"Disadatti all'esilio" a cura di Giorgio Anelli. Recensione di Lorenzo Spurio
Recensione di Lorenzo Spurio
Poche settimane fa, nella collana “Poesia” di Ladolfi Editore di Borgomanero (NO), Giorgio Anelli e Abigail hanno raccolto in un volume di pratica e piacevole consultazione una serie di testi scelti di poeti tra loro distanti (per appartenenza geografica, per periodo storico, per influssi e stile letterario) dal titolo emblematico Disadatti all’esilio.
Giorgio…
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Sonia Elvireanu, Le regard… un lever de soleil, Lo sguardo ... un'alba, traduzione di Guiliano Ladolfi, Guiliano Ladolfi Editore, 15€
Une chronique de Gérard Le Goff
Sonia Elvireanu, Le regard… un lever de soleil, Lo sguardo … un’alba, traduzione di Guiliano Ladolfi, Guiliano Ladolfi Editore, 15€
Nota : les citations extraites du livre de Sonia Elvireanu figurent entre guillemets.
Forte de trois recueils : Le souffle du ciel, Le chant de la mer à l’ombre du héron cendré et Ensoleillements au cœur du silence, publiés entre…
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Fabio Petrilli presenta la poetessa Silvia Rosa e il suo libro "Tutta la terra che ci resta "
Foto cortesia di Silvia Rosa
Silvia Rosa vive e insegna a Torino. Tra le sue pubblicazioni: le raccolte poetiche Treceri/Passaggi, (Editura Cosmopoli, Bucarest 2023), edizione bilingue romeno /italiano, con traduzioni di Eliza Macadan, Tutta la terra che ci resta (Vydia Editore 2022), Tempo di riserva (Giuliano Ladolfi Editore 2018; nuova edizione bilingue spagnolo /italiano, Tiempo de…
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[Jacques d'Adelswärd-Fersen][Gianpaolo Furgiuele]
Definito dalla stampa francese all'inizio del XX secolo come "Piccolo Oscar Wilde " a causa della sua omosessualità, il barone Jacques Fersen trasformò la sua vita in opera d'arte. [Jacques d'Adelswärd-Fersen][Gianpaolo Furgiuele]
Il testo ripercorre e analizza la figura di Jacques d’Adelswärd-Fersen attraverso la stampa e la letteratura. Scrittore, poeta, dandy, Jacques d’Adelswärd-Fersen (Parigi, 1880-Capri, 1923) fu l’autore di numerosi testi e direttore della rivista «Akademos». Nel 1904, dopo un processo del tutto simile a quello di Oscar Wilde, si trasferì a Capri dove si suicidò all’età di quarantatré anni, ponendo…
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Nota a "Ore piccole" di Emilio Paolo Taormina
Nota a “Ore piccole” di Emilio Paolo Taormina
Eleganti e arcaici sono i versi di questa nuova raccolta del poeta palermitano Emilio Paolo Taormina intitolata “Ore piccole” (Giuliano Ladolfi Editore, 2021; collana “Perle poesia” diretta da Roberto Carnero) e caratterizzati da uno stile taorminiano inconfondibile. Versi, la cui genesi è affidata alla spontaneità dei sensi e a null’altro, non ossessionati dall’ordine di maiuscole e…
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Dammi un bacio – dicevi un anno fa.
Svanivano intorno sagome
vestite a festa
affaccendate in un’estenuante apparenza.
Tra un bacio e il successivo
aderenze di anime,
negli spazi vacanti
presenze agivano
di un bene rasente l’immenso.
Le mani lambivano i contorni del viso
riposavano sui capelli
mantenevano intatti e forti
i desideri.
Dammi parole che non
si fanno scordare – dicevo un anno fa.
Fitte tessiture verbali ingorde
davano ampia soddisfazione
non c’erano margini di vuoto.
Tra una parola e l’altra
cadevano senza più vigore
resistenze asfittiche nel concedersi.
Le sillabe d’amore balzavano
sugli occhi
sulle labbra
trovavano asilo caldo avvolgente
perduravano in attenzioni senza fine.
