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#Filosofia contemporanea: storia e saggi
queerographies · 1 year
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[Nessuna sottomissione][Chiara Bottici]
Nessuna donna sarà mai libera se ogni altro essere vivente non lo sarà. Abbiamo bisogno di un approccio multiforme al dominio che sia in grado di tenere insieme voci diverse, egualmente finalizzate allo smantellamento dell’oppressione.
Nessuna donna sarà mai libera se ogni altro essere vivente non lo sarà. Abbiamo bisogno di un approccio multiforme al dominio che sia in grado di tenere insieme voci diverse, egualmente finalizzate allo smantellamento dell’oppressione. Solo un pensiero anarcafemminista è in grado di rispondere alle sfide del nostro tempo perché tiene insieme la specificità dell’oppressione delle donne e la…
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carmenvicinanza · 1 year
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Lea Vergine. L’arte dilania
https://www.unadonnalgiorno.it/larte-dilania-lea-vergine/
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L’arte dilania. Mette allo scoperto tutti i traumi, consci e inconsci, ravviva tutto il dolore di sé. Ma il dolore non è sempre una cosa nefasta, è anche una cosa che apre il cervello e fa capire.
Lea Vergine, critica d’arte e curatrice, ha pubblicato vari saggi sull’arte contemporanea. Eloquio arguto e grande personalità, ha dato una scossa al panorama artistico culturale italiano dominato da una visione patriarcale.
Nata a Napoli il 5 marzo 1936 col nome di Lea Buoncristiano, ha lasciato presto la facoltà di Filosofia per collaborare con varie testate locali.
Da giovanissima aveva sposato Adamo Vergine, di cui ha mantenuto il cognome, anche dopo la separazione.
Nel 1959 ha pubblicato il suo primo articolo di critica d’arte per la rivista d’avanguardia I 4 Soli ed è entrata a contatto con tutti gli intellettuali e artisti dell’epoca, contribuendo a creare un collegamento decisivo tra l’arte contemporanea italiana e quella francese.
Mentre era ancora sposata, ha conosciuto il designer Enzo Mari e intrapreso una relazione amorosa durata fino all’ultimo giorno della sua vita. Erano andati subito a vivere insieme a Napoli, accusati entrambi di concubinaggio vennero costretti a lasciare la città e a trasferirsi a Milano, nel 1966, dove, solo dopo l’approvazione della legge sul divorzio poterono sposarsi, nel 1978.
Nel 1963 ha scritto il suo primo libro, Undici pittori napoletani di oggi.
In quegli anni ha organizzato mostre rimaste nella storia, come la personale di Lucio Fontana, Concetti spaziali, che, in un’impostazione ancora profondamente maschilista della società, le valse l’accusa di perversione sessuale per aver parlato dei suoi “buchi”.
Protagonista del dibattito culturale, ha tenuto conferenze e incontri con personaggi del mondo della cultura come Giulio Carlo Argan, Umberto Eco e Gillo Dorfles, occupandosi di avanguardia culturale a livello internazionale.
Ha lavorato come critica d’arte per Radio3, innescando un dibattito sulle nuove tendenze del contemporaneo nell’ambito di arte, architettura e design.
A Milano la sua attività si è consolidata tramite collaborazioni più assidue con testate di settore e quotidiani nazionali.
Fondamentale il suo contributo alla Body Art, è stata una delle prime studiose a occuparsene pubblicando, nel 1974, il libro scandalo Il corpo come linguaggio, che teorizzava le forme di espressione artistica che mettevano al centro la corporeità, l’azione autolesionista e l’esperienza dell’espiazione del dolore. L’arte che aveva visto le prime manifestazioni negli anni ’50, viene descritta come emotiva e liberatoria, le cui azioni sono scariche di emotività volte a sovvertire una scala di strutture e valori tipicamente occidentali. Sui suoi saggi si sono formate intere generazioni di studenti.
Si è occupata del linguaggio erotico e amoroso relativo all’arte e, nel 1975, ha scritto il testo introduttivo per una cartella di opere grafiche realizzate da nove artiste italiane la cui vendita serviva a raccogliere fondi per la neonata Libreria delle Donne.
Lea Vergine ne sottolineava il valore politico: che la guerra sia ancora aperta, che la rivolta continui, che una strategia rivoluzionaria femminista sia ancora oggi un obiettivo da mettere a punto, lo prova anche questa cartella che vede un gruppo di artiste compiere un gesto politico di solidarietà nei riguardi del movimento.
Mentre collaborava con quotidiani come Il Manifesto e Il Corriere della Sera, ha scritto libri come Attraverso l’arte. Pratica politica. Pagare il ’68 e Dall’informale alla Body art. Dieci voci dell’arte contemporanea 1960/1970.
Ha organizzato mostre che hanno fatto epoca, come L’altra metà dell’Avanguardia, una pietra miliare per storia dell’arte e tematiche di genere.
Nel 1985 ha curato, al Padiglione d’arte contemporanea di Milano, la mostra Partitions/Opere multimedia 1984-85 di Gina Pane, che considerava la protagonista assoluta della body art.
Nel 1990 è stata commissaria per la Biennale di Venezia.
Nel 1997, al MART di Trento e Rovereto, ha inaugurato Trash. Quando i rifiuti diventano arte, sull’impiego del rifiuto, tradotto con il termine inglese “trash”, nell’ambito di architettura, arte, cinema, danza e musica.
Nel 2007 ha concepito la mostra D’ombra per il Palazzo delle Papesse di Pisa e il MAN di Nuoro, in cui ha raccolto le opere di quaranta artisti che si erano occupati del tema dell’ombra, di esperienze al limite tra mondo fisico e mondo magico, o tali da evidenziare la parte segreta di persone e oggetti.
Sempre al MART, nel 2013 c’è stata la mostra Un altro tempo. Tra Decadentismo e Modern style.
La produzione editoriale di Lea Vergine è stata raccolta in antologie come Parole sull’arte, che compendia alcuni suoi saggi, presentazioni in catalogo, articoli, recensioni e interviste pubblicati dal 1965 al 2007; Ininterrotti transiti, che raccoglie i suoi scritti dal 1987 al 2000 e La vita, forse l’arte, che riunisce la sua produzione dal 2000 al 2013.
Ha collaborato con tutte le più importanti testate giornalistiche, quotidiani e riviste di settore, di cultura e società.
L’Accademia di Belle Arti di Brera le ha conferito, nel 2013, il Diploma Accademico Honoris Causa in Comunicazione e Didattica dell’arte e il titolo di Accademica d’Italia.
Il 20 ottobre 2020, si è spenta a causa delle complicazioni dovute al COVID-19, il giorno dopo la ripartita dell’amato compagno della sua vita, il designer Enzo Mari.
Nel 2021, al Palazzo Reale di Milano è stata inaugurata la mostra Corpus Domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima, nata in collaborazione con Francesca Alfano Miglietti. La prima sala dell’esposizione è stata dedicata alla sua memoria e alla sua ricerca sulla Body art, tramite materiali d’archivio, cataloghi e video.
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schizografia · 2 years
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Ricordo di Robert Klein
Cari Federici, lettere postume sono cosa odiosissima nel genere epistolare, lo so bene, ma questa è una lettera d’affari – scritta con affetto, però. Mi spiace moltissimo di creare quest’imbarazzo, ma motivi per scendere dal treno ne ho molti e stringenti, il tutto era di trovare il momento quando si poteva farlo col minimo di drammi e questo è adesso. Avrei voluto lasciare le cure e gli affari a persone meno gentili e meno amiche, ma non si può. Non vale la pena di disturbare i carabinieri per cercarmi, quando Lei legge queste istruzioni (mi spiace) tutto è già deciso da giorni. Sono andato sui colli per non lasciare il corpus delicti nella bella stanza di Abbondanza, e per non dare noia a innocenti alberghieri. Prego la Sgra. Meller di occuparsi dello sgombero dei miei affari, con la partecipazione della concierge. Tutti i mss., dattiloscritti o no, sono da buttar fuori; forse lasciando le fotografie e le schede bibliografiche per lo studio sui Tarocchi, e anche le carte segnate redigées utilisables, se Chastel ne vuole per uno studente incaricato di occuparsi un giorno di quel tema. Le sono tanto grato, scrivendo. Ma non è bene parlarne. Suo Klein.
Questa lettera è stata inviata da Robert Klein ai suoi amici Renzo e Graziella Federici poco prima di suicidarsi sui colli di Settignano il 22 aprile 1967. La lettera non c’interessa qui come documento biografico, ma perché in essa trovano compiutamente espressione il pensiero e il carattere di questo studioso geniale, che non soltanto ha rivoluzionato per molti aspetti la storia dell’arte del Rinascimento, ma, col saggio Spirito peregrino, ha gettato una nuova luce sulla poesia di Dante e dei poeti d’amore e, con lo studio su L’eclisse dell’opera d’arte, ha profeticamente descritto il destino dell’arte cosiddetta contemporanea. Non è per questo che qui intendiamo ricordarlo. Ci riferiamo piuttosto alle sue riflessioni sull’etica, svolte nei saggi che chiudono l’ultima sezione della raccolta postuma La forma e l’intellegibile (1970) e soprattutto nell’ampio, incompiuto e tuttora inedito Essai sur la responsabilité.
La tesi centrale del saggio è che l’Io si genera attraverso un’assunzione di responsabilità che solo l’Io può compiere. Il soggetto responsabile si costituisce, cioè, attraverso l’atto di cui è il presupposto (o, come scrive Klein, è supposé par cela-même qu’il doit expliquer). Corollario di questo teorema è dunque che l’etica (e, in un certo senso, la stessa filosofia, visto che per Klein la coscienza ha la forma di un’assunzione di responsabilità) è impossibile. Simone Weil ha scritto una volta che la sola soluzione adeguata di un problema è quella che ne contempla l’impossibilità. In modo simile, Klein concepisce l’etica come il tentativo coerente e irrinunciabile di vivere un’impossibilità, di ostinarsi ironicamente a essere ogni volta ciò che può solo diventare.
Non stupisce allora che, come tanto il tono che la scrupolosa attenzione ai particolari della lettera suggeriscono, il suicidio, in quanto coincide con la sottrazione dell’Io, potesse apparirgli come l’assunzione di responsabilità più compiuta e risolta. Ciò non ha ovviamente nulla a che fare con le ragioni che lo hanno spinto a togliersi la vita, ma implica soltanto che ai suoi occhi l’atto che stava per compiere era in qualche modo un’estrema assunzione di responsabilità.
