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#cioè di base dovrebbe esserlo
deathshallbenomore · 1 year
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bottino di guerra speriamo sia interessante altrimenti mannaggia
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3nding · 3 years
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FEDEZ E LA «MUTAZIONE ANTROPOLOGICA».
Contestualizziamo tutto, incluso il caso Fedez. In cointeressenza con la moglie Ferragni, Fedez regge una fiorente attività imprenditoriale nel campo editoriale-pubblicitario legato alle multinazionali statunitensi che hanno perimetrato il web all’interno dei grandi recinti dei social network. È un capitano d’industria diversissimo da chi poteva fregiarsi di questa definizione trent’anni fa in Italia, nel mondo ancora legato all’industria novecentesca. Se non vi distraete pensando che i suoi tatuaggi e le sue costose smandrappature siano l’antitesi dello stile dei vecchi protagonisti del capitalismo, vi accorgerete che Federico Leonardo Lucia incarna il grande borghese di oggi, l’uomo di potere di questo neocapitalismo con le sue regole, le sue battaglie per definire con urgenza un nuovo senso comune, le nuove egemonie, lo stato spirituale di un’intera nazione.
È eccessivo tutto questo per un rapper? Voi vi fermate a una fase troppo precoce degli uomini di potere. Vedete Rocco Casalino eterno concorrente del Grande Fratello, ma intanto diventa uno degli ‘spin doctor’ più sulfurei in grado di tenere in pugno partiti e governi. Vedete Luigi di Maio a vendere per sempre le bibite gassate allo stadio, ma intanto vi ha riorganizzato con acrobazie democristiane un pezzo dei piani alti della politica italiana. Vedete Fedez nei secoli dei secoli come il mediocre rapper dei furbi luoghi comuni finto-trasgressivi, ma nel frattempo ha più follower della somma di tutti i principali organi di stampa nazionali e divora grossi contratti pubblicitari.
Quando qualcuno accumula un significativo potere economico e mediatico per ciò stesso deve poter essere soggetto a una critica del potere. Nessun suo atto pubblico potrà essere esente da scrutinio, con lo stesso spessore che si dovrebbe usare per analizzare le strategie di un’impresa. Fedez, il grande borghese dell’oggi, è in quest’orbita e non farà eccezione. Nessuno dei suoi atti è il solo atto di un artista. È una forte proiezione imprenditoriale e politica.
La sua manovra di questi giorni è l’operazione mediatica di un uomo di potere con elevata influenza di "agenda setting": cioè la potestà di dettare l’ordine del giorno nella gerarchia delle notizie. È un mondo nuovo che coincide con il trionfo dei nuovi media che hanno il cuore nella Silicon Valley e il portafogli a Wall Street. Fedez ha perciò avuto partita facile contro i mediocri funzionari del carrozzone RAI in una fase crepuscolare della storia della tv pubblica. Qualche anno fa Renzi fece nominare per la RAI un consiglio di amministrazione composto da portaborse e incompetenti sottogovernativi, proprio mentre stava per abbattersi sul sistema audiovisivo il ciclone Netflix, di cui non sapevano nulla. Le cose sono peggiorate nel tempo.
La Rai era sino a poco fa un universo attardato, dove la politica comandava la televisione, quella televisione si imponeva sul mondo dello spettacolo, e si lavorava solo se si obbediva a quella catena. I dirigenti Rai che erano fermi a quel mondo e ancora oggi non sanno cosa sia davvero Netflix. Lo spiega meglio di me Piero Armenti:
«Quando hanno chiamato Fedez dovevano tenere a mente che dall’altra parte della cornetta non c’era un artista desideroso di visibilità, ma una “media company” potente quanto la Rai stessa. Perché questo è il punto cruciale su cui bisogna focalizzare la riflessione. “Fedez è un mass media”. Non ha bisogno della TV, non ha bisogno della Rai, non ha bisogno di Mediaset o di Berlusconi. Non ha bisogno di nessuno perché il Mass Media è lui. Se lo vogliono, detta lui le condizioni, figlio com’è di una rivoluzione della comunicazione pari alla stampa di Gutenberg, che ha creato un vero e proprio ribaltamento di potere.
Fedez ha un suo pubblico coltivato bypassando l’Italia e le sue logiche di dominio e di controllo, soprattutto politiche. Usa Instagram e Youtube per veicolare il suo messaggio, se vuole fare qualcosa di televisivo può farlo su Amazon Prime o Netflix, tutte aziende americane che non subiscono alcun ricatto dalla politica italiana perché sono più grandi della politica stessa, e dettano a loro volta le condizioni.»
In un paese dove si censura tantissimo in tutto lo spettro dei media senza che nessuno alzi un dito, Fedez ha avuto agio a maramaldeggiare su una miseria moribonda come le "moral suasion" (neanche più censura, attenzione) dei funzionari RAI. La telefonata che Fedez ha pubblicato è piena di evidenti e numerosi tagli che lo fanno strategicamente giganteggiare al cospetto delle titubanze dei funzionari, che potrebbero essere state magari più argomentate rispetto ai mugugni irresoluti che il noto imprenditore ha salvato dal taglia e cuci. Edgar Hoover, l’immarcescibile direttore dell’FBI, diceva: "fate parlare qualcuno per mezzora e se vogliamo gli cuciamo una confessione di omicidio". Fedez, più modestamente, è stato capace di trascinare tutti nel suo gioco e a impiegare le tecniche dell'indignazione a comando, su cui cadono perfino molti dei più smaliziati. Lo “spin” prendeva direzioni precise.
Il politico leghista citato da Fedez era stato espulso dalla Lega per le sue posizioni. Ed è sotto processo in base alle leggi vigenti. Tener conto di questo è necessario non per alleggerire la Lega, ma per una questione di verità. Quanto alla verità, sarei curioso di sentire la registrazione completa, non quella tagliata da Fedez.
I funzionari Rai non sono dei cuor di leone e se c'è chi può sollevare questioni che possono causare querele scelgono sempre di dissuaderlo. Immagino sia accaduto anche stavolta, più in termini di responsabilità penale e di opportunità politica, che di censura vera e propria (che di fatto non ha più la forza di un tempo). Fedez ha ingrandito e polarizzato l'episodio, soprattutto per creare un senso comune blindato sull’argomento che più poteva insinuarsi nelle divisioni della politica, il controverso disegno di legge Zan, sul quale non tutto può ridursi a scontri destra-sinistra, perché esiste un dibattito molto più aperto anche nel mondo Lgbtq+, così come nel femminismo storico. Mondi che non vogliono ridurre tutto al ritmo di Tik Tok e che manifestano enormi preoccupazioni sulle potenziali minacce alla libertà di opinione insite nelle nuove fattispecie del disegno di legge. Questioni vere, non riducibili all'omofobia. Queste posizioni e queste questioni, anche quando sono lontane dalla nostra sensibilità, hanno cittadinanza in una democrazia.
Sempre Armenti ricorda: «il gesto di Fedez non è un atto di coraggio, ma è un richiamo alla realtà. L’artista ha rischiato zero perché il suo mondo non è quello antico: non ha bisogno della Tv italiana e men che meno quella pubblica. Non ci troviamo dinanzi ad un Davide che ha sfidato Golia, ma davanti ad un Golia che ha sfidato un altro Golia, ed ha vinto. Fedez non ha avuto coraggio nel senso tradizionale del termine, ma ha fatto un qualcosa di possibilissimo e consequenziale: ha ricordato che il potere è lui. Punto.»
Così, Fedez, il testimonial pubblicitario di Amazon, il profeta che dà smalto al neocapitalismo iper-consumista, prende facilmente a bersaglio la TV contro cui si scagliava anche Pier Paolo Pasolini, ma per ragioni opposte rispetto a quest’ultimo. Quando Pasolini raccontava l’avvento «del consumismo e del suo edonismo di massa: evento che ha costituito, soprattutto in Italia, una vera e propria rivoluzione antropologica», non avrebbe immaginato che un giorno potesse riassumersi nei Ferragnez. Commenta Matteo Brandi: «un conformismo totale, nascosto da una patina di glitter, perfetto per essere venduto ad una platea di giovani che vogliono sentirsi "fuori dagli schemi" ma senza esserlo davvero. Diversi sì, ma come tutti gli altri. Ed è qui che sta la bravura di Fedez e di quelli come lui. Nell'aver trovato in questo mondo artificiale una vena d'oro, da prendere freneticamente a picconate per estrarne ricchezza a non finire. Soldi, visibilità, sponsor. Il tutto riuscendo persino ad apparire, al suo folto pubblico, come un eroe.»
Dopo i politici-influencer dell’Era RAI e Mediaset, ecco arrivare l’influencer-politico che ridisegna lo spazio di ciò che si può dire. Le vecchie censure vengono abbattute, ed è un bene. Ma vengono dimenticate le nuove censure: il titanismo narcisista instagrammatico, distratto dalla vicenda Fedez, non sa dire nulla sulla miriade di censure che colpiscono - su Facebook, Youtube, Amazon, ecc. - tutte le forme di pensiero divergente che si manifesti sui grandi temi dominati dai media del neocapitalismo.
Milioni di docili follower vedranno come un dramma la censura su Fedez (che non si è attuata), ma non si accorgeranno della censura molto più silente ed efficace che non fa loro sapere nulla su Julian Assange o sullo sfruttamento dei lavoratori di Amazon e sui nuovi inferni della precarizzazione di massa.
- Pino Cabras, fb
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pensarediverso · 3 years
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I meta-luoghi. Uno, nessuno, molti o infiniti?
 La “località” è un principio posto alla base della fisica newtoniana. Tutto quanto è soggetto alla località può essere pesato, misurato e riprodotto in laboratorio. Da qui deriva l’inevitabile e incrollabile convincimento che la realtà è esclusivamente materialista. Tuttavia, è stata dimostrata una località non newtoniana, detta, appunto, “non-località”. Cosa accade qui?