Immobile
sta fissa – anche se scaduto oramai è il tempo –
nella mia mente
la tua bocca che chiede baci e ne dà.
Grazia Procino da "E sia" ( Giuliano Ladolfi editore)
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“Una mescita di sangue, un’eucaristia rapace”. Sulla poesia di Franco Acquaviva
Verrebbe da pensare a Pasolini, a D’Elia, quando si leggono i versi di Franco Acquaviva. Una poesia, la sua, legata al dovere di essere uomo a tutto tondo e, soprattutto, civis, cittadino in divenire e progetto in sé, nel tempo e per il tempo. Strategia della sparizione, uscito per i tipi di Ladolfi Editore, rappresenta un dramma etico, quello di una dimensione umana che tende all’empatia, ma scivola inesorabilmente distante, fino a trasformarsi nella sua nemesi, l’indifferenza consapevole. I personaggi che agiscono nel libro sono figure, individui senza nome, accomunati dalla metafora di un muro che divide e separa le monadi di un’esistenza giustificabile solo in un sistema chiuso, da cui è impossibile uscire se non attraverso una crepa, una speranza capace di vincere il solipsismo:
Noi siamo oltre, sai? nella frescura
di casa nuova che la stanza emana
Acquaviva comprime la tensione del verso in una sorta di scena teatrale i cui soggetti recitano monologhi, cercano l’interazione tra quadri esistenziali e ambienti; lo fanno naturalmente, quasi condividessero un codice comune per esprimere il male, la frammentazione; ne deriva, alla lettura, l’idea di un messaggio che tende all’universalità e ci appartiene, pur nella sua incompiutezza. È l’epica del quotidiano che emerge sin dalla prima sezione del libro Segnali di pericolo, in cui il male – meglio la latenza del bene – si radica nelle situazioni minime: nei versi, talvolta narrativi, in alcuni passi, invece, nervosi e franti, si respira una luce purgatoriale, opaca. Aleggia l’ombra di Ivano Ferrari in alcune pagine, nel dramma della carne sacrificale, del macello:
Allevamenti di maiali o polli
sansebastiani da crocifiggere
nelle friggitorie mondiali a colpi
di stuzzicadenti e infrangere così
riposi mandibolari di breve
durata –
si sa che ogni giorno occorre
ben dissanguata carne e ben frollata
da dare in pasto ai bambini, ma il sangue
non si deve vedere, come dare
bastonate a un cane tu che sempre hai
visto bastonare cani
Altrove, invece, il soggetto è l’uomo franto, che perde se stesso nella sua identità per acquisire il senso di un dramma corale, minimo nelle situazioni, universale nella portata:
è un sorriso la terra e non intendi
se non per brevi boccate pungenti
se il suo schiudersi sia mostra di denti
contro denti nello scontro a stridere
oppure amabile segno di una più
vasta e vera comprensione che tu mai
potrai afferrare se non ogni cosa
abbandonando
L’idea di un’umanità labile, instabile se non nelle piccole certezze e radicata in esse, acquista forza sempre più convincente a partire dalla seconda sezione del libro, Pedagogia in battere e levare, in cui la poesia si svolge come se appartenesse a un affresco, e si recitasse in un atto teatrale in continuo divenire; qui la dimensione urbana, l’esistenza minima, la sua luce latente legata al trascorrere delle stagioni o agli oggetti, appare strozzata, senza sbocco, quasi un senso di sconfitta imminente animasse le pagine, le reificasse in sintagmi che non comunicano. Spesso sono le domande inevase, il loro senso che sfugge, come sfugge Dio o la natura delle foglie, delle radici stesse, ad avere la meglio: la ricerca poetica di Acquaviva non dà certezze, né le ammette. Essa scava profondamente dentro l’Io, lo mette a nudo, incrinando la separazione tra essere e non essere, tra vita e morte: morire ogni giorno un poco / è privilegio dei vivi / tu non muori ma ripeti / lo farò quanto prima / e intanto vivi senza morire.
Sta nella trasposizione dello scacco esistenziale nel quadro di una realtà comune sentita come minacciosa, mai data per sempre, la grandezza del poeta e del libro, quasi una crepa o una qualsiasi incrinatura alimentasse l’idea di mancanza, di precipizio. È la terza parte del libro, Verso la luce, a chiudere il cerchio: tutto si muove in Acquaviva, non c’è stasi, sicurezza di un luogo comune. L’uomo è il suo vagare incessante, la sua è ricerca di senso, di meta:
per questo noi forse sempre muoviamo
sul fare del giorno per miraggi di
luce per ancora ciechi ritorni.
Ivan Fedeli
***
C’è una gioia sul finire del giorno
che ti piega su pozzanghere a bere
sul fondo dove va morendo il cielo;
il temporale s’annuncia con biacche
nere riflesse e tu in attitudine
prona fai della terra specchio e bevi
per te stesso vie di pioggia e d’argento.
Ma sopraggiunge un vento d’emicrania
ribattuto a colpi lenti
tra teschio e tramonto
*
MURI
1.
Basta solo stare davanti al muro
e il mondo si riempie di colori:
certo, siamo stati bene qui da voi,
ma premuto il corpo contro il sollievo
ruvido della fronte al cemento
si respira meglio, ecco l’umido –
terra che s’innalza per piani al cielo.
2.
I muri dei matti ci fanno star male
e i muri dei pianti, ma quando il sole
uno ne imbeve torrido non si può
rifiutare, mare di scaglie che la
luce ha scelto di mandare proprio a te
senza fiatare nell’ombra confitto.
3.
I muri della mente dimentica
quando quella rugiada rilasciano
di cemento lungo vie lacrimali
incise da un abuso di memoria.
Noi siamo oltre, sai? nella frescura
di casa nuova che la stanza esala:
siamo nel velo di lacrima che un più
di sollievo dà all’occhio infiammato.
4.
I muri spessi un metro
tra una porta e l’altra,
loculi per il passaggio
di anime. Seppelliti in piedi
chissà quanti tra le pietre
nelle intercapedini
che respirano tra due stanze.
Se provare la tomba
è un gioco proverbiale
i bambini lo facciano qui
a Natale o Capodanno,
tra una porta e l’altra
nel buio.
5.
Sui muri la divisa della luce
s’increspa nella malta abbacinante:
vi si vedono soldati che vanno
al luogo del supplizio, la maga li ha
scelti; torna tra i venti della sera
il bianco brivido, una trama di franti
volti: della Storia i morti ologrammi.
*
ANIMALI
Polvere di Pasqua povere uova
d’incenso ora poggiate sull’altare
del pranzo, l’hic et nunc della vostra
comunione è lo scarto –
scartamento
che segue il momento in cui, torpido
sacramento, ogni arto giace nel sonno
dopo il parto del pasto;
di spolpati agnelli in tempo di pace
è stata oggi una mescita di sangue,
un’eucaristia rapace.
*
RICERCA DEL SILENZIO
Un volo verso l’interno
testa che dialoga con sterno
mento che punta non mente
cuore che pulsa puntato
bersaglio dio freccia
un luogo che tende all’eterno:
la foglia seccata dal vento
sapore di sangue alle labbra
salpare per dove l’interno
sfugge del tempo l’inferno.
Franco Acquaviva
*In copertina: particolare da un quadro di Alexandre-François Desportes (1661-1743)
L'articolo “Una mescita di sangue, un’eucaristia rapace”. Sulla poesia di Franco Acquaviva proviene da Pangea.
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Una nota su “Solo l’uomo” di Andrea Italiano, Ladolfi Editore, 2016
Una nota su “Solo l’uomo” di Andrea Italiano, Ladolfi Editore, 2016
George Bellows, Stag at Sharkey’s, 1909 (Fonte: Il Post)
Solo l’uomo (nota di Gianluca D’Andrea)
Il segno della precarietà, quasi un’evidenza testamentaria, è la cifra dei diciassette testi che Andrea Italiano (Barcellona Pozzo di Gotto, 1980) ha raccolto per la sua ultima pubblicazione: Solo l’uomo, Ladolfi Editore (NO), 2016.