3 giugno 2022
Giorgio Agamben
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personal-reporter · 7 months
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Festa del libro medievale e antico 2023 di Saluzzo
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La terza edizione della Festa del libro medievale e antico di Saluzzo, la manifestazione per adulti e ragazzi dedicata alla cultura e storia medievale attraverso romanzi, saggi, fantasy, lezioni, musiche e performance, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo e dalla Città di Saluzzo, in collaborazione con il Salone Internazionale del Libro di Torino. si terrà dal 20 al 22 ottobre. Il tema di questa edizione sarà il viaggio nel Medioevo,  affrontato sotto diversi aspetti, inteso come itinerario da intraprendere per spostamenti pratici o per necessità di lavoro e commerciali; come desiderio di scoperta e avventura, sfida per il superamento di confini e condizioni; fantastico, epico e cavalleresco; o spirituale e mistico in un periodo di fervente religiosità, oltre a i pellegrinaggi militari di conquista che furono le crociate in Terra Santa. Tra i protagonisti ci saranno l’antropologo Marco Aime sul pellegrinaggio medievale alla Mecca del Sultano del Mali; il critico d’arte Nicolas Ballario sulle influenze del Medioevo nell’arte contemporanea; il monaco e saggista Enzo Bianchi sulla vita dei monaci; l’autrice Nicoletta Bortolotti su Christine de Pizan (1364-1430), prima scrittrice europea e; la regina degli scacchi Marina Brunello; lo storico Federico Canaccini sul viaggio dei pellegrini per il primo Giubileo della storia; lo scrittore Fabio Genovesi su Cristoforo Colombo; lo youtuber Roberto Mercadini con uno spettacolo su Orlando Furioso; le medieviste Beatrice del Bo (sui viaggi immaginari nei cieli medievali) e Laura Ramello (sui viaggi dei cavalieri), l’insegnante di filosofia e youtuber Matteo Saudino  sulla filosofia medievale e lo scrittore e critico letterario Domenico Scarpa, oltre a il medievista Amaury Chanou, il giornalista Leonardo Bizzaro; l’ingegnere Sergio Beccio con il professor Nuccio Gilli, l’autore Aldo Squillari, il compositore e giornalista Davide Riccio, lo studioso di storia Joseph Rivolin, l’insegnante e scrittore Pasquale Natale; l’insegnante e autrice Ivana Melloni; lo storico Ezio Marinoni. Non mancheranno la Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani Onlus con lo spettacolo dedicato a Marco Polo; il Coro Gregoriano Haec Dies di Alba con un concerto di canti gregoriani; il Marchesato Opera Festival con concerti di musica classica; il Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli con un’azione collettiva per i più piccoli; il Teatro Liquido – Barcelona, grazie alla collaborazione con EstOvest Festival; sbandieratori, gruppi e rievocatori storici, trampolieri, giocolieri, cantastorie, giullari, saltimbanchi, danzatori che animeranno tutta la città. Inoltre gli esercizi commerciali  di Saluzzo esporranno nelle loro vetrine titoli di libri selezionati sul tema del viaggio, dalla saggistica alla narrativa, dal fantasy ai libri antichi per una bibliografia medievale che confluirà nel Fondo del libro medievale in continua espansione, nato con la prima edizione della Festa, custodito dalla Biblioteca civica di Saluzzo Lidia Beccaria Rolfi.  per la fruizione libera e gratuita. Tutti gli appuntamenti sono a ingresso libero e gratuiti, a eccezione dello spettacolo di Roberto Mercadini e dello spettacolo Marco Polo di Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani Onlus. Read the full article
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marengalexwordpress · 3 years
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Aggiornamenti letture e serie tv
Aggiornamenti letture e serie tv di questo mese!
In questo periodo leggere i libri che non siano dell’università è un po’ difficile. La scorsa settimana sono ricominciate le lezioni, motivo per cui questo semestre sarò impegnata tra i manuali enormi di istituzioni di storia contemporanea e i saggi di filosofia del linguaggio.Ecco perché ultimamente non sono più al passo con la lettura dei romanzi e dei libri per il blog ma spero che finito…
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tmnotizie · 5 years
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SAN BENEDETTO – Si terrà domani, venerdì 9 novembre, alle ore 21.15 presso il Teatro “San Filippo Neri” in San Benedetto del Tronto, la prolusione dell’anno accademico della scuola di Formazione Teologica della diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto. Con l’occasione, si festeggeranno anche i 45 anni della fondazione della scuola di Formazione Teologica diocesana iniziata da Padre Giuseppe Crocetti.
Il direttore, Don Gian Luca Pelliccioni afferma: “La vita della scuola di formazione è fatta dello studio, delle relazioni interpersonali e dei momenti istituzionali. Domani sarà uno dei momenti più importanti della scuola, e visti i 45 anni di esercizio, assume un tono di nobile gratitudine. Il Vescovo Carlo Bresciani, presidente della scuola, farà gli onori di casa con il prof. Alici Luigi dell’università di macerata. Il prof. Alici ci offrirà la sua riflessione intorno al tema ‘Dare forma alla vita: il laico tra fede e storia’, di sicuro spessore e interesse”.
Alla serata sono stati invitati tutti gli ex alunni degli ultimi 30 anni della Scuola di Formazione Teologica diocesana, i parroci, i religiosi, i dirigenti e i docenti di tutti gli istituti comprensivi della diocesi e gli assessori alla cultura dei comuni presenti nel territorio.
La serata si concluderà con la consegna degli attestati di formazione teologica agli alunni che hanno concluso il percorso di studi triennali nell’anno 2017/2018. Tutti sono invitati a partecipare.
Luigi Alici, filosofo, Professore ordinario di Filosofia morale, titolare dei moduli di insegnamento di Filosofia morale istituzionale e Filosofia morale (corso triennale), Etica pubblica ed Etica della vita (corso magistrale). Presidente del Corso di laurea in Filosofia (1997/2003). Presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana dal 2005 al 2008. Coordinatore del Dottorato di ricerca, indirizzo Filosofia e teoria delle Scienze umane / Filosofia, Storia della filosofia e Scienze umane (2008/2013). Presidente del Presidio di Qualità di Ateneo (2013/2016).
Direttore della Scuola di Studi Superiori “Giacomo Leopardi” per il triennio 2017/2020. Direttore della Collana “Saggi”, sezione di “Filosofia” (Editrice La Scuola Brescia) e della Collana “Percorsi di Etica” (Aracne, Roma). Docente di Etica della cura, presso il Master in “Medicina narrativa, comunicazione ed etica della cura”, Facoltà di Medicina, Università Politecnica delle Marche.
I principali ambiti di ricerca nascono da una rilettura del pensiero agostiniano, condotta alla luce di alcune istanze della filosofia contemporanea, e riguardano i temi dell’identità personale, della “reciprocità asimmetrica”, della cura e della fragilità, esaminati sotto il profilo della loro rilevanza morale.
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pangeanews · 6 years
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“Per vivere dobbiamo subire lo schianto del caos”: dialogo con Roberto Mercadini, il cabalista dell’aggettivo
Faceva l’informatico, ricordo, ma, ricordo, ha sempre avuto quella faccia da chassidim, da rabbino in estasi, che di notte danza con falangi d’angeli. In effetti. Lui è alto, tonante, simpatico, qualcosa tra Mangiafuoco di Pinocchio, l’Hagrid di Harry Potter e il GGG di Roald Dahl; io, invece, sono altrettanto alto, secco, ho i capelli bianchi, sono così buono da sembrare cattivo, sono come la fiocina affilata da Achab e brandita da Queequeg, tanto la Balena Bianca resta benedetta. Eppure. Dateci una lettera dell’alfabeto ebraico, una lamed qualsiasi, il salvagente di una mem, e io e Roberto Mercadini potremo imbastire giorni di conversazioni bibliche, in bilico sul delirio. Roberto Mercadini – rigorosamente senza frequentarci – lo conosco da una vita. Da quando ha scritto quel libro di versi ipnotici e barbarici, Madrigali per surfisti estatici (era il 2011), e alternava il teatro al lavoro, come altri fanno l’alternanza scuola-lavoro e altri ancora sono tutto casa&chiesa. Lui, presumo, in chiesa non ci entra. Ma s’è inventato “un viaggio nella Bibbia ebraica”, Fuoco nero su fuoco bianco, di ustionante meraviglia. Di spettacoli verbali, Mercadini, l’esempio vivente che quando l’arte chiama e il talento esiste puoi mandare al macero tutto il resto, ne ha inventato tanti, uno dei più belli è dedicato a Moby Dick, la Balena Bianca, poi c’è quello su Mazzini, quello “sull’origine della filosofia”, su Leonardo da Vinci. Uno di questi monologhi – perché Mercadini, in fondo, fa in modo originale, cioè alieno alle mode, una cosa molto antica: il cantastorie – s’intitola Se fossi la tua ombra mi allungherei a mezzogiorno ed è diventato un libro, appena stampato da Rizzoli, Storia perfetta dell’errore, di candida bellezza, dove ci sono, per dire, Michelangelo, l’arte marziale, la Luna, la nascita della vita sulla Terra, il Devoniano, il Cantico dei Cantici, e tanto amore per gli uomini e le parole. Così, vedete, mi lascio ghermire dalla nostalgia, da reietto mi getto nell’entusiasmo, e afferro Mercadini per i suoi capelli da Sansone, risalendoli a contrario, come si fila l’alba fino all’ultimo giorno.
…ma che fai, ora ti dai al romanzo? Perché hai scritto questo libro, dove t’è venuta l’idea, ti è cascata in crapa come la mela di Newton?
Più che altro m’è cascato in crapa un contratto con Rizzoli. Ho cominciato a scrivere un libro che, all’inizio, non doveva essere un romanzo; né nelle mie intenzioni, né in quelle della mia editor (per lo meno non in quelle dichiarate). All’inizio era una raccolta di narrazioni diverse, ma collegate fra di loro: alcune evolutive (ossia che trattassero della comparsa e dell’evoluzione della vita sulla terra), altre bibliche, altre ancora incentrate su un personaggio storico. Ogni volta una analogia legava la narrazione evoutiva a quella biblica, e quella biblica a quella storica. In pratica doveva essere una estensione, un potenziamento del mio monologo intitolato Se fossi la tua ombra, mi allungherei a mezzogiorno. Per me sarebbe bastato quello. Mi sembrava sufficientemente ambizioso e cervellotico. Poi la mia editor mi ha sfidato ad andare oltre: vorresti provare a costruire una cornice che inglobi tutte queste narrazioni? Così non saresti tu, Roberto Mercadini, a raccontare queste storie direttamente al lettore. Ma ci sarebbe un personaggio (da inventare) che racconta ad un altro personaggio (da inventare) per un motivo preciso (da inventare). Ho accettato; un po’ perché tento sempre di essere collaborativo con le persone che mi stanno intorno, un po’ perché mi piace mettermi nei guai. Per diversi mesi sono rimasto bloccato. Era come risolvere un rompicapo. Facevo e scartavo ipotesi. Quale vicenda e quali personaggi possono rendere necessario, realistico, plausibile che un tizio racconti ad un altro tizio storie strane e complesse come quelle che avevo scelto (l’estinzione dei dinosauri, Michelangelo che scolpisce il David, Giona inghiottito dal pesce)? Sono stato più volte sul punto di rinunciare. Ho pensato seriamente di scrivere una lettera a Rizzoli: ‘Scusate, ci rinuncio. Vi restituisco i soldi dell’anticipo. E pago la penale, se c’è una penale da pagare. Addio’. Poi, finalmente, ho trovato il modo di far combaciare tutti i pezzi del puzzle. Erano nati i protagonisti del romanzo e la loro vicenda.
Roberto Mercadini vi dice, leggete questo! Il suo libro, edito da Rizzoli, si intitola “Storia perfetta dell’errore”
Dedichi il libro a ciechi e analfabeti, che forse sono i lettori veri, oggi. Domanda seria: cosa leggi, tu, ondivago teatrante? Su chi ti sei ‘formato’?
Mah, non so se posso dire di essere formato. Cerco di continuare a imparare, di lenire la mia ignoranza. Vivo provando un senso di colpa inestinguibile: non conoscere tutte le cose che varrebbe la pena conoscere. Cosa leggo? Mi verrebbe da risponderti che non leggo mai niente. Perché non bisogna leggere niente. Mai. Non a caso nel mio romanzo ho inserito un capitolo che si intitola Asino chi legge. Mi spiego meglio, provocazioni a parte. Credo che ci si debba avvicinare ai libri con il desiderio di esserne cambiati, di evolvere, di capire e non con la richiesta di esserne intrattenuti, di ammazzare il tempo. Per cui associo ai libri più il verbo ‘studiare’ che il verbo ‘leggere’. Mi suona sempre un po’ strano quando sento qualcuno dire: ‘Ho finito di leggere X’. Ma in che senso ha finito? Cosa ha finito? Non si dice, per esempio: ‘Ho finito di ascoltare la Quinta di Beethoven’. Si dà per scontato che valga la pena riascoltarla. Per me gli unici libri che valga la pena leggere sono quelli che meritano di essere ri-letti una seconda e una terza volta. In questo senso sento lontana anche l’ossessione moderna per il cosiddetto ‘spoiler’, cioè l’anticipazione che rovinerebbe la visione di un film o la fruizione di un libro. Quel terrore di sapere ‘come va a finire’. Quasi tutto si limitasse a questo; come se parlassimo di barzellette, di indovinelli, di gialli. Per risponderti seriamente: che libri leggo? Leggo soprattutto saggi scientifici e poesia. Cioè libri che prevedono uno studio, una frequentazione a più riprese, una meditazione. Non mi pare che si dica neppure: ‘Ho finito di leggere le Elegie Duinesi’.
…ma… ti piace, t’interessa la narrativa italiana contemporanea? Che scrittori leggi? Cosa ti turba?
Confesso con vergogna che conosco pochissimo dei miei ‘colleghi’ scrittori contemporanei e connazionali. Così come conosco pochissimo dei miei colleghi teatranti. La scusa che, fra spettacoli da portare in scena e cose nuove da scrivere, non ho il tempo di guardarmi attorno e conoscere i miei compagni di viaggio regge fino ad un certo punto. Forse mi piace l’idea di stare facendo un viaggio tutto mio, per vie traverse e diverse; di essermi creato una specie di ‘mondo parallelo’. Questa anomalia è anche la mia fortuna: a teatro vengono a vedermi molte persone che, diversamente, non si sognerebbero di mettere piede in un teatro. È anche per questo, credo, che, almeno in Romagna, riesco ad avere un pubblico così numeroso. Allo stesso modo, fra i miei lettori ci sono molte persone che non leggono libri. Un signore mi ha scritto di recente: ‘Mi è piaciuto molto il tuo libro. L’ultima cosa che avevo letto era un numero del mensile In Moto del 2015’. Mi ha fatto sorridere. Ma mi ha anche fatto capire il privilegio di cui godo.
L’errore, dicono i nipponici, è la via prediletta per fare la cosa giusta. Che idea regge il tuo libro?
Tutto il libro insiste su questa provocazione: ci sono inciampi che ci insegnano a volare, ostacoli che ci aiutano, cadute che ci innalzano, perdite che ci arricchiscono, sciabolate che ci risanano, tempeste che ci tengono a galla, errori che si rivelano una forma più alta di perfezione. Da un lato potrebbe sembrare una prospettiva rassicurante: non tutto il male viene per nuocere. Ma dall’altro è e vuole essere inquietante: significa anche che, perché le cose vadano per il meglio, non devono andare come prevediamo e come speriamo. Significa che dobbiamo subire l’urto dell’imprevisto, lo schianto del caos. Sono convinto che, per diventare davvero ciò che si è, occorre uscire da quelli che riteniamo essere i nostri limiti. Come Abramo che, già anziano, deve abbandonare la propria casa compiere il suo destino, trasformandosi da Abram ad Abraham, da anonimo pastore a gigantesco patriarca di patriarchi.
Ricordo il tuo fenomenale monologo sulla Bibbia. Cosa c’è di bello in quel libro così comicamente violento? 
Domanda impegnativa! La Bibbia è un testo poliedrico, tentacolare, multiforme. La tradizione ebraica invita ad attraversare molteplici livelli di interpretazione; considerando il singolo episodio, la singola frase, la singola parola, persino la singola lettera. Quindi qualsiasi riposta è disperatamente riduttiva e semplicistica. Comunque sia, dovendo prendere in considerazione un aspetto singolo, dico così: la Bibbia è meravigliosamente sconcertante perché Dio fa scelte che sono diametralmente opposte a quelle del buon senso umano. Scegli Abramo e Sarah, quindi una coppia sterile di anziani per fondare un nuovo popolo; sceglie Mosé, che è balbuziente, per fargli da profeta; fa sì che il piccolo Davide sconfigga il gigantesco Golia; potrei andare avanti per ore. C’è una specie di effetto comico, di ironia, che scaturisce da questo: la distanza, la sproporzione fra Dio e l’uomo. Ci sono pagine così provocatorie che, leggendo, non si crede ai propri occhi. Come nel primo libro di Samuele, quando i filistei rubano agli israeliti l’Arca dell’Alleanza. Vengono vessati dalla punizione divina. Molti muoiono, altri soffrono atrocemente di emorroidi. Perché la maledizione cessi, devono restituire l’Arca. Ma, come gesto riparatore, devono anche offrire a Dio – udite, udite! – delle sculture in oro raffiguranti le loro emorroidi. Quando ho letto il passo, non ci potevo credere. E non è che un esempio.
Ma… tu pratichi la cabbala? Sei l’Abulafia dell’aggettivo, evocatore di Golem verbali?
Ma no, io non sono niente. Per carità! Ci sono persone che si dedicano allo studio della Bibbia e della Tradizione tutti i giorni, per tutto il giorno. Io, fossi onesto, dovrei dire che, da giovane ‘ho saputo l’ebraico antico’; lo studiavo e mi ci esercitavo quotidianamente, con una certa costanza. Poi mi sono interessato a molte altre cose, vuoi per interesse personale, vuoi per le commissioni ricevute da artista/artigiano del teatro (mi fregio di lavorare spesso su commissione, come nei tempi antichi). Per cui, quel poco di conoscenza che avevo racimolato si è molto degradata. Eppure la Bibbia e la sua lingua mi hanno scavato dentro. Dopo avere finito il libro, mi è tornato il desiderio di rimettermi a studiare seriamente il Libro.
Nel tuo fare teatro ‘di parola’, o meglio, nel tuo portare la parola a teatro c’entra qualcosa la tua ‘romagnolità’ o i dettagli territoriali li lasciamo ai posteri?
Sono molto legato alla Romagna, come (quasi) tutti i romagnoli. Non conosco un letterato romagnolo che non affianchi alla sua attività letteraria o accademica un interesse di studio per il dialetto, il folklore, la storia locale e via dicendo. Io mi sento tutto intriso di ‘romagnolità’, anche se non saprei indicare da dove questa esattamente traspiri quando sono sul palco (dizione imperfetta a parte). Mettiamola così. Cito questi due elementi. I romagnoli sono stati capaci di fare tantissimo partendo da zero. Pensiamo all’industria del turismo. Per decenni è stata la più florida d’Italia. Eppure la riviera adriatica ha un mare assai meno invitante di quello della Liguria, delle Marche, della Sicilia, della Sardegna ecc. Molti albergatori da noi hanno cominciato a fare gli albergatori senza neanche avere un albergo: tutta la famiglia si trasferiva per qualche mese a dormire in garage e affittava le camere da letto ai turisti. Ecco, io nel mio piccolo, ho cominciato a fare con niente. Ho fatto teatro senza avere una compagnia, senza un agente che mi procurasse le date, senza essere nel circuito ufficiale, senza finanziamenti, senza scenografie, senza costumi, senza cambi luce, senza oggetti di scena, senza un regista che mi guidasse. Insomma, senza niente di niente. Solo il mio corpo e la mia voce. Ho fatto lavorando, più che potevo, meglio che potevo. Fine. In questo mi sento molto romagnolo. Il secondo fatto è legato al Rinascimento. Ezra Pound sosteneva che la Romagna è il luogo dove è nato il Rinascimento, dove è avventa la sua alba, dove ha scaturito il primo, timido, bagliore. Ecco io mi sento un po’ ‘rinascimentale’ perché, come detto, lavoro su commissione, come un artista/artigiano del XV secolo. E perché tento di partire sempre dalla cultura, e di mescolare la cultura scientifica con quella umanistica.
Che libro avresti voluto scrivere? Su che libro vorresti lavorare? Che libro stai scrivendo?
Eh, sono molte le opere che invidio ai loro autori. Per esempio mi sarebbe piaciuto scrivere un bestiario. Uno di quei libri che andavano tanto di moda nel medioevo. E in cui ad ogni animale (reale o fantastico) è associato un significato, una virtù o un vizio umano. Nel mio lavoro uso spesso procedimenti simili. Prendo un personaggio o un episodio e ne faccio un simbolo un’allegoria; serve a rendere una storia singola universale; ed è un procedimento affascinante che trasforma il mondo in un libro sterminato. Quello che è stato fatto con gli animali, si può fare con i vegetali o con i minerali. Per un certo periodo accarezzai l’idea di scrivere un libro dove ci fosse uno scritto per ognuno degli elementi chimici. Ma l’ha già scritto Primo Levi! Si intitola Il sistema periodico. Un altro dei libri che invidio. Se mi è concesso sognare ad occhi aperti, forse un giorno scriverò un romanzo di fantascienza: in una età futura, le ideologie e le religioni sono state tutte abbandonate perché troppo inclini alle diverse interpretazioni, troppo facilmente malleabili (nel cristianesimo ci sta San Francesco, ma anche Torquemada; nel comunismo Gramsci, ma anche Stalin). A tutto questo sono stati sostituiti gli insetti: infatti è oggettivo e inoppugnabile cosa sia un imenottero e quali siano i valori morali e intellettuali da esso simboleggaiti. Così nascono diverse fazioni in lotta fra loro: gli imenotteisti, i lepidotteristi, i ditteristi, gli odonatisti etc. Ma sto delirando. Stando più con i piedi per terra, il prossimo libro probabilmente sarà su Leonardo da Vinci. Su Leonardo sto scrivendo anche un nuovo monologo teatrale, che sarà prodotto dal Teatro Stabile d’Abruzzo. Forse la mia solitudine sta per infrangersi e il mio percorso alternativo è destinato a confluire in una qualche ufficialità. Chissà? Vedremo.
Ultima (va da sé): cosa c’è dopo la morte?
Non ho il dono della fede; quindi, per tagliare corto, ti dovrei dire che per me non c’è assolutamente nulla. Per essere un po’ meno secco, ti do due risposte: una biblica e una ‘platonica’. Quella biblica cita un testo dell’Antico Testamento, il Qohelet, in cui è scritto, come saprai: “I vivi sanno che moriranno. I morti non sanno niente”. La risposta ‘platonica’, se me la consenti, è che ognuno di noi rimarrà per sempre nel luogo metafisico in cui è ora e in cui già stava prima della nascita. La nostra particolare configurazione mentale, la nostra singola, irripetibile struttura sentimentale e di pensiero sono ciò che sono eternamente, come una forma geometrica. Così come la forma di una sfera, con tutte le equazioni matematiche che la descrivono, rimarrà per sempre immutata, anche qualora fossero distrutti tutti gli oggetti di forma sferica del mondo. Allo stesso modo, ‘metafisicamente’, tu, io, chi legge queste righe, tutti noi esseri umani, restiamo ciò che siamo stati in eterno, nello spazio logico, anche dopo essere spariti dalla faccia della terra.
L'articolo “Per vivere dobbiamo subire lo schianto del caos”: dialogo con Roberto Mercadini, il cabalista dell’aggettivo proviene da Pangea.
