Illica: 116,13 km e 2.847 m d+
Oggi ci giochiamo Umbria, Marche e Lazio (le ultime due rispettivamente regioni n. 7 e 8) e saremmo pure vicino all'Abruzzo e quindi ad un certo punto non si capisce più un cavolo.
Ad ogni modo passiamo dal Parco dei Monti Sibillini e siamo pure confinanti con il Parco del Gran Sasso, aggiungeteci che transitiamo anche da Castelluccio, seppure in un periodo senza fioriture, e rischia di essere una delle tappe più belle di tutto il giro.
Il percorso però è caratterizzato quasi per intero dal passaggio in paesi terremotati (Visso su tutti) e dai loro alloggi temporanei, così ci viene un po' di tristezza e sembra strano che a parte Propaganda Live non parli più nessuno della loro ancora precaria situazione. Ad ogni modo pranziamo in un market situato in una baracca e affrontiamo la salita fino a Castelluccio (Forca di Gualdo: 10 km al 7,8%) e la successiva (Forca di Presta: 5 km al 3%).
L'arrivo, anche a causa della mancanza di alloggi per i prossimi 50 km è Illica, prima della quale prendiamo però la prima pioggia del giro e iniziamo a fare conoscenza con i cani pastore del territorio (giuro che non mi spiego come hanno fatto in un occasione a non mordermi: ad un certo punto ero circondato da 3 pastori maremmani giganti che mi abbaiavano e mi ringhiavano a 5 cm). Boh, sarà il karma :)
Altra nota per l'organizzazione: forse dovrebbe avvertire di questo pericolo e dare 2 indicazioni su come comportarsi (da quello che ne so meglio scendere di bici, mettendola tra se' e i cani, togliersi casco ed occhiali e procedere lentamente. In caso di attacco vero ci sono video su youtube, se avete il tempo di consultarli mentre scappate.
Alloggio: B&B Lago Secco, il migliore alloggio di tutto il giro. 30 € cad., due letti in una casetta di legno, lavatrice, lavaggio bici, birra di benvenuto, cena casereccia buonissima e abbondantissima. La cena è consumata insieme alla famiglia (e ai loro amici) che lo gestisce (ma in realtà ci abitano anche lì visto che la loro casa non esiste più😢). E poi loro gentilissimi e molto umani e poi si parla con persone vere, insomma top.
8. Illica / Amatrice / L'Aquila / San Demetrio ne' Vestini / Parco Majella / Caramanico Terme: 163,27 km e 2.060 m d+
La partenza è caratterizzata da una salita su sterrata prima e sentiero di montagna poi (ma come??? @organizzazione: o avvisate o cambiate il percorso, seppure molto bello), che si fa necessariamente a piedi. Agevolo foto:
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Inoltre prima di Amatrice si passa da una fattoria con relativo inseguimento di cani rabbiosi.
Partenza non male ma alla fine riusciamo ad arrivare incolumi ad Amatrice anche se siamo ancora una volta colti da un po' di tristezza visto che anche Amatrice in pratica non esiste più (tra l'altro è notizia di questi giorni che dopo 5 anni dal terremoto è arrivata la prima gru per la ricostruzione).
La tappa non è caratterizzata da salite significative (facciamo comunque 2.000 m di dislivello, eh) ma da un avvicinamento a L'Aquila non bellissimo. Quì ne approfitto per comprare le tacchette nuove delle scarpe che dopo la salita nel bosco si erano distrutte.
Il pranzo è messo insieme ad un supermercato discount dove mi costruisco un elaborato panino philadelphia-fake e salmone dalla dubbia provenienza, il tutto bevendo una specie di Gatorade a 0,60 €.
Il finale, entrando nel Parco della Majella - a proposito siamo in Abruzzo ora (regione n. 9) - ripaga comunque tutto.
Arriviamo all'ennesima località termale, come dice il nome (Caramanico Terme), e anche a questo giro niente termA. Cittadina molto turistica ma piaciuta.
Alloggio: Albergo di Piero, non eccezionale come camere (2 singole minuscole) ma dalla cucina strepitosa (zuppa di lenticchie per me + crepe agli spinaci + formaggio eccezionale). Un "brava e BRAVA" alla cuoca.
9. Caramanico Terme / Passo San Leonardo / Guardiaregia / Isernia / Pietrelcina: 187,40 km e 3.210 m d+
La partenza è fantastica, siamo ancora in pieno Parco della Majella, con la salita al Passo San Leonardo (16 km al 4%) e successivo altopiano, in alcuni punti un po' costruito male a dire il vero (ved. per esempio Campo di Giove, a cui si arriva dopo un'altra salita di 10 km al 3,7 %).
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Appena iniziata la discesa, a Rivisondoli o Roccaraso, non ricordo, facciamo una seconda colazione (ormai, visto gli orari di partenza, la colazione vera in partenza è saltata) in pasticceria di lusso per proseguire poi (passando da Guardiaregia, bellina) fino ad Isernia, di cui non ho nessuna opinione.
Siamo in Molise, eh! Che quindi esiste (regione n. 10).
Da quì, per evitare la Strada Statale, la traccia ufficiale prevede una strada laterale con annessi muri, per fortuna non troppo lunghi, e con una fontana inaspettata e strepitosa.
Comunque, dopo un po', la SS ci tocca sorbircela (@organizzazione vuoi davvero fare percorrere questa strada ad una famigliola o non è questo il target della tua ciclovia?) e così il pranzo di ferragosto lo consumiamo in un autogrill, che poi non era neanche male.
Da notare però che la SS è la Statale 17 e così canticchio tutto il tempo il pezzo di Guccini & i Nomadi, cioè lo farei se ricordassi le parole. Un ripasso è d'obbligo, eccolo.
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Si arriva infine in Campania (regione n. 11) a PietrElcina (non PietrAlcina come i più, compreso me, credevano) che è famosa per essere il luogo di nascita di Padre Pio (altro obiettivo venuto in mente troppo tardi è contare le statue a lui dedicate, ce ne sono un sacchissimo). Ovviamente il luogo è un po' trash, lasciatevelo dire da un miscredente come me.
Prima di PietrElcina troviamo un posto che fa asinoterapia, che poi scopro ora si chiamerebbe più correttamente onoterapia, e così ci facciamo una serie di battute d'obbligo ma non proprio riuscitissime, forse perchè siamo un po' stanchi (solo ora me ne vengono in mente tante migliori).
Alloggio: Affittacamere La Dolce Sosta. Costo nella norma, camera discreta e cucina OTTIMA. Proprietari genuini ma che con timidezza chiedono il pagamento in contanti (senza ovviamente emettere fattura). Insomma bene, ma non benissimo.
10. Pietrelcina / Guardia Lombardi / Muro Lucano / Picerno: 156,61 km e 3.255 m d+
Ormai ci si sente quasi arrivati (vabbè, è ancora lunghissima ma ormai siamo nel pieno sud) e dalla CANpania, rinominata così a ragione (ved. dopo) dal mio socio, si arriva in Basilicata (regione n. 12).
La partenza è una combinazione perfetta di attacco di cani (a questo giro non cani pastore ma di privati che evidentemente non ritengono necessario legarli) e muri da denuncia all'organizzazione. Tra l'altro su uno di questi (1 km all'11%) prendo una coppa di Strava, trofeo prestigiosissimo, evidentemente perchè inseguito da un cane, se no non si spiega.
Si passa un po' nel nulla e la difficoltà maggiore si rivelerà mangiare qualcosa a pranzo. A Muro Lucano, dal nome e dall'aspetto affascinante, per esempio, non c'è NIENTE di aperto.
A proposito, tutta la Basilicata è costellata da paesini arroccati molto belli, ma causa limite di foto non ne posto neanche una.
La salita più significativa è il monte Carruozzo (🤣), 11 km al 4%, ma sorprendentemente vado ancora bene, piano ma bene, e infatti anche oggi superiamo i 150 km e i 3.000 m d+. Mattia invece non ha problemi a gestire le forze e procede, come tutto il giro e più in generale come sempre, più spedito di me.
Altro aspetto che non si può non notare della Basilicata è il numero impressionante di pale eoliche, con annesse polemiche. Ho scoperto tra l'altro che fotografare le pale eoliche è bellissimo e ho fatto pure una serie di foto pseudo-artistiche, che per vostra fortuna vi risparmio.
Dopo un'ultima salita si arriva a Picerno, che però non vedremo in quanto il nostro alloggio è situato fuori, così va la vita.
Alloggio: alla bella Locanda Arcadia, gestita da una signora dell'est che si sbatte tantissimo e ci prepara un'ottima cena.
11. Picerno / Abriola / Castelmezzano / Pietrapertosa / Aliano: 127,06 km e 2.873 m d+
Il ciclista accompagnatore di oggi è Gianluca di Ercolano o Portici (non ricordo più, comunque provincia di Napoli) che ha una MTB, fa gare e si vede. Un saluto anche a lui.
Il primo passo di giornata è quello della Sellata (almeno questo segnalato) che comporta una salita di 10 km al 5%, anche se le perle di giornata sono Castelmezzano (salita di 6 km al 8,3%) e Pietrapertosa (strada MERAVIGLIOSA, da top 5 di tutto il viaggio, 7 km al 5%). Sebbene i due paesi siano distanti circa 1 km in linea d'aria, in mezzo c'è una vallata, così se si vuole andare da uno all'altro senza fare la nostra fatica, si può fare (pagando) il volo dell'angelo che ti porta appeso ad una fune da uno all'altro, così. Dice il sito che si raggiungono i 110 km/h, sticazzi.
Siamo nel Parco Regionale Gallipoli Cognato "Piccole Dolomiti Lucane" (sic.).
La Basilicata, devo dire (in questo caso, scrivere), è la regione che più mi ha incuriosito in questo viaggio, forse perchè non c'ero mai stato o per i paesaggi alla Sergio Leone, e infatti mi ripropongo, appena tornato, di guardare il film Basilicata coast to coast (il quale si rivelerà purtroppo solo "carino" ad essere buoni e in pratica è uno spot promozionale della Regione).
Ad ogni modo si arriva ad Aliano, paese in cui ha vissuto in esilio Carlo Levi, che quì ha ambientato Cristo si è fermato ad Eboli (che mi ripropongo di leggere) e in cui è seppellito per sua scelta. E noi quindi, da bravi turisti, andiamo a visitarne la tomba.
Il paese è inoltre caratterizzato da una tranquillità non comune.
In più è sede del festival La luna e i Calanchi.
In più ci sono i calanchi, appunto.
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Insomma Aliano mi è rimasto un po' nel cuore e lo eleggo in questo preciso momento come paese simbolo dell'intero viaggio. E, in assenza di contradditorio, tappa più bella del giro (compresa discesa del giorno successivo).
Scopro in questo momento che è candidato come città della cultura 2024, e quindi faccio il voto di ritornarci, giurin giurello.
Purtroppo il percorso non ci fa passare da Craco che è una città fantasma (abbandonata a seguito di una frana) che avrebbe meritato sicuramente una visita (ma dista 34 km ed è fuori strada).
Alloggio: B&B Palazzo Scelzi, bello e pulito e nella piazza principale. Cena dalla Contadina Sisina, ottima cucina regionale con menù a prezzo fisso (25 €) ma con attese tra un piatto e l'altro pazzesche (alcuni clienti hanno abbandonato per sfinimento e alla fine, incredibilmente, anche noi).
12. Aliano / Roccanova / Parco Pollino / San Severino Lucano / Rotonda / Mormanno / Orsomarso: 137,63 km e 2.998 m d+
Come dicevo, la discesa da Aliano tra i calanchi è molto affascinante ma l'altro pezzo forte della giornata è il Parco del Pollino, che attraversiamo salendo verso San Severino Lucano (28,70 km al 2,5%, non proprio regolari).
Il parco sembra essere un po' più curato dal punto di vista turistico (per es. segnaletica in legno, anche nei paesi), rispetto al territorio attorno e va bene così.
Dopo il Pollino ci dirigiamo verso Mormanno, che prevede una salita molto irregolare con qualche muro, e quì troviamo da dormire nel fantastico Papavillage (Chalet) che prometteva fresco e piscina. Peccato che una volta arrivati scopriamo che è completamente abbandonato, sporco e malmesso (e piscina prosciugata). Così ci tocca proseguire.
Siamo sulla ciclovia dei parchi della Calabria (regione n. 13 e ultima, ahimè) e così proseguiamo fiduciosi verso il primo posto disponibile (e forse, pensiamo, direttamente fino il mare).
Segnalo che la ciclovia dei parchi della Calabria è caratterizzata da due particolarità:
Muri al 25% che ci chiediamo se sia stata progettata per la famiglia di Egan Bernal e per quella di Mathieu Van der Poel
Ipersegnaletica: cioè c'è un cartello ogni 10 m, pure quando non c'è nessuna svolta (il mio socio ironizza sull'utilizzo di fondi europei, vai a sapere)
Ad ogni modo arriviamo a Orsomarso, dal nome allitterato, e dopo aver constatato che sul mare non c'è nessun posto disponibile per la notte, andiamo alla ricerca di un posto per dormire, che troviamo all'ultimo. Intanto Mattia, che si vede che non sapeva cosa fare, buca ancora.
Orsomarso è un paese molto strano con una specie di madonna di Lourdes che lo sovrasta da una grotta illuminata, un po' inquietante a mio modo di vedere. Nonostante inoltre sia a una quindicina di km dal mare è decisamente un paese di montagna (Berceto trema) ed infatti siamo ancora nel Parco del Pollino. Comunque ci sono un sacco di attrazioni: un fiume (che si chiama Lao, bel nome) dove fare kajak/rafting, delle cascate, un castello ed è pure partenza di molte escursioni a piedi.
Curiosità che scopriamo e che ora copio&incollo da wikipedia: La squadra colombiana Orsomarso SC, fondata nel 2016 e con sede nella città di Palmira, trae il suo nome proprio dal comune calabrese.
Alloggio: B&B da Loredana, che poi è un appartamento affittato dal cugino di Loredana che ha un B&B ufficiale lì vicino (ma pieno in questa occasione) e che tra l'altro è il sindaco del paese. Ad ogni modo di fatture ne vediamo 2 (come no). Cena al Ristorante sul fiume La Costa che sembra fare un'ottima pizza ma noi prendiamo altro, comunque buono, mi sembra di ricordare. Abbiamo tra l'altro il piacere di scoprire in questa occasione il Tartufo di Pizzo, che, prima dell'arrivo della granita siciliana (ma ci torneremo), prenderemo ancora nelle tappe a venire, devo dire con risultati non all'altezza.
13. Orsomarso / Sant'Agata di Esaro / Passo dello Scalone / San Benedetto Ullano / Montalto Uffugo: 120,42 km e 2.441 m d+
Visto l'andazzo fino ad ora, questa la consideriamo una tappa di "riposo" anche perchè finalmente scovo un B&B con piscina che sembra bellissimo ad una distanza onorevole.
La tappa parte ancora con una discesa, fino al mare, che poi costeggiamo per circa 30 km su una strada costiera brutta e trafficata. I paesi che attraversiamo non sono da meno (brutti) e dopo una costosissima colazione prendiamo atto che fino ad oggi questo mito che tutto costa meno al sud non lo abbiamo veramente mai toccato con mano (poi boh, questa è stata la nostra esperienza). Ne approfitto anche per sfatare il mito dei peperoncini calabresi: io amo il piccante, ho sempre chiesto il peperoncino e mai era veramente piccante, mah. Magari sono stato sfortunato.
Arrivati a Belvedere marittimo (che poi il belvedere deve essere evidentemente la montagna alle spalle) incomincia però una salita bellissima, vista mare, fino al Passo Scalone (13,68 km al 4,7%).
Dopodichè la tappa è tutta un su e giù, senza niente in particolare da segnalare, fino alla tanto desiderata (almeno io) piscina.
Alloggio (con piscina): Home 4 Creativity - Coliving Calabria, nome quantomeno originale per il posto più figo dove siamo stati (anzi secondo, dopo Illica). Ad ogni modo:
Costo nella norma: miniappartamento con 2 stanze da letto spaziose e luminose (70 €)
piscina con vista spettacolare su Cosenza e sul Parco della Sila
libri dovunque, e così scopro Vecchia Calabria di Norman Douglas: raccolta di memorie di questo nobile inglese su molti viaggi condotti nella regione e che, se avessi più tempo nella vita, leggerei
cena buona, abbondante - preparata dal gestore del posto (ex-ingegnere che ha costruito il B&B con i suoi operai e poi ha cambiato vita) - casereccia e tipica: mangio i maccheroni (delle specie di spaghettoni, non quei maccheroni lì) e verdure molto buone
14. Montalto Uffugo / Cosenza / Aprignano / Parco Sila / Taverna / Catanzaro / Amaroni / Squillace: 177,46 km e 3.393 m d+
Senza dircelo a vicenda ci accorgiamo che con 2 tappe bene assestate potremmo finire il giro il giorno dopo. Comunque non ci poniamo obiettivi un po' per scaramanzia, un po' perchè rovinerebbe lo spirito del viaggio ("si arriva fino a dove si arriva", senza forzature).
La tappa inizia, come ci succede da un po' in effetti, in discesa e così si arriva velocemente a Cosenza conosciuta nel panorama mondiale dell'architettura per il ponte di Calatrava (che intravediamo e che comunque è uguale a tutte le sue cose. Scusa Cala, si scherza, eh!) e per l'università di Gregotti (che non vediamo ma sarà uguale alla Bicocca, infatti. Scusa Greg, si scherza, eh!). Per il resto sembra una città abbastanza anonima, ma poi chi sono io per dare certi giudizi.
Si fa un po' di stradun e iniziamo la salita (20 km al 4,35) verso il Parco della Sila. Cosa dire del parco? Al mio socio non piace eccessivamente per via della mancanza di panorama ma a me che sono più accomandante piace solo l'idea di essere in un parco e che ci sono alberi, quindi promosso.
Comunque, in mezzo all'altopiano, facciamo anche uno dei pranzi (che poi saranno state le 11,00) più soddisfacenti del giro (panino con formaggio locale e melanzane).
La tappa si contraddistingue poi per il passaggio a Catanzaro, che ha uno skyline che visto dal basso per 5 secondi può sembrare bello, prima di immettersi in una superstrada che incredibilmente finisce in un vicolo in città in mezzo ad un panettiere e ad un negozio di giocattoli (questo me lo sono inventato, perchè non ricordo esattamente cosa c'era ma potrebbe benissimo essere). Lasciando Catanzaro c'è ancora qualche squarcio carino della città ed è incredibile come dopo solo un paio di km dalla città non ci sia più letteralmente nulla, solo campagna, così è fatto il mondo.
E' tempo per il secondo pranzo di giornata e il secondo del viaggio in un autogrill, anche questo, devo ammettere, buono (che poi è il solito panino al formaggio e credo che prima della fine del giro mi trasformerò in un formaggio vivente: la vita del viaggiatore è dura per chi non mangia carne).
A pomeriggio inoltrato incominciamo a cercare un posto per dormire lungo il tragitto e, poichè a Taverna, Girifalco e Amaroni (tutte belle cittadine) non c'è nulla, si va diritti (si fa per dire) a Squillace (anche questa bellina con il castello d'ordinanza), leggermente fuori percorso.
Nella giornata di oggi è partito anche il gioco "conta le pande vecchie", risultato: 67
Alloggio: a 'sto giro ha l'onore di ospitarci il sig. Renato in un mini-appartamento senza finestre che comunque fa il suo dovere (farci dormire). A cena andiamo alla Taverna di Pepe, dove sono tutti un po' antipatici ma in cui mangiamo bene, come al solito, direi (siamo stati fortunati o forse eravamo sempre molto affamati).
15. Squillace / Fabrizia / Aspromonte / Santa Cristina Aspromonte / Scilla / Villa San Giovanni: 200,73 km e 3.334 m d+
Ultimo giorno!!!! Il menu di giornata prevede il Parco delle Serre, il Parco dell'Aspromonte e l'arrivo a Scilla, città rinomatissima e come vedremo intasatissima (e pure costosissima, insomma Scillissima), anche se da quì (spoiler) ci tocca un A/R a Villa San Giovanni, arrivo ufficiale del giro.
In partenza, partiamo da 200 m di altitudine e arriviamo a circa 1.200 m, rimanendo poi più o meno in quota per buon parte della tappa. Del Parco delle Serre non ricordo molto ma il Parco dell'Aspromonte mi piace un sacco (al mio socio all'inizio un po' meno, per via della mancanza di panorama, poi si redime e incomincia ad apprezzare anche lui le sue foreste e la ricca flora, almeno credo).
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Nel Parco l'attività prevalente è senz'altro il trekking anche perchè le strade sono veramente messe male (buche giganti) e infatti incontriamo in tutta la tappa un solo ciclista che ci accompagnerà per un pezzo, Roberto (che saluto) e che tra l'altro mi offre un biscotto al miele buonissimo e fondamentale per arrivare alla pausa pranzo.
Nel mentre prendiamo anche la seconda pioggia di tutto il giro, ma, poichè siamo riparati dalla ricca flora di cui sopra, non ci bagnamo, tiè.
Nella mia personale classifica dei parchi calabresi, se ve ne frega qualcosa, il Parco dell'Aspromonte vince di brutto. Purtroppo però scorgiamo ampie parti bruciate, sembra anche recentemente, come da cronaca di questo agosto 2021.
Alla fine del parco si scende infine a Bagnaria per poi fare il lungomare fino a Scilla prima e successivamente, come anticipato, a Villa San Giovanni (e ritorno). All'arrivo ci facciamo fare la foto da una signora svogliata e non troppo talentuosa (ved. foto seguente. A sua parziale discolpa eravamo comunque contro sole) e torniamo a Scilla, dove ho l'occasione di mangiare la prima di innumerevoli granite alla mandorla, ovviamente con panna (Tartufo di Pizzo, arrivederci).
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Di Scilla posso dire che è molto bella e siccome siamo ad agosto ed è appunto bella ci sono miliardi di persone e macchine lungo il mare e così alla fine continuo a preferire, come scelta di vita, le montagne, amen. A Scilla fanno anche un "famoso" panino al pesce spada (9 €, azz...) che mangerò il giorno successivo al Civico 5, #Quellidelpaninocolpescespada dicono loro, e che conoscono tutti, ma proprio tutti, infatti farò 1 ora di coda.
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In quanto al gioco "conta le pande vecchie", arriviamo allo strabiliante numero di 139.
Alloggio: B&B da Mariarita (110 €) che è l'UNICO posto libero in tutta Scilla per dormire. La cena, su consiglio di Mariarita, è consumata al Ristorante al Ponte, che è forse il peggiore di tutto il paese, stando anche alle recensioni di google. D'altra parte arriviamo che sono le 19,00 e non avevamo assolutamente ne' voglia ne' tempo di mettersi a cercare un posto. Comunque il Ristorante (che ha più di 50 tavoli e 200-300 coperti, così a naso) offre un pessimo vino della casa, un risotto ai frutti di mare annacquato e una grigliata mista niente di che. Se vi piace il menu, ve lo consiglio.
16. Addendum: Scilla - Reggio Calabria
Mentre io mi passo una mezza giornata, non troppo goduta, al mare a Scillissima (però mangiando granite siciliane e il panino con pesce spada) e per la quale sono assolutamente non equipaggiato (mancanza di costume e di asciugamano e rimorchio di bici al seguito) il mio socio va a Reggio in bici (io andrò in treno più tardi) e così ci ritroviamo lì per l'ultimo giorno prima della partenza. Questo lo passeremo in parte nel fastoso (si fa per dire) Lido comunale (10€: ingresso, ombrellone e due sdraio). Le foto del sito non sono comunque per niente corrispondenti alla realtà in quanto la struttura è in evidente stato di abbandono: edifici semi-crollati, sdraio rotte, ecc... A noi è comunque piaciuto perchè siamo dei tipi semplici e ci basta poco.
Solo durante il viaggio di ritorno scopriamo che il lungomare Falcomatà di Reggio Calabria è conosciuto come il km più bello d'Italia (così come proferito da Gabriele D'Annunzio). Ciò mi lascia completamente basito e quindi taccio, senza avere nulla di particolare contro il lungomare, eh.
A Reggio NON andiamo a vedere i bronzi di Riace (che ignoranti) ma andiamo per ben 2 volte a mangiare da Lievito (buonissima pizza e buonissimo tutto, comprese le birre di cui hanno ampia selezione), per farvi capire le nostre priorità.
The end
E così il nostro viaggio si conclude con il ritorno a casa in treno: 2 frecciarossa con cambio a Salerno, 12 ore di viaggio in totale, compreso il tempo per cambio treno. A Salerno abbiamo quindi l'occasione di sgranchirci le gambe e visitare (da fuori) la bella Cattedrale, che così diventa l'ultima attrazione turistica del viaggio.
E' stato un viaggio bellissimo, il più lungo mai fatto in bikepacking e di sicuro il più impegnativo. A parte alcuni stradoni, i cani della CANpania e un po' troppi muri (di cui alcuni non necessari), i paesaggi sono notevoli e poi il fascino di attraversare praticamente tutta l'Italia per parchi e strade secondarie è incredibile e mi rimarrà dentro per un sacco di tempo.
Un augurio particolare che tutto possa tornare alla normalità nel più breve tempo possibile a tutte le persone che hanno perso cari e casa nei terremoti del centro italia e un auspicio che in futuro non ci siano più incendi a distruggere i nostri parchi. Ho letto che dall'inizio dell'anno ad oggi sono più di 150mila gli ettari di bosco andati a fuoco, “una superficie pari a quelle di Roma, Milano e Napoli messe insieme”.
E grazie ovviamente al mio socio Mattia che mi ha aspettato sempre in cima alle salite e accompagnato nelle lunghe pianure assolate. Inoltre fa foto molto belle ed ha un profilo instagram di tutto rispetto, seguitelo.
Ultima nota: il viaggio è costato circa 100 € al giorno a testa, compreso di biglietti del treno. Sono esclusi solo i copertoni del mio socio e la mia maglia tecnica in sostituzione di quella che avevo perso.
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frontedelblog · 4 years
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"A DISTANZA RAVVICINATA", UN GIALLO "DI COSTIERA"
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Bentrovati, cari Sabrina e Daniele! Molti non lo sanno, ma noi tre formiamo un triangolo letterario, al cui vertice c'è Daniele, che ha scritto romanzi e racconti a quattro mani con ciascuno degli altri due. Per questo motivo, mi asterrò da commenti sul vostro "A distanza ravvicinata" (vabbè,  se proprio volete saperlo mi è piaciuto moltissimo…), uscito a fine febbraio per "Fratelli Frilli Editore", mantenendo il dovuto distacco nel porre le domande e lasciando che siate soprattutto voi a parlare del vostro lavoro. Siamo d'accordo? Si parte! R: Chi dei due ha avuto l'idea che sta alla base del romanzo, ovvero un'indagine compiuta da una coppia di investigatori che nemmeno si conosce? S: Rino, innanzitutto grazie di cuore per l’ospitalità e l’attenzione! Come talvolta accade anche in questo caso tutto ebbe inizio per … caso! Da uno scambio di ricordi abbiamo scoperto avere un trascorso comune, Daniele ed io, che è quello di aver abitato a Lavagna, io solo in estate mentre Daniele come residente. Ovviamente all’epoca non ci conoscevamo e dalla classica frase magari ci saremo anche incrociati senza saperlo è partita l’idea di una storia che si muovesse su questi presupposti.  D: Il triangolo non l’avevo considerato! Buongiorno, Rino. Grazie a te per l’opportunità di questa chiacchierata tra amici, prima ancora che coautori. Direi che la suggestione di partenza è scaturita da Sabrina, che tra l’altro mi ha fatto conoscere una splendida poesia della poetessa Wisława Szymborska intitolata “Amore a prima vista”. Consiglio a  tutti di leggerla, è meravigliosa. In questo componimento, la poetessa tesse un meraviglioso affresco poetico attorno ai segni premonitori (non colti) del destino d’amore che lega due persone. Ecco, partendo da questa suggestione, è nata l’idea di due personaggi che non si conoscono, ma lo faranno più avanti nel corso di quella che dovrebbe essere una serie di romanzi, e si ritrovano a sostenere un’indagine parallelamente, partendo da prospettive e situazioni molto distanti, se non addirittura opposte: una ragazzina “detective per caso” e un giovane maresciallo dei carabinieri, che finisce cooptato addirittura in un’inchiesta dei servizi segreti. Lo spunto, infine, è piaciuto all’editore Carlo Frilli, che ringraziamo per la fiducia e il sostegno, e ora eccoci qui. R: Un'altra rilevante caratteristica di "A distanza ravvicinata" è che mescola due generi: il giallo vero e proprio, specie per quanto riguarda la protagonista femminile, a tutti gli effetti una "miss Marple" giovanissima, e la spy story, in una versione insolita per lo sfondo italiano della trama spionistica… S: Assolutamente vero! Nelle pagine sono confluite le passioni mie e quelle di Daniele. Io sono molto vicina per gusti e amor di letture al giallo classico e al thriller; più di tutto mi appassionano i personaggi, scandagliarne i pensieri e i modi, prestare loro suggestioni mie e lasciarmi sorprendere quando la storia ne stimola reazioni per me impensabili fino a poco prima di scriverle.  D: In effetti, credo che “A distanza ravvicinata” mescoli più di un genere. Oltre al giallo e alla spy, trovo che ci sia anche qualche spruzzata di “romance”, almeno in alcune scene. E penso di poter dire che, analizzando la parabola dei due protagonisti, sia pure un romanzo di formazione, tant’è vero che Mistral e Pietro, alla conclusione della vicenda, prenderanno decisioni importanti per quella che sarà la loro vita futura. La trama è indubbiamente  e fondamentalmente gialla: abbiamo l’omicidio di un’anziana turista tedesca e occorre chiarire chi sia il colpevole e in quali circostanze sia maturata la sua uccisione. Diventa anche una storia spy nel momento in cui si scopre che la donna ha un fratello che si è macchiato di crimini durante l’ultimo conflitto mondiale ed è coinvolto in alcune pagine oscure del dopoguerra in Italia e nell’America centrale. Infatti, l’anziana signora è tenuta d’occhio dai servizi segreti e le cose si complicano parecchio per i nostri due protagonisti. In realtà, credo che l’Italia sia un ottimo scenario per ambientare storie di spionaggio, basti pensare ai romanzi di alcuni eccellenti autori come Leonardo Gori sul versante storico, oppure Secondo Signoroni, Stefano Di Marino o Andrea Carlo Cappi, giusto per citarne solo alcuni e non me ne vogliano coloro che involontariamente sto trascurando. Del resto, se pensiamo alla nostra Storia più o meno recente, le trame spionistiche non mancano di certo. R: Certo: il romanzo ha una spruzzata di "rosa", in quanto Pietro e Mistral sembrano proprio destinati ad avere una storia d'amore. Suppongo ne sapremo di più in seguito... La prossima domanda è inevitabile: le coppie "eterosessuali" di investigatori sono abbastanza rare. A me vengono in mente alcuni esempi cinematografici: Nick e Nora Charles della serie cinematografica dell'"Uomo Ombra", impersonati da William Powell e Mirna Loy; i coniugi Hart della serie televisiva "Cuore e batticuore", cui prestano il volto gli attori Robert Wagner e Stefanie Powers, e soprattutto Fox Mulder (David Duchovny) e Dana Scully (Gillian Anderson) di X-files... Modelli molto diversi sia di collaborazione investigativa che di rapporto affettivo… Ricordo che gli ultimi due si caratterizzavano per essere lui un intuitivo, e lei una razionale metodica, e che nonostante fossero sentimentalmente attratti l'uno dall'altro mai passarono a una conoscenza biblica… Come si collocano Pietro e Mistal? S: Che bella ed intrigante domanda Rino! Senza svelare troppo posso risponderti che le cose non saranno facili tra loro… ci stiamo divertendo a mettergli un po’ i bastoni tra le ruote sia lavorativamente che sul piano personale…  D: Sono personaggi che stanno crescendo e si stanno sviluppando insieme alle storie, quindi potrebbero anche sorprendere noi stessi che li abbiamo creati. Così all’impronta, ti direi che, come qualcuno tra i nostri lettori ha acutamente notato, hanno un po’ il loro destino e le loro caratteristiche nel nome. Mistral è il nome di un vento, che scompiglia, rinfresca, però porta anche tempesta. Pietro è più granitico, duro, anche se la sua corazza ha molte crepe e fragilità. Ecco, sia nella vita privata, sia nell’indagare sono un po’ così. Impetuosa, intuitiva, “irregolare” Mistral; metodico, chiuso, tenace Pietro. Se vogliamo, quindi, in qualche modo potremmo vederlo come un rapporto Mulder-Scully invertito, se mi passi la semplificazione. E ognuno dei due ha ombre e luci interiori con cui fare continuamente i conti. Come dice Sabrina, in più noi gli mettiamo un po’ i bastoni tra le ruote! R: Venendo meno, per un attimo, al proposito di neutralità (ammesso che fosse realistico... ) devo dire che ho molto apprezzato l'ambientazione sulla costa ligure, così ben richiamata dalla copertina. Forse sono stato influenzato dalla mia nota "venerazione" montaliana, ma trovo il paesaggio che fa da sfondo alla storia, quello di una tipica località di villeggiatura ligure in estate, suggestivo quanto emblematico. Il clima che si respira in quei posti in quella stagione è particolare: la vivacità un po' caotica indotta  dalla calata dei turisti aggiunge un senso di euforia e voglia di vivere a un contesto di natura che, Montale docet, suscita, nel resto dell'anno, riflessioni esistenziali più profonde, anche più malinconiche… Nel vostro romanzo ho trovato entrambi gli aspetti, rimarcati spesso dalle variazioni meteorologiche… Avete voluto fare del contesto una specie di pedale di sottofondo che accompagna lo sviluppo della trama… Mi sbaglio? S: Non sbagli affatto, hai colto un elemento fondamentale anzi. “A distanza ravvicinata” ha la sua ragione d’essere proprio in relazione al luogo dove si svolge. Oltre a contenere una marea di suggestioni emotive dovute alla lunga frequentazione di Lavagna che ce la fa conoscere così bene, la cittadina è perfetta per risultare abbastanza raccolta da giustificare una distanza … ravvicinata, ma allo stesso tempo non è troppo piccola per renderla impossibile. Per intenderci, un borgo di mare tipo Camogli alla lunga non avrebbe retto alla struttura che abbiamo voluto dare alla storia. Ma c’è di più. Ed è proprio quel sapore montaliano al quale facevi riferimento. Una commistione di elementi che invita  a tuffarsi in se stessi anche nel mezzo di una piazza gremita per la Festa rivierasca più popolare e frequentata. D: Ho sempre pensato che il contesto debba risultare un protagonista alla pari degli altri personaggi del romanzo. Come ha detto Sabrina, abbiamo scelto Lavagna perché abbiamo scoperto di avere avuto dei trascorsi comuni in quella località, io addirittura ci sono nato. Le spiagge, il dedalo di stradine del centro, la piazza addobbata per il Palio dei Fieschi, la basilica di Santo Stefano con la sua imponente scalinata, le frazioni dell’entroterra sono immagini che “vivono” dentro di noi, hanno spessore e sostanza, per cui abbiamo cercato di trasmettere questo amore per la nostra terra anche nelle scene di un noir. A ennesima dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, che in Italia si possono ambientare ottimamente delle storie di tensione. La Liguria, poi, trovo che sia particolarissima, sotto questo aspetto. Citavi Montale, che ha fatto del paesaggio ligure una struggente metafora dell’esistenza e ti ringrazio per questo nobilissimo - e un po’ impegnativo - accostamento. Sicuramente il carattere ligure si è plasmato nel tempo sulle asprezze di una terra dura, che regala al contempo una bellezza abbagliante. Carlo Lucarelli, uno che se ne intende, definisce Genova una città “bella, ma pericolosa; molto affascinante e contraddittoria” e indubbiamente salta agli occhi come Genova e la Liguria abbiano un’anima impastata nella luce e nell’ombra. Esattamente come il noir. R: Da ultimo una domanda un po' più da addetti ai lavori, anche se so che i lettori sono incuriositi dall'argomento: come lavorate a quattro mani? Spero non  bisticciate spesso, eh! Io e Daniele, quando scriviamo insieme, abbiamo felicemente testato un metodo che garantisce la maggior omogeneizzazione stilistica. "A distanza ravvicinata", correggetemi se sbaglio, essendo  basato su due differenti angolazioni narrative che si alternano, coincidenti con i due protagonisti, per di più di sesso e dunque con approccio psicologico e visione della realtà diverse, dovrebbe aver richiesto un particolare sforzo per raggiungere la sintonia che si tocca con mano leggendo… S: In realtà devo dire che non c’è stato alcuno sforzo particolare. Ci siamo immediatamente trovati sulla storia che volevamo raccontare, ed essendo forse abituati, conoscendoci bene, a quelle che sono le nostre differenze caratteriali nella vita reale, ci è parso naturale muovere ed “accettare” due personaggi abbastanza diversi tra loro. Detto ciò, lo scambio e l’interazione sono stati continui e divertenti, in particolare ho il ricordo di una scena piuttosto lunga  scritta in “presa diretta”, ossia fatta di un dialogo costruito in tempo reale senza sapere l’altro cosa avrebbe risposto, anzi giocando a metterci in difficoltà l’uno con l’altra …  D: Chiaramente, anche se imperniato su due personaggi dai registri piuttosto differenti, pure il nostro romanzo ha richiesto un lavoro di amalgama stilistica, che non snaturasse eccessivamente, però, i caratteri dei due personaggi e le peculiarità narrative che offrivano. Lo scambio, quindi, è stato costante perché, come ben sai, scrivere a quattro mani richiede un confronto pressoché continuo. Tecnicamente, anche noi abbiamo fatto ricorso a quello che tu chiami “il nostro bicameralismo perfetto”, ossia il continuo rimando delle parti scritte dall’uno all’attenzione ed eventuale integrazione da parte dell’altro autore. Ritengo che sia anche un modo stimolante di mantenere attiva la sinergia su ogni parte di un progetto comune e in questo la condivisione dei file su Google Drive, per esempio, rappresenta davvero un supporto insostituibile sotto il profilo tecnico. Quanto ai bisticci, si sa… notoriamente io ho un ottimo carattere, impossibile discutere o bisticciare con me! E dopo averla sparata di questo calibro, scappo, non prima però di aver ringraziato te per questa bella chiacchierata e aver salutato i lettori del blog che, spero, diventeranno anche i lettori di “A distanza ravvicinata”! S: Grazie di cuore anche da parte mia! Buone letture a tutti! Rino Casazza GLI ULTIMI LIBRI DI RINO CASAZZA: GUARDA Read the full article
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giancarlonicoli · 4 years
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12 FEB 2020 16:021. "LA PARTITA PIÙ TOSTA DELLA MIA VITA? CONTRO IL TUMORE AL COLON" - BOMBASTICA INTERVISTA DI DOTTO A SEBINO NELA: "LA MORTE? CI HO PENSATO UN MILIARDO DI VOLTE. E SAI CHE TI DICO, ‘STI CAZZI. IL SUICIDIO COME DI BARTOLOMEI? NON HO AVUTO IL CORAGGIO. ORA DEVO FARE LA QUARTA OPERAZIONE, NON CE LA FACCIO PIU’. HO DETTO A VIALLI CHE..." 2. LA BORDATA A FALCAO, LA ROTTURA CON LA MADRE E CON LA SORELLA, LA STORIA DIFFICILE CON LA PRIMA MOGLIE (“GIRAVO CON UNA PISTOLA IN TASCA”), IL SESSO, L’OMOSESSUALITA’ NEL CALCIO MASCHILE E FEMMINILE - E POI RIVELA IL SUO SOGNO… - VIDEO
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport
Diciamo che si fa notare. Un vero, vulnerabilissimo macho, che avanza deciso sula fascia, che sia una tavola amica o un nemico fetente, alla faccia dei tumori che ti attaccano e del tempo che precipita. E del freddo di febbraio che inclina al gelo (“Mi fa il solletico, noi siamo abituati alla tramontana di Genova”). Il cardigan grigio di lana sul torace nudo in bella mostra, sotto la giacca di lana. Devi fare un bell’atto di fede per credere alla sua malattia, per pensare a lui come a un uomo che viene da due anni e mezzo di chemio e chissà quante notti da incubo. I capelli, tutti. I celebri bicipiti femorali, intatti.
Uomini come Sebino Nela, con la scusa di essere Sebino Nela, vogliono solo una cosa, una più di ogni altra, passare un paio d’ore a tavola con qualcuno che li aiuti ad essere Sebino e a dimenticare Nela. Il personaggio, la star del calcio, come sta documentato nelle pagine di Wikipedia, dell’album Panini, nei poster in posa da Hulk e negli occhi adoranti dei tifosi. Sebino è uno strano impasto di uomo, gentile e selvaggio allo stesso tempo e nella stessa pelle.
Si presta a fare foto (gli autografi non li vuole più nessuno) con chiunque. Sorride a tutti, ma il coltello a serramanico è lì, sempre pronto a scattare. Smanioso di fidarsi e l’istinto che lo spinge a diffidare. Quasi tre ore, il ratto del Sebino. Insieme a tavola. Uno di fronte all’altro. Lui è quello che è. Veste come vive. In conflitto permanente tra il suo cardigan di lana e il torace in mostra. Tra la voglia di mostrarsi nudo e quella di proteggersi. Di abbandonarsi alla persona che lo racconterà e minacciarla per come lo racconterà, scherzosamente dice lui, ma non si sa mai (“Attento a quello che scrivi, ti vengo a cercare”).
Gli anni sono quasi sessanta, Sebino ha visto e vede la morte negli occhi, se ne frega dei convenevoli. Bastano poche cose per avviare i motori. Una bottiglia di rosso molisano, due fette di pizza con la mortadella al pistacchio e piatti che vanno e vengono. Il rosso aiuta a calarsi nel pozzo. In fondo al quale sta scritto chi è Sebino, un mistero per lo stesso Sabino. Dal tavolo di un ammiratore, un trasteverino da manuale, arriva un assaggio di stracciatella con whisky e pepe. Micidiale per chiunque. Roba per uomini veri. Per uno come Sebino, che picchia più di quanto viene picchiato. È la sua natura, il suo sangue misto sardo e ligure. Dinamite pura. La “partita più tosta, più ignorante della mia vita? Contro il tumore al colon, un nemico sconosciuto”.
”Godereccio” come si definisce lui, spirituale come non lo definisce nessuno, perché nessuno, pochi lo conoscono. “Questi anni che vivo mi piacciono tanto. Sono padre di due ragazze meravigliose, la mia testa funziona, posso sedermi in qualunque tavolo di un’osteria o di una casa altolocata e parlare di tutto”. Sebino il duro racconta di quante lacrime ha versato e risponde a chi domanda: “Il lusso della vita? Uno solo, la salute”.
La salute innanzi tutto.
“Con quello che ho passato, diciamo che sto bene. Devo fare un’altra operazione a breve. Più breve tempo possibile. Sarà la quarta. Non ce la faccio più…”.
Che operazione?
“Ho il retto addominale aperto, le viscere spingono, mi esce sempre questo bozzo non bellissimo da vedere. Devo fare pulizia di un po’ di schifezza e mettere una rete di protezione. Dopo di che, continuerò i miei controlli ogni sei mesi”.
L’umore?
“Va e viene. Leggere o sentire ogni volta di persone che conosco che se ne vanno da un giorno all’altro mi spegne un poco”.
Vialli e Mihajlovic dopo di te, il tuo stesso male.
“Mi ha turbato molto saperlo. A Sinisa mando messaggi attraverso il nostro amico comune Vincenzo Cantatore. Con Gianluca eravamo in camera insieme al mondiale di Messico ’86. L’ho incontrato poche settimane fa, a Roma-Juventus. Ci siamo abbracciati. “Guarda che non si molla un cazzo”, gli ho detto. “Nemmeno di un millimetro”.
La tua guerra.
“Due anni e mezzo di chemio non sono uno scherzo. Ti guarisce una cosa e te ne peggiora un’altra. Ho avuto degli attacchi ischemici. Ma la pressione è a posto, prendo tre pasticche al giorno e faccio la mia vita normalissima”.
Il tumore sembra cosa lontana…
“La cosa brutta di questo male è che gioisci, dici ho vinto, e poi scopri che a distanza di sei, sette, otto anni ritorna. Il cancro quando arriva non ti lascia più. Torna come realtà o come minaccia. Sta sempre lì”.
Hai visto la morte in faccia.
“Ho metabolizzato questa cosa. Non so quante volte mi sono ritrovato di notte a piangere nel letto. Ci ho pensato un miliardo di volte. E sai che ti dico, se domani dovesse succedere, ‘sti cazzi…”.
Come ci arrivi a questa conclusione?
“Ti parte un film di tutto quello che hai fatto, il bene e il male. Alla fine, sono soddisfatto della persona che sono. Non ho rimpianti, posso morire anche domani”.
Parliamo di vita e di appetiti primari. A tavola mi sembri okay. Calici e piatti svuotati alla grande. Fai ancora sesso?
“Quando la fatica supera il piacere è l’ora di smettere. Scherzo? Mica tanto. Se il concetto lo sposti dal sesso al calcio è perfetto. Se ci pensi, un giocatore smette quando si alza la mattina e gli fa fatica andare al campo”.
L’immagine di Sebino Nela è quella del guerriero. Ti corrisponde?
“La gente che ne sa? Conosce la superficie, il calciatore. Non conoscono il Sebino privato, il suo carattere, le sue emozioni”.
Se devo raccontare Sebino Nela per come lo conosco non inizio dal macho guerriero ma dalla sua ipersensibilità quasi femminea.
“Sono d’accordo con te. Penso alle tante volte che avrei potuto fare scelte diverse, avere una vita diversa, ma mi sono lasciato deviare dalle emozioni”.
Quanti soldi hai messo da parte con il calcio?
“Che cazzo di domanda?! Non si fa una domanda del genere a un genovese. Posso solo dirti che ho messo in sicurezza la famiglia”.
Parliamo di Roma e del tuo incarico oggi in società.
“Prima mi alzo e vado a farmi una sigaretta che sto impiccato…(al cameriere) Fausto, fammi due costolette d’abbacchio da sgranocchiare…Dopo voglio parlare di politica”.
(torna dalla sigaretta)
Da che parte stai in politica?
“Sono un democratico di destra. Sono per la patria, la tradizione, l’ordine e la disciplina”.
La vita è disordine e caos.
“Proprio per questo c’è bisogno delle regole”.
Voti Salvini?
“No, a me piace molto la Meloni. La stimo come donna e come politica. La trovo una bella persona. Ha portato il suo partito dall’uno per cento a quasi il dieci”.
Diciassette anni da calciatore, tra Genoa, Roma, Napoli e Nazionale. Il compagno del cuore?
“Nessuno. Solo frequentazioni superficiali. Per molti anni ho dormito in camera da solo. La luce accesa e la finestra aperta, cose che possono dare fastidio a un compagno”.
Non posso credere che in tanti anni non hai messo da parte un rapporto che vale.
“Con Rudi Voeller sembrava una cosa importante. L’ho aiutato i primi tempi a Roma nelle sue cose private. Ci frequentavamo molto, anche con le famiglie. Per anni siamo andati a Leverkusen da lui in agosto”.
E poi?
“Mi ha deluso e ho voluto interrompere il rapporto”.
Racconta.
“Fui chiamato da un calciatore della Roma per convincerlo ad accettare la panchina giallorossa. C’era da superare la resistenza della moglie. Normale a quel punto aspettarmi d’essere coinvolto. Lui di quella Roma sapeva poco e niente”.
E invece?
“Non mi ha nemmeno cercato. Sono rimasto amareggiato”.
Non ti lasci scivolare niente addosso.
“Posso dirti che anche con mia madre e mia sorella ho chiuso da anni. Ho sangue sardo nelle vene, forse la parte di cui sono più fiero. Quando mi sento ferito, quando mi fanno del male, dico basta e non torno indietro…Dimmi una cosa, tu verrai al mio funerale?”.
Magari vieni tu al mio…
“Ci puoi contare. Io vado ai funerali. Ci credo. Mi piace dare l’ultimo saluto alle persone che ho stimato. L’ultimo? Giovannone Bertini”.
Anche lui vittima dalla Sla come tanti altri ex Fiorentina.
“Se vai a leggere su internet diventi matto…Fai fatica a pensare che siano tutte coincidenze”.
Neanche con il tuo conterraneo bomber Pruzzo hai stretto un’amicizia profonda?
“No. Siamo due caratteri completamente diversi. Lui è veramente orso. Tanti anni a Roma non lo hanno modificato. Io mi sono romanizzato, lui è rimasto quello che era. Un fortino inespugnabile. Bravo ragazzo, di una sensibilità unica. Noi l’abbiamo visto piangere, anche poco tempo fa”.
Mi ha raccontato la sua depressione.
“Non lo vedevo in quel periodo, ma mi riportavano tutto. Dopo cinquant’anni scopri cose meravigliose di una persona, le sue fragilità. Da calciatore vivi solo rapporti superficiali”
Persone fondamentali della tua vita senza le quali non ce la faresti.
“Convivo con i miei problemi, sono autosufficiente. Non mi devo aggrappare a niente”.
Un amico?
“Se sto toccando il fondo faccio uno squillo a qualcuno, ma senza far capire che sto a pezzi”.
Hai legato poco, eufemismo, con Paulo Roberto Falcao. Antipatia congenita?
“Non mi sta antipatico. Lui a Roma faceva vita a sé. Noi, io, Pruzzo, Ramon Turone, Chierico, stavamo magari da “Pierluigi”, il ristorante, a giocare a tressette fino alle quattro di mattina, lui se ne stava a casa, non usciva mai”.
Magari non sa giocare a tressette.
“Per me far parte di un gruppo significa spirito di appartenenza. Lui aveva la sua vita, lo vedevamo solo in allenamento e alla partita”.
Era il cocco di Liedholm.
“Gli permetteva tutto. Decideva lui come e quando allenarsi. La domenica, prima della partita, noi tutti insieme per il pranzo delle 11, lui da solo a mangiare in camera”.
C’è poi la storia del rigore non tirato.
“A Roma c’è tutt’ora un’adorazione per Falcao. Anche per questo lui quel rigore doveva tirarlo. Tu pensi che il Totti di turno, Del Piero o Baggio si sarebbero scansati in una finale mondiale?”.
Lui dice che stava male, che l’effetto delle infiltrazioni era finito. Che quella partita nemmeno doveva giocarla.
“Non esiste che tu non tiri il rigore in una finale di Coppa Campioni davanti ai tuoi tifosi. Tu, Falcao, devi essere l’esempio. Potevi stare pure zoppo, ma lo tiri, non me ne frega un cazzo. E lui zoppo non era. Ha sbagliato, mi dispiace”.
“Tornando indietro, lo tirerei, se avessi solo immaginato il casino”, mi ha detto.
“Lo devi tirare non per evitare il casino, ma perchè sei il giocatore più importante di questa squadra. Lo sbagli? Fa nulla. Saresti comunque rimasto l’ottavo re di Roma”,
Bruno Conti lo ha sbagliato e al suo addio c’era tutta la città giallorossa.
“Ci mancherebbe altro. Come se in guerra, alla battaglia finale, chi ti comanda scappa, diserta. Non te lo aspetti. Da quella sera ho dubitato di lui”.
Sei stato l’unico a prenderla così male?
“Non sono stato l’unico, ma sono l’unico a dirlo, così, a cuore aperto. Degli altri non me ne può fregare di meno. Se un giorno viene Paulo a Roma e c’invita tutti, probabile riceva un no da me. Io sono fatto così e non dico che sono fatto bene”.
Lo spogliatoio dopo quella finale?
“Non parlava nessuno. Sono uscite mille stronzate, di litigi, parolacce. Falso. Eravamo tutti annichiliti. Io dovevo prendere mio padre e mia madre che stavano allo stadio, me ne sono dimenticato. Sono andato dritto a casa
La delusione più grossa: Liverpool o Lecce?
“Il Lecce. In una finale con uno dei Liverpool più forti di sempre non vai in campo convinto di fare una passeggiata, anche se perderla ai rigori ti rode”.
Quanto un calciatore si porta in campo i suoi problemi privati?
“Non era il mio caso. Io sono diverso. Allenarmi era uno sfogo liberatorio. Ho visto compagni travolti dai problemi personali. È umano”.
Non sei umano?
“Probabile. I pochissimi che sapevano della mia storia mi hanno fatto i complimenti per come l’ho affrontata”.
La storia molto difficile con la tua prima moglie.
“È stata durissima. Ti dico solo che in quel periodo giravo con una pistola in tasca e una volta ho dovuto anche usarla contro il cattivo di turno, che si è guardato bene dal denunciarmi. Per proteggere una persona cara sono disposto a tutto, non mi ferma nessuno. Vedi questo bicchiere? Se m’innamoro di lui e me lo vogliono rubare divento un animale”.
Il calcio è una bella e redditizia illusione. Poi c’è la vita reale.
“Auguro ai milionari di oggi, per il loro bene, di frequentare sempre tifosi che li facciano restare nella loro illusione anche quando smettono. Moriranno senza sapere cos’è la vita reale”.
Non è il caso tuo…
“Non sono mai stato il prototipo del calciatore. Non ho potuto studiare, ho la terza media, ma, da autodidatta, mi sono fatto la mia piccola cultura. Sono curioso, leggo e m’informo di tutto”.
Perché Agostino Di Bartolomei si è ucciso?
“Lo stimavo immensamente. Un capitano vero. Come devono essere i capitani. Era malato dentro, nell’anima. Ci ho pensato anch’io, spesso, negli anni duri della malattia, ma non ho mai trovato il coraggio”.
Tentazione di fare l’allenatore?
“Tre anni di corso a Coverciano. Ma lasciare la televisione per andare in un club minore e farmi cacciare da un presidente che non capisce un cazzo di calcio, non mi allettava. Mi sarebbe piaciuto fare il secondo a uno bravo. Non c’è stata l’opportunità”.
Fonseca ti convince?
“Ha dovuto lavorare tra mille difficoltà. Ho bisogno di un altro campionato per capire bene cosa sia. Per ora, giudizio sospeso. Mi piacerebbe vederlo incidere di più sulle scelte di mercato”.
Squadra di scarsa personalità o di scarso talento?
“La maglia della Roma pesa non so quanti chili. Roma è la squadra del popolo e il tifoso non è stupido. Non chiede lo scudetto, ma sa riconoscere chi dà tutto per la causa. Hanno amato giocatori come Piacentini e Oddi. Due piedi quadrati, ma ci mettevano il cuore”.
Zaniolo. Può essere lui la nuova identificazione del tifoso romanista?
“Non so cosa sente nella testa. Lui piace a tutti di suo, la corsa facile, la fisicità, i capelli. Dico solo, portatelo un giorno a Trastevere, dentro una macelleria di Testaccio, fategli respirare le viscere di Roma”.
Il giocatore che più ha incarnato le viscere di Roma?
“Daniele De Rossi.  Una volta lo vidi piangere in tivù, mi colpì e gli mandai un messaggio. Daniele l’ho visto crescere da bambino, allo Sporting a Ostia”.
Tu hai pianto per la Roma?
“Scherzi? Mille volte…Liverpool, Lecce, il Roma-Pisa quando morì il presidente Viola. Una settimana dopo a Bari, io che faccio il gol decisivo dell’1 a 0. Ho pianto a Roma-Bayern Monaco. Piangi pure dal nervoso a volte. Il bomber Pruzzo, prima della partita, giocava con la Juve o l’Ascoli, dava sempre di stomaco”.
Piangi in privato o anche in pubblico?
“Anche in pubblico. Non mi vergogno di piangere. Meglio che lanciare una bottiglia contro il muro. Piangere e fumare una sigaretta subito dopo. Che c’è di più bello?”.
Il disastro al ginocchio. Venditti ti dedicò “Correndo correndo”.
“Non ti nascondo che l’ascolto ancora oggi quasi tutti i giorni  e ancora mi commuovo. Mi piace girare in macchina da solo e commuovermi con la musica. Tornare indietro nel tempo. Quasi un anno fermo. Oggi, bastano sei mesi”.
Da due anni dirigente dell’As Roma femminile.
“Sono felice di questo incarico. Con le ragazze ho un bellissimo rapporto. Avere due figlie, una di 27, l’altra di 25, aiuta. Cosa mi ha sorpreso? La grandissima preparazione, l’enorme applicazione. Sono dilettanti come statuto, ma professioniste nella testa”.
Difficoltà?
“Sono umorali. Troppo. Un giorno ridono, scherzano, il giorno dopo meglio se non ti avvicini. Sono molto sensibili. Parlano spesso con le psicologhe che la società mette a disposizione. Non è una realtà semplice la loro”.
Il calcio maschile è molto omertoso sul tema dell’omosessualità.
“Se ci sono, sono bravissimi a nascondersi. Quando vivi il calcio femminile devi inevitabilmente confrontarti con questo tema”,
Elena Linari, giocatrice della Nazionale, è stata molto libera nel fare coming out.
“Loro non devono vergognarsi di niente, devono vivere liberamente la loro sessualità. Noto un po’ di resistenza a farlo”.
Come lo spieghi?
“C’è paura dei contraccolpi nel movimento. Dire al mondo che il calcio femminile è fortemente connotato di omosessualità non spinge i genitori a portare le loro bambine alle scuole di calcio. Se questo succede, il movimento non cresce”.
Omosessuali ed etero convivono armoniosamente?
“Il nostro è un gruppo di ragazze meravigliose. Poi ci sono le dinamiche di questo che è un mondo a sé. Mi raccontano di alcune che entrano etero e diventano omo o che provano l’esperienza omosessuale”.
Perché non ti si vede più in tivù?
“Scelte aziendali. Probabilmente ho fatto il mio tempo. Avanzano le nuove leve. Siamo anziani, caro mio”.
Funzionavi come seconda voce.
“Non piacevo a molti. Mi rimproverano di essere troppo distaccato. Ma a me piace così. Non amo chi strilla. E non sopporto tutta questa tattica. Sono telecronache autoreferenziali. Mi devi spiegare il gesto tecnico. Voglio capire perché sbagli un gol fatto a un metro dalla porta o ne fai uno da venticinque”.  
Il calcio che ti piace.
“L’Atalanta, il Verona. Mi piace il Sassuolo di De Zerbi. Il Lecce di Liverani.
Sta crescendo una generazione di allenatori che non hanno paura di osare. Se la giocano con tutti”.
Un allenatore sopravvalutato.
“Per l’esperienza che ho avuto io, Vujadin Boskov. Da lui non ho imparato niente. Né a livello tattico, nè gestionale. Ma, grazie a Dio, io sono stato un calciatore fortunato”.
La tua fortuna?
“Ho lavorato con allenatori come Nils Liedholm e Sven Goran Eriksson, gente di un altro pianeta”.
Li metti sullo stesso piano?
“Due modi diversi di vedere calcio, ma avanti entrambi anni luce. Tutte le mie conoscenze calcistiche collettive e individuali le devo al Barone. Senza di lui sarei rimasto una zappa di calciatore”.
Alla vigilia dei sessant’anni…
“Da tempo sto pensando alla mia dipartita e sono sereno. Dovesse capitare non è un cruccio. Non ho rimpianti, nè sensi di colpa”.
Lo dici con questa leggerezza?
“L’unica cosa che vorrei chiedere, non so a chi, se a Lucifero, è di accompagnare all’altare le mie due figlie, Ludovica e Virginia, il giorno che si sposano”.
Sono vicine a farlo?
“Macché, stanno troppo bene a casa”.
Hai confidenza con le tue figlie?
“Non tanto. Ci basta guardarci negli occhi…”.
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pleaseanotherbook · 4 years
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Books on the road #4: Sotto la Mole
Ah, ricordo un tramonto a Torino, nei primi mesi di quella mia nuova vita, sul Lungo Po … l’aria era di una trasparenza meravigliosa; tutte le cose in ombra parevano smaltate in quella limpidezza
Luigi Pirandello
Novembre mi lascia sempre con un cumulo di malinconia addosso che non mi so spiegare. Sarà che le giornate sono così brevi da essere fagocitate dal buio alle cinque del pomeriggio, sarà questa pioggia incessante, il freddo pungente, la nebbiolina che ammanta la città, ma la voglia di essere produttiva mi finisce sotto i piedi. Alzarmi la mattina, mettere un piede dietro l’altro per andare in ufficio sono fatiche da Ercole che affronto con uno scazzo non indifferente. Sono meteoropatica e risento un sacco della mancanza di sole, e pure del lavoro monotono e alienante. In questo autunno però sto imparando a riscoprire la città che ormai da anni mi fa da casa e che ho imparato ad amare con una forza che non mi sarei mai immaginata. Grazie alla guida indiscussa di Amaranth del blog La Bella e il Cavaliere e alla straordinaria avventura che abbiamo intrapreso con le “Merendine in viaggio” stiamo imparando a riscoprire nuovi angoli e impressionanti scorci di Torino. E allora ho pensato bene di rendere il capoluogo sabaudo protagonista di una nuova puntata di “Books on the road”.
“Books on the road” muove i passi dalla rappresentazione citazionistica di città che ho visitato e che amo particolarmente in un tratteggiare di paesaggi tramite foto e brani tratti da libri che ho letto o che vorrei leggere e che sento rappresentare appieno le meraviglie che si nascondono nei luoghi che ho scelto.
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Panorama di Torino dal Monte dei Cappuccini
Torino mi sembrava una grande fortezza dalle mura ferrigne, pareti di un grigio gelato che il sole di primavera non riusciva a scaldare.
Elena Ferrante
Torino è stata la prima capitale del Regno d’Italia ma la sua è una storia più che millenaria, che inizia ancora prima dei Romani, pare infatti che il primo insediamento risalga al terzo secolo a.C. per opera dei Taurini una etnia di origine ligure fortemente influenzata dai Celti. Già nel primo secolo a.C. venne trasformata in una colonia romana da Augusto da cui prese il nome Iulia Augusta Taurinorum. Dominata dai barbari Ostrogoti e Longobardi e finì per essere una marca carolingia, dominata dai Franchi di Carlo Magno. Dal 1720 fu capitale del Regno di Sardegna capitanata dai Savoia, che favorirono la formazione del Regno d’Italia.
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Affaccio su Piazza Castello da Via Palazzo di Città
Torino è una città che invita al rigore, alla linearità, allo stile. Invita alla logica, e attraverso la logica apre alla follia.
Italo Calvino
Torino ha quel fascino risorgimentale, di città Mittle europea, con il clamore dei suoi palazzi ottocenteschi, i portici sotto cui rifugiarsi quando piove, il Po che emerge con i suoi odori caratteristici ad un passo. Ha conservato la pianta romana, così diversa dalla tipica pianta a cipolla dei borghi medievali che popolano le mie adorate colline. Torino è viva come lo può essere una città cosmopolita che cerca di adattarsi al momento storico che vive, con una folla di giovani, turisti e gente venuta all’avventura.
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Piazza Vittorio
Non si è nemmeno in una zona all'ultima moda - posto che Torino, con la sua allure regale e riservata, ne abbia di zone "all'ultima moda".
L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome – Alice Basso
La parte più antica della città si muove intorno a Piazza Castello, nei cui pressi sorge ancora la Porta Palatina, con i resti delle mura romane. La porta Decumana è stata poi inglobata in Palazzo Madama, mentre dietro Palazzo reale è possibile visitare i resti del Teatro Romano. Si è sviluppata tantissimo durante l’età medievale e pur avendo in buona percentuale attraversato l’età barocca e il neo-classicismo è sicuramente l’Ottocento il periodo di massimo splendore. Molti degli edifici più simbolici di Torino infatti vengono costruiti in questo periodo: il Museo Egizio, la Cattedrale di San Giovanni Battista che custodisce la Sacra Sindone, Palazzo Carignano che è stato progettato da Guarini ed è stato la sede della Camera dei deputati del Parlamento italiano e l'imponente Palazzo Madama.
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Affaccio su Piazza Castello da Palazzo Madama
La nebbia si addice a Torino. Tutto assume un'aria da tardo Ottocento, da libro Cuore, e la Mole fora la cappa perlaceo come il dente di un narvalo. Il Po' diventa lo Stige e la luce dei lampioni si fa lattiginosa come in quei film su Jack lo Squartatore.
Adoro Torino quando c'è la nebbia.
Scrivere è un mestiere pericoloso – Alice Basso
Un capitolo a parte se lo merita sicuramente la Mole Antonelliana, la custode insostituibile di questa città, forse uno dei suoi simboli più famosi. Il nome “Mole” deriva dal fatto che originariamente con i suoi 167,5m era la struttura in muratura più alta del mondo (dal 1889 fino al 1908) mentre l’”Antonelliana” si riferisce all’architetto che l’ha progettata Alessandro Antonelli. Originariamente era stata concepita per diventare un nuovo tempio israelitico, ad oggi al suo interno si trova il Museo Nazionale del Cinema. E non si può approdare a Torino e non andare a renderle omaggio.
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Mole Antonelliana
La nostra città, del resto, è malinconica per sua natura. Nelle mattine d’inverno, ha un suo particolare odore di stazione e di fuliggine, diffuso in tutte le strade e in tutti i viali … Se c’è un po’ di sole … la città può anche sembrare, per un attimo, ridente e ospitale: ma è un’impressione sfuggevole.
Natalia Ginzburg
Torino può vantare anche la presenza di un nucleo di edifici in stile Liberty che svettano nel primo tratto di Corso Francia, in un quartiere residenziale chiamato Cit Turin (che sta per piccola Torino). Grazie infatti all'Esposizione internazionale d'arte decorativa moderna, un importante evento espositivo tenutosi nel 1902 nel Parco del Valentino sponsorizzato da Pietro Fenoglio e Gottardo Gussoni, Torino venne nominata capitale del Liberty. Vi segnalo Palazzo della Vittoria, e Casa Fenoglio-Lafleur, ma perdersi per le strade di Torino è sempre un’esperienza unica.
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Piazza Carlina
Altre città regalavano al primo venuto splendori e incantamenti, esaltanti proiezioni verso il passato o l'avvenire, febbrili pulsazioni, squisiti stimoli e diversivi; altre ancora offrivano riparo, consolazione, convivialità immediate. Ma per chi, come lui, preferiva vivere senza montarsi la testa, Torino, doveva riconoscerlo, era tagliata e squadrata su misura. A nessuno, qui, era consentito farsi illusioni: ci si ritrovava sempre, secondo la feroce immagine dei nativi, 'al pian dii babi', nient'altro, in fondo, pretendeva da te la città, che poi, una volta fatta la burbera tara del creato, stabilito il peso netto tuo e dell'universo, ti spalancava, se volevi profittarne, i suoi infiniti, deliranti spacchi prospettici.
La donna della domenica – Carlo Fruttero & Franco Lucentini
Torino è una città meravigliosa, che mi ha conquistato fin dal primo momento in cui ho iniziato a camminare per le sue strade perpendicolari, i suoi viali lunghissimi, il nucleo centrale che si irradia verso l’esterno e le stazioni e si propaga fino al Lingotto e oltre, con quella pianura così diversa dalle mie amate colline. Dal grattacielo dove lavoro, si uno dei pochi che ci sono, accanto alla stazione di Porta Susa, sembra quasi di toccare quelle Alpi che cingono da est il capoluogo piemontese. C’è tanta aria frizzante, quel freddo che ti penetra dentro, quell’atmosfera da città europea che tanto si discosta dalla fissità dei Borghi medievali di provincia a cui sono abituata.
Torino respira un multiculturalismo che si nutre anche di cibo, non solo il gianduiotto e la bagna cauda, ma la carne, quella Fassona che sembra fiorire ad ogni ristorante, i plin, gli agnolotti, il gelato e il bonet (che se vi piacciono i dolci liquorosi è un must have).
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Quadrilatero, scorcio della Cattedrale di San Giovanni Battista
Città della fantasticheria, per la sua aristocratica compiutezza composta di elementi nuovi e antichi; città della regola, per l’assenza assoluta di stonature nel materiale e nello spirituale; città della passione, per la sua benevola propizietà agli ozi; città dell’ironia, per il suo buon gusto nella vita; città esemplare, per la sua pacatezza ricca di tumulto. Città vergine in arte, come quella che ha già visto altri fare l’amore e, di suo, non ha tollerato sinora che carezze, ma è pronta ormai se trova l’uomo, a fare il passo. Città infine, dove sono nato spiritualmente, arrivando di fuori: mia amante e non madre né sorella. E molti altri sono con lei in questo rapporto. Non le può mancare una civiltà, ed io faccio parte di una schiera. Le condizioni ci sono tutte.
Il mestiere di vivere – Cesare Pavese
Mi sono innamorata di Torino, con quelle atmosfere da fin de siecle, le strade affollate, lo struscio lungo via Garibaldi della domenica pomeriggio, gli artisti di strada in piazza Castello, i negozi di lusso di via Roma e via Lagrange, quelle librerie meravigliose che ti sbucano da un angolo e le gelaterie. E anche se la mancanza di casa mia
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Superga
La Paola ora era venuta anche lei a stare a Torino. Stava in collina, in una grande casa bianca, con una terrazza circolare, che guardava sul Po. La Paola amava il Po, le strade e la collina di Torino, e i viali del Valentino, dove un tempo usava passeggiare col giovane piccolo. Ne aveva avuta sempre una grande nostalgia. Ma ora anche a lei Torino sembrava diventata più grigia, più noiosa, più triste. Tanta gente, tanti amici erano lontano, in carcere. La Paola non riconosceva le strade della sua giovinezza, quando aveva pochi vestiti, e leggeva Proust.
Lessico Familiare – Natalie Ginzburg
Libri citati:
Lessico Familiare – Natalie Ginzburg
L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome – Alice Basso
Scrivere è un mestiere pericoloso – Alice Basso
La donna della domenica – Carlo Fruttero & Franco Lucentini
La giornata di uno scrutatore – Italo Calvino
Il mestiere di vivere – Cesare Pavese
E voi, siete mai stati a Torino?
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den-thoughts · 5 years
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Ancora click
Sono passati 3 anni direi. E’ stato davvero strano ritrovare ciò che avevo condiviso qua sopra. Oggi è il 26 settembre 2019 e rileggendo mi sono reso conto di quanto le cose cambino e di quanto certi pensieri fossero “fraintesi” oserei dire. Ho riletto tutto ciò che avevo scritto su Noemi e mi sono reso conto che pensavo di sapere cosa volesse dire amare ma non era affatto vero. Mi chiedo solo se io oggi sappia cosa significhi oppure no. . . 
Sono successe una marea di cose in questi 3 anni, davvero tante. Sono cambiato in un modo che non credevo possibile: sono passato dall’essere un’instancabile nerd/lavoratore vario ad essere bloccato in una sfera di vetro che pare essere infrangibile. Sto facendo l’università, ma non la sto facendo. Sto lavorando, ma non sto lavorando. Non riesco a trovare la mia direzione e non riesco a trovare la voglia di prenderne una. Rileggendo ciò che scrissi su questo blog mi rendo conto che invece di progredire sono regredito. La verità è che a 18 anni io ero come sono oggi i miei amici, e oggi io sono come loro quando avevano 18 anni. Mi sono perso tante cose per lavorare o perché volevo a tutti i costi arrivare da qualche parte e alla fine mi sono incastrato da solo. Ma questo non è rilevante perché so che sarò in grado di ristabilirmi e sarò meglio di prima e meglio di come sono ora. E’ solo questione di tempo, devo solo capire dove andare. 
Ho deciso che ricomincerò a scrivere qua sopra. E inizio proprio oggi, raccontando la serata di ieri sera. 
Compleanno di Martina Gemma. 