Precarietà che si manifesta in uno stile inquieto, che alterna, anche…
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Da "Soglie" di Massimo Del Prete, edito da Giuliano Ladolfi Editore, 2018.
...non il contrario.
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Denis Emorine, Foudroyer le soleil/ Fulminare il sole. Poèmes/ poésie. Traduits par Giuliano Ladolfi. Traduzione Giuliano Ladolfi, Giuliano Ladolfi editore, 2022, 122 p.
Denis Emorine, Foudroyer le soleil/ Fulminare il sole. Poèmes/ poésie. Traduits par Giuliano Ladolfi. Traduzione Giuliano Ladolfi, Giuliano Ladolfi editore, 2022, 122 p.
Une chronique de Sonia Elvireanu
Denis Emorine, Foudroyer le soleil/ Fulminare il sole. Poèmes/ poésie. Traduits par Giuliano Ladolfi. Traduzione Giuliano Ladolfi, Giuliano Ladolfi editore, 2022, 122 p.
Pourrait-il trouver un refuge contre la force dévastatrice d’une obsession qui l’empêche de jouir de la vie, ce poète hanté, à l’identité brisée par une histoire douloureuse ayant glissé la…
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Il poeta Fabio Petrilli presenta Annalisa Ciampalini, di Elisa Mascia
La poesia è magia che unisce le anime meravigliose dell’Universo
Foto cortesia di Annalisa Ciampalini
Annalisa Ciampalini è nata a Firenze nel 1968. Ama da sempre la poesia e la matematica, la musica e la natura. Nel 2008 ha pubblicato la raccolta L’istante si dilata con Ibiskos Editrice, nel 2014 la raccolta L’assenza edita da Ladolfi Editore. Nel 2018 pubblica Le distrazioni del viaggio con…
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"21 grammi di solitudine" di Gianni Venturi (Giuliano Ladolfi Editore, 2020) - recensione a cura di Rita Bompadre
“21 grammi di solitudine” di Gianni Venturi (Giuliano Ladolfi Editore, 2020) – recensione a cura di Rita Bompadre
“21 grammi di solitudine” di Gianni Venturi (Giuliano Ladolfi Editore, 2020) è il peso poetico di un respiro, il soffio intimo, l’impalpabile essenza del dolore umano, l’evanescenza di sentimenti puri e autentici. Il poeta, attraverso la fermezza descrittiva, essenziale e distensiva nelle immagini, fende il terreno emotivo tracciando la superficie dei solchi interiori, imprimendo la traccia…
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Nunzio Marotti, Non ultimo è il male.
Ladolfi Editore
Presentazione: Venerdì 6 dicembre 2019 ore 17,30 Sala La Gran Guardia, a cura di Mardilibri. Ne parlano con l'autore: Federico Regini, Corrado Nesi, Maria Gisella Catuogno e Sandra Palombo.
Il libro è una raccolta di riflessioni. L'autore riconosce che la complessità dell'esistenza si può affrontare in diversi modi. E chi è alla ricerca di un filo o di un ancoraggio deve superare ostacoli continui. La domanda di senso e di significato incombe.
In tutto questo, un incontro può essere sfida, scommessa. Rivelazione.
Per capire o, meglio, sentire che la speranza non è impossibile. Che il male non ha l'ultima parola.
Così, in compagnia di una parola antica e sempre nuova, le ferite e le gioie, la notte e l'alba generano resistenza e fiducia.
Nunzio Marotti vive e lavora come insegnante all'Isola d'Elba, sposato e padre di tre figli.
Ha compiuto studi di Scienze religiose a Roma e Siena e di Scienze della formazione a Firenze.
Da sempre impegnato nel volontariato, ha ricoperto cariche elettive nelle istituzioni locali (Comune e Provincia) ed è giornalista pubblicista. Ha autopubblicato:
Nel silenzio del cuore (2010), La luce e il volto (2012), Scuola, religione e società (2012).
Ha curato, insieme a M.T.Lisco, il libro Non fare come me (Del Bucchia editore), raccolta di scritti di detenuti del carcere di Porto Azzurro.
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La comunicazione delle relazioni interpersonali è molto più che fondamentale.
Eva laudace (Vasto, 1983) è ingegnere e fotografa. collabora con il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. vincitrice di InediTO-
Premio Colline di Torino, nel 2013 pubblica sua opera prima Tutto ciò che amo ha dentro il mare (La Vita Felice, 2013), finalista Premio Rimini nel 2014 e Premio Elena Violani Landi nel 2014 e nel 2015. presente in diverse antologie, suoi inediti sono stati recentemente raccolti in Post ’900. Lirici e narrativi (Giuliano Ladolfi Editore, 2015) e Centrale di transito (Giulio Perrone Editore, 2016).
Credits photo: Facebook - Pagina di Eva Laudace
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[Sincerità][Carol Ann Duffy]
Questa raccolta presenta al suo interno una varietà di forme liriche, che spaziano dall'uso di sestine, sonetti, a monologhi drammatici ed haiku. [Sincerità][Carol Ann Duffy]
Questa raccolta presenta al suo interno una varietà di forme liriche, che spaziano dall’uso di sestine, sonetti, a monologhi drammatici ed haiku, andando così a omaggiare una tradizione lirica britannica i cui sedimenti affiorano distinti in tutta l’opera, e di contenuti che trattano con sincerità tematiche afferenti tanto alla sfera pubblica quanto personale, alternando toni di sprezzante…
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L’opera di Francis Scott Fitzgerald? Un infinto atto d’amore per capire Zelda, per conquistarla, per penetrare nella sua follia
Che F. Scott Fitzgerald e l’Italia fosse una scusa per parlare d’altro, credo sia stato evidente a chiunque si sia trovato tra le mani questo libricino. Certo, la situazione era favorevole a un saggio che indagasse il rapporto di F. Scott Fitzgerald con la critica italiana: c’erano state, negli ultimi anni, una tale quantità di nuove pubblicazioni che non si potevano spiegare solo con la liberazione dei diritti. E con questo intendo dire che, accanto a riedizioni e racconti per noi inediti, c’erano delle raccolte di lettere, come per esempio quella magistrale a cura di Leonardo Luccone Sarà un capolavoro. Lettere all’agente, all’editor e agli amici scrittori (minimum fax, 2017), che a prima vista potevano interessare solo gli addetti ai lavori e che invece venivano proposte al pubblico mainstream. Perché? Era una bella domanda, che poteva giustificare uno scritto.
*
Però ricostruire non sempre equivale a creare. Così il saggio ha preso una piega ulteriore, in qualche modo occulta. La tesi che ci tenevo a dimostrare era questa: se si leggono gli scritti di Fitzgerald in ordine cronologico, scopriamo che tutto ruota intorno alla coppia Scott & Zelda. Mi rendo conto che possa sembrare un assioma buttato là, ma il luogo per spiegarmi meglio rimane il libro. Una cosa, almeno per me, è certa: se cambiamo lente d’ingrandimento, questa può forse funzionare per uno o due scritti, ma mai per tutta l’opera di Fitzgerald. L’unica che funziona sempre e comunque ha un nome e un cognome precisi: Zelda Sayre.
*
Qui vorrei dire piuttosto qualche cosa sul metodo usato, che a guardare bene è stato spesso rigettato con incredulità. Il primo a suonarmele, fu l’amico e collega Michelangelo Franchini: per essere considerato tale, mi ha detto, un metodo critico deve essere reiterabile a più riprese. E quindi, anziché critica, sarebbe stato più giusto chiamarlo uno studio empatico, se questo significhi davvero qualche qualcosa. Poi fu il turno di Francesco Muzzioli, professore di critica letteraria all’Università La Sapienza di Roma: l’identificazione del lettore con uno o più personaggi è una delle maniere più puerili di leggere un libro. Ma F. Scott Fitzgerald e l’Italia non tentava una identificazione tra me e Fitzgerald, quanto semmai una sovrapposizione. Io posso dire di essere F. Scott Fitzgerald, ma non posso dire, per esempio, di essere anche Jack London, Ray Bradbury o Jack Kerouac (per rimanere su un paio di altri autori di cui mi sono occupato). Che si trattasse di esclusività, non lo nego: ma nel contenuto, non nella forma. La critica empatica può essere applicata da quanti studiosi lo si voglia, tuttavia non per tutta la propria carriera critica. Per funzionare, il critico e l’autore o l’autrice studiati devono tendere a una forma di empatia eccezionale.
*
Ecco però un nuovo problema: come facciamo a essere sicuri che quel rapporto stia avvenendo per davvero? L’empatia non si può misurare, non possiamo essere assolutamente certi che il critico non ci stiano prendendo in giro. La risposta è una sola: leggendolo. Ho sempre avuto un’idea piuttosto puerile della letteratura, per cui a interessarmi erano maggiormente gli uomini o le donne dietro il libro. Ogni lettore incontra, prima o poi, l’autore della propria vita – mi rendo conto che possa sembrare una conclusione banale, ma certo è meglio di usare espressioni come: autore preferito. C’è di più: ogni lettore incontra, prima o poi, l’autore che pare aver già raccontato la propria vita e che, non necessariamente, coincide con l’autore tipo precedente. Quello che ho immaginato è una costellazione di critici che raccontino delle loro sovrapposizioni esistenziali. E questo non ha niente a che vedere con la critica psicoanalitica o semplicemente con le biografie. A meno che il critico non si esponga con la sua storia privata, il lettore non potrà mai verificare quanto possa esserci di sovrapponibile tra due vite. Per essere ancora una volta banali: non troverete mai, se non in rari casi, il critico che vi dica all’autore è successa esattamente la stessa cosa che è successa a me e che vi spieghi anche che cosa. Dovrete affidarvi alla lettura: se la critica empatica funziona, sentirete che c’è qualcosa di diverso. Che ciò che vi stanno raccontando, riguarda i rapporti umani tanto quanto la letteratura. Che la vita può essere la letteratura, come scriveva Carlo Bo a proposito degli autori americani. In una parola: se siete dei tipetti sensibili o ne resterete incantati o denuncerete il critico come l’ennesimo pazzo megalomane.
Antonio Merola
***
Per gentile concessione dell’editore si pubblica un estratto dal libro di Antonio Merola, F. Scott Fitzgerald e l’Italia (Ladolfi Editore, 2018).
Conclusioni: il primo passo per una critica empatica
Nello studio americano The foreign Critical Reputation of F.Scott Fitzgerald (1980), Linda C. Stanley muoveva una forte critica alla critica italiana della prima metà del Novecento: il nostro paese cioè sembrava preferire a Fitzgerald quegli scrittori (che considerava) proletari come Hemingway e Faulkner.
L’impegno principale della nuova critica in un primo momento è stato allora quello di conferire una «reputazione» allo scrittore-Fitzgerald, dissociandolo dalla leggenda biografica dell’uomo. Successivamente, grazie soprattutto alla partecipazione americana, lo scrittore e l’uomo sono venuti finalmente a coincidere: il materiale della narrazione proviene dalla sincerità con cui Fitzgerald elabora la propria esistenza – e viceversa. Oggi la recente traduzione a cura di Daniela De Lorenzo dello studio imparziale di Richard Owen, Hemingway e l’Italia (Donzelli, 2017), ci chiarisce meglio la predilezione tutta italiana per lo scrittore.