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thenightreview · 7 years
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Uno spirito realista sulla Senna - 30 ottobre 2017
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In che modo Emmanuel Macron sta provando a costruire una Silicon Valley sulla Senna. Con un fondo di venture capital sostenuto da denaro pubblico e con una revisione della legislazione sul lavoro, notoriamente complicata nel paese, la Francia sta facendo un balzo in avanti enorme nello sviluppo dell'industria tecnologica. Mark Scott su Politico Europe
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Perché Mark Zuckerberg non ha bisogno della Casa Bianca. Spenderà 45 milioni di dollari in cause politiche. Su Motherboard
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L’Arabia Saudita vuole diventare davvero più moderata? L'erede al trono ha detto che vuole farla finita con l'Islam radicale che si è imposto negli ultimi 30 anni, ma non è chiaro se avrà le forze o la volontà per riuscirci davvero. Su Il Post
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In Russia la rivoluzione non si porta più. Ma Stalin sì. Nella Mosca di oggi Putin non celebra Lenin: giudica i fatti di ottobre di 100 anni fa «uno dei tanti sconvolgimenti vissuti dal nostro Paese». Anna Zafesova su IL 24 Magazine
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Stranger Things 2 è più contemporanea di quanto crediamo. La seconda stagione della serie nasconde sotto l'estetica retrò uno spirito realista e disilluso che ha poco da spartire con gli anni Ottanta. Su Rivista Studio
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Il Tempo di Carlo Rovelli. Relatività, meccanica quantistica, filosofia, letteratura, politica. Intervista al fisico più letto del mondo. Matteo De Giuli su Il Tascabile
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valentemichele · 7 years
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Ridefinire uno spazio pubblico nell’era delle piattaforme digitali è un compito arduo che impegna tutte le componenti sociali. Sul piano delle responsabilità, del rispetto dei diritti e doveri, nelle regole della società tout court, la questione investe un insieme di problematiche costitutive della natura della nostra quotidianità, globale e dinamica. Una realtà di scambio che ha coniato una nuova definizione del concetto di crisi, rovesciandone le coordinate spazio-temporali e generando fenomeni complessi di difficile lettura. Da una prospettiva analitica, per comprendere il quadro sociale nell’attuale fase storica, occorre adoperare adeguati strumenti tecnici di indagine che, tuttavia, da soli non bastano a dare adeguata contezza del presente. Serve (trovare) una nuova coscienza critica per supportare la ricerca costante che il cittadino, più autonomo rispetto al passato, grazie al libero mercato della conoscenza e alle tecnologie che hanno accresciuto il suo repertorio simbolico e discorsivo, deve intraprendere in una pericolosa fase di ripiegamento individualistico e di disimpegno civico. Lo spazio pubblico dunque è un insieme sinergico e problematico, parimenti complesso e in costante (ri)definizione. La maggiore indipendenza del soggetto nella vita pubblica rispetto alle strutture intermedie (partiti, autorità pubbliche, etc.), tuttavia, destabilizza gli assetti fondanti della società, contestando verità un tempo assiomatiche – l’esistenza di una “classe media“, il concetto di “Stato-nazione“. La mobilità, in termini di migrazione e innovazione tecnica, va considerata come framework, dato costitutivo di una attualità storica che si considera, nel repentino mutamento, “liquida”, inattuale e sfuggente all’interno di cornici di significato. Come orientarsi? Sulla base di tali premesse apriamo la conversazione con Andrea Guiso, docente di Storia contemporanea presso l’università di Roma La Sapienza, autore di importanti saggi incentrati sulla funzione dei partiti e sul ruolo dell’informazione nella società.
Cominciamo discutendo della materia di studio del professor Guiso, la storia dell’età contemporanea relegata spesso ai margini nell’attuale dibattito pubblico, a fronte di un interesse storico, crescente tra utenti e spettatori, che alimenta il mercato dell’entertainment (produzioni cinematografiche, televisive, editoriali) e permette, a storici e non, di mostrare la centralità e la vitalità della prospettiva storica nella lettura dei fatti, adattandola, nel linguaggio e nella narrazione, alla nuova dimensione mediale della comunicazione. <<Ci troviamo di fronte ad un paradosso che viviamo da un numero di anni difficilmente quantificabile: c’è una grande domanda di storia e di conoscenza storica, soddisfatta peraltro dai più vari contenuti mediali generalisti, a partire dalle trasmissioni televisive, prodotti di qualità anche elevata. Domanda, offerta e risposta sono ampiamente soddisfatte da parte del sistema informativo>>.
Docente di storia contemporanea, Andrea Guiso si occupa nelle sue ricerche del rapporto tra politica e informazione. Tra le sue pubblicazioni La colomba e la spada (Rubbettino, 2006)
Perché è importante interrogare le conoscenze storiche per comprendere le dimensioni dello spazio pubblico? Nella “costruzione” del dibattito socio-politico e culturale si tende ad eludere la prospettiva storica. Vulnus presente, per la verità, in molti campi del sapere. Cambiamenti tecnologici e nuove dinamiche produttive, hanno orientato il mercato editoriale su un’offerta che coniughi un’informazione di facile fruizione agli odierni tempi di lettura, ascolto e visione. La progressiva marginalizzazione dello sfondo storico come chiave di lettura principale è conseguenza di una compressione spaziale e temporale che modula gli aspetti della dimensione discorsiva pubblica. Ennesima incognita per i professionisti dell’informazione investiti di una responsabilità sociale sempre più incisiva (e decisiva) con l’avvento dei new media. <<Ore ed ore di produzione documentaristica e numerosi canali tematici non bastano: il dibattito pubblico è povero di contenuti storici. Questo è il vero problema. Lo storico non viene più interpellato come esperto di questioni relative alla cosa pubblica che in qualche modo possano offrire soluzioni, idee, delle risposte ai problemi politici attuali>>. Un altro nodo da sciogliere, sottolinea Guiso, è l’uso acritico e finale della storia come risorsa discorsiva. <<Ci troviamo innanzi ad un progressivo scollamento tra una diffusa esigenza di conoscenza storica e del suo uso strumentale da parte della classe politica. La storia, va ricordato, è sempre stata ancella del potere, data la sua forte dimensione narrativa>>. Un distacco che si riflette nei ruoli e nelle regole d’ingaggio degli individui nella sfera politica, dove ciascuno è chiamato a rispettare doveri e responsabilità vigenti nello spazio pubblico. <<Avverto una perdita di importanza dello storico come intellettuale rispetto ai decenni precedenti. Un discorso complesso che investe il ruolo della storia come contributo essenziale alla progettazione del futuro. Il punto interrogativo della nostra civiltà è il seguente: vogliamo una politica pensata attraverso competenze, tecnologie, discipline scientifiche per comprendere la realtà oppure dobbiamo rivolgerci alle idee della filosofia, della storia, delle scienze umane?>>. Difficile trovare una soluzione “integrata” a livello trans-disciplinare. Ne è consapevole Guiso, che evidenzia, sul piano analitico, la preminenza del dominio della prospettiva economica nel dibattito sull’attualità, la quale traccia un quadro problematico incompleto in termini di effettiva rispondenza alle necessità: l’impressionismo dei numeri erode spazio al dialogo delle idee. <<Abbiamo bisogno di una dimensione che non sia misurabile, calcolabile in modo scientifico, che sfugga agli algoritmi. Competenze altamente specialistiche e orientate intorno all’analisi, alla statistica, alla matematica sono il paradosso della contemporaneità e hanno preso il sopravvento su molte altre conoscenze essenziali al dibattito pubblico>>. Linguaggi e strumenti d’indagine, un tempo validi, non sono (più) un supporto utile per le istituzioni pubbliche che hanno visto declinare progressivamente la loro incidenza e il loro ruolo proattivo a vantaggio di altri attori sociali, in particolare media e opinion makers. Da dove partire per recuperare il rapporto tra cittadini e autorità legittimata, oggi sempre più soggetto a nuove insidie? Guiso muove da un’analisi preliminare del quadro sociale, ricorrendo agli strumenti storici. <<La storia è scienza del mutamento e lo storico deve dunque rendersi utile alla società a condizione che sappia leggere i fatti su una scala di lunga durata. Oggi molti storici, soprattutto dell’età contemporanea, si sono appiattiti su una dimensione del tempo di breve termine. Un problema comune a molte scienze sociali. L’università, la ricerca e, per osmosi, il mondo della politica ragionano in un’ottica di breve, brevissimo periodo. In particolare quest’ultima, che deve far fronte alle necessità del mercato elettorale e prendere decisioni che abbiano redditività in un tempo pressoché immediato>>. Short term, dunque, dilemma e realtà odierna: dal momento che lo spazio è livellato in più dimensioni e piani prospettici occorre riappropriarci di una concezione del tempo funzionale alla riflessività, aspetto cruciale per approfondire il discorso politico. <<Il dibattito è costruito su una serie di valori, perlopiù statistico-numerici come Prodotto interno lordo, crescita economica, remuneratività di titoli e obbligazioni: tutta la nostra realtà, in termini di relazioni di potere, si rivolge ad una dimensione presente. Questo rischia di creare un cortocircuito con l’elettorato: nella corsa all’obiettivo immediato si perde la fiducia del cittadino, aspetto necessario per costruire un rapporto duraturo e dare un progetto al futuro, fondato su una visione rivolta alla nostra società nel suo successivo sviluppo>>. Fondamentale pensare al futuro con uno sguardo rivolto al passato e la consapevolezza di vivere in una fase storica contrassegnata da incertezza e mutamento. <<Ragionando in termini concreti: le ricadute attuali rivelano una politica incapace di farsi agente di una trasformazione della società, ma, come soggetto passivo, essa subisce una trasformazione per inerzia. Le domande e le questioni sollevate dai cittadini restano inevase, nonostante l’ampliamento delle piattaforme del dibattito. Il pericolo di una democrazia à la carte che serva ad appagare esigenze immediate è molto forte>>. Il coinvolgimento dei cittadini passa attraverso la funzione delle strutture intermedie, luoghi di formazione dove elaborare idee, in modo coerente, per affrontare sfide e obiettivi da perseguire. <<Per sostenere un efficace discorso politico non servono fantomatiche piattaforme, nelle quali ognuno abbia voce in capitolo senza alcuna distinzione, piuttosto spetta alla classe politica offrire uno spazio ai cittadini, mettendosi innanzitutto in discussione. Un rapporto troppo diretto tra elettorato ed establishment non favorisce un consolidamento vitale per la democrazia, occorre ridare maggiore importanza a quelle strutture che nel corso del Novecento hanno contribuito allo sviluppo civile della società: penso ai partiti, ai sindacati e non solo. Gli alimenti di questo circuito sono responsabilità, conoscenza e libertà>>. La classe dirigente è certamente la più coinvolta nelle dinamiche di questo processo. Tuttavia, ricorda Guiso, l’attenzione va rivolta a più ampio spettro. Lo storico insiste su un approccio integrato tra i vari campi del sapere e le numerose possibilità offerte dalla comunicazione, in termini di mezzi e linguaggio. <<Serve oggi un’interazione tra le diverse sfere della conoscenza, dare contezza del “dove”, del “come” e del “chi”, elementi principali all’interno di una ricerca anche di natura non prettamente storica. Molti scienziati sociali dimenticano l’importanza di questo tipo di articolazione del discorso. Coordinate concettuali e interpretative senza le quali la conoscenza non avanza. E’ necessario un pendolo continuo tra il modello e la rilevazione effettiva di quanto è avvenuto. Solo un riscontro effettivo, esito del dialogo tra scienze generalizzanti, come la storia e scienze specialistiche, come la politologia, la sociologia et cetera, può produrre benefici durevoli. Almeno per quel che riguarda la branca delle scienze umane, è necessario uscire da una dimensione nazionale e rivolgersi ad altre prospettive, allargando lo sguardo per avere una contestualizzazione più ampia dei problemi. Il rischio è quello di assolutizzare delle questioni che, una volta osservate nella realtà, risultano non solo “nostre” o specialmente “nostre”. Molti fenomeni devono essere compresi in una visuale molto più ampia>>. In un mondo “di relazione” come il nostro, rigidità nell’esame della realtà e schemi ideologici, privi di critica e rigore, possono produrre conseguenze dannose per la collettività, influenzando, in negativo, l’opinione pubblica. <<L’uso, spesso sbagliato, che politici, ma anche commentatori e analisti, fanno della comparazione, servendosene come modello normalizzante che risulti virtuoso, finisce per assumere, in modo del tutto acritico, un tipo di modello ideale. Prendiamo la legge elettorale: spesso si fa riferimento alle criticità dei sistemi di voto, problematica molto avvertita in Italia, cercando di proporre soluzioni che guardino ai modelli degli altri paesi. La realtà, non solo italiana, ci insegna che una decisione politica o, appunto, una legge elettorale sono il risultato dei rapporti di potere interni ad una determinata istituzione. La corsa verso un paradigma modernizzante è molto sentita dagli attori nello spazio pubblico. Comparare significa adottare in maniera critica uno strumento che non vada assunto come risolutivo di per sé>>. Spostiamo il focus della conversazione, dopo un’ampia parentesi sul vasto “repertorio di significati” cui devono dotarsi i soggetti attivi nel dibattito pubblico, per concentrarci sullo spazio vissuto dagli individui, nel nostro modo di agire in un’ottica transazionale, nelle dinamiche relazionali e transnazionale, nella progressiva e inesorabile diaspora di idee, esperienze, eventi. <<Dovrebbe risultare automatico, inerziale, il processo che ci vede coinvolti all’interno di un flusso di scambi e conoscenze. La consapevolezza si acquisisce in vari modi: l’educazione e le strutture che la supportano, penso alla scuola e all’università, devono assumere un ruolo di rilievo, aprendosi veramente al mondo attraverso la competizione, importando ed esportando le cosiddette best practices. Nel caso italiano, le eccellenze, nel mondo accademico e della ricerca, nell’industria e in molti altri ambiti, sottolineano la necessità di percorrere un tracciato che dia contezza del passato per progettare il futuro. Per l’Italia c’è stata una fase storica, quella del secondo dopoguerra, che ha mostrato la capacità di dare compiutezza alle diverse dimensioni spaziali e temporali: una classe dirigente di primo livello ha guidato un processo di crescita che, per molte circostanze storiche, è andato progressivamente esaurendosi. Ideali, visione, competenza sono stati tratti distintivi di una stagione politica che, tuttavia, non ha favorito un ricambio al vertice. La frammentazione che ne è seguita in anni difficili per il Paese, culminata con la crisi scaturita da Tangentopoli, ha mostrato un quadro politico molto incerto nei suoi assetti>>. Lo storico evidenzia come mutamenti strutturali, nonché cambiamenti sistemici, abbiano riguardato l’Italia più di altri paesi europei, inserendola in una spirale di profonda instabilità con conseguenti ripercussioni sul tessuto sociale e, di riflesso, nel modo stesso di pensare la società come insieme organizzato. <<In questa difficile transizione, negli anni ’90, si è imposta la questione del rapporto tra politica e tecnica. E’ cresciuto il bisogno di affidare la governance ai tecnici per una serie di motivi. In primo luogo, il rispetto dei vincoli di bilancio e l’allineamento a parametri più restrittivi a livello europeo, che dovevano fungere da garanzia. Solo esperti, economisti, nel nostro caso la squadra dei tecnici della Banca d’Italia, furono le figure individuate per far fronte a questi compiti. Ne è seguita, come conseguenza, un progressivo svuotamento della classe politica ed un impoverimento della cultura politica di fronte a problemi sempre più complessi, di difficile risoluzione e ad una spinta ad efficientare le istituzioni pubbliche. Si è esaurito il fermento all’interno dei partiti, come laboratori di idee e di confronto, di formazione della classe dirigente. La componente culturale, in termini formativi, assume un ruolo sempre più marginale>>. L’ibridazione ha prodotto un progressivo svuotamento dei valori e delle idee, conoscenze settoriali hanno ridotto in scala competenza e proiezione politica. Nel deresponsabilizzare le classi dirigenti un ruolo fondamentale è stato giocato dall’informazione e dal mondo della cultura. <<Colpisce che molti osservatori che dibattono di democrazia e dei limiti che incontra difronte ai tanti poteri e contropoteri interni ed esterni, non facciano riferimento al ruolo dell’informazione, della stampa e della Rete. Tutto ciò mi lascia di stucco: come si fa a parlare di democrazia non menzionando il ruolo dei media e dell’opinioni pubblica? Il mondo della stampa non ha sempre assolto al suo ruolo di “voce fuori dal coro”, di cane da guardia del potere seguendo molto spesso convenienze e gruppi d’interesse. Certamente la situazione differisce nei vari paese: il giornalismo in Italia nasce in una realtà giovane, fatta di molteplici identità politiche e culturali radicate sul territorio; al contempo, esso è espressione ed emanazione diretta del potere di ristrette élites che, specie nell’Italia liberale, andavano a costituire i quadri dirigenziali>>. Una realtà, quella italiana, profondamente disomogenea nata da molteplici contesti di diversa formazione storica, politica e amministrativa, che vede nel rapporto complesso tra le autorità pubbliche e le classi sociali di estrazione alto-borghese il dato costitutivo di una fase storica che ha posto le basi per la costruzione del Paese. <<La politica ha saputo tenere insieme, nelle sue molteplici declinazioni, un potere che ha assunto e sostenuto attraverso il centralismo, l’autonomia, la “mano forte”, disponendo una progressiva amministrazione corporativa del governo, una gestione tramite la mediazione interna allo Stato, tra le istituzioni e le sfere della società>>.
Oggi più che mai, la debolezza strutturale delle istituzioni, nei suoi vari apparati ed un’offerta politica anodina, priva di idealità e di effettivo rinnovamento nei partiti e nella classe dirigente, sono solo alcuni dei problemi rilevati da chi ha il compito di interpretare i fatti e, spesso, non assolve, come ha evidenziato Guiso, ai propri doveri. Non mancano però esempi virtuosi e non meno problematici nel mondo dell’informazione. <<Il Corriere della Sera, soprattutto sotto la direzione di Albertini, è stato un giornale che non solo ha influenzato la politica, ma che ha fatto politica in modo autonomo. Un giornale-partito che durante la Prima Guerra Mondiale, nelle sue prese di posizione anti-giolittiane, ha operato nell’ottica di sprovincializzare l’Italia per darle una dimensione europea e contribuire alla formazione della borghesia. Un quotidiano che ha saputo intessere rapporti molto stretti con il mondo politico, industriale e finanziario del Paese.>> Il concetto stesso di società civile, ricorda lo storico in un altro passaggio, emerge dalla lettura di un quadro sociale in progressivo mutamento: si affacciano sulla scena politica nuove figure, appartenenti al mondo accademico, al movimento pacifista e femminista e, più in generale, a tutte quelle formazioni impegnate nella battaglia per il riconoscimento dei diritti. <<Un arcipelago di personalità>>, spiega lo storico, <<che emerge dall’esterno dei partiti nel momento in cui gli stessi partiti non sono più riconosciuti come rappresentanti più autorevoli di un fermento sociale proveniente dal basso. Non a caso saranno i giornali ad avere un ruolo surrogatorio della politica, progressivamente crescente a partire dagli anni ’80>>. Arrivati a questo punto, non posso non domandare al mio interlocutore la morfologia assunta oggi dai partiti politici. La risposta è una lettura d’insieme che inquadra al meglio l’attuale scenario politico, italiano ed europeo. <<I partiti oggi assumono l’aspetto di comitati elettorali, associazioni che, come nell’800, entrano in funzione e si vitalizzano al momento delle elezioni. La politica ha dei costi difficili da sostenere e la televisione ha permesso di avere una vetrina a basso costo e a ad alto profitto. Siamo sicuri che tutto ciò garantisca un consenso stabile ai governanti? Io credo di no, dal momento che manca l’elemento di consapevolezza che nasce da un dialogo attivo. Una porzione sempre più consistente della popolazione non ha punti di riferimento stabili cui rivolgersi e questo cambia la stessa natura dell’offerta politica>>. Sono molte le tematiche affrontate con il professor Andrea Guiso, motivo non secondario per cui è difficile giungere ad una conclusione che, ad entrambi, fa sorgere nuovi interrogativi e questioni. Quali scenari si prospettano? <<Serve trovare nuove forme di partecipazione? Sarà il web, la Rete? Francamente non abbiamo a disposizione degli strumenti che chiariscano la situazione. La sensazione è che, già negli anni ’80, un mezzo come la televisione non risultava strumento decisivo nell’orientare una proposta politica convincente>>. Una soluzione? <<Leggere, informarsi, acquisire il maggior numero di notizie, dedicando tempo e spaziando, ascoltando voci diverse, confrontando opinioni e punti di vista differenti. Non abbiamo molto tempo per sedimentare le conoscenze. Dobbiamo, questo è fondamentale, non tanto conoscere per sapere su un piano individuale, ma per discutere. E’ questo lo spazio che dobbiamo ritrovare a tutti i livelli, tornando all’essenza del dibattito e dei luoghi istituzionali che ne sono l’espressione diretta. Uno spazio di confronto indispensabile alla discussione dei problemi, alimentato dalle risorse del discernimento e della dialettica politica. La capacità di decisione matura sulla base di questi principi. Ricerca deve diventare l’abito mentale del cittadino per affrontare la realtà>>.
Dentro la politica, oltre la nazione. Lo spazio pubblico al tempo dell’informazione Ridefinire uno spazio pubblico nell'era delle piattaforme digitali è un compito arduo che impegna tutte le componenti sociali.
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editions-nous · 7 years
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Entretien autour des éditions Nous pour la revue italienne Alfabeta2, par Andrea Inglese
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Questa intervista è stata realizzata con le due persone che fanno esistere la casa editrice indipendente Nous, in Francia, Benoît Casas e Patrizia Atzei. Il primo è impegnato nella scrittura di poesia, nel lavoro editoriale, nella traduzione, nella fotografia e nell’esplorazione dell’Italia. La seconda, italiana, vive e lavora a Parigi dal 2002. È editrice, traduttrice e si occupa di filosofia politica contemporanea.
1) Cominciamo dall’inizio. Le edizioni Nous esistono dal 1999, da quasi vent’anni. Si può ben definire un’esperienza di lunga durata. Come è cominciata la vostra storia di editori? E che cosa vi ha attirato di più in questo mestiere ?
B : All’inizio c’è stata un’arrabbiatura nata dal rifiuto, quello di troppo, di un organismo che formava alle professioni dell’editoria. Ho deciso di creare il mio progetto personale, visto che nessuno mi voleva. Ho subito stabilito un duplice orientamento, poesia & filosofia, per poi contattare i miei due maestri in ognuno di questi campi: Jacques Roubaud e Alain Badiou. L’altro aspetto del progetto originario riguardava la pubblicazione della poesia straniera, degli autori essenziali e troppo poco tradotti in Francia, Zanzotto ad esempio. Il primo libro della casa editrice Nous è un Hopkins, nel marzo 1999. I motivi d’attrazione principali: il desiderio di fare esistere dei libri che non esistevano, di esserne il primo lettore, di trasformare gli entusiasmi in un oggetto.
P : Prima delle edizioni Nous, mi ero occupata di editoria in un gruppo di ricerca, ma non ero ancora editrice. Solo quando ho raggiunto Benoît ho davvero capito cosa volesse dire fare l’editore, e ho scoperto il “mondo dell’editoria”. Mi piace l’idea che l’editore sia anche un mestiere : questo termine ha il vantaggio di rendere più complessa l’immagine un po’ mitizzata dell’editore-intellettuale. Essere editore comporta un insieme organico di attività disparate, tra cui alcune molto “pratiche”, senza le quali una casa editrice non potrebbe esistere. Il nostro lavoro intellettuale è indissociabile dalla gestione quotidiana di una struttura, dal rapporto alle istituzioni e all’economia, da un’organizzazione del tempo. La magia di questo mestiere è che tutto questo è messo al servizio di un’intuizione, di una percezione (evidentemente soggettiva) di ciò che “manca” e che merita di esistere, e fondamentalmente di una credenza in ciò che può un libro.
2) Un primo sguardo al vostro catalogo – a quanti titoli siamo oggi? – rende evidenti i due assi d’interesse di cui parlavate, poesia e filosofia. Guardando però più da vicino, il paesaggio appare più articolato: c’è una collana “Via” che è dedicata alla letteratura di viaggio, “Captures” che riguarda la fotografia, e ci sono delle riviste che hanno un carattere apertamente militante e politico ( grumeaux e soprattutto exemple). Ma vorrei capire meglio la logica delle collane. Ci si aspetta una collana di poesia e una di filosofia, ma non è così. La collana “Antiphilosophique” contiene un saggio molto bello di Badiou su Wittgenstein e due libri di Žižek su Lacan, ma anche un libro di poesia di Pierre Parlant, Les courtes habitudes. Nietzsche à Nice. C’è la voglia o la necessità di confondere le frontiere tra la parola poetica e filosofica ? O il desiderio di porre queste due pratiche in un dialogo perpetuo?
B : Siamo a circa 120 titoli oggi, di cui metà sono di poesia. Il desiderio all’origine della nostra « Antiphilosophique collection » non era tanto quello di confondere quanto quello di rispondere a una duplice esigenza. Quella di pubblicare dei libri di filosofia, non cedendo sulla questione dell’inconscio né su quella della scrittura (il discorso universitario, con la sua visuale dall’alto e la sua scrittura strumentale, non vi ha quindi posto). E l’esigenza di pubblicare una poesia che non ha paura di pensare, non una poesia filosofica, ma una poesia che pensa nell’elemento stesso del testo poetico. Ci teniamo ugualmente a proporre dei libri che pensano l’intersezione e la rivalità della poesia e della filosofia, o per citare un’espressione di Jean-Patrice Courtois “la differenza di affermazioni” di queste due pratiche.
P : Con la collana « Antiphilosophique », volevamo rendere esplicito, attraverso l’articolazione di libri di filosofia e libri di poesia, ciò che si tende abitualmente a dissimulare: da un lato, il rapporto della filosofia con la lingua, con l’esistenza, con la questione dell’atto, e in maniera più generale con tutto ciò che dovrebbe esserle esteriore, e che viene incessantemente a sovvertire, sul suo stesso terreno, i suoi presupposti e le sue frontiere; d’altra parte, il fatto che non ha il monopolio del pensiero, che c’è del pensiero altrove che nella filosofia, e singolarmente nel testo poetico che condivide con essa linguistica – da ciò risulta il loro dialogo stretto e storicamente “conflittuale”. Si tratta per noi di rendere conto di questo dialogo infinito, di metterlo al lavoro attraverso i libri che, passo dopo passo, danno corpo a questa collana.
La logica delle collane ci interessa molto. La prima, inaugurale per Nous, è stata “NOW”, che ha accolto della poesia straniera del ventesimo secolo, quelli che si potrebbero chiamare i “classici moderni”. La traduzione – proporre al pubblico francese delle opere di autori maggiori mai tradotte in precedenza – è assolutamente centrale nell’idea che ci facciamo di ciò che vuol dire essere editore. Dopo l’“Antiphilosophique”, la collana “Disparate”, lanciata nel 2009, ha segnato una svolta nel nostro catalogo, aprendolo alla poesia contemporanea così come a dei testi più sperimentali e talvolta inclassificabili. È attraverso questa collana che le edizioni Nous hanno riempito una nuova funzione, quella di scoprire e far scoprire, puntando su autori della generazione più giovane o semplicemente meno conosciuti. Ed è stato così che, col succedersi degli anni e dei titoli, ci ritroviamo oggi ad occupare un posto particolare nel paesaggio dell’editoria indipendente in Francia. Questa dimensione del nostro catalogo, che scommette sulle scritture contemporanee nelle quali crediamo, incarna una “missione” che è divenuta progressivamente essenziale, e che era stata per altro anticipata (come in una sorta di verifica retrospettiva) dalla frase di Mallarmé scelta al momento della creazione della casa editrice per presentarla: “Oggi, per davvero, che cosa c’è?” (« Véritablement, aujourd’hui, qu’y a-t-il ? »)
3) Ho citato la collana “Antiphilosophique”, che mi sembra derivare dal concetto di “antifilosofia” abbastanza importante in Badiou e che si ritrova sia nel suo libro dedicato all’antifilosofia di Wittgenstein sia nella raccolta di saggi Que pense le poème ? Badiou è parecchio presente nei vostri titoli. È quindi una figura importante per voi. Gli date uno spazio importante nel paesaggio intellettuale francese di oggi?
B : Badiou è stato una figura fondatrice per Nous. È stato, a partire dagli anni Novanta, il filosofo che mi ha dato di più. L’elaborazione concettuale la più potente non è mai separata in lui dalla rielaborazione continua della domanda “Come vivere?”. L’autore de L’éthique è stato per me altrettanto decisivo di quello di L’être et l’événement.
P: Alain Badiou ha avuto fiducia nella casa editrice, ci ha sostenuto con semplicità e entusiasmo dall’inizio, si è creato così un legame di amicizia. Ma la di là di questo aspetto, il suo pensiero è stato formatore, strutturante, per noi come per molte persone della nostra generazione. Per quanto mi riguarda, è un autore che mi ha accompagnata quasi quotidianamente durante gli anni della mia tesi di dottorato, che riguardava la sua concezione politica e quella di Jacques Rancière: sono queste due figure maggiori della filosofia contemporanea, e non solamente francese, che hanno enormemente contato nel mio percorso.
4) Il vostro catalogo contiene un campione significativo della poesia francese contemporanea, da Joseph Guglielmi a Jacques Jouet, da Frédéric Forte a Michael Batalla, da Jean Daive a Sonia Chiambretto. C’è un posizionamento di Nous nei termini di una concezione della poesia, di un partito preso che potreste formulare? O, più semplicemente, che cosa cercate in una scrittura poetica oggi? Appare chiaro, in ogni caso, che esiste un interesse per quelle scritture che si potrebbero chiamare di ricerca o sperimentale, per utilizzare delle categorie in grado di orientare il lettore italiano.
P : È difficile definire ciò che cerchiamo in una scrittura poetica oggi. Si potrebbe dire che è il testo che ci insegna ciò che noi cerchiamo, che ci segnala che lo stavamo aspettando. In maniera generale, che si tratti di poesia o di prosa, il desiderio di pubblicare un libro risulta essenzialmente da un’esperienza di lettura, da un’esperienza in senso forte, nel senso della novità, ossia di una alterità: un testo di cui ci si dice che non si è letto nulla di simile, un testo che ci interroga, sino all’ultima pagina, su quel che stiamo leggendo. È una sensazione di turbamento molto gradevole, e un segno che orienta spesso le nostre scelte.
B : Noi pubblichiamo in poesia (molto più che in filosofia), dei libri molto disparati (come l’ha ricordato Patrizia, è il titolo di una delle nostre collane), dei testi eterogenei. Nessuna tendenza precisa, ancora meno una cappella. Ma accontentarsi di parlare di singolarità sarebbe limitante. O semmai per completare: certamente noi cerchiamo delle singolarità inventive, dei testi sorprendenti. Dei testi che, durante la lettura, impongono un duplice sentimento di evidenza e di estraneità. Aggiungo anche che si tratta quasi sempre di libri che si pensano come libro (e non come semplice raccolta). Ricerca e esperienza sono di fatto due parole rispetto alle quali siamo sensibili.
5) Devo ora complimentarvi per l’attenzione che dedicate alla poesia straniera: tra le altre cose avete fatto tradurrre e pubblicato Andrej Belyj, Robert Creeley, Gertrude Stein, Oskar Pastior et Reinhard Priessnitz. Ma tra gli autori stranieri, gli italiani occupano un posto importante: penso a Pasolini, Zanzotto, De Angelis, ma anche a Porta e Sanguineti. Di quest’ultimo avete pubblicato Corollario e un testo teatrale, L’amore delle tre melarance. Inoltre, avete una collana dedicata alla letteratura di viaggio, “Via”, che include autori quali Malaparte, Vittorini, e Carlo Levi. Da dove nasce questo interesse per la letteratura italiana? E, in termini più generali, questa apertura verso la letteratura straniera ha qualcosa di audace. Quali sono le risposte dei vostri lettori?
P : La collana “Via”, che accoglie libri che abbiano come oggetto comune l’Italia, il viaggio in Italia, è anche il prolungamento più visibile del nostro rapporto, non solo intellettuale ma anche esistenziale, con l’Italia, intanto perché io sono italiana, e poi perché Benoît è un fervente italofilo.
B : Per quanto riguarda l’Italia e la letteratura italiana, vi è un interesse duplice, e quasi dissociato. Da un lato, c’è attraverso la collana “Via” una passione del viaggio in Italia, che sia nella forma dell’erranza, della fuga, o dell’inchiesta. Dall’altro, c’è l’ammirazione suscitata da una serie di poeti e scrittori italiani molto grandi e spesso troppo poco conosciuti in Francia, eccezion fatta per Pasolini (ma che, di conseguenza, finisce per concentrare forse troppo l’interesse). C’è infine una constatazione abbastanza appassionante e in contrasto con la situazione francese: in Italia l’avanguardia si è manifestata attraverso la poesia. I Novissimi (rispetto ai quali, quelli di Tel quel sono dei nani) sono scandalosamente misconosciuti in Francia. E noi lavoriamo a questa rivalutazione e in particolare a quella del magnifico Sanguineti.
7) Vorrei abbordare ora la questione del vostro impegno militante, che ho seguito con interesse, attraverso una serie d’iniziative, come quelle della rivista exemple. Ho l’impressione che in Francia ci sia ancora l’idea dello scrittore (poeta e romanziere), come una coscienza critica che è tanto più efficace quanto più si tiene lontano da forme d’impegno diretto. Confrontando la situazione italiana con quella francese, la mia impressione è che lo statuto dello scrittore italiano sia troppo fragile, perché si accontenti di preservare una postura critica attraverso l’esclusivo lavoro sulla lingua e le forme della scrittura. C’è spesso un nesso abbastanza forte che lo coinvolge sul piano sociale o in combattimenti politici concreti. Mi sembra in ogni caso che il vostro progetto editoriale sia in qualche modo indissociabile dal vostro impegno politico.