 1 Luoghi e meta-luoghi.
 Prima di parlare dei meta-luoghi dovremmo intenderci sul concetto di luogo. Dal punto di vista della fisica classica, il luogo è una parte di spazio materialmente e temporalmente circoscritta. In questa parte di spazio avvengono i fenomeni fisici conosciuti. In base a questa caratteristica, i fenomeni fisici vengono detti “locali”. La località è una caratteristica irrinunciabile per la validazione di ogni fenomeno. Viviamo in un universo localizzato. Tutta la fisica newtoniana, e anche la relatività einsteiniana, funzionano perché descrivono fenomeni perfettamente rispondenti alle caratteristiche della località. Tutto quanto è soggetto alla località può essere pesato, misurato e riprodotto in laboratorio (o potrebbe esserlo disponendo di strumenti sufficientemente precisi). Da qui deriva l’inevitabile e incrollabile convincimento che la realtà è esclusivamente materialista. In effetti, se una “cosa” è materia, come per esempio un sasso, può essere pesata. misurata e riprodotta. Quindi lo studio dei sassi si ascrive alla fisica. Viceversa, “cose” come Shambala, El Dorado, il Paese dei Balocchi, La Terra di Mezzo, il Paradiso, l’Inferno e il Purgatorio non sono localizzabili, quindi non sono pesabili né misurabili e perciò vengono dette, nei casi più benevoli, luoghi fantastici oppure invenzioni per i grulli.  Lo studio di queste “cose” si ascrive alla metafisica.
In effetti, poiché la metafisica descrive le istanze non collocabili nel dominio della fisica, questi luoghi possono essere definiti meta-luoghi.
 Alla ricerca di un meta-luogo esistente.
 In effetti, basterebbe dimostrare che un solo meta-luogo esiste, per aprire la strada all’affermazione che tutti i meta-luoghi esistono, o, quantomeno, potrebbero esistere, se non altro grazie alla proprietà transitiva che recita:
se A = B e B = C allora A = C.
Immaginiamo che il meta-luogo B sia dimostrato esistente.
A= tutti i meta-luoghi;
B= uno dei tanti meta-luoghi;
C= esistenza affermata.
Poiché A=B, e B=C, allora A=C.
Il problema è che, fino a pochi decenni fa, nessun meta-luogo era mai stato dimostrato esistente.  Sebbene ne avessero scritto schiere di studiosi e filosofi, neppure i meta-luoghi più affascinanti, come il Mondo delle Idee di Platone o l’inconscio collettivo di Carl Jung, erano stati dimostrati esistenti.
 Le caratteristiche di un meta-luogo.
 Come già detto, un luogo, per essere considerato meta-luogo, dovrebbe essere libero da tutti i vincoli tipici della località newtoniana, principalmente:
1)  Non dovrebbe possedere “misure” quali lunghezza, larghezza, altezza e peso. I fenomeni al suo interno non sarebbero attenuati dalla distanza, perché non esisterebbero distanze. La velocità della luce non avrebbe senso, lo scambio di informazioni sarebbe istantaneo e totale.
2)  Non dovrebbe essere soggetto alla freccia del tempo. Al suo interno non dovrebbero esistere concetti quali “prima” e “dopo”. Dunque, in un meta-luogo non sarebbero più applicabili i concetti materialistici di causalità e determinismo, secondo cui ogni evento è causato da un evento che lo precede, e determina eventi successivi.
Pensate che un luogo (o meta-luogo) simile non potrebbe mai esistere? Vi sbagliate di grosso. Esiste sicuramente, e la sua esistenza è stata dimostrata scientificamente già negli anni ’80 del secolo scorso.
 Anno 1982: un esperimento sconvolgente.
 Ho già descritto in altri post (vedi: https://www.pensarediverso.it) il fenomeno dell’entanglement quantistico, dimostrato nel 1981-82 da Alain Aspect tramite l’implementazione in laboratorio di un esperimento suggerito da Stewart Bell nel suo teorema detto “diseguaglianza di Bell”. Questo teorema voleva far luce sul precedente esperimento mentale detto EPR, proposto dal trio Einstein, Podolski e Rosen. EPR metteva in dubbio le teorie quantistiche formulate dalla “Scuola di Copenhagen” di Niels Bohr. Per la verità, EPR voleva spiegare l’inspiegabile partendo da presupposti sbagliati.
Alain Aspect dimostrò per primo, senza dubbio, l’esistenza reale del fenomeno detto “entanglement quantistico”.
 Nasce la non-località quantistica.
 Se due particelle (per esempio due fotoni di luce) nate dallo stesso evento vengono spostate a distanze astronomiche, anche ai lati estremi dell’universo, riescono comunque a comunicare tra loro come se fossero una cosa sola. I loro comportamenti sono reciproci e contemporanei. Se una particella cambia il suo “spin”, contemporaneamente anche l’altra lo cambia, a qualunque distanza si trovi nello spazio.
è evidente che tutto ciò avviene al di fuori dei criteri di località tipici della fisica classica.
Infatti, non esiste nessun mediatore capace di spostare “fisicamente” l’informazione in modo contemporaneo tra i due fotoni. Quantomeno, l’informazione dovrebbe spostarsi alla velocità della luce.
In effetti, il principio di località afferma che oggetti distanti NON possono avere influenza istantanea l'uno sull'altro: un oggetto è influenzato direttamente solo dalle sue immediate vicinanze.
L’esperimento di Aspect dimostra che, almeno in un caso, può avvenire il contrario.
Questo sperimento di Aspect è stato ripetuto centinaia di volte in decine di laboratori, con metodi sempre più sofisticati. Attualmente non si pongono più in stato di “entanglement” due fotoni, ma miliardi di particelle contemporaneamente.
Per i fisici materialisti la non località è come una lama con cui una realtà innegabile trafigge le loro carni, rigirandola crudelmente nella ferita.
Non potendo deridere o insabbiare l’evidenza, il grande imbarazzo fu risolto normalizzando il conflitto. Quindi, il fenomeno fu accolto a denti stretti e gli si appiccicò una nuova etichetta priva del prefisso “para”: la non-località. Come affermava cinicamente Mao nel suo Libretto rosso: “Se non puoi distruggere il tuo avversario, fattelo amico”. Sano pragmatismo cinese!
 Prospettive future.
 Chissà se in futuro si potranno mettere in stato di entanglement due esseri umani, cioè due cervelli? Non si farebbe altro che dare dignità scientifica al “para-fenomeno” della telepatia.
Naturalmente, questo post non vuole affermare la reale esistenza di tutti i meta-luoghi possibili, anche se una teoria meta-quantistica, quella dei multiversi, renderebbe plausibile questa ipotesi.
Per il momento, osserviamo che molti fenomeni detti paranormali o extrasensoriali diventano possibili e normali nel livello della realtà quantistica. Per esempio, oltre alla telepatia, la conoscenza del passato e del futuro, visto che nella non località non esistono il “prima” o il “dopo”. Come accedere a questa realtà? Il livello quantistico è inaccessibile ai nostri cinque sensi, calibrati per il livello macroscopico. Tuttavia, è pienamente accessibile al nostro settimo senso, la coscienza.
 Testo di Bruno Del Medico
Blogger, divulgatore, scrittore.
https://www.pensarediverso.it
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veronica-nardi · 4 years
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Super Star Academy Commento
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Non ero a conoscenza dell'esistenza di questa serie fino a un paio di settimane fa, quando mi ci sono imbattuta per puro caso gironzolando su internet. Come i miei occhi sono caduti sulla locandina, mezzo secondo mi è bastato per riconoscere Xiao Zhan, così ho iniziato subito a vederla pensando: "Perché non sapevo nulla di questa serie???"
Pensavo di conoscere ogni singolo drama girato da XZ, ma YouTube mi ha sorpresa.
Beh, ora che l'ho finito mi dico che potevo anche continuare a non saperne nulla, perché questa serie è di una banalità e stupidità quasi imbarazzanti, tuttavia nel suo essere stupido e banale, è divertente. Non nascondo di essermi fatta varie risate nel corso della visione, ma nella seconda metà ho notato un calo di attenzione.
Non saprei spiegarmi il perché di questo. Negli ultimi tempi ho lasciato che il mio cervello si adagiasse su drama alquanto leggeri e spensierati, e credo che la cosa mi abbia resa un po' pigra, quindi la visione parallela di Chief of staff mi ha totalmente risvegliata rimettendo in funzione il mio cervello, e così Super Star Academy ha un po' smesso di essere così divertente e ha cominciato a darmi noia.
Ho anche cominciato a prestare meno attenzione ai sottotitoli (in inglese), e se non capivo qualcosa... sticazzi. Perché la trama di questa serie è talmente semplice, e spesso le cose sono rese in modo così stupido, che sapevo già dove si stava andando a parare.
La Super Star Academy è frequentata da ragazzi e ragazze ognuno con un potere diverso in base al loro segno zodiacale. La protagonista, apparentemente senza alcun potere (e questo già dice tutto), riesce per qualche motivo a entrare nella scuola, entrando subito in contatto con il lead, il ragazzo più bello, figo, ricco, e desiderato della scuola. Questi dovrebbe anche essere l'erede della famiglia Fang, ma a un certo punto il second lead ci dice che è lui il vero Leone della famiglia, e prepara vendetta. A completare il tutto abbiamo i membri della tredicesima costellazione del pianeta (un branco di idioti), che vogliono vendicarsi delle altre costellazioni che hanno cercato di sopprimerli anni prima, e conquistare il mondo.
Che cosa si può tirare fuori da una trama del genere se non una storia banale?
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Partendo dalla protagonista, tralasciando il fatto che non ricordo assolutamente come caspiterina abbia fatto a entrare in quella scuola se sprovvista di poteri, in generale non mi è piaciuta. Per chi ha visto You Are Beautiful, questa è una Go Mi-nam 2.0, solo che Go Mi Nam almeno mi faceva ridere e mi stava simpatica, questa invece manco quello. Non dico che mi è stata antipatica, ma l'ho trovata un po' insipida.
Inoltre non può certo vincere per intelligenza. Basti pensare che mentre è inseguita da un cattivo, si volta e gli allunga la mano per aiutarlo a salire una collina, al che io non ho saputo se ridere o mettermi le mani nei capelli. Capite quando dico che questa serie è stupida?