Antonio Merola è l’autore di “F. Scott Fitzgerald e l’Italia” (Ladolfi Editore, 2018)
Rimane aperta tuttavia una problematicità: dopo avere superato l’esigenza della comparazione, come bisogna affrontare criticamente Fitzgerald? La strada finora percorsa ci porta sulla topica della doppiezza. Anche qui però bisognerebbe capire anzi tutto sopra quale binarietà ragionare: per fare un esempio, è stato posto l’accento più volte intorno a quella parabola della felicità propria dello scrittore-uomo, che veniva spiegata con una biografia prima e dopo la malattia di Zelda, o alla crisi del Crack-up, oppure con la contrapposizione dell’enorme successo economico e di pubblico alla sopravvivenza come semplice uno tra (o dei) molti a Hollywood, ma potremmo continuare ancora con una critica testuale o tematica. Sergio Perosa in particolare individuava una preminenza speciale nella tematica dell’amore assieme a quella della ricchezza, che Fernanda Pivano nella introduzione ai Romanzi riassumeva nella esclusività della seconda: o meglio, la patologia di Zelda le sembrava una conseguenza della più ampia malattia generazionale verso il denaro e l’incapacità della donna di vivere al di fuori di quella leggenda. Pivano lamentava cioè l’assenza nel panorama italiano di uno studio che si concentrasse prevalentemente sul rapporto tra Fitzgerald e il potere suggestivo della materialità del successo. Ma più avanti, Barbara Nugnes nel proprio Invito alla lettura di Francis Scott Fitzgerald (1977), propone una suggestione sopra la ricchezza diversa: “Lo stesso tema della ricchezza, il più ossessivo e onnipresente nell’opera dello scrittore, e quello su cui più frequentemente si appuntavano le critiche dei contemporanei, si rivelava ora, a ben guardare, carico di implicazioni simboliche. I ricchi di Fitzgerald non somigliano ai ricchi di Dreiser e non somigliano ai ricchi di James. Forse – come osservò Leslie Fiedler – essi non somigliano neppure ai veri ricchi. Fitzgerald si serve di loro come Melville si era servito della sua balena: sono un mito, un simbolo, l’incarnazione di tutte le ambiguità della vita, menzogna e fascino, incanto e orrore. Arrivare a conoscerli è conoscere la Verità”.
Credo però che la questione dovrebbe venire presentata secondo una ulteriore prospettiva: non voglio negare l’importanza (o sarebbe meglio dire il fascino) che «la leggenda del ricco» esercitò sopra la poetica di Fitzgerald, ma sancirne l’esaustività critica sarebbe come banalizzare la feroce lotta che l’uomo condusse nella seconda parte della propria esistenza – se è giusto dividere una vita in partes.
Dopo la pubblicazione de I Taccuini personali dell’autore, (introd. di Sergio Perosa, trad. Armando Pajalich e Domenico Tarizzo, Einaudi, 1980), l’ultimo ventennio ha portato alla luce una sequela di pubblicazioni come Caro Scott, carissima Zelda. Lettere d’amore di F. Scott Fitzgerald e Zelda Fitzgerald, (trad. di Marina Premoli, La tartaruga, 2003), o le Lettere a Scottie, con lettere inedite di F. Scott Fitzgerald, (a cura di Massimo Bacigalupo, Archinto, 2003), e la recente Sarà un capolavoro: lettere all’agente, all’editor e agli amici scrittori (a cura di Leonardo G. Luccone, trad. di Vincenzo Perna, Minimum Fax, 2017); assieme alla pubblicazione quasi completa dell’intera produzione minore dello scrittore, tra cui l’ultima Per te morirei e altri racconti perduti, (trad. Vincenzo Latronico, Rizzoli, 2017): tutto questo gigantesco lavoro di recupero ci fornisce finalmente la strumentazione da cui (ri)partire per una critica biografica della produzione fitzgeraldiana.
E in particolare, ritengo che bisognerebbe riprendere quella «tematica amorosa» individuata da Perosa: considerare cioè la storia creativa dello scrittore come una intima riflessione sopra la storia amorosa con Zelda Sayre. Abbiamo già avuto modo di suggerire come una inquadratura simile funzioni maggiormente rispetto a relegare la scrittura di Fitzgerald intorno all’età del jazz o a qualsiasi altro periodo storico particolare: se si cerca di leggere infatti l’intera produzione fitzgeraldiana come lo specchio di una singolarità temporale, la poetica comune dell’uomo rischia di sfuggire perché è la coppia che si muove negli Anni Venti, nella e oltre la crisi che segue il boom e infine nella grande oscurità che anticipa la guerra; ma se il successo porta Scott e Zelda a vivere quel primo decennio dalla cima di una montagna artificiale, e quindi a coincidere con esso (e se vogliamo a rappresentarlo), è pure vero che il resto della loro esistenza prosegue all’interno di un confine spirituale personale e appartato: la patologia psichiatrica della donna.