P : Si, la politica è per noi importante e essa gioca un ruolo nella nostra maniera di concepire l’editoria. Ciò non significa, - e vale la pena di sottolinearlo – che per basti pubblicare dei libri per fare politica. Questo tipo di discorso che confonde le pratiche culturali e/o artistiche e la politica è l’espressione di un’impostura tipicamente contemporanea. Dire che si fa della politica scrivendo delle poesie, realizzando delle performance, dando delle conferenze, ecc. è per altro la maniera più confortevole di non farne mai. Siamo in piazza o altrove, lontani in ogni caso dai nostri computer, quando è necessario – e mi sembra il minimo. Il fatto che ciò non appaia come un’evidenza è il sintomo dell’impasse contemporanea che stiamo vivendo, impasse in parte attribuibile, almeno in Francia, a questa stessa “cultura” che insiste nel voler dirsi “politica”.
B: Non abbiamo la minima simpatia verso la postura critica, molto francese in effetti, che si tiene ben a distanza dal reale della politica. Nessuno è tenuto a fare della politica, ma ci sembra indispensabile evitare almeno l’impostura. Bisogna a questo punto delimitare più precisamente le cose e dire, per esempio, che ci sono delle politiche del linguaggio e che è una delle sfide maggiori della poesia. O che la filosofia non può fare a meno di pensare la politica come condizione della sua pratica. Ma la politica ha la sua esistenza singolare, fatta di enunciati condivisi e di rottura, di movimenti e di lotte, e noi abbiamo la convinzione che è meglio parteciparvi piuttosto che il contrario.
8) Per concludere, un’ultima domanda Benoît e Patrizia sulle vostre attività rispettive, soprattutto poetica per Benoît, soprattutto filosofica per Patrizia. Quali sono attualmente i vostri progetti personali ?
P : Sto preparando con Bernard Aspe un seminario al Collège international de philosophie per l’anno 2017-2018. S’intitolerà : « Paradigmi della divisione politica: violenza e dialettica». Nello stesso tempo, mi occuperò di riscrivere la mia tesi di dottorato, che riguarda la nozione di universalità nella filosofia politica contemporanea, particolarmente in Alain Badiou e Jacques Rancière. L’obiettivo di questo lavoro di riscrittura: liberarla dai codici accademici per farne un “vero” libro.
B : Lavoro a diversi libri, in maniera simultanea, o a sprazzi, con un sentimento d’urgenza, su un libro un altro progetto s’impone, poi c’è una ripresa del precedente, e ancora, a strati, fino al momento in cui se ne conclude uno. C’è un libro che uscirà a settembre, per le edizioni Cambourakis : L’agenda de l’écrit. Un libro costituito da 366 poesie di 140 caratteri, ciascuno scritto in omaggio e a partire dal lessico di uno scrittore nato o morto il giorno in questione. L’obiettivo era di scrivere ogni volta nel formato massimo di un tweet, un enunciato lapidario e intenso. La somma di questi brevi testi costituisce un diario compresso e, nello stesso tempo, una sorta di galassia di nomi (ben più ampia, ma che include in parte quella del catalogo della casa editrice.)
Entretien réalisé par Andrea Inglese pour la revue Alfabeta2. 
Source: 
https://www.alfabeta2.it/2017/05/24/interferences-9-nous/
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pangeanews · 6 years
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Gianluca Barbera: sono un prodigio di contraddizioni. Ma almeno non ho i debiti di Balzac…
Parla rapido, ha una stazza rapace e le scarpe da ginnastica. Zazzera bianca, viso squadrato, Gianluca Barbera pare, più che altro, un corsaro. Una specie di Melville, una creatura melvilliana, di quei vagabondi con la fuga mundi crocefissa sul braccio e Platone e i Vangeli nella sacca. Sapiente bonario fino alla scontrosità, con la stessa sincronia di un racconto di Borges – pare sempre in un altro tempo – Barbera conosce a menadito i meccanismi della comunicazione. In un paio di giorni saprebbe partorire un bestseller dal successo planetario. Ma è uno serio, lui, se ne sbatte e va per la sua via. Editore per far quattrini – la soglia giusta, che gli permetta di scrivere quel che gli pare – Barbera è stato dentro Sironi, con Giulio Mozzi, ha diretto una casa editrice con il suo nome, che faceva un mucchio di libri – dai ‘classici’ ritradotti alle biografie dei cantautori – e che l’ha fatto diventare matto. Ora fa l’eccentrico gourmet della letteratura. Una casa editrice propria, Melville – appunto – che fa pochissimi libri per palati fini (leggetevi La bellezza che resta di Francesco Coscia e Rimbaud a Giava di Jamie James), e la direzione editoriale di Theoria, dove recupera grandi libri per gusti eccelsi (chessò, L’inferno di Henri Barbusse, Piccoli borghesi di Drieu La Rochelle, i racconti di Irène Némirovsky). Eppure, per lo più, Barbera ha il tic dello scrittore, la fame, le Baccanti nel petto che lo dilaniano con morso permanente. Finita la didascalia, abbiamo contattato Barbera. Perché uno come lui, fuori dai giochi e fuori di testa, può dirci qualcosa di vero – cioè, scevro dal consueto tango dei leccaculo – sulla letteratura.
Intanto. Perché ti sei messo a fare l’editore?
“Perché era la cosa più affine a ciò che mi sentivo di essere, uno scrittore, e a ciò che mi piaceva fare: scrivere, leggere, occuparmi di libri. Dopo la laurea, la sola idea di trovarmi un lavoro qualsiasi mi appariva deprimente, addirittura insopportabile; perciò ho pensato che il modo migliore per tenermi occupato con qualcosa che non somigliasse a un lavoro fosse quello di dedicarmi alle mie uniche passioni: lettura e scrittura. Così facendo, pensavo, non avrei lavorato un solo giorno. Fare ciò che piace equivale a non lavorare, almeno secondo il concetto che comunemente si ha del lavoro. Ma non posso dire di avere mai avuto un interesse genuino per la professione di editore. Se ho incominciato a farlo è stato principalmente per guadagnarmi da vivere. Meglio quel mestiere di altri. Siccome ero bravo a scrivere, ho pensato che facendo l’editore quella capacità mi sarebbe tornata utile. E infatti negli anni ho scritto o curato diversi libri sotto pseudonimo per la mia casa editrice, per garantirle dei “prodotti” a costo zero. Poi qualcuno l’ho pubblicato con il mio nome. Il dittatore utopista, per esempio. O Come lo Stato truffa i giovani col sistema pensionistico. Ma la cosa fu possibile solo grazie a una serie coincidenze: un volo preso all’ultimo e il materializzarsi alla fiera del libro di Francoforte del 2005 di un finanziatore.
Che senso ha fare l’editore, oggi?
“Non so se io sia la persona giusta per dirlo. Una cosa è certa: non lo si fa per guadagnare. Io ci ho campato. Niente di più. Molti perdono denaro. Devo dire però che ora, con Melville Edizioni, un po’ di passione mi è venuta. Perché non sono più costretto a pubblicare libri con l’affanno di far quadrare i conti. Stampo pochi volumi l’anno e solo ciò che mi interessa. Nei panni di direttore editoriale di Theoria invece mi occupo solo del lato creativo e intellettuale del lavoro di editore. Al massimo, se i conti non tornano, mi cacciano. Non rischio di trovarmi con un mare di debiti come accadde a Balzac e a Dostoevskij, che dovettero riparare all’estero per sfuggire ai creditori. Comunque, se guardo le cose dalla prospettiva degli autori, devo dire che la situazione è desolante. Molte case editrici si concentrano solo sulle mode e scelgono libri incomprensibili, tali da scoraggiare la lettura piuttosto che favorirla (lamentava la cosa di recente anche Filippo La Porta). Robetta leggera e senza costrutto, priva di valore letterario, scritta da autori che sono sullo stesso livello dei lettori, dove ogni gerarchia è abolita, con tutto ciò che ne consegue. Queste case editrici sono convinte, così facendo, di andare incontro alle richieste del pubblico; ma si sbagliano. Tutto ciò che ottengono è di svalutare la letteratura, riducendola a una cosa di scarso interesse e avvilendo i pochi lettori rimasti. Se uno deve pubblicare robetta, alimentando la pigrizia dei lettori, è meglio che faccia altro. Se manca la qualità letteraria, che altro resta? Oggigiorno sono disponibili forme di intrattenimento assai più stimolanti dei romanzi. Leggere narrativa ha ancora senso solo se si tratta di opere potenti e di qualità altissima. Altrimenti meglio il cinema, il computer, la rete, i social, gli amici, i viaggi, il cibo, il vino, lo sport. O meglio leggere saggi. Su quel terreno c’è meno concorrenza. Un documentario non prenderà mai il posto di un saggio filosofico. Ma un film può sostituirsi facilmente a un romanzo, se questo non è di grande levatura. Spesso il tempo speso sui social risulta più stimolante di quello dedicato alla lettura di un romanzo. Certo, se uno legge Musil, Proust, Kafka, o Cèline, non c’è film o social o cena con gli amici che regga il confronto”.
Tu, comunque, hai il passo potente del narratore. Ti sei messo a fare il segugio di Gheddafi e a scrivere di Anna Frank. Scrittore mercenario?
“Per necessità. Scrivo si può dire da sempre. Ho iniziato a farlo professionalmente sul Resto del Carlino durante gli anni universitari e a pubblicare racconti su storiche riviste come Fernandel, Maltese, ‘tina, all’inizio del Duemila. È una quindicina d’anni che, bene o male, vivo di scrittura (mia o altrui). La biografia di Gheddafi, per esempio, l’ho scritta per sfida. Erano i mesi della rivolta in Libia. L’argomento era caldo. Serviva un istant-book. Mi sono detto: ora scrivo una biografia su Gheddafi (argomento riguardo al quale avevo all’attivo diverse letture e conoscenze più o meno dirette). Vuoi vedere che faccio fare un po’ di soldi alla casa editrice e ottengo degli inviti in Tv? È puntualmente accaduto. Di quel libro ho venduto quasi tremila copie e sono stato ospite di svariate trasmissioni televisive. Senza contare le numerose interviste radiofoniche. Storia di Anna Frank invece l’ho scritto su commissione. Scrivendo quel libro ho provato momenti di commozione che non mi sarei aspettato da una persona razionale come me”.
Poi tiri fuori romanzi come “Finis mundi” e “La truffa come una delle belle arti”, del tutto eccentrici dal ‘canone’. Cosa leggi? Cosa cerchi nella letteratura? Esiste ancora una letteratura italiana contemporanea, o gli scrittori sono totalmente sputtanati dal post-postmoderno?
“La stesura di Finis mundi (romanzo sulla ricerca di dio, della verità ultima) ha coinciso con il mio ritorno alla narrativa, dopo quasi dieci anni di lontananza. Nei primi anni duemila, come dicevo, pubblicavo racconti sulle migliori riviste. Ma non ne ero soddisfatto. Sentivo che avevo ancora bisogno di studiare.
Ecco a voi Gianluca Barbera
I miei modelli erano Borges, Musil, GombroWicz, Pasolini. Capirai. Non certo Carver, Fante, Bukowski, Salinger (autori che pure apprezzo). Perciò ho staccato e mi sono messo di nuovo a studiare. Poi un giorno ho detto: ora sono pronto a riprendere. E nel 2013 ho scritto Finis mundi. Perché a quel punto nella mia scrittura era entrata prepotentemente la filosofia, per non uscirne più. Lo stesso è stato con La truffa come una delle belle arti (romanzo che procede alla ricerca dell’uomo), tra i dodici finalisti al premio Neri Pozza (da inedito), finalista al Premio Chianti e al Premio Città di Como (da edito). Lì alla filosofia ho aggiunto il mito, un’affabulazione che ha pochi eguali oggi. Ma sono stimolato anche da chi segue strade diverse. Sono tutto il contrario del dogmatico. Se scrivessimo tutti le stesse cose e alla stessa maniera sarebbe la fine. Leggo molta filosofia e saggistica scientifica e storica. Pochi romanzi. Per lo più mi annoiano. Nella letteratura cerco bellezza e intelligenza. E poi idee, suggestioni, densità di pensiero, emozioni, vite alternative, qualcosa che mi faccia sentire vivo, che mi inchiodi alle pagine; non risposte: quelle si trovano solo nella filosofia, nella scienza, e nell’esperienza individuale, nel proprio rapporto col mondo. Il romanzo si situa nelle zone d’ombre, vive e si nutre di ambiguità, moltiplicando le domande, non certo fornendo risposte. Abitando la filosofia posso dire di avere risolto molti dei miei conflitti interiori. Ecco perché sono uno scrittore da conflitti esteriori. Ma attenzione: non si scambi l’interiorità con la profondità e la complessità. Il Kafka narratore fu scrittore tutto esteriore (altra cosa i Diari o Lettera al padre). Eppure che eleganza e che complessità. Spesso i fatti rivelano più delle introspezioni. Si vedano Hemingway, Carver, Salinger. E poi, per dirla con Foucault: ‘Le differenze proliferano in superficie, svaniscono in profondità’”.
Insomma, cosa resta da raccontare, oggi?
“Tutto. Ogni generazione ricomincia da capo. Per lo più si racconta il proprio tempo. Certo, oggi ci sono i social, dove le persone ostentano quotidianamente il proprio vissuto. Ma dov’è l’arte? Dove la bellezza? Dove la verità? Se mia moglie se ne stesse tutto il giorno a spiattellare le sue cose su Facebook credo che la pianterei. È una cosa talmente di pessimo gusto! Ma per tornare al mio lavoro di scrittore, ho deciso per qualche anno di tuffarmi nel passato, alla ricerca del mito, di ciò che perdura. Ho appena finito un nuovo romanzo potentissimo, un libro che credo possa fare la fortuna di un editore e che ho scritto anche per il cinema o per la Tv. Una grande storia. Una grande scrittura. Il mito al centro. È il primo di una trilogia ideale che completerò nei prossimi anni con altri due romanzi. Ancora non l’ho fatto girare, avendolo appena terminato. Lo sto rivedendo. Però è una strada mia. Non va seguita. Ognuno deve trovare il suo percorso. C’è ancora molto da raccontare e ce ne sarà sempre. Ogni autore deve parlare del suo tempo secondo forme e modi che rendano quel suo raccontare immortale o comunque duraturo. Forse esagero. Forse niente sarà più eterno. Quel sogno si è perso. Forse fra un secolo nemmeno di Dante o Shakespeare ci si ricorderà più. Ma, se qualcuno mi chiede perché scrivo, io rispondo: per restare. Quest’anno comunque ho letto anche qualche buon libro italiano: Works di Vitaliano Trevisan, Tabù di Giordano Tedoldi, un libro di Andrea Caterini, ancora inedito (l’ha appena ultimato). Diverse cose di Andrea Carraro. E sto leggendo per recensirlo Libro dei fulmini, di Matteo Trevisani, libro di stupefacente bellezza”.
Qual è il libro più bello che hai pubblicato? E quello che avresti voluto pubblicare?
“Angeli sulla punta di uno spillo, del russo Yuri Druznikov è il libro migliore che ho pubblicato. Avrei invece voluto essere l’editore di Viaggio al termine della notte di Cèline. O di Sommario di decomposizione di Cioran. O dei Vangeli; della Bibbia”.
Esiste un libro che ti ha cambiato la vita?
“Solo i libri che ti cambiano la vita vale la pena, non dico di leggere, ma di rileggere. Questi, in ordine sparso, sono alcuni dei libri che hanno inciso sulla mia formazione: oltre ai due che ho citato poc’anzi, i poemi di Omero, la Metafisica di Aristotele, i Dialoghi platonici, Delle origini di Eraclito, le Storie di Erodoto, i Commentari di Cesare, il Vangelo di Marco, il Manuale di Epitteto, Dialoghi filosofici di Seneca, le Metamorfosi di Ovidio, la Commedia di Dante, il Decamerone di Boccaccio, Il principe di Machiavelli, l’Etica di Spinoza, Don Chisciotte di Cervantes, Candido di Voltaire, Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, Fenomenologia dello spirito di Hegel, I fiori del male di Baudelaire, L’uomo senza qualità di Musil, il Tractatus di Wittgenstein, Nietzsche di Heidegger, Finzioni di Borges; e poi Conrad, Poe, Kafka, Orwell, Joyce, Svevo, Calvino, Fenoglio, Pomilio, Pasolini, Kundera. Tutti questi libri e questi autori (e altri che qui ho dimenticato) hanno giocato un ruolo decisivo nella mia vita. L’arte dell’ironia però l’ho appresa da Noam Chomsky”.
Ma… esiste ancora la ‘cultura’ in Italia o è tutto un tango con il nulla? Tu, come agisci, reagisci, mordi?
“Ogni epoca ha la sua impronta. Inutile combattere contro i mulini a vento della Storia. Ogni cosa può essere volta in opportunità. Comunque, non uso mai la parola ‘cultura’. Termine che è di recente conio e che risulta buono per tutte le stagioni. È cultura, ci vogliono far credere, pure andare alla sagra della piadina. Cultura eno-gastronomica, dicono. In Toscana, dove vivo, quando parlano di cultura si finisce sempre a tavola a mangiare e bere. A me interessano il sapere, la conoscenza, la ricerca della verità, per quanto pomposa questa parola possa apparire oggigiorno, per quanto possa far sorridere o tremare le ginocchia. Ridere di essa è solo un atteggiamento, una moda: anche questa passerà. Seneca insegna che non importa quanto si sa, ma sapere ciò che importa. Attenzione però a non tramutarsi in dogmatici. È il rischio che si corre quando si maneggia la verità. Al riguardo Cioran avvertiva: ‘In ogni uomo sonnecchia un profeta e quando si risveglia c’è un po’ più di male nel mondo (…) Chi ama indebitamente un dio costringe gli altri ad amarlo, pronto a sterminarli se si rifiutano’. Cos’è la verità? Ciò che è incontrovertibile, ciò che cambia radicalmente il tuo sguardo, la tua esistenza; è risposta ultima: significa che dopo non ce ne sarà un’altra; insomma, qualcosa di definitivo, e dunque anche di terribile. Per esempio, Dio per un cristiano. Lo scetticismo per uno scettico (‘l’unica verità è che non c’è alcuna verità’). E così via. Vedi, io dico quasi sempre quello che penso, senza curarmi troppo delle conseguenze. Non so quanto mi giovi. Credo ben poco. Ma non posso farne a meno. Deve essere scritto nel mio codice genetico. Ma anche qui: attenzione a non tramutarsi in Alceste, il celebre misantropo di Molière, che per troppa verità finisce per non riuscire più a vivere in mezzo agli altri. Molto meglio allora il buon senso del suo amico Filinte, capace di trovare il giusto compromesso tra verità e menzogna; e di lì un equilibrio. Insomma, mai preoccuparsi delle contraddizioni. Io, lo si evince anche da questa intervista, sono un prodigio di contraddizioni; che però ho saputo mettere in equilibrio. Ma tutto in fondo si regge su opposizioni, contrasti, contraddizioni. Solo così il mondo sta in piedi; è così che la storia procede, per contrasti e superamenti”.
Tu hai un taglio perennemente ‘filosofico’. Esistono ancora i filosofi in Italia?
“E come si può non averlo? Tutti i grandi scrittori ce l’hanno avuto. La filosofia ha sempre funto da propellente per i narratori. Se oggi non accade è solo per l’insipienza dilagante. Non ho mai amato la cultura di massa. Ma serve anche quella. Tutto serve. Una cosa e il suo opposto. Dal mio punto di vista, il sapere è qualcosa di elitario. Mi spiace, vorrei che non fosse così. Ma che ci possa fare? È chi sta in basso a doversi innalzare, non viceversa. Oggi accade il contrario, specie a causa della rete. Se esistono ancora i filosofi? Più che mai! A riprova di ciò, ti segnalo che a gennaio uscirà per Mimesis un mio libro intitolato: Idee viventi. Il pensiero filosofico in Italia oggi. Ancora oggi il modo migliore per inquadrare i fenomeni della contemporaneità secondo me resta sempre quello di rivolgersi a loro, far parlare i filosofi. Ma chi lo fa? Nei media (specie in Tv) imperversano gli economisti, gente che non capisce nulla, che sta mani e piedi dentro il sistema e non può avere uno sguardo critico radicale, innovativo, di rottura. I filosofi, se interpellati, sono spesso gli unici a dire cose interessanti, gli unici in grado di farti vedere le cose in modo nuovo e razionale. I narratori molto meno. I narratori lavorano con l’immaginazione. A loro la verità non interessa gran che. E del resto che cosa è un romanzo se non un mucchio di fandonie, di invenzioni spacciate per verità? Alla bellezza preferisco la verità. Secondo me le due cose di rado vanno insieme. Ma quando accade: ecco la magia suprema. Il vero attraverso il bello, per dirla con Todorov”.
Scrittore e potere. Che ruolo dovrebbe avere lo scrittore nei confronti della Storia? Narrarla, sbattersene, costruire una ‘altra Storia’?
“Oggi gli scrittori hanno zero potere, nessuna capacità di incidere sulla realtà. E la colpa è loro. Quando vanno in Tv rimediano magre figure. In pubblico di rado risultano convincenti o interessanti. Lo stesso vale per ciò che scrivono. In fondo, tutto si è ridotto a un’industria, fatta di profitti e perdite. Per dirla tutta, molti non sono all’altezza. Mancano di sapere, di onestà intellettuale, di razionalità. Non tutti, è chiaro: c’è ancora qualche genio in circolazione. Ma non faccio nomi. Quanto è ridicolo tutto questo proliferare di ispettori (in pantaloni o in gonnella) e di romanzetti gialli! Almeno prendessero a modello Chandler o Simenon! Non capisco come faccia la gente a leggerseli ancora. Comunque, non capisco nemmeno quella parte di critici e di scrittori (pur di spessore) che non fanno che sentenziare la fine di questa o quella forma di romanzo cercando di imporre la loro visione. Assurdo. Uno grida: il romanzo tradizionale è morto! Poi arrivo io con il mio nuovo romanzo e lo metto a tacere. Quando un amico fece osservare allo scrittore Samuel Johnson che la dottrina di Berkeley – secondo il quale il mondo esisteva solo nella sua mente – non poteva essere smentita, egli diede un calcio a una pietra e tenendosi il piede per il dolore disse: ‘Ecco come la confuto!’. Cioè a dire: tutto quello che proclamiamo finisce inevitabilmente per cozzare con la realtà, che sa essere piuttosto dura, quando ci si sbatte contro”.
In fondo, perché si scrive?
“Citerò le ragioni che adduceva Orwell in un saggio intitolato Perché scrivo; esse mi paiono ancora valide: 1) puro egoismo (desiderio di apparire intelligenti, di essere ammirati, di essere ricordati dopo la morte, motivi di rivalsa a causa di torti subiti durante l’infanzia o da adulti ecc.); entusiasmo estetico; impulso storico; fini politici. In me sono presenti tutte queste ragioni, ma le prime due sono preponderanti. Se vuoi le approfondirò punto per punto in un prossimo articolo per Pangea”. Pare una minaccia… e siamo fieri di coglierla.
Federico Scardanelli
L'articolo Gianluca Barbera: sono un prodigio di contraddizioni. Ma almeno non ho i debiti di Balzac… proviene da Pangea.
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