“Sei stato aggiunto al gruppo Compleanno Martina 25 Settembre”. Immediatamente pensai “ma perché cazzo sono stato aggiunto a questo gruppo?” ma con medesima immediatezza rispondetti “ci sono, ci vediamo la”. Con il senno di poi sono assolutamente contento di aver risposto in quel modo. Non conosco bene la suddetta ragazza (Martina Gemma). L’ho conosciuta qualche anno fa perché era con dei miei coetanei e non mi ha mai colpito, ne esteticamente ne tanto meno a livello di connessioni neurali. E’ una brava persona, ma di quelle che io non noterei, nemmeno se si trattasse di incontrarla che so, al cinema. E quindi ci ritrovammo ieri sera alle 18:30 io, il mio amico d’infanzia Nicolas e la uncommon Luisa Camozzi dall’hotel riviera per la partenza in direzione Bogliasco e più precisamente da Just Peruzzi, dove si sarebbe svolta la festa. Io arrivai puntuale all’appuntamento dal Riviera ma gli altri due arrivarono con un discreto ritardo. In ogni caso partimmo e ci dirigemmo verso il levante ligure. Non sapevo che aspettarmi sinceramente, accettai l’invito solo ed esclusivamente perché sento l’impellente bisogno di cambiare aria e di conoscere persone nuove. In ogni caso arrivammo a destinazione prima della festeggiata e ci mettemmo ad attenderla davanti al locale. Dopo pochi istanti il mio orecchio accorto udii un motore 4 tempi Piaggio avvicinarsi nella nostra direzione e mi girai: era una delle amiche di Martina. Una ragazza molto magra, semplice e con un viso pulito. Una di quelle che dopo i primi 20 secondi hai già capito tutto. Niente abiti firmati, dentatura perfetta e un portamento di una persona assolutamente insicura di se stessa ma, che per chi ha occhio, era evidente il fatto che lei sapesse di essere speciale. Semplicemente non ha bisogno di farlo vedere a tutti quanti e anche se probabilmente avrebbe molto da dire non disse nulla di rilevante. Si aggiunse a noi nell’attesa e attendemmo per altri 10 minuti circa. 
Arrivò Martina con sua sorella e una manciata di ragazze, tutte ben vestite e molto curate. Stimolò la mia mente, ovviamente e immediatamente, la più “sportiva” del gruppo: alta circa un metro e settanta, mora, senza parti del corpo in mostra se non il viso. Indossava dei collant velati 20 denari con una riga posteriore, una gonna di eco pelle, una maglia con dei fiori e una giacca di pelle nera. Notai subito la sua bellezza che rispetto alle altre presenti era sicuramente su un piano superiore ma comunque nulla di eccezionale. Le altre erano tutte ragazze assolutamente standard, senza arte ne parte. Quelle che in coda al Mcdonald’s hanno le Adidas superstar bianche con le tre righe blu. Forse eccetto Alice, la sorella di Martina.
Entrammo nel locale, sulla terrazza, e ci sedemmo al tavolo. Ovviamente io cercai di accaparrarmi il posto di fronte alla sportiva. Aveva qualcosa che mi intrigava molto e nonostante la prima ragazza, quella magra e semplice che mi aveva colpito molto, la sportiva le fece scomparire tutte dal paniere. Era rimasta solo lei. Perché? 
Bene, iniziammo a bere qualcosina e scambiando qualche parola scoprii che il suo nome è Jessica Stalfieri, è laureata come assistente sociale, ha 24 anni e fa la cantante. La conoscevo di fama, un mio ex amico sosteneva di esserci andato a letto ma vedendola mi sorse qualche dubbio. In ogni caso continuammo a chiacchierare fin quando non capii perché mi aveva attirato così tanto. Era di quelle che piacciono a me. Sguardo dritto, sicura di se stessa, persona seria e persona capace di farti volare e di farti impazzire. Le conosco quelle così. Quelle così, se hai la fortuna di farle innamorare, sono le migliori. E questo perché essendo così spigliata, senza ombra di dubbio molto sveglia e intelligente sa bene che, semplicemente respirando in un certo modo, può far impazzire tutti gli uomini che ha davanti. In questo modo ha l’opportunità di scegliersi con attenzione il suo cavaliere. Li ha tutti in pugno, o comunque può averli e quindi fa le sue mosse in attesa che qualcuno sappia smuoverla. In una qualche misura, era fottutamente identica a Greta ma con una differenza: Jessica non ha bisogno delle attenzioni di nessuno, sa di essere bella, sa di essere simpatica, sa di essere intelligente e quindi si pone al centro dell’attenzione ma lo fa con maturità e non muovendo il culo o mettendo in mostra le tette. La definirei una donna con classe. Sono quelle che se diventi il suo uomo, lo sei diventato perché vuol dire che ai suoi occhi hai qualcosa in più rispetto alla massa, perché è chiaro, lei la massa la mangia a colazione. Si pose da subito in una posizione rialzata, ma davvero in alto rispetto a me. Questo perché come sempre io ho il mio basso profilo, con il mio firewall che non lascia passare niente. Non sapevo se fosse davvero più in alto di me o se semplicemente ci si fosse messa perché è abituata a fare così ed ha sempre funzionato. Detto questo, continuammo a chiacchierare e io cercai di analizzarla attentamente per capire se effettivamente fosse così avanti o se fosse solo apparenza, la stessa apparenza che Manny esercitò su di lei per tutta la festa. Tutt’ora non lo so, l’ho Googlata e le sue canzoni non mi hanno detto nulla a riguardo. Ci lanciammo qualche occhiata, parlammo di musica e la festa era già bella che terminata. Le altre persone non le calcolai quasi, inclusa la festeggiata la quale invece era così contenta di vedermi. Facemmo uno di quei giochi tipo obbligo o verità e mi fece qualche domanda alla quale risposi con naturalezza e sicurezza facendole capire che nonostante io sia forse “timido” so di che pasta sono fatto. Mi chiese anche “qual è il tuo approccio tipico?” come se le interessasse saperlo per capire se ci stavo provando oppure no. 
Finita la festa ci alzammo, scattai qualche fotografia al gruppo sfruttando la night mode del mio OnePlus 7 pro, e dopo aver pagato il conto (12€ a testa) ci salutammo e tutti quanti tornammo nelle rispettive località. Non pensai nemmeno un secondo ad un futuro con una tipa del genere. E’ più grande di me, frequenta ambienti e persone sicuramente più grandi e probabilmente anche più in gamba di me e esteticamente non l’ho attratta neanche per sbaglio. Sono solo sicuro di una cosa, se ci passassi una settimana insieme diventerebbe di sicuro la mia donna. 
Mi sono dimenticato di raccontare di come Manny abbia avuto un battibecco con la cameriera perché volendo fare lo sborone chiese se fosse disponibile un dom perignon e la cameriera rispose qualcosa tipo “guarda che costa eh” e lui impazzii perché secondo lui la cameriera non doveva preoccuparsi del suo conto in banca ecc ecc ecc.. scene da farsi sicuramente due risate.. scene che mi fanno ridere.. scene banali.. Alla fine ha speso 85€+12€ perché siccome il Dompe non era disponibile si è fatto portare un altro champagne a brettio. Questo è quanto. 
Conclusioni: Jessica Stalfieri mi ha colpito, così come la prima ragazza. Luisa è simpatica. Ho speso circa 25 euro, ho passato una serata piacevole e ho visto un posto nuovo. Soddisfatto.  
#u
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federicodeleonardis · 5 years
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In morte di Nanni Balestrini 1
Tre giorni fa è morto Nanni Balestrini. Data la notorietà dell’uomo (forse il più famoso rappresentante del gruppo 63, poeta, fondatore con Pasolini di una rivista importante di poesia, successivamente molto attivo con Alfabeta e poi artista affermato nel campo dell’arte visiva ecc), chi sono io per farmi avanti a parlarne nel mio piccolo foglio? Sa di beccamorto! Per fare un discorso obiettivo e sensato sulla sua figura di grande intellettuale italiano di una certa epoca bisogna almeno aspettare che si plachi l’emozione di coloro che lo hanno amato e stimato. Ma devo fare i conti con la mia irruenza, per il fatto che conosco abbastanza bene la sua attività nel campo in cui opero anch’io (ho visto di lui almeno tre mostre e qualche quadro nelle varie Fiere). Così ho deciso di anticipare una riflessione. Se offenderò la sensibilità di qualcuno, mi valga di scusa il fatto di avere pochi anni meno del defunto e quindi non molto tempo da perdere. C’è chi me ne dà ancora 20 di vita! ringrazio costoro e dividerò il mio intervento in due fasi. Nella prima mi occuperò dell’uomo, della morte, quella faccenda che prima o poi interessa ciascuno di noi e quindi a maggior ragione coloro che come me sono i primi della fila, nella seconda di Nanni Balestrini come artista di arte visiva, l’unico campo in cui mi sento un po’ più preparato a dire qualcosa.
Intanto NB è morto (non so per quale specifica ragione, i particolari non mi interessano) fra atroci tormenti, e lo affermo perché nessuno coltivi l’illusione che il trapasso sia indolore: nell’agonia, anche per un colpo di pistola, come per uno al cuore o nella pancia dalle corna di un toro, il tempo, questo signor Cronos che ci illudiamo vada avanti a secondi e poi minuti e poi giorni, si dilata enormemente perché pretende sempre  di esaurire, si tratti dell’attimo che segue una pistolettata o un infarto oppure al contrario di una lunga malattia, il conto che abbiamo con la vita. E ciò per tutti, nessuno escluso, nemmeno quelli che ‘si addormentano nel sonno’. Questa è la mia convinzione profonda e prendetela per quello che vale.
Stabilito ciò, affermata la pietà che coinvolge tutti noi di fronte a quanto ci aspetta, quale migliore epitaffio  dedicare al malcapitato che costruirgli attorno un pensiero nel linguaggio che più ci accomuna? Per l’occasione (la parola è macabra e fuori luogo, ma non ne trovo altre) mi è venuta in mente l’immagine di un’opera d’arte che vidi molto tempo fa a all’ Attico di  Roma di qualche anno (sei) posteriore alla formazione del Gruppo ’63: Jannis Kounellis fece arrivare, nello spazio chiuso della galleria, una dozzina di cavalli: si spostavano pazienti ed eleganti coi loro svariati colori ed esibivano orgogliosi le loro bellissime criniere. Portavano nella sala anche l’odore forte della loro natura e dei loro escrementi, perché nessuno si illudesse che non fossero cavalli veri. E di razza. Era l’epoca in cui la performance  faceva il suo ingresso trionfale nelle gallerie, ma soltanto ieri è arrivato a destinazione uno dei messaggi che JK ci ha voluto inviare. Ce ne sono molti, come in tutte le opere riuscite e non sono certamente districabili o separabili. La mia quindi sarà un’illazione cosciente se provo a comunicare quello che è passato attraverso di me. Ma non lo farò con  parole dirette, solo allusivamente, perché non invadere la sensibilità di nessuno.
Quando avevo diciassette anni per arrivare a Catania dal mio paese ligure si impiegavano almeno una ventina di ore di treno e questo era affollato al punto che si trovava posto a mala pena in piedi. Le tradotte per i campi della morte nazisti, almeno dai racconti, offrivano più o meno le stesse condizioni ai deportati ma i viaggi non duravano solo un giorno: iniziava così l’agonia che li avrebbe portati ad accettare la fine senza scalpitare. Probabilmente anche ai condannati a morte succede lo stesso, di rimanere cioè in piedi per tutta la notte precedente il giorno dell’esecuzione: è la sete di vita, il desiderio di assaporare fino all’ultimo questo insostituibile bene.
Forse non a tutti è noto che il ‘nobile animale’ dorme sempre in quella posizione (mentre a me successe solo quella volta memorabile). Ma muore anche in piedi, come solo gli uomini di valore, come Akela che, alla fine della battaglia con i cani rossi, ferito a morte chiede a Mowgly la grazia di essere lanciato in alto per farla finita in piedi.  Naturalmente, quando la vecchia signora, che Gadda facendo centro nomina con la parola impronunciabile e spregiativa di Smrgnaffa, passa in una scuderia e sceglie un malcapitato, questi, vivo, in piedi, crolla a terra di colpo. Succede allora un fatto singolare: tutti i cavalli della stalla, resisi conto improvvisamente della presenza della vecchia, si agitano, smaniano, tirano sul morso, scuotono la cinghia che li tiene legati all’anello o alla stanga. L’intera mandria nitrisce alto, grida la sua prigionia e lo stalliere non riesce a calmarla: teme i calci potenti. Y, a través de las ganaderìas/ hubo un aire de voces secretas/ que gritaban a toros celestes,/ mayorales de pàlida niebla. 1
FDL
(continua)
1.       E dagli allevamenti /venne un vento di voci segrete/che gridavano ai tori celesti, /mandriani di pallida nebbia. Llanto por Ignacio Sànces Mejìas di Federico Garcia Lorca
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3nding · 7 years
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Una giornata al mare
Ore 9. 4 gradi. Tempo orrendo. Si parte. Ore 10.25. Saliamo lungo il passo della Cisa incontrando solo 2 auto, 7 vecchi di 876 anni e scenari da silent hill. Il passo è innevato, zero gradi, visibilità ridotta. 50 metri dopo il passo la temperatura sale di cinque gradi, niente nuvole, il sole. Grazie Appennini, grazie pianura padana. La Lunigiana è decadente, case fatiscenti, vecchi negozi e un amore malsano per gli autovelox. Pontremoli sembra un set di Monicelli. Superata Spezia ecco finalmente le 5 terre, andiamo a Vernazza lungo strade tortuose e strette. Peccato che poi la statale per Monterosso sia interrotta per smottamenti causati dall'alluvione. È l'ora della strada "alternativa". È così detta perché l'alternativa è la morte: lo spazio è a malapena sufficiente per una city car ma la strada è a doppiosenso, ha delle barriere di cemento nei punti dove è franato tutto di sotto e sale lungo la montagna con tornanti strettissimi. Fuori ci sono 15 gradi, io dentro ho i brividi di freddo. Monterosso è una degna ricompensa: pochissime persone, gente indaffarata nel sistemare per l'estate e la Statua del Gigante in fondo alla spiaggia (as seen on tumblr!). Seduti al tavolino della gelateria due ragazzi ci chiedono in inglese dritte per la serata. Sono due americani del Minnesota, stanno facendo il classico Eurotrip e uno si è fatto male cadendo a Riomaggiore. Si parla del più e del meno, tra cui "Che cibi italiani avete provato?" "La pizza!" "...." Parto in quarta consigliando roba ligure, che non hanno scuse se partono dopodomani e la mia donna gli fa "venite a cena a Spezia?" e loro "ok!" e lei "So che ci siamo appena conosciuti ma non uccideteci per favore". Così siamo finiti con due americani a girare per Spezia la sera con la gente che faceva inutili foto alla luna piena mentre noi andavamo a strafogarci da "Dai Pescatori" all'inizio della banchina Ravel [ grazie @imcubo !] Ho già decretato che i due statunitensi che non hanno detto nemmeno una parolaccia per tutto il tempo mentre noi "fuck, damn,shit, bitch" (crediamo abbiano votato Trump) saranno invitati in futuro al matrimonio anche solo per il fatto che prendono due coni a testa con un giusto ciascuno per gustarli meglio. Mangiano come dei disperati e bevono come un SUV. 24 anni entrambi. Dio come mi sento vecchio.
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matto77 · 7 years
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Vi sono alcune malattie che determinano il luogo di vacanza, per esempio chi soffre di disturbi respiratori è preferibile che scelga la montagna, l’altitudine è da evitare invece per i cardiopatici, ai quali è consigliato il mare; il lago invece è consigliato solo a quelli che non hanno trovato posto sia al mare che in montagna e fortemente sconsigliato ai depressi. Il campeggio non ha controindicazioni, il problema è che dopo una vacanza in tenda si torna nevrastenici, con l’ulcera e con la tenda sul tettuccio della macchina perché non si è riusciti a smontarla.
Io, a causa del linfatismo, sindrome molto in voga negli Anni 60 che corrispondeva a vaga inappetenza e sviluppo in percentile di poco inferiore alla media, ho fatto le vacanze in colonia. È indifferente dove sia situata la colonia, il bambino con le calze, le canottiere, le mutandine con cucito sopra il numero di appartenenza sarà triste sia al mare che in montagna.Il mio medico di famiglia disse a mia madre che il mio linfatismo si sarebbe curato bene in Liguria, a Pietra Ligure.  
Purtroppo quella sindrome, che non è riportata su nessun manuale di patologia medica, mi colpì all’età di 4 anni e quindi un mattino di marzo mi ritrovai su un treno in partenza dalla stazione centrale di Milano, assieme ad altri 400 linfatici, destinazione Pietra Ligure. Era un mattino del 1960 ed io sapevo già che avrei amato un film, «Schindler’s list», che sarebbe uscito 33 anni dopo.  
I linfatici venivano distribuiti in cameroni dove in mezzo dormiva la nostra vigilante, la «signorina», che quando doveva mettersi il pigiama tirava le tende situate sui 4 lati del letto; forse era un poco di malizia che faceva scordare alla «signorina» di spegnere la luce dell’abat-jour così noi linfatici potevamo assistere al primo striptease in ombra cinese. Ma eravamo così tristi che ci si girava dall’altra parte a pensare ai nostri genitori che stavano a 170 km da noi.
Uno dei momenti più strazianti della colonia era il momento della distribuzione della posta: la «signorina» chiamava a raccolta i linfatici e scandiva il cognome del fortunato il quale riceveva o una cartolina postale marrone con scritto «mamma e papà ti vogliono bene» oppure una cartolina con la fotografia della propria città di provenienza. Oppure niente perché i genitori si erano dimenticati di scrivere, e allora la giornata non si raddrizzava più nemmeno se ti facevano fare 7 bagni in mare.
Il giorno più bello della colonia, che corrispondeva al giorno più bello della vita, era quando si tornava a casa. Io ho avuto 7 giorni più belli della mia vita e cominciavano tutti quando il treno, proveniente da Pietra Ligure, imboccava il tunnel della stazione centrale di Milano. Ecco perché il mare mi suscita sempre una punta di malinconia anche ora che l’Organizzazione mondiale della sanità ha derubricato il linfatismo, e le colonie sono state smantellate.
Sarà stato uno dei momenti di maggior democrazia sociale quella delle colonie, che ha permesso anche ai figli dei proletari di vedere il mare per la prima volta, ma vuoi mettere una vacanza a Milano in compagnia dei tuoi genitori!
Che tortura quella vacanza in colonia - di Giacomo Poretti
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parolerandagie · 5 years
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Fuga
Arrivo a casa dalla palestra, invado il silenzio con la musica, sistemo due cose, apparecchio tavola, mi cucino delle costolette d'agnello e mi stappo una bottiglia di vino rosso, mentre Whatsapp mi mantiene un minimo in contatto con il Mondo là fuori.
Una serata come tante altre, a sprecare del tempo in attesa di un'ora sufficientemente tarda da non farmi sentire anziano davvero, andandoci a dormire.
Passa anche un amico, di ritorno dalla cena di compleanno di sua mamma (ed io penso che a giorni sarebbe stato anche il compleanno della mia di mamma, se ci fosse ancora): quattro parole, un gin&tonic, seduti in giardino.
Se ne va, l'amico, lo saluto e mi spoglio, in camera, apprestandomi a dormire…e…ed incrociando il mio sguardo nello specchio mi dico che, invece, questa notte, no: concordo con me stesso che, questa notte, non mi arrenderò docilmente all'abitudine e non cercherò un sonno, che non ho, ma darò ascolto a questa strana energia che sento addosso da tutto il giorno, da tutta la sera…infilo il primo paio di jeans che raccatto sulla poltrona che, al solito, è sovraccarica di panni, e mi piace che siano un paio di jeans vecchi, con una cintura giallastra in serpente, comprata ancora negli anni 90, a Pietra Ligure, mi piace che non c'entrino nulla con chi sono ora, sia i jeans che la cintura, che siano una innocua cicatrice di un me stesso oramai perdutosi nel passato, un me stesso che non so che pensava, non so che sentiva o che voleva…va beh…i jeans, dicevo,  ed una maglietta (grigia…abbinata ai capelli), ed un paio di sneakers un po' rotte ed il giubbotto di pelle (anche lui appartenuto ad un altro me), il casco e, sorridendo decido di prendere la moto ed immergermi nella notte.
Decido di lasciare andare, la moto, la notte, i pensieri, la coscienza, la strada…decido di lasciare andare, e sento le spalle rilassarsi e la bocca sorridere, decido di lasciare andare, di concentrarmi sulla striscia bianca sull'asfalto nero, decido di guardare a quella decina di metri illuminati davanti a me, poco preoccupato di che nasconda il buio, poco preoccupato, altrettanto, di che nasconda il futuro, il domani.
Mi sento libero, dopo tanto tempo, anzi sono proprio libero.
Non penso a lei, agli altri, al lavoro…non voglio essere pensato, altrettanto, non voglio mancare a nessuno, non voglio che nessuno (nemmeno io stesso) si preoccupi.
La moto va.
Mi porta davanti al campo dove ho giocato per anni e poi non ho giocato più, non ho giocato più nemmeno fuori dal campo.
Mi fermo, lo (non) guardo, buio come è, e sento l'odore dell'erba tagliata, quell'odore che mi accoglieva all'uscita degli spogliatoio, e penso che non mi appartiene più, quell'odore, è di altri ventenni adesso ed allora vado via.
Trovo una panchina, piena di ricordi, ma li saluto con un cenno della mano ed un sorriso, non ho voglia di fermarmi a parlare con loro, tanto so che sono lì.
E la casa che era di un'altra lei mi scorre a fianco e saluto anche quei ricordi lì.
Ed il campetto, poi, senza nemmeno più i canestri, oramai, e mi pare di sentire la palla che rimbalza sorda sul cemento ed il caldo del sole di venti estati e qualcuno che mi chiama (slavo!) ed il rumore metallico della catena che faceva da retina ai canestri.
Ed il lungofiume, con l'odore di acqua sporca e grigia.
Ed una birreria che non c'è più ed adesso c'è altro al suo posto.
Come altro c'è al posto mio in mille posti dove c'ero, ma non ci sono più.
E sono sicuro più di dove c'ero e non ci sono più di quanto sia sicuro di dove sono ora.
Ma la moto mi porta via, che sa che non c'è spazio per il soffermarsi, questa notte scema, figurarsi se c'è per farlo su malincoie inutili.
La moto va e mi porta al chiosco delle angurie, dove c'è ancora luce.
Il chiosco delle angurie è quello che fa iniziare l'Estate, apparendo, e la fa finire, scomparendo, ogni anno, ed io ho voglia di mangiarne una fetta, di anguria.
Fermo la moto, la chiedo con un gesto della testa, la pago, la mangio, in fretta, che non è notte per cermarsi troppo a lungo.
L'aria si è raffreddata, o forse la sento fredda come freddo avevo quella mattina presto di Dicembre uscendo dallo stesso ospedale che sta proprio lì ancora, quella mattina presto dopo avere salutato con un menzognero arrivederci mamma, e chiudo il giubbotto ed accelero.
La sagoma di un vecchio amico, che cammina, trasportando in giro la sua mole. Anni che non ci vediamo. Che non ci parliamo. Fermo la moto. Le uniche parole dette in questa immersione nella notte sono con lui. E non sono retoriche.
Saluto e riparto.
E passo davanti alla casa che fu di nonna.
E poi campi.
E poi casa.
Che la moto non va abbastanza veloce.
Non sono riuscito a fuggire davvero.
La vita mi ha raggiunto e devo andare a dormire, se no domattina chi si sveglia.
Ma sorrido, perché vi giuro sono stato libero, anche se solo per un momento.
E non cercate senso o bellezza in queste righe, che servono solo a ricordarmi che val la pena fuggire, ogni tanto, pur sapendo che si verrà catturati nuovamente.
E mentre nudo cerco il sonno mi accorgo che mi piacerebbe lei pensasse a me, adesso...sono di nuovo in prigione.
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pangeanews · 4 years
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I magnifici 4 e il Festival di Sanremo. Lucio Dalla ci è andato, gli piaceva, ha portato dei capolavori (“Paff… Bum!”). De Gregori lo ha snobbato, Guccini è stato escluso, De André non credeva nella competizione
Per un Maestro che sul palco del Festival di Sanremo ci è salito almeno quattro volte, altri tre illuminati vi hanno serenamente rinunziato. Chi ha avuto ragione? Ovviamente tutti e quattro.
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Il primo ha esordito nel 1966 con un pezzo dal titolo quasi futurista. In Paff… Bum pare di sentire il rumore de La fontana malata di Aldo Palazzeschi. Il brano si apre così: “Paff… Bum! Un tuffo in fondo al cuore/ Paff… Bum! L’amore mio sei tu/ Paff… Bum! È stato all’improvviso/ Paff… Bum! E non ragiono più”. Da questi versi naif e quasi elementari, nel 1966, anche un indovino non avrebbe potuto prevedere quello che poi sarebbe diventato. Dalla sua aveva il tempo: non aveva ancora compiuto 23 anni. Acerbo, ma non per questo poco profondo. Come il mare.
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Gli piaceva Sanremo. Eccome se gli piaceva. Perché si divertiva. E poi dal palco poteva vedere da vicino quello che gli italiani definivano senza mezze misure “l’ochismo delle presentatrici”. Posto privilegiato, altro che la prima fila dell’Ariston…
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Nel 1971 copre la strada che unisce Bologna a Sanremo per presentare uno dei suoi pezzi più densi e profondi: 4/3/43. La canzone in realtà era nata un altro titolo ma gli strali della censura imposero una modifica: vista la storia raccontata – quella di una ragazzina di 16 anni che viene messa incinta da un ignoto soldato alleato – Gesù bambino era stato giudicato “irrispettoso”. Lucio ha il suo primo guizzo di genialità: sòccmel, se non va bene quel titolo, ci metto la mia data di nascita. Ma non basta: i rompicazzo della censura gli chiedono di “correggere” alcune strofe che, a loro modo di vedere, potrebbero essere blasfeme o più semplicemente inadeguate. Così “mi riconobbe subito proprio l’ultimo mese” si trasforma in “mi aspettò come un dono d’amore fino dal primo mese”, “giocava alla Madonna con il bimbo da fasciare” diventa “giocava a far la donna con il bimbo da fasciare”. Nemmeno la chiusura piace ai scassacoglioni: la straordinaria “e ancora adesso mentre bestemmio e bevo vino/ per i ladri e le puttane sono Gesù Bambino” (dal vivo la cantava in versione originale comunque) si ammorbidisce sino a diventare “e ancora adesso che gioco a carte e bevo vino/ per la gente del porto mi chiamo Gesù Bambino”.
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Lucio aveva capito di aver fatto centro: “Ebbi subito la sensazione di aver fatto qualcosa di veramente grosso, mi commuovevo e per due anni mi sono sempre commosso ogni volta che la cantavo. Poi cominciai a cantarla in pubblico”. La canzone piace, non c’è che dire. Dalida, la meravigliosa Dalida, la splendida Dalida, voce unica e gran pezzo di, la interpreta in francese mentre Chico Buarque de Hollande, dopo averla sentita direttamente da Dalla, decide di darla in pasto alle al popolo sudamericano. Chico, riportano le cronache, la memorizza a orecchio e ne scrive un testo nella sua lingua. “Gliela cantai in un ristorante a Roma, a Campo de’ Fiori – disse Lucio -. Si mise a piangere a dirotto. Tornò in Brasile e ne fece la sua versione. Un successo pazzesco”.
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Lucio a Sanremo c’era stato anche nell’anno maledetto. Nel 1967 propone Bisogna saper perdere, abbinato con i Rokes di Shel Shapiro. È l’anno del suicidio di Luigi Tenco. “Andammo a Sanremo insieme, prendemmo la camera vicina, e la sua morte mi sconvolse… non dormii per un mese” raccontò.
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Francesco Guccini, ‘il Maestroni’, fotografato da Alessandro Carli
La morte di Luigi – che ai tempi era fidanzato con Dalida – rappresenta anche il debutto “apocrifo” al Festival di Fabrizio De André. Faber, sul quel palco, non ci è mai salito. Ma attraverso Preghiera in gennaio, idealmente, ci ha messo piede.  “L’ho dedicata a Tenco”, ha spiegato. “Scritta, o meglio pensata nel ritorno da Sanremo dove c’eravamo precipitati io, la mia ex moglie Enrica Rignon e la Anna Paoli. Dopo aver visto Luigi disteso in quell’obitorio (fuori Sanremo peraltro, perché non ce l’avevano voluto) tornando poi a Genova in attesa del funerale che si sarebbe svolto due giorni dopo a Cassine, mi pare, m’era venuta questa composizione. Sai, ad un certo punto non sai cosa fare per una persona che è morta, ti sembra quindi quasi di gratificarla andando al suo funerale, scrivendo – se sei capace di scrivere e se ne hai l’idea – qualcosa che lo gratifichi, che lo ricordi… forse è una forma… ma d’altra parte è umano, credo…”.
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Ha scelto Enzo Biagi per spiegare il suo rifiuto di partecipare al Festival. Era il 1985. “Se si trattasse di una gara di ugole, se io pensassi di essere attrezzato per fronteggiare delle ugole sicuramente migliori della mia, se fosse solo un fatto di corde vocali, la si potrebbe ancora considerare una competizione quasi sportiva, perché le corde vocali sono pur sempre dei muscoli” spiegò Faber. “Nel mio caso dovrei andare a esprimere i miei sentimenti o la tecnica con i quali io riesco ad esprimerli, e credo che questo non possa essere argomento di competizione”.
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Nel 1994 Fabrizio scrisse le parole di Cose che dimentico, una canzone che il figlio Cristiano aveva presentato a Sanremo ma che venne rifiutata per la tematica affrontata: Fernando Carola, poeta sardo. Era un amico di Faber ed era malato di AIDS.
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Nel 1972 Lucio Dalla torna a Sanremo con Piazza Grande, dedicata a un homeless, un senzatetto. Gianfranco Baldazzi, solo nel 2011, ha rivelato che la piazza che dà il titolo al brano non è il luogo simbolo di Bologna, Piazza Maggiore, ma “la più raccolta Piazza Cavour”. Al festival ligure Piazza Grande arriva ottava.
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Per Fabrizio De André il Festival era solo una “competizione sportiva di corde vocali”. A Francesco Guccini una volta gli fu proposto di partecipare, ma solo come autore per Caterina Caselli e Gigliola Cinquetti. Il brano però non passò le selezioni preliminari. Sembra che non se la sia presa, comunque, il Maestrone. “Non sono mai andato perché il genere di canzoni che faccio io non si presta. È un rifiuto reciproco: io non voglio Sanremo e Sanremo non vuole me”.
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Nemmeno Francesco De Gregori è mai stato in gara a Sanremo. L’unica sua esperienza risale al 1980, quando scrisse per Gianni Morandi – su musica di Ron – il brano Mariù, che rimase fuori dal podio. Quell’anno vinse Toto Cutugno con Solo noi. Come per Faber, anche “Il principe” sul palco ci è salito solo poeticamente: nel 1976 scrisse Festival, dedicata a Luigi Tenco. “Bisogna avere il coraggio di essere un po’ critici anche con il Festival di Sanremo”, ha raccontato il cantautore romano. “È una passerella di canzoni concepita come una gara e già questo è abbastanza fastidioso. Non credo, poi, che questo evento annuale riesca a riassumere il meglio della produzione della canzone italiana di oggi. Credo di poter dire che la musica che ha pesato di più, anche sul piano del mercato, negli ultimi 10 anni (1975-1985, ndr) non è passata dal canale di Sanremo”.
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La storia è questa. “Nessuno si senta offeso”.
Alessandro Carli
In copertina: Lucio Dalla, anni Sessanta; nel 1966, a Sanremo, esordisce con “Paff… Bum”
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eventiarmonici · 4 years
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Perché il Festival di Sanremo a Sanremo?
Come mai, tra tante città d’arte del Bel Paese, il Festival della Canzone italiana non si tiene a Roma, a Firenze, a Milano o a Venezia, ma in una ridente cittadina della costiera ligure?
di Pasquale Di Matteo
FESTIVAL DI SANREMO: GLI ULTIMI ANNI
Sono cresciuto in un’era in cui l’offerta televisiva non era ampia ed eterogenea come oggi, un tempo in cui qualsiasi evento di forte impatto popolare, trasmesso in TV, lasciava le briciole alle altre reti, che si contavano sulle dita delle mani; ora, invece, abbiamo l’imbarazzo della scelta e fare il botto è praticamente impossibile persino per la nazionale di calcio.
Eppure, il Festival della Canzone italiana, nonostante le critiche, le invidie e i gufi, monopolizza i dati Auditel.
Perché? E perché il Festival più importante d’Italia si tiene a Sanremo, una piccola località a un tiro di schioppo dalla Francia?
Mia madre adorava il Festival e, durante la settimana in cui si svolgeva la manifestazione canora, quand’ero bambino, in casa mia non si parlava d’altro.
Era una settimana sacra e non solo a casa mia.
Al mercato, al negozio sotto casa, dal meccanico, con chiunque si scambiassero due chiacchiere, il tema era inevitabilmente il Festival di Sanremo, che si trattasse delle canzoni, del gossip o del presentatore, che, nei miei ricordi di bambino, è sempre la riga asciutta con le spalline della giacca enormi e con il nasone di Pippo Baudo.
Pippo Baudo con Al Bano e Romina Power – immagine di proprietà del Web,
In verità, durante gli ultimi anni del millennio, i dati Auditel non erano più quelli di un tempo e, anche discutendo con amici e parenti, per qualcuno il Festival di Sanremo era destinato a finire nel dimenticatoio.
Io, al contrario, ho sempre sostenuto che il Festival della Canzone Italiana avesse bisogno di rinnovarsi, di presentare in gara canzoni che non si dimenticassero dopo i titoli di coda della serata finale, ma che venissero acquistate dai giovani, sempre più dimenticati dai parrucconi alla Baudo, il quale aveva trasformato il Festival di Sanremo in quello della naftalina dei suoi amici cantanti di un tempo.
Come volevasi dimostrare, dall’organizzazione di Paolo Bonolis del 2005 in avanti, il Festival di Sanremo è  tornato agli antichi splendori, facendo registrare continui nuovi record di pubblico, puntando sui cantanti che sono sconosciuti a quelli che ascoltano canzoni giusto durante il festival, ma idoli di chi fruisce di musica ogni giorno.
E il successo di questa manifestazione è davvero eclatante se si pensa che, a differenza dei tempi di Baudo, oggi il Festival di Sanremo deve fare i conti con centinaia di canali liberi e con un’infinità di offerta a pagamento.
Ma come è nato il Festival della Canzone Italiana e perché si svolge a Sanremo e non a Cinecittà o negli studi televisivi di Milano?
FESTIVAL DI SANREMO: LA STORIA
Per rispondere alle domande, bisogna fare un passo indietro nel tempo.
Il Casinò di Sanremo fu costruito durante i primissimi anni del novecento, quando l’amministrazione comunale dell’epoca e l’impresario francese Eugène Ferret, architetto che aveva realizzato case da gioco e teatri a Saigon e lungo la Costa Azzurra, cofinanziarono il progetto di costruire una sala da gioco dove comprendere un teatro, sale di lettura e di conversazione, un giardino d’inverno, un ristorante, un caffè e, ovviamente, un salone per le grandi occasioni.
Non sarebbero mancati neppure mobili in stile Luigi XVI e palme nel giardino d’inverno.
Durante gli ultimi decenni del secolo precedente, l’Aristocrazia di mezza Europa aveva scoperto il benessere generato dalle vacanze in climi più miti e dal mare, quindi le spiagge francesi del sud della Francia erano diventate ambite.
Nacquero così molti degli hotel più prestigiosi e dei teatri di quella zona, costruzioni di lusso che dovevano reggere il confronto con il livello sociale degli ospiti.
Accanto alle opere teatrali, per intrattenere gli altolocati vacanzieri, si sviluppò l’attività del gioco d’azzardo, che, nel giro di pochi anni, diventò un business irresistibile anche per biscazzieri e delinquenti di ogni parte del continente, fino ad attirare, nel tempo, mafiosi americani, dopo la seconda guerra mondiale, come Gambino e, soprattutto, Luky Luciano.
La sera del 14 gennaio 1905, un sabato, il casinò aprì i battenti per la grande festa di inaugurazione, alla quale parteciparono personalità importanti come i consoli di Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Germania, Austria – Ungheria e Russia.
Non mancavano tutte le autorità italiane ed era presente perfino il prefetto, che, in teoria, avrebbe dovuto chiedere l’applicazione degli articoli 484-487 del codice penale, sul divieto del gioco d’azzardo, ma chiudere entrambi gli occhi sul tema era uno sport molto praticato in tutta Europa da diversi anni.
In teoria, il fatto stesso che il casinò fosse una struttura pubblica, finanziata anche dal comune di Sanremo, era di per sé un totale controsenso, perché si trattava di un luogo in cui gente aristocratica, per lo più di altre nazioni, avrebbe sperperato ogni sera somme di denaro che la gente comune non avrebbe mai visto in una vita intera, violando la legge.
Adriano Celentano e Claudia Mori – Immagine di Proprietà del Web
Domenico Modugno- Immagine di Proprietà del Web
Non a caso, si levarono molte critiche, soprattutto in virtù del fatto che fosse stata un’amministrazione socialista a finanziare l’opera e che l’avesse voluta fortemente il sindaco Augusto Mombello uno dei socialisti di zona più attivi del tempo.
Tuttavia, il giornale dei socialisti sanremesi, La Parola, cercò di smorzare la protesta minimizzando e sostenendo che il casinò sarebbe stato un luogo in cui i ricchi avrebbero ridato parte della loro ricchezza dilapidando i patrimoni accumulati sul sangue e le lacrime di chi sfruttavano… La Parola dimostrò che l’arte di arrampicarsi sugli specchi è piuttosto datata.
Il termine Festival fu utilizzato impropriamente per la prima volta per definire la serata inaugurale del casinò, durante la quale si era tenuto un concerto di musica classica.
In verità, il primo casinò italiano era nato nel 1884 nella vicina Ospedaletti, la cui attività, unita a quella della nuova struttura sanremese, attirò l’aristocrazia di mezza Europa anche in Italia.
Fu così che si svilupparono molte città liguri, soprattutto quelle a ridosso del confine francese.
Questo boom economico attirò anche l’invidia di altre località turistiche, che chiesero di poter costruire case da gioco , tanto che, durante il Ventennio, fu necessaria una sorta di regolamentazione del settore, che, di fatto, lasciò a bocca asciutta gran parte delle richieste.
Tuttavia, il primo a proporre un Festival della Canzone italiana da tenere nel casinò di Sanremo fu un commerciante di fiori, Amilcare Rambaldi, dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Amilcare Rambaldi – Immagine di Proprietà del Web
Ragioniere diplomato, Rambaldi preparò una relazione da sottoporre alla nuova gestione del casinò, in cui elencava una serie di iniziative da attivare per riportare la struttura ai fasti dei tempi prebellici.
Rambaldi proponeva l’istituzione di un’orchestra sinfonica in pianta stabile e di un conservatorio musicale, tornei di bridge e concorsi di bellezza, nonché un festival del cinema e uno della canzone.
In verità, per quanto concerne il festival della canzone, egli immaginava una rassegna canora di ispirazione internazionale, dove fossero ammesse non soltanto la produzione musicale italiana, ma anche brani stranieri, soprattutto anglosassoni.
Rambaldi ipotizzò anche di dare vita alla prima edizione del festival della canzone l’1 giugno 1946, ma i nuovi appaltatori del casinò, nel novembre del 1945 cestinarono la proposta.
Certo è che Rambaldi fu un precursore dei tempi, visto che, nel 1946, la città di Cannes inaugurò il Festival del Cinema e che, il 25 agosto 1948, si tenne il primo Festival della Canzone italiana presso la Capannina del Marco Polo, a Viareggio, presentato dal radiocronista Amerigo Gomez e vinto dal brano “Serenata del primo amore” di Pino Moschini. Ad eseguire tutti i brani in gara furono i cantanti dell’orchestra del Maestro Francesco Ferrari.
Il 25 agosto dell’anno successivo, fu organizzata la seconda edizione, vinta da Narciso Parigi, con la canzone “Il topo di campagna” di Aldo Valleroni.
Non ci fu mai una terza edizione a causa dei costi organizzativi elevati e dell’assenza di sponsorizzazioni.
Tuttavia, le idee della relazione di Rambaldi erano buone e funzionavano.
Il successo del festival andato in scena nella città di Viareggio non era sfuggito ad Angelo Nizza, uomo dell’Ufficio Stampa del casinò di Sanremo, il quale, conoscente di Amilcare  Rambaldi, aveva preso spunto dalla vecchia relazione del ragioniere ed era riuscito a convincere il nuovo gestore della struttura, Piero Busseti, di dare vita al Festival della Canzone italiana.
Fu così che, il 14 novembre 1950, il casinò di Sanremo e la RAI conclusero l’accordo sul regolamento della manifestazione e lo si comunicò rapidamente a tutte le case discografiche attive in quegli anni.
Alle 22 di lunedì 29 gennaio 1951, Nunzio Filogamo dichiarò aperto il primo Festival della Canzone italiana.
Nunzio Filogamo – Immagine di Proprietà del Web
Vinse Adionilla Negrini Pizzi, (Nilla Pizza), con Grazie dei fior, che vendette circa 35.000 dischi a 78 giri e fruttò alla vincitrice un totale di 80.000 lire.
Tuttavia, il festival fu snobbato dai quotidiani, fatta eccezione per qualche breve trafiletto e, forse, nemmeno gli organizzatori avrebbero mai immaginato il livello del clamore che la manifestazione ebbe tra la popolazione.
Infatti, già il mattino successivo alla chiusura del Festival, migliaia di persone che avevano ascoltato le canzoni alla radio si precipitarono nei negozi di dischi in cerca dei brani sanremesi, scoprendo che le case discografiche non si erano neppure preoccupate di inciderli.
D’altronde, il festival era nato con l’intento principale di allietare gli ospiti e di richiamarli in gran numero, proprio come la rassegna gastronomica e i tornei di bridge.
Fu quindi la CETRA, la casa discografica della RAI, a inciderli in fretta e furia e a distribuirli nei negozi perché la musica sanremese potesse risuonare nelle case degli Italiani che la chiedevano a gran voce.
Era nato il vero Festival della Canzone italiana.
FESTIVAL DI SANREMO: SPETTACOLO DEL POPOLO
Quella che era stata immaginata come una manifestazione capace di allietare l’aristocrazia che frequentava il casinò di Sanremo si sarebbe trasformata, invece, nel più popolare evento artistico italiano di sempre, un evento non soltanto culturale, ma che avrebbe raccontato l’italianità a 360°, coinvolgendo il costume, l’arte, la cultura, la storia, la finanzia e la moda.
Se si vuole conoscere la storia del nostro Paese non si può prescindere dalla storia del Festival di Sanremo, perché è un pezzo di storia d’Italia in cui la politica, la cultura, la finanza e il mondo dello spettacolo si incontrano per scriverla.
Un luogo, inoltre, in cui gira ancora molto denaro, prelibatezza anche per faccendieri, biscazzieri e veri e propri delinquenti, come scopriremo prossimamente, dove l’italianità si declina in tutte le sue forme, enfatizzando gioie e dolori di un intero Paese, intorno a un carrozzone mediatico imponente grazie al quale lavorano indotti di vari ambiti.
Perché il Festival di Sanremo è un pezzo d’Italia.
PERCHE’ IL FESTIVAL DI SANREMO A SANREMO? Perché il Festival di Sanremo a Sanremo? Come mai, tra tante città d’arte del Bel Paese, il Festival della Canzone italiana non si tiene a Roma, a Firenze, a Milano o a Venezia, ma in una ridente cittadina della costiera ligure?
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