Se esiste in Fitzgerald una doppiezza è proprio verso la moglie: il lavoro continuo contro la pazzia, ma anche il dialogo con essa; la sublime coincidenza tra uno spirito di conservazione e uno di distruzione. Era impossibile per lui proseguire la vita senza la compiutezza dell’amore: o meglio, Fitzgerald lavora, e lavora sodo (anche fino all’infarto), ma si muove nella società da allora in poi come il fantasma di se stesso; lavora per pagare la cura ormai senza speranza di Zelda. E se tornerà a scrivere con Gli ultimi fuochi, è per cercare lei in un mondo altro: lontano dalla clinica e ancora più lontano dalla realtà.
Il successo è solo una illusione di guarigione (peraltro momentanea): con il primo romanzo cioè aveva “conquistato” Zelda, per guardare poi alla ricchezza come a uno strumento principe di tranquillità. Ma già nel Belli e dannati comprende la superficialità di questa strategia; quando la moglie poi comincia a dare il primo segnale di confusione, Fitzgerald ci presenta Gatsby: al gangster non serve più il denaro, perché la «luce verde» non è altro che la normalità di Zelda, la sensazione atroce dell’incombenza della malattia. E con essa, persino l’esigenza della grande scrittura si allontana: la produzione di Fitzgerald per lungo tempo si limita alla commerciabilità della stessa sopra le riviste popolari. Tenera è la notte arriva solo dopo il lungo travaglio personale della coppia; ma il romanzo non poteva trovare allora favore nel grande pubblico, perché è il resoconto dettagliato di una esperienza titanica: la comprensione della pazzia. La critica sosteneva infatti che Dick Diver non sembrasse uno psichiatra: non aveva cioè la competenza (e la conoscenza) della medicina. Ma Fitzgerald ci presentava invece una storia diversa: l’universalità dell’amore; o meglio, la capacità dell’amore oltre l’individuo, che supera l’ideale romantico (che cioè si fonda sopra l’idea dell’altro) per incontrare e congiungersi con l’altro fino alla creazione di un sentire doppio, e assieme comune.
Sembra una conclusione che poco ha di critico: servirebbe uno studio puntuale a partire dal testo, per dimostrare come la presenza di Zelda sia onnipresente in ciascuna figura femminile (protagonista) della produzione fitzgeraldiana. A guardare bene infatti, romanzo e realtà biografica della coppia vengono sempre a coincidere: il pattern di ciascuna storia si muove intorno a una vicenda romantica e se si confronta quella finzione con la corrispondenza biografica coincidente alla scrittura della stessa, è chiaro che Fitzgerald sta parlando a nome di lui e di Zelda. Ancora, abbiamo detto che una critica fitzgeraldiana debba necessariamente considerare la produzione intera dello scrittore: se per esempio ci avviciniamo al solo Di qua dal Paradiso, l’interpretazione che vuole Fitzgerald come il portavoce di una storicità particolare sembra funzionare; ma ecco che non appena allarghiamo il nostro orizzonte critico, ogni tentativo di categorizzazione particolare si dimostra inadeguato. Al contrario invece, la riflessione sopra la coppia reale rimane l’unica chiave di lettura che funziona e singolarmente e nella totalità della produzione: l’evoluzione (o l’involuzione) di ciascuna tematica, o ancora la pluralità delle ambientazioni, non servono a giustificare la coppia personaggio, non siamo di fronte cioè alla pretestualità della trama come esempio per spiegare romanticamente una idea a posteriori (e del resto abbiamo visto come accada che Fitzgerald trascenda se stesso durante il processo creativo); ma è l’agens stesso della coppia nella storia (o nella propria esistenza) che trascina con sé l’ambientazione o una tematica come una conseguenza: dal dialogo con se stesso e con Zelda nasce cioè tutta l’opera di Fitzgerald.
Antonio Merola
*In copertina: Francis Scott Fitzgerald, Zelda e il figlio Frances, detto ‘Scottie’
L'articolo L’opera di Francis Scott Fitzgerald? Un infinto atto d’amore per capire Zelda, per conquistarla, per penetrare nella sua follia proviene da Pangea.
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