Se la si guarda con questa mentalità accettando il suo stile, allora ce la si può godere, ma non bisogna assolutamente avere pretese.
Diciamo che va bene quando si ha voglia di qualcosa di leggero da guardare la sera, o come intermezzo tra drama più pesanti.
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XZ è una gioia per gli occhi come sempre, anche se l'ho trovato un pochino messo da parte nella seconda metà della serie. La sua recitazione è buona (non può non esserlo), vanta sempre una bellissima espressività, ma ammetto che nulla è paragonabile a Wei Wuxian di The Untamed, un ruolo per cui si vede che ha fatto un lavoro incredibile.
Quello che mi è piaciuto del suo personaggio è che nonostante il suo status sociale, non si è mai presentato come il classico ragazzo ricco e viziato, antipatico e arrogante (stile Daoming Si di Meteor Garden diciamo), ma si è anzi mostrato un ragazzo tranquillo, semplice e alla mano, rivelandosi anche una vittima nelle mani della madre ambiziosa.
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La storia d'amore tra i due lead è la più banale e semplice che abbia mai visto. Ogni loro scena insieme è stata un cliché. E non sono davvero riuscita a digerire l'espediente del destino come spiegazione dell'amore di lui:
"Ti ho salvata dieci anni fa perché fin dalla prima volta che ti ho visto ho capito che era destino."
Certo, perché tu, bambino di otto anni, vedi una bambina in pericolo e la salvi perché hai capito che sarà la donna della tua vita.
XZ, io ti voglio bene, ma questo non lo accetto. Credo che questo sia stato il punto più basso toccato dalla serie.
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Si salvano però le bromance della serie, sia quella tra il protagonista e il suo migliore amico nonché Capitan Shipper Shen Hao, legati come fratelli (hanno praticamente celebrato un matrimonio tra bambini... CIOÈ, IO ADORO), sia quella tra Shen Hao e il suo più acerrimo nemico Li Ya Dang. Partiti come avversari che non riescono a stare nella stessa stanza senza guardarsi male, i due nel corso della storia si ritrovano ad aiutarsi, diventando prima complici, poi amici amanti.
Se questo non è amore:
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Per quanto riguarda i due second lead, devo promuovere entrambi, e non me l'aspettavo.
Il second lead l'ho trovato molto umano nella sua voglia di vendetta, tanto arrabbiato da sfogare il suo risentimento anche su chi colpevole non è. Non sono riuscita a innamorarmi della bromance con XZ perché è arrivata tardi, ma il second lead si aggiudica il premio di eroe della serie.
La second lead era partita come la più grande psicopatica che abbia mai visto in un drama, ma mi ha stupita nel suo percorso di dolorosa accettazione, e sopratutto tanti complimenti a lei per aver continuato ad amare XZ anche quando si è scoperto che non era il vero erede della sua famiglia.
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Parlando dei villain, questi li devo bocciare. A parte la banalità delle loro motivazioni, questi tizi sono messi in scena in un modo talmente idiota che è impossibile prenderli sul serio.
Promuovo invece, per pura bontà, la madre di XZ, anche se è logicamente davvero poco probabile che alla fine accetti il rifiuto del figlio di diventare l'erede della famiglia, ma d'altronde da questa serie non mi aspettavo altro.
Infine non posso non citare la competizione della scuola che accompagna buona parte della serie. Una parola: ridicola.
Un gruppo di concorrenti viene scelto per affrontare una serie di prove, la protagonista prega che non venga fatto il suo nome ma ovviamente viene scelta... in puro stile Harry Potter e il calice di fuoco.
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COPIONI!!!
La serie ci regala anche la versione trash dei dissennatori:
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No comment.
E no comment anche sul finale della competizione, vinta dal protagonista perché i due second lead decidono di ritirarsi ti piace vincere facile.
Per non parlare dello scontro tra la protagonista e la second lead, che invece di fronteggiarsi in un classico combattimento si lanciano in una furiosa cat fight senza precedenti:
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Ma ammetto che qui ho riso un botto.
Punteggio: 6
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janiedean · 4 years
Note
Ho appena finito di vedere Blade Runner per la prima volta e mi è piaciuto, soprattutto la scena in cui il replicante uccide il suo creatore e la famosa "ho visto cose che voi uomini..." e questo film è praticamente l'inizio di un certo tipo di estetica nei film sci-fi e è una cosa fighissima, ma overral non mi ha fatto proprio impazzire. Siccome so che tu Sai (e lo dico nel modo più non ironico possibile) mi potresti dire cosa non ho notato ma che invece è interessante nel film?
AAAH DUNQUE (sks il ritardo ieri stavo cotta) io Ho Problemi Pesissimi con blade runner che tipo non smetterò mai di avere MA in ordine (dico la roba che non hai nominato tu nella ask poi magari l’avevi notata ma ecco XD):
le due parti che hai isolato per me sono splendide ma vanno viste nell’ottica della Mia Tematica Preferita Di Questo Dannato Film ovvero: come definisci cosa è umano e cosa non lo è
nel senso, vabbe io mangio distopie fatte bene a colazione e blade runner da un lato mi piace perché ha la distopia realistica-ish nel senso che non mi sembra molto implausibile un mondo dove hai o le città sovrappopolate o il deserto senza vie di mezzo per il riscaldamento globale e dove nelle città sovrappopolate la gente si odia/sta fondamentalmente isolata, e fino lì dici ok bel setting bella estetica ma poi ci butti il conflitto e allora arrivederci;
nel senso, la cosa che mi uccide è che la società del film in questione ti dice che i replicanti non sono umani e non possono vivere in mezzo agli umani e quindi il protagonista sarebbe nel giusto facendoli fuori... non fosse che poi vedi che la cosa è ribaltata e in realtà sono loro che hanno sentimenti/si comportano da esseri umani e non fanno i lupi solitari e vogliono solo cose che noi diamo per scontate, il che rende la tagline della tyrell corp una cosa doppiamente ironica perché usano più umani degli umani per dire che sono così simili che potrebbero esserlo solo che non lo sono, e invece la narrativa ti dice che ovvio che sono più umani degli umani e di ogni singola persona *umana* che compare nel film;
(tra l’altro è un angolo che comunque caschi in piedi reinterpretandolo a seconda di come pigli i film, nel senso che se vedi il director’s cut di br è palese che anche deckard è replicante come rachel quindi la sua umanizzazione arriva man mano che si rende conto di esserlo, ma nel seguito è implicato che fosse umano e hanno smollato quella plotline e PER UNA VOLTA IL SEGUITO HA DIRITTI quindi se scegli quell’interpretazione allora vuol dire che deckard - che era umano - si è umanizzato innamorandosi di una replicante che neanche sapeva di esserlo, quindi il punto è che l’umanizzazione dei personaggi non replicanti se esiste avviene attraverso i personaggi che secondo la società contestuale del film non sarebbero umani che io trovo una cosa geniale ma vbb)
a questo punto si inserisce anche tutto un altro discorso, nel senso, chi può dire cosa ha sentimenti o meno e quanto sei umano o meno dichiaratamente - risposta: nessuno -, che poi si rimette nel filone robot vs umani che vabbè a me ha fatto venire la fissa sto film di base ma personalmente il discorso ‘le macchine programmate da umani possono evadere la programmazione e/o diventare senzienti o provare sentimenti umani’ è una di quelle cose su cui potrei leggere/vedere roba per i prossimi cinque secoli (non ci sto a scrivere l’originale da novembre nooooo), che poi come dire... torniamo al discorso libero arbitrio vs predestinazione vs essere in grado di fare le proprie scelte vs no in realtà non possiamo;
tornando al discorso di sopra, da persona che è grande fan di narrative dove la risposta è ‘sì abbiamo il libero arbitrio no non siamo predestinati si possiamo sempre fare le nostre scelte’ capirai che una narrativa che mi dice che ‘la categoria pensata come subumana che invece ha più dignità/capacità di prendere decisioni dei cosiddetti umani’ per me è tipo un invito a nozze;
che cioè di nuovo come dicevo prima, il fatto che roy (che per me è il personaggio migliore punto senza manco battere ciglio) a) uccida il suo creatore che lo considera solo una creazione riuscita bene e non un essere umano come gli altri che vuole solo campare normalmente in quel modo, b) muoia salvando il tizio che ha cercato di ammazzarlo finora perché non vuole morire da solo/non vuole morire senza che qualcuno si ricordi di lui o sappia perché ha fatto quello che ha fatto visto in questa inquadratura è tipo una cosa che mi devasta perché appunto la narrativa ti sta dicendo che uno che secondo quelli che l’hanno creato neanche doveva porsi il problema è morto facendo quello che voleva/cercando quello che tutti noi vogliamo in quanto spettatori (perché cioè i replicanti alla fine vogliono ricordi, una vita, una famiglia e una vita sentimentale e non fare quello che vogliono gli altri, sai che richieste assurde) e quindi la narrativa vuole che tu spettatore ti identifichi con lui, non con deckard, o almeno non vuole che lo fai fino a quando deckard non se rende conto che il suo lavoro è uno schifo;
tra l’altro gli ammmmericani mo sti film li fanno molto più raramente ma cioè mi garba anche molto il concetto della narrativa che non ti dice da subito che devi sta dal lato del protagonista e che comunque non sta dalla sua parte tutto il tempo fino alla fine, perché il punto è che non devi parteggiare per deckard fino a quando non capisce che cazzo vuole dalla vita e tipo posso apprezzare una narrativa che mi dice che no non devo stare dalla parte del protagonista in virtù del fatto che lo sia (sta cosa è stata ribaltata in maniera geniale nel sequel tbh ma cioè io con br2049 ho altri problemi simili ma n’è quello il punto);
(anzi tra l’altro il char development di deckard che parte che è nammerda e poi migliora ma ci arriva alla fine quando quell’altro gli salva la vita al 100% è una cosa della madonna imvho ma lì è pure il fatto che l’arco ‘tizio che è nammerda che si rende conto che è una parte di un organismo marcio e cerca di smarcarsi’ per me è catnip veramente pesa)
poi vabbe sempre per il discorso di sopra mi piace da morire come deckard vs roy è costruito nel senso che come dire roy non c’ha il character development è solo che ha l’arco dove cerca di scoprire come allungarsi la vita e non ci riesce ma comincia in un modo e finisce uguale e non ha bisogno di farsi l’analisi della moralità ma tu di base vedi questo che più passa il film più fa cose che tu spettatore puoi assolutamente capire/concepire e ti fa l’effetto strano perché secondo il contesto questo dovrebbe essere un criminale da bruciare vivo per avere osato volere una vita, mentre deckard ha il development che parte da ‘faccio un lavoro dimmerda senza preoccuparmi degli strascichi morali e vivo da solo in un palazzo orrendo e neanche ho l’animale da compagnia da sfigato’ e passa per le stesse cose per cui passa roy ie lui ammazza i replicanti/roy ammazza quello che fa gli occhi e tyrell, vedi deckard che si mette con rachel e vedi roy e priss che sono tipo gli innamorati adorbs del secolo fino a quando non si beccano alla fine per la resa dei conti ma fondamentalmente tu vedi che roy ha già tutte le cose umane ™️ che deckard deve rendersi conto di volere eccetto che ha la data di scadenza e deckard no, e il fatto che si risolva con roy che fa la cosa altruista/salva il tizio che gli ha ammazzato gli amici/la fidanzata e sbatte in faccia a deckard tutti i suoi limiti prima di fare la morte più splendida mai concepita e a quel punto deckard fa 2+2 definitivo e si rende conto che la sua umanità (esistente o meno a prescindere da come la interpreti perché pure se è replicante si credeva umano fino all’inizio del film quindi XD) non è un cazzo in confronto a quella di roy mi devasta perché narrativamente è geniale e non è scontato e di nuovo ritorna sul tema di sopra che non puoi decidere tu chi ha diritto alle cose e chi no e non puoi sindacare sull’umanità altrui
poi vabbe ovviamente c’è anche tutto il discorso del PERCHE’ ESISTONO I REPLICANTI CHE MANDIAMO SULLE COLONIE A FARE IL NOSTRO SPORCO LAVORO che se lo metti assieme a quello che diciamo di cui sopra fa anche il suo porco commento politico perché ovviamente te sta a dire che non puoi sbolognare il lavoro sporco a gente che consideri subumana senza pensare che poi ti si ritorce contro
potrei pure fare n’altra ora di discorso su come sto film tra le altre cose è fondamentalmente un noir anni trenta con l’estetica cyberpunk e gli androidi perché di nuovo hai il detective antieroe che alla fine si rende conto di essere nel torto, la femme fatale e tutto, solo che c’è ovviamente la decostruzione fatta da dio perché il detective antieroe del noir tipico di solito è molto come dire apolitico/vuole solo i soldi mentre invece deckard è proprio narrativamente moralmente dal lato sbagliato, la femme fatale è una povera disgraziata che pensava di essere umana fino a quando deckard si presenta a farle il test e vuole solo essere umana pure lei, gli avversari non solo hanno ragione ma gli salvano anche i cosiddetti, e poi solitamente il noir anni trenta finisce col detective che iL MONDO E’ UMAMMERDA MA IO VADO AVANTI E MI FACCIO PAGARE E INTANTO CI HO GUADAGNATO UNA SCOPATA CON UNA CHE PUO’ O PUO’ NON AVERMI TRADITO, qui finisce col detective che fa la cosa giusta e piglia una cazzo di posizione XD e tipo parli con una che si beve noir anni trenta a colazione quindi pure lì era esattamente il tipo di roba che ci muoio sopra;
tldr: sto film fondamentalmente a parte quello che hai detto tu c’ha l’overachieving theme di cosa è umano e cosa non lo è e ti sta a dire che no non è quello che penseresti di primo acchitto, te lo fa vedere visivamente (con la gente che non comunica nella città sovraffollata con la pioggia opprimente che non finisce mai, l’eroe che è un pezzo della macchina marcia del sistema che vive in un buco nei bassifondi mentre quello che si arricchisce vendendo gli androidi è nella piramide dorata ecc), ti dice che il tuo protagonista Ha Torto mentre l’antagonista Ha Ragione e che cosiddette macchine programmate da umani per fare il lavoro sporco nelle colonie possono essere e sono umane come e quanto noi e quindi che non puoi arbitrariamente considerare subumano nessuno (tra l’altro c’è anche il discorso atroce del ‘muoiono dopo quattro anni così non sviluppano sentimenti’ e le intelligenze diverse applicate al tipo di replicante ie roy che è quello categoria A c’aveva il lavoro per cui gli serviva la materia grigia, quella che di base doveva fare il modello piacere ie farsi stuprare ma non per quelli che la toccano è B, quello che fa i lavori di forza è C quindi c’è pure il discorso che questi vengono categorizzati per presunta intelligenza basandosi sul loro uso ma poi quando vedi che hanno una personalità non conta un cazzo grazie retorica antiableist xD) e il protagonista non può avere ragione finché non si rende conto che tutto il suo sistema è lo schifo e non può avere la love story finché non si ribella al sistema, quindi la narrativa va contro a tutto quello che uno supporrebbe da uno schema classico scifi buoni vs cattivi (e dall’americanata media) e ok che ritorna al solito discorso libero arbitrio vs SEI QUELLO CHE TI DICONO CHE SEI A SECONDA DI COME NASCI ma ecco per me è declinato in maniera veramente splendida e per una santa volta so riusciti a fare finire l’arco ammazzando uno senza farla sembrare una morte gratuita 
nel senso, ultima cosa: di solito tutti sti redemption arc ammmericani calvinisti sono ‘ah pg cattivo si redime sacrificandosi perché tanto non c’è vita dopo la redenzione merda era e merda rimane’, ma con roy il punto è che a) la narrativa non gli chiede di redimersi perché gli dà ragione, b) il gesto che fa è assolutamente altruista e lo fa in quanto più umano dell’umano, c) sai benissimo da subito che al 99,9% questo ci lascia le penne perché ti dicono subito che stanno tutti vicini alla data di scadenza, quindi non è una cosa che narrativamente ti cade in testa tipo AH MA NON ME LO ASPETTO perché ovvio lo sappiamo tutti che capita, ma quando capita ci rimani dimmerda perché non deve farti piacere e la narrativa di nuovo ti sta a dire che lui ha avuto la morte dignitosa ma che non se la meritava per volere cose che tutti noi diamo per scontate, ergo in realtà quello che ha il redemption arc è deckard... ma intanto hanno usato la morte del suo foil narrativo in maniera intelligente per farti capire quanto il contesto sia ingiusto XD che di sti tempi è chiedere troppo XD
(posso smadonnare sul sequel per un anno facendo lo stesso discorso btw)
....... ok this was long e prob incoerente spero si capisca XD
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corallorosso · 4 years
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Salvini e l'estensione del dominio
C'è stata questa cosa di Salvini, del citofono, dei giornalisti al seguito. Con molti interessanti commenti: sulla politica, le sue tecniche, il ruolo dei giornalisti e anche quello delle istituzioni. Tanta roba, insomma - e non è vero che è un episodio minore, che è “colore”: è invece un passaggio in più in tutte le cose che abbiamo detto, cioè politica, comunicazione, giornalismo, istituzioni, perfino economia. Inizio dai giornalisti, per motivi di incolpevole contiguità. La questione non è che dovevano ignorare quello che stava facendo Salvini, come dicono alcuni. Salvini è uno dei principali protagonisti della politica italiana e fa notizia in sé, piaccia o no (a me no, ma non si può prendere a pugni la realtà). La questione invece è come coprire quello che fa Salvini. Se ti limiti a inseguirlo reggendo il microfono o il taccuino, non stai facendo il tuo mestiere di intermediatore. Per fare quello, basta Morisi con un cellulare collegato in diretta ai social. Se fai il giornalista lo segui Salvini, sì, ma gli fai domande. «Le sembra corretto molestare a casa sua un privato sulla base di una delazione? Scusi, ma a che titolo lei va a casa di chiunque a contestare reati? Se ha avuto una notizia del reato di spaccio non dovrebbe riferirlo alla magistratura o alle forze dell'ordine anziché fare lo sceriffo in proprio? Scusi si rende conto che sta violando l'articolo 660 del codice penale? Scusi, questo teatrino è per prendere voti in Emilia o lei va tutti i giorni a citofonare anche ai camorristi e ai picciotti di Cosa Nostra? Scusi, ma le andrebbe bene se venissero a casa sua a citofonare per i 49 milioni truffati dal suo partito?». E così via, di domande possibili ce n'erano decine, per non fare solo i reggimicrofoni, gli acchiappavideo da mettere senza aggiungere altro sul sito. Si parla tanto di crisi dei giornali, ma se i giornali non fanno filtro critico è ovvio che vengono desertificati dai social disintermedianti. Così, non serviamo a niente, basta Morisi appunto, o i suoi equivalenti altrove. Poi ci sono i poliziotti, e anche qui ho qualche perplessità. Capisco, Salvini era il loro ministro fino a pochi mesi fa e chissà che presto non torni a esserlo, ma cacchio siete poliziotti, se la faccio io una roba del genere mi blindate in cinque minuti, giustamente peraltro. Spero che Lamorgese, finora ottima e silenziosa ministra, faccia partire al più presto un'ispezione per verificare il comportamento di chi era lì in divisa e ha assecondato il potente che molestava un minore, anziché evitare che questo accadesse. Qundi c'è la questione della comunicazione, della propaganda. Martedì mattina sui social era girato parecchio il video di Elly Schlein che inchiodava Salvini al suo fancazzismo, alla sua cialtroneria e alla sua indifferenza verso le questioni che lui stesso brandisce nei comizi. Di qui la bella idea della citofonata, per ribaltare la comunicazione sovrapponendo mediaticamente il nuovo video a quello di poche ore prima. Per capirlo non è che ci voleva un genio, bastava sapere un minimo come funzionano la Bestia e in generale le dinamiche dei social, cioe della comunicazione politica contemporanea. Ma nessuno che gliel'ha detto, né sul momento né dopo, a Salvini e alle persone fuori. Infine c'è il messaggio politico-culturale. Facendosi sceriffo, violando le regole della convivenza civile, Salvini ha sdoganato non solo il suo sentirsi oltre queste regole, ma anche il diritto di ciascuno di infischiarsene, se abbastanza muscolare e potente. Fatevi giustizia da soli, andate a prendere i drop out casa per casa, barbarizziamoci tutti in una non-società di individui che si sovrastano sulla base dei loro rapporti di forza. Che poi è il vecchio mantra della destra, anche in economia, e qui si palesa tutta la saldatura tra salvinismo e liberismo, tra destra economica e destra sovranista: la società non esiste, basta lacci e lacciuoli, basta regole, basta Stato, vinca il più forte, vinca chi è più armato - di pistola o potere o denaro che sia. di Alessandro Giglioli
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levysoft · 3 years
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La capacità di riconoscersi allo specchio, scontata per gli umani (almeno da una certa età in poi), non lo è così tanto nel resto del mondo animale. In effetti, nel tempo sono stati condotti – e continuano a esserlo – moltissimi studi dedicati a capire se una determinata specie è in grado di percepire che l’immagine riflessa nello specchio corrisponde all’individuo stesso, un’abilità che potrebbe essere alla base della consapevolezza di sé.
Tra gli animali su cui sono stati condotti questi studi si trovano sia selvatici (per esempio gli elefanti e i delfini) sia domestici. E, a quest’ultimo gruppo, si sono di recente aggiunti i furetti: un recente lavoro pubblicato su Animal Cognition fornisce infatti un’analisi preliminare della loro capacità di superare il cosiddetto mirror test o test dello specchio. I risultati non sono conclusivi, ma suggeriscono che valga la pena indagare ancora, e testimoniano l’interesse crescente per studiare questa abilità in un range di animali sempre più vasto.
Qualche parola sulle abilità socio-cognitive del furetto
Finora non abbiamo ancora mai parlato di furetti su questa rubrica. Per contestualizzarli un po’ meglio nel nuovo studio, vale la pena riportare qualche informazione sugli studi condotti in ambito cognitivo. “Sebbene la loro storia antica a servizio dell’uomo sia oscura, i furetti sono stati probabilmente domesticati oltre duemila anni fa attraverso riproduzione selettiva della puzzola europea (Mustela potorius)”, scrive un gruppo di ricercatori in un articolo del 2012 che ne indaga le abilità socio-cognitive. Infatti, se la puzzola è un animale solitario, il furetto può invece convivere con i suoi consimili senza conflitti, e mostra alcuni comportamenti sociali: una differenza simile a quella che si osserva, per esempio, tra gatto selvatico e domestico. Il furetto, infatti, sembra essere capace di apprendere osservando i propri compagni, e nella specie è presente il gioco sociale.
La domesticazione sembra aver avuto un effetto sui furetti anche in termini di rapporto con l’umano: il già citato lavoro del 2012 aveva mostrato come, al contrario della controparte selvatica (un gruppo di puzzole ibride), il furetto mantiene il contatto visivo con il proprietario, lo preferisce allo sperimentatore se posto di fronte a una scelta tra i due ed è anche in grado di seguire le indicazioni di pointing (l’indicazione con il dito) del proprietario, a livelli simili di quelli osservati nel cane.
Il nuovo lavoro sulla capacità del furetto di riconoscersi allo specchio si inserisce quindi in un filone di ricerche già dedicate alle sue abilità socio-cognitive che, oltre a essere importanti per comprendere meglio le caratteristiche cognitive della specie, ci possono aiutare a migliorarne la gestione, sia negli allevamenti sia nell’ambiente domestico, quando scegliamo il furetto come pet.
Il test dello specchio
Del test dello specchio, OggiScienza ha già parlato in alcune occasioni: si tratta, in breve, di un esperimento nel quale l’animale (che non deve aver mai avuto occasione di specchiarsi prima) è posto davanti a uno specchio dopo che gli si è applicato un “marchio” (un segno colorato o un adesivo) senza che il soggetto se ne accorga. «Anche se tutti gli animali possono avere un qualche tipo di reazione di fronte a uno specchio, ciò che è importante osservare in questo test è la presenza di self-directed behaviours, cioè comportamenti che l’animale rivolge verso se stesso, per esempio per ispezionare parti del corpo che, senza l’immagine riflessa, non riuscirebbe a vedere. Più nello specifico, l’applicazione di un qualche tipo di “marchio”, come un segno di pittura, dovrebbe far sì che l’animale cerchi di eliminare la macchia», spiega Elisabetta Palagi, etologa dell’Università di Pisa che pochi mesi fa ha condotto l’esperimento sui cavalli (che hanno “superato” il test). Inoltre, poiché l’animale potrebbe cercare di rimuovere il colore solo perché la vernice lo infastidisce a livello tattile, come controllo si usa un marchio invisibile (per esempio un gel trasparente).
«Il riconoscimento allo specchio è considerato la base per la potenziale presenza della consapevolezza di sé, di ciò che distingue “me” da “l’altro”», continua la ricercatrice. «Si presume che questa capacità di riconoscersi come individui distinti dagli altri del gruppo possa essersi evoluta negli animali che vivono in gruppi sociali ben strutturati, dove comprendere il proprio ruolo e la diversità tra se stessi e gli altri individui è indispensabile per costruire relazioni a lungo termine. Si ritiene quindi che le specie sociali, che cognitivamente risultano le più complesse, siano anche quelle in cui la consapevolezza di sé sia più facilmente presente».
Naturalmente, per poter eseguire il test l’animale deve avere un certo senso della vista: per quanto riguarda il furetto, gli autori del nuovo lavoro specificano che, sebbene si basi prevalentemente sull’olfatto per distinguere i conspecifici, la specie a stretta distanza ha una buona vista, impiegata anche nella comunicazione. Per esempio, l’erezione dei peli della coda rappresenta un segnale di eccitazione (positiva o negativa) o di rabbia (in questo caso può essere accompagnata dall’inarcamento della schiena e da vocalizzazioni particolari).
«Anche se è difficile dire quali differenze vi possano essere tra l’indagare la capacità di riconoscersi negli animali selvatici e in quelli domestici, lavorare con questi ultimi presenta il vantaggio di poterli saggiare senza che soffrano troppo l’isolamento sociale; inoltre sono sicuramente più semplici da gestire», aggiunge Palagi.
Furetti allo specchio
I ricercatori hanno svolto il test con sei furetti, lavorando su tre diverse condizioni sperimentali. Nella prima, ciascun furetto era posto davanti a uno specchio oppure a una superficie non riflettente; questa condizione serviva solo per verificare il comportamento di fronte al riflesso, così da essere sicuri che eventuali differenze rispetto a quando il furetto era posto di fronte alla superficie non riflettente non dipendessero da altri stimoli. Quindi, ciascun animale è stato posto di fronte a entrambe le superfici, per capire se fosse più interessato all’una o all’altra. Infine è stato svolto il mirror test vero e proprio, marcando i furetti o con un colorante rosso (o, per finta, con l’acqua) sulla fronte, in un punto cieco.
Analizzando i risultati, emerge innanzitutto che i furetti sembrano essere più interessati dallo specchio che dalla superficie non riflettente: la spiegazione, scrivono gli autori, può essere che, semplicemente, siano attirati dai movimenti o dal “conspecifico” riflesso. In questo senso, aggiungono ancora i ricercatori, lo specchio potrebbe rappresentare una forma di arricchimento ambientale per i furetti; sarebbero tuttavia necessari ulteriori studi, anche perché, avverte Palagi: «Perché lo specchio sia un buon arricchimento ambientale, bisognerebbe prima valutare che non crei uno stato di ansia nell’animale. Infatti, vedere la figura riflessa, che si muove in contemporanea all’individuo, può essere fonte di stress e causare una perenne violazione dell’aspettativa perché l’immagine mobile, priva di odore, non appartiene comunque a un conspecifico».
Ma cosa dire del vero e proprio mirror test? Cos’hanno fatto i furetti marcati di fronte allo specchio? In effetti, rispetto alle altre condizioni (marcatura senza superficie riflettente e marcatura invisibile), i furetti con il segno colorato si annusano ed esplorano di più il proprio corpo. Si tratta di risultati che in effetti evocano la possibilità di un riconoscimento ma che in sé, scrivono gli autori, non ne forniscono la prova. Insomma, sarà necessario approfondire lo studio, con un campione più vasto.
«Gli autori sono molto cauti nel discutere i loro risultati. D’altronde, questo lavoro è importante proprio perché rappresenta un’indagine iniziale su una specie che finora non era stata valutata in questo tipo di test e dimostra che l’interesse, inizialmente concentrato sui primati, si sta allargando anche verso altre specie. Questo significa anche che dobbiamo, sempre più, prestare attenzione alle caratteristiche degli animali indagati per mettere i risultati nella giusta prospettiva: anche al di là delle differenze inter-individuali, le diverse specie possono infatti avere motivazioni differenti nel reagire allo specchio, mostrando più o meno interesse, perfino se eventualmente si riconoscono. Senza contare che non è detto che tutte reagiscano nello stesso modo alla marcatura, anche solo per quella che è la loro struttura fisica: per esempio, pulirsi con le zampe è più difficile per un cavallo che per una scimmia!», conclude Palagi. «Ma intanto, allargare la prospettiva a diverse specie ci può aiutare a comprendere se, come molti suggeriscono, in effetti questa abilità non sia distribuita secondo un principio dualistico di “presenza/assenza” ma, piuttosto, possa ritrovarsi a livelli e con sfumature differenti nelle diverse specie, secondo quello che viene definito un approccio “gradualista”», conclude Palagi.
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gryffsophia · 5 years
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⁖  ♡  Sophia & Emma @ Corridoi di Hogwarts / 6 Febbraio.
Nascondersi per oggi ha funzionato, almeno, che non ha visto nessuno di coloro che avrebbero potuto insospettirsi per i suoi cuori o chiederle spiegazioni e lei ne è decisamente contenta, insomma. E quindi se ne sta tornando in dormitorio, più tranquilla rispetto all’inizio della giornata, e mentre cammina i suoi cuoricini iniziano a fluttuare un po’ di più e lei aggrotta le sopracciglia, talmente concentrata su di essi che inizialmente non si accorge nemmeno della figura che ha davanti, riconoscendola solo dopo averla scrutata per bene. ‹‹ Oh ciao, Sophia. Problemi con—— / le schifezze/ ? ›› ché la grifondoro pare apparsa dal nulla, facendola fermare di colpo.
Per lei non è stato cruciale, nascondersi –– perché tanto, figuriamoci... non può assentarsi a lezione, per via del fatto ch'è arrivata tardi e bla – bla – bla. Fortuna voglia che Valentyne si sia recluso, però, e che Dustin sia ancora mezzo acciaccato a letto, quindi durante la giornata quei cuoricini sono stati calmi. Un po' stizziti, proprio come lei, ma non troppo fastidiosi nel complesso. Tranne adesso, che s'è solo avvicinata ai Sotterranei ed hanno iniziato ad impazzire. Letteralmente. Svolazzano frenetici qui e lì, più rossi che mai, quindi indietreggia di scatto e quando si volta le capita davanti Emma. A cui sorride appena, mentre con una mano cerca di togliersi di torno quella mezza dozzina di pezzi di carta. ‹ Già, sembrano mille stalker impazziti. Tu ne hai... così pochi! Che cazzo! Vuoi un po' dei miei? ›
Ricambia il sorriso dell’altra, di riflesso, e nel frattempo si copre i palmi delle mani con le maniche della propria felpa. Sì, oggettivamente i suoi cuori sono davvero pochi ma le danno fastidio comunque, ovviamente, ché secondo lei non dovrebbe averne nemmeno uno. ‹‹ Mi bastano già questi, grazie! ›› e scuote la testa, osservando curiosamente i cuori dell’altra. ‹‹ Sei innamorata di qualcuno? ›› perché è chiaro dato il numero elevato di quei pezzetti di carta svolazzanti.
A quella risposta sporge giusto un po' il labbro inferiore in avanti, perché se potesse cederli a qualcuno sarebbe tutto così semplice...! E certo, è innamorata, cotta da testa a piedi, ma non le piace che sia così / palese /. Né le piace che lo sappia tutta la scuola, insomma, ma i cuoricini ce li hanno quasi tutti... mica sono tutti innamorati... ‹ Perché me lo chiedi? › e insomma. Quasi sulla difensiva, però... che schifo.
‹‹ In base a quello che è successo l’anno scorso ho capito come funzionano questi— cosi. ›› e se li indica, che lei l’hanno scorso non ne aveva alcuno e passava il tempo a scrutare quelli degli altri per capire come funzionassero. ‹‹ Più ne hai più sei innamorata. Per le leggere cotte sono più piccoli, invece... e di meno. ››
Pietrificata, Sophia è con lentezza assoluta che volge lo sguardo chiaro su tutti quei cuoricini. Non riesce neanche a contarli. Quanti sono? Venti? Trenta? E deve conviverci fino a San Valentino. Gli studenti di Hogwarts hanno una settimana di tempo per comprendere quanto sia persa. Okay. ‹ Fantastico. Quindi sono praticamente un lampeggiante. E dimmi una cosa... per caso non è che iniziano anche ad impazzire nei pressi della persona? Delle. Insomma. ›
Si mordicchia le labbra, consapevole che quello che sta per dire non piacerà moltissimo all’altra. ‹‹ Sì, iniziano a muoversi all’impazzata, all’incirca. Se la persona per cui hai i cuori ne ha per te è come se iniziassero a giocare tra di loro, credo. Ma fortunatamente non ho sperimentato questa cosa, nel senso che farò di tutto per non incontrare le persone per cui sono e ti consiglio di fare lo stesso se lui, o loro, non lo sanno. ››
Il problema fondamentale non sono né Valentyne né Dustin, fortunatamente, quanto più... gli altri studenti? Perché mica è semplicissimo tenere nascosto a suo fratello che vede l'altro o che provi qualcosa in generale se i cuoricini iniziano ad impazzire! ‹ Quindi mi conviene fingermi malata. O ammazzarmi. Fantastico. › con un sospiro teatrale, mentre curva le spalle. ‹ Tu lo sai i tuoi per chi sono? ›
‹ Sostanzialmente... oppure lasciar perdere, davvero. Io credo che farò finta di niente— mi nasconderò per quanto potrò, certo, ma alla fine non c’è molto che possa fare per farli andare via. ›› poi annuisce, scrollando le spalle. ‹‹ Già, purtroppo. Tu invece? ››
‹ Oltre fingersi morte e risorgere dopo San Valentino, intendi? › ironica, ovviamente, mentre le lancia un’occhiata eloquente. Almeno non è l’unica a starla vivendo male, questa situazione! Quindi annuisce con un vago cenno del capo. ‹ Sì, ma non pensavo di essere / così / innamorata, in realtà. ›
‹‹ Io non credo di essere innamorata. ›› già, che se ne accorgerebbe, no? Non dovrebbe essere palese? Sarà che forse non vuole esserlo, non per la persona per cui sa che qualcosa di profondo prova. ‹‹ Che schifo San Valentino. ››
Posa la schiena contro il muro, a questo punto, le braccia che si incrociano sotto il seno ed il labbro inferiore sporto in avanti. ‹ A me piace, San Valentino. Ci sono le lettere dei fan, i regali di papà, le attenzioni di quelli che ti regalano i fiori con la speranza di portarti a letto. Negli ultimi sei anni c’era questa tradizione che ad ogni San Valentino io e mio fratello ci inviavamo una lettera con scritto quello che provavamo in quel momento. Mi è sempre piaciuto. › non sa perché lo sta dicendo a lei, in realtà — ma Noora certe cose non le capisce, ed Emma... sembra saper ascoltare, no? ‹ È qui ad Hogwarts che fa schifo, con questi cuoricini del cazzo e la privacy che diventa inesistente. E fa schifo anche non poter festeggiare con le persone a cui sono rivolti. ›
È vero che ad Emma piaccia ascoltare, tanto che si ritrova anche lei e sistemare le spalle contro il muro opposto, così da stare di fronte all’altra e dedicarle la propria attenzione. ‹‹ Io San Valentino non l’ho mai sopportato. ›› accenna un piccolissimo sorriso, quasi per imporsi di non essere triste. ‹‹ Non mi piacciono molto le cose— romantiche?? Cioè non riesco a gestirle, non ci sono molto abituata e mi danno fastidio. ›› sì, che d’altronde non si è mai innamorata e non è nemmeno tanto convinta di sapere cosa sia esattamente l’amore, che un esempio nella sua vita non l’ha mai avuto e le carenze d’affetto che si porta dietro sin da bambina ne sono una prova. ‹‹ Sono piuttosto sicura che per chiunque siano i tuoi cuori ne abbia altrettanti. ›› già, che per Emma invece di sicuro non è così. ‹‹ Credo che sabato ci sia l’uscita ad Hogsmeade a tema San Valentino, di solito si va da madama Piediburro a prendere una cioccolata calda e cose simili... festeggia lì con le persone a cui sono rivolti. Magari non con tutti insieme. ›› e ora sbuffa una piccolissima risata, cercando di alleggerire l’aria.
Certo, Emma e Sophia hanno in comune le carenze d’affetto — ma a differenza dell’altra lei ha sempre avuto Valentyne, che in un modo o in un altro l’amore non gliel’ha mai fatto mancare. Neanche a distanza. Perciò inclina le labbra in un sorriso triste, a sentir quelle parole. ‹ Vedrai che prima o poi cambierai idea. Magari quando il destinatario dei tuoi cuoricini capirà quanto vali e ti farà apprezzare persino San Valentino! › di buon umore, anche se... le parole pronunciate dall’altra le fanno venire una fitta al cuore. Certo, suo fratello ha altrettanti cuori, forse qualcuno in meno!, ma... lasciamo stare. Dustin? Zero, ne è sicura. E seppure ce li ha, non sono per lei! A farla ridere è però l’immaginarseli insieme da Madama Piediburro a prendere una cioccolata insieme a lei, senza che uno dei due muoia. E quindi... ‹ Figurati. Ipotesi scartata a priori. Penso che mi limiterò a festeggiarlo con me stessa o al massimo Noora. ›
‹‹ Non credo ma insomma— non è che mi cambia molto, ecco. ›› scrolla le spalle, continuando a sorridere mentre s’intreccia le braccia sotto al seno, la schiena ancora poggiata alla parete. ‹‹ Non voglio che nessuno dei due destinatari mi faccia apprezzare ben niente, né che abbiano dei cuori per me. Mi va bene come va. ›› ché alla fine le renderebbero le cose ancora più complicate dal momento che lei i sentimenti proprio non sa esprimerli. ‹‹ Stessa cosa. Alla fine è un giorno come un altro, figurati se mi cambia qualcosa festeggiare da sola e con quegli idioti. ››
Non può fare a meno di posarle lo sguardo chiaro sul volto, Sophia, un po'... corrucciata. ‹ Non sei felice di essere innamorata, vero? › domanda, inumidendosi le labbra. Certo, molto spesso anche lei preferirebbe non esserlo –– ma l'amore è quello che la rende viva. No? E se solo non fosse così complicato. O così palese, come adesso...! ‹ A me piacerebbe festeggiare con loro, invece. Le cose romantiche mi fanno impazzire! › e sporge il labbro inferiore in avanti, un po' mogia. ‹ I fiori, la cioccolata, le passeggiate mano nella mano. E l'andare a letto insieme con le candeline e tutte quelle cazzate lì. ›
‹‹ Ma io non sono innamorata! ›› già, come no, forse solo un poco ma comunque qualcosa di fondo c’è per forza, o non si sarebbe sentita in quel modo quando Dimitrij se n’é andato. In ogni caso lei i sentimenti non li capisce, i cuori non li sopporta, le smancerie nemmeno e San Valentino è secondo lei la festa peggiore che potessero mai inventare. Alle sue parole arriccia il naso, dunque, scuotendo la testa. ‹‹ La cioccolata mi piace, i fiori pure ma preferisco comprarmeli da sola. Nel senso— mi da un po’ fastidio quando è qualcun altro a comprarmeli. ››
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«Maggio ’68», la rivoluzione del nulla
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di Giovanni Tortelli (maggio 2018)
Gli eventi della contestazione studentesca che dalle piazze di Parigi a quelle di mezza Europa dettero luogo al «Maggio ‘68» si configurarono come una vera e propria rivoluzione culturale, e come tale essi furono avvertiti. Della rivoluzione culturale il movimento del ’68 ebbe tutte le caratteristiche: la spontaneità, l’effetto sorpresa, l’iniziativa di base e la trasversalità delle rivendicazioni.
Le quali non furono politiche se non molto indirettamente. Furono bensì portatrici di un nuovo ordine deontologico e teleologico in sostituzione di un sistema nel quale il modo di pensare dell’individuo, l’organizzazione della famiglia e delle istituzioni sociali erano ancora impostati sui principi di una gerarchia e di un’autorità di diritto naturale, principi che vennero definitivamente, se non proprio del tutto improvvisamente, delegittimati.
Beninteso. Nessuna forza delegittimante – tantomeno la contestazione sessantottesca – avrebbe potuto aver fortuna contro archetipi di diritto naturale così impliciti nell’uomo e radicati nel suo stile di vita e nella sua fede come la famiglia, le istituzioni e l’intero ordine sociale inclusa la Chiesa, se non si fosse a suo tempo già proceduto contro di essi a colpi di giacobinismo prima e di modernismo poi.  
Oltre a ciò, anche la grande letteratura europea di inizio Novecento con Proust, Joyce, Musil e Kafka in testa aveva svolto egregiamente il suo compito di demolitrice dei pilastri della società, soprattutto nelle sue fondazioni della famiglia e dell’autorità paterna, rivalutando nello stesso tempo il ruolo della donna-moglie ma solo per farla diventare l’antagonista del marito-padre.
Non per nulla la rivolta giovanile del ’68 fu la rivolta dei figli contro i padri e, più in generale, contro chi impersonava un’autorità magisteriale, a maggior ragione contro l’autorità della Chiesa e dei valori che essa simboleggiava. Sicché non si può negare al movimento del ’68, che ereditava in pieno questa cultura, il carattere di fondo di rivolta contro il «giusto naturale», cioè contro quell’ordine di valori valido per tutti perché proveniente da Dio come lex aeterna della quale parla sant’Agostino e che san Tommaso pone al vertice del cosmo (Summa Th. Ia-IIae q. 93 a. 1 arg.3).
Chi ispirò «davvero» la contestazione del maggio ’68 colse l’importanza che il pensiero scolastico-tomista, e più in generale metafisico, rappresentava ancora nel modo d’essere dell’individuo e della società occidentale. Perciò ci si scagliò contro ogni principio, ogni arché, e si preferì pensare che le cose, gli uomini, fossero semplice «traccia», una traccia che cancellava ogni origine e consentiva solo un orizzonte terreno.
La filiazione diretta del ’68 va ascritta a quei circoli filosofici marxisti in cui si muovevano Sartre e i nouveaux philosophes di scuola francese, come M. Foucault, L. Althusser, J. Derrida; e ai «Professori» della Scuola di Francoforte, cioè Th. W. Adorno, M. Horkheimer, W. Benjamin, E. Fromm e soprattutto H. Marcuse. Circoli in cui si professava un marxismo d’élite, accademico e salottiero sempre attento a non contaminarsi coi movimenti e con le lotte operaie.
Gli slogan spesso pittoreschi con cui gli studenti sfidavano il sistema («Consumate di più, vivrete di meno»; «Diamo l’assalto al cielo»; «È proibito proibire»), richiamavano quasi sempre il pensiero originale dei maestri, soprattutto di Sartre e di Marcuse, assunti ben presto a veri capi carismatici del movimento.
Nonostante che il discorso sociologico dei «francofortesi» avesse un fortissimo impatto nel mondo studentesco per la sua portata anticapitalistica e di «via marxista autonoma» da sviluppare ed attuare all’interno dei paesi del capitalismo industriale, mi sembra più rilevante soffermarmi sui contorni di quel pensiero «neo-umanista» portato avanti in primo luogo da Sartre ed ulteriormente estremizzato dai suoi epigoni perché incise più profondamente, e direi irrimediabilmente, nel pensiero e quindi nella società che prese il via dal ’68 in poi.
L’evidente gracilità delle tesi neo-umaniste sartriane non riuscirebbe a spiegare l’enorme fortuna che esse ebbero non solo presso i giovani universitari del ’68 ma come svolta del costume sociale se non si tenesse conto che esse furono vissute dagli studenti di allora come una dottrina resa quasi mistica dall’impegno diretto dei maestri sulla scena politica. Sartre, ma poi anche Foucault, e Althusser, e Derrida, furono gli astuti inventori di quelle figure di philosophes engagés che sulle piazze e sulle barricate parigine portarono al successo le loro idee anche con la loro azione diretta.
La debolezza del nuovo pensiero – nonostante Sartre avesse dedicato al testo fondamentale della sua dottrina, L’essere e il nulla, quasi settecento pagine – si spiega da sola con qualche esempio. Il nuovo statuto sartriano prevedeva un uomo dalla ragione debole non più in grado di cogliere l’essenza di se stesso e delle cose, un uomo decapitato di ogni dimensione ultraterrena perché rivolto solo al «ciò che è» della materia, un uomo alieno a sé, agli altri e al mondo circostante. I termini di confronto coi quali ogni sistema di conoscenza, per quanto nuovo e originale, deve sempre fare i conti sono la coscienza di se stessi e degli altri, delle cose, del mondo.
Ora, è noto che per Sartre il mondo non ha alcuna giustificazione razionale, è così come è, è senza scopo, esiste perché esiste, è «nulla». Mentre la coscienza – che dovrebbe avere la consapevolezza di se stessa e offrire quella degli altri e del resto del mondo – non è in grado di far cogliere al soggetto conoscente la natura (l’essere) delle cose: la natura resta una cosa oscura, velata, approssimativa e che comunque sfugge alla ragione insieme alla cosa stessa e, soprattutto, insieme alla verità. Questo è il nulla.
A cosa si riduce allora la conoscenza dell’uomo per Sartre? Alla sola conoscenza del «ciò che è della materia»: se il mondo – dice Sartre – è il nulla, e la coscienza dell’uomo è «non-essere» perché non è in grado di auto percepirsi, di avvertirsi come coscienza, allora io posso conoscere «solo» le cose con cui interagisco, ma non posso conoscere né concepire «tutto», tantomeno realtà concettuali come Dio, l’anima, la creazione, divina perché ordinata.
Di fronte alla potenza nullificante della coscienza, Sartre non riconosce alcun valore né alla morale, né all’etica: dal momento che anch’io sono una cosa senza valore fra le altre cose senza valore del mondo, e quindi tutto è nulla, se anch’io voglio sfuggire alla mia nullità devo darmi da solo un significato, «progettarmi». Non ci sono punti d’appoggio. Ed è una progettualità anche nei confronti del mio simile: solo in quanto si sceglie «progettualmente» un altro individuo, si entra in contatto con lui: è la morte accertata di ogni dinamica affettiva e amorosa, è un’altra morte della natura dell’uomo.
In questa desolazione l’uomo può solo scegliere, anzi è condannato a scegliere per non essere solo una cosa e quindi per sentirsi libero, anche se tutto ciò gli costa un’angoscia che è riconosciuta dallo stesso Sartre.
Come si vede si tratta di un’antropologia fragile, anzi, amorale, negativa e mortifera, che lascia l’individuo padrone di se stesso nei suoi stessi confronti e nei confronti degli altri eliminando ogni responsabilità a tutto favore dell’azione, che può essere anche indiscriminata, come lo fu nei seguenti anni di piombo.
Tuttavia quando Sartre parlava di «libertà totale» o di «libertà di scegliere» e legava la piena libertà alla piena libertà di scelta fu preso come un oracolo dagli studenti in piazza; così anche Foucault quando parlava di «morte dell’uomo» tradizionale; e Lacan quando spostava l’uomo metafisico «dal luogo che la tradizione umanistica gli aveva assegnato»; e Derrida quando parlava di un «cambio dell’umanismo» in un’ottica di «dissoluzione delle tenebre della metafisica umanistica». Tutti furono presi ancor più sul serio quando interpretarono il ruolo dei philosophes engagéssi professarono ora leninisti, ora maoisti, ora trotzkisti, ora castristi. Furie devastatrici contro il vecchio sistema «borghese e confessionale».
Fu da qui, da questo non-essere della coscienza, da questa libertà-progettualità-conflittualità-irresponsabilità dell’uomo, principi pienamente accolti da quegli studenti di allora, che ci si incamminò sulla via della revisione dei principi della morale e della manipolazione dell’etica, per poi correre prima verso la legge sul divorzio e poi verso quella sull’aborto.
Purtroppo gli effetti del ’68 non sono ancora finiti, l’uomo è riuscito ad andare ancora oltre all’aborto e ha stabilito anche per vecchi e neonati dei livelli vitali sempre più alti per essere ammessi o eliminati dal diritto di vivere. Tempi bui nei quali la ragione è oscurata e l’uomo – «libero» come può esserlo chi ha rifiutato Dio – ha preferito affidare il proprio destino a oscuri protocolli scientifici.
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ourvaticancity-blog · 6 years
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Seifert, un’altra vittima del misericordismo di Amoris Laetitia
Dopo alcuni saggi di critica ad Amoris Laetitia, il filosofo Josef Seifert viene cacciato dall’Arcivescovo di Granada che gli toglie una cattedra universitaria. La defenestrazione del professore è uno dei numerosi esempi di come dialogo e misericordia vengano usati, a mo’ di randello, verso chi esprime dubbi più che legittimi sulle conseguenze logiche di un documento ambiguo. di Marco Tosatti (07-09-2017) L’Amoris Laetitia e la misericordia continuano a fare vittime. Nella fattispecie parliamo oggi dell’arcivescovo di Granada, in Spagna, e di uno studioso austriaco, Josef Seifert. Seifert pubblicò nel 2016 una lettera in cui esprimeva molte preoccupazioni ed obiezioni ad Amoris Laetitia. L’arcivescovo di Granada, Javier Martínez Fernández, lo sospese dall’insegnamento ai seminaristi. Da allora, come ricorda lo stesso Seifert in un’intervista a OnePeterFive sono accadute molte cose: “Un gruppo di teologi e filosofi ha accusato papa Francesco due volte per un’ampia serie di eresie e di altri errori che attribuiscono ad Amoris Laetitia, e sono stati molto dettagliati per provare le basi sulle quali chiedevano a papa Francesco di ritrattare questi errori. Mi chiesero di firmare la loro lettera ma non lo feci per una serie di motivi. L’arcivescovo di Granada mi ha sospeso dall’insegnamento ai seminaristi, L’arcivescovo di Vaduz si è congratulato con me per quell’articolo, e mi ha ringraziato per il grande servizio alla Chiesa che vi vedeva. I quattro cardinali hanno espresso i loro Dubia, ancora rimasti senza risposta. Così io avevo una quantità di ragioni per riflettere su Amoris Laetitia e sul mio primo articolo che avevo mandato in precedenza come una lettera personale a papa Francesco, a cui non ha mai risposto e di cui non mi ha dato segno di averla ricevuta”. Il prof. Seifert scrisse a Rocco Buttiglione, che aveva difeso Amoris Laetitia, per esprimergli il suo timore che anche Humanae Vitae e Evangelium Vitae fossero in qualche modo “adattatate” ad Amoris Laetitia. Buttiglione “ha aumentato il mio senso di allarme rispondendo che naturalmente a Humanae Vitae e Evangelium Vitae avrebbe dovuto essere applicato lo stesso discernimento e gli stessi principi dichiarati in Amoris Laetitia. Questo mi ha scosso profondamente”. Seifert scrisse allora un secondo articolo centrato su un singolo punto che considerava una possibile ”bomba atomica” teologicamente distruttiva. E cioè che l’ammissione ai sacramenti di persone non pentite che vivono in stato di adulterio, e omosessuali praticanti costituisce “un’immensa minaccia nascosta in questo testo, per l’intero insegnamento morale della Chiesa”. Questo problema era posto in forma interrogativa, e voleva essere un aiuto al papa e alla Chiesa. La principale preoccupazione di Seifert è questa: se la coscienza può sapere che Dio vuole che ci impegniamo in una certa situazione che intrinsecamente cattiva, cioè atti di adulterio o omosessuali, la pura logica deve tirarne la conseguenza che lo stesso si può applicare alla contraccezione, all’aborto, e a tutti gli altri atti che la Chiesa e i comandamenti divini hanno escluso in maniera assoluta. Il secondo articolo gli ha procurato la defenestrazione da parte dell’arcivescovo Javier Martinez Fernandez, che ha deciso, in maniera molto improvvisa, di obbligare il prof. Seifert a ritirarsi dall’Accademia Internazionale di Filosofia di Granada. Una risposta diretta alla seconda lettera di critiche ad Amoris Laetitia. Il presule afferma che i saggi di Seifert confondono i fedeli e annuncia pubblicamente di aver adottato per la sua diocesi le direttrici pastorali dei vescovi della regione di Buenos Aires, Argentina. L’arcivescovo accusa, senza presentare prove, Seifert di “pregiudicare la comunione della Chiesa”, di “confondere la fede dei fedeli” con i suoi scritti. E conclude che il documento di Seifert “non serve in finale alla verità della fede, ma molto di più agli interessi del mondo”. Come, non è spiegato, e pensiamo che difficilmente potrebbe esserlo. La defenestrazione del professore è uno dei numerosi esempi di come dialogo e misericordia vengano usati, a mo’ di randello, verso chi esprime dubbi più che legittimi sulle conseguenze logiche di un documento ambiguo. (fonte: lanuovabq.it) Il caso Seifert: chi si separa dalla Chiesa? di Roberto de Mattei (06-09-2017) La notizia è stata divulgata da Maike Hickson. Il 31 agosto, mons. Javier Martínez Fernández, arcivescovo di Granada, dopo aver sospeso dall’insegnamento il filosofo austriaco Josef Seifert, lo ha estromesso dalla Accademia Internazionale di Filosofia, di cui è uno dei fondatori, ma che oggi dipende dall’arcidiocesi. Va ricordato che il prof. Josef Seifert è considerato uno dei maggiori filosofi cattolici contemporanei. Il suo curriculum e la sua bibliografia occupano numerose pagine. Ma soprattutto è noto per la sua fedeltà al Magistero pontificio, che gli ha valso la nomina a membro della Pontificia Accademia per la Vita. Qualsiasi università cattolica sarebbe onorata di averlo tra i suoi docenti. Qual è la ragione del drastico provvedimento nei suoi confronti? Secondo un comunicato dell’arcidiocesi il motivo del suo ultimo licenziamento consiste in un articolo in cui il prof. Seifert ha rivolto una supplica a proposito della Esortazione post-sinodale Amoris laetitia di papa Francesco. Nell’articolo incriminato, Seifert ha chiesto a papa Francesco di ritrattare un’affermazione di Amoris laetitia dalla quale, sulla base di una logica stringente, può derivare la dissoluzione dell’intero insegnamento morale cattolico. "Seifert cita la sentenza di Amoris laetitia secondo cui la coscienza di coppie adultere o altrimenti dette “irregolari”, «può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo» (AL, n. 303)." In altre parole, commenta Seifert, oltre a definire lo stato oggettivo di peccato grave come «non ancora pienamente l’ideale oggettivo», Amoris laetitia afferma che possiamo conoscere con «una certa sicurezza morale» che Dio stesso ci chiede di commettere atti intrinsecamente cattivi, come l’adulterio o l’omosessualità attiva. Il filosofo austriaco pone a questo punto la sua domanda: «Io chiedo: partendo da questo presupposto, la pura logica non può non farci chiedere: Se solo un caso di atto intrinsecamente immorale può essere permesso e persino voluto da Dio, ciò non si deve applicare a tutti gli atti considerati intrinsecamente errati’? Se è vero che Dio può desiderare che una coppia adultera viva in adulterio, non dovrà allora essere riformulato anche il comandamento ‘Non commettere adulterio!’(…) Non dovranno pertanto cadere anche gli altri 9 comandamenti, Humanae Vitae, Evangelium Vitae e tutti i documenti passati, presenti o futuri della Chiesa, i dogmi o i concili, che insegnano l’esistenza di atti intrinsecamente errati?(…) Non dovrebbero allora, per pura logica, essere buoni e lodevoli a causa della complessità di una situazione concreta, l’eutanasia, il suicidio o assistenza ad esso, bugie, furti, spergiuri, negazioni o tradimenti di Cristo, come quello di San Pietro o l’omicidio, in alcune circostanze e dopo un adeguato ‘discernimento’?». Segue a questo punto la supplica a papa Francesco: «Voglio supplicare il nostro supremo Padre spirituale sulla terra, il “dolce Cristo sulla terra”, come Santa Caterina da Siena chiamò uno dei Papi, sotto il cui regno aveva vissuto, mentre lo criticava fieramente (…) di ritrattare tale affermazione. Se le sue conseguenze logiche portano con ferrea rigidità a nient’altro che a una totale distruzione degli insegnamenti morali della Chiesa cattolica, il “dolce Cristo sulla Terra” non dovrebbe ritrattare l’affermazione per proprio conto? Se la citata tesi conduce con logica conseguenzialità al rifiuto di atti che devono essere considerati intrinsecamente moralmente sbagliati, in qualsiasi circostanza e in tutte le situazioni, e se questa affermazione distruggerà, dopo Familiaris Consortio e Veritatis Splendor, anche Humanae Vitae e molti altri insegnamenti della Chiesa solenne, non dovrebbe essere revocata? (…) E non dovrebbe ogni cardinale e vescovo, ogni prete, monaco o la Vergine consacrata e tutti i laici della Chiesa, dimostrare il più vivo interesse per questo e sottoscrivere questo appello appassionato di un umile laico, un semplice professore di filosofia e (tra le altre materie) anche di Logica?». Non c’è stata nessuna risposta alla questione sollevata dal prof. Seifert. Il comunicato dell’arcidiocesi di Granada si limita ad affermare che la posizione del filosofo «danneggia la comunione della Chiesa, confonde la fede dei fedeli e suscita sfiducia nel successore di Pietro, il che, alla fine, non serve alla verità della fede, ma agli interessi del mondo». La diocesi di Granada aggiunge di «aver fatto proprio, fin dal primo momento, la applicazione del testo pontificio preparata dai vescovi della Regione di Buenos Aires», ovvero di seguire le linee guida dei presuli argentini che nel loro documento, approvato da papa Francesco, consentono agli adulteri l’accesso alla comunione. L’atteggiamento dell’arcivescovo di Granada si riassume in quel divieto di fare domande, che secondo il filosofo Eric Voegelin, è la caratteristica dei regimi totalitari. Con lo stesso criterio sono stati eliminati dalla Pontificia Accademia per la Vita tutti i cattolici fedeli all’ortodossia della Chiesa, a cominciare dallo stesso Seifert, i docenti più ortodossi vengono espulsi dalle scuole e dalle università cattoliche, i sacerdoti fedeli alla Tradizione vengono trasferiti dalle loro parrocchie e in alcuni casi sospesi a divinis. Che cosa accadrà ai cardinali se e quando giungerà la loro correctio fraterna? Questa logica repressiva apre lo scisma nella Chiesa. L’unico argomento che i fanatici della Amoris laetitia sono in grado di sollevare contro i critici di questo documento è quello, debolissimo, della “rottura della comunione”. Ma coloro che sollevano obiezioni sull’Esortazione pontificia, si richiamano alla dottrina immutabile della Chiesa e non hanno alcuna intenzione di uscire da essa. Se a causa della loro fedeltà al Magistero sono ufficialmente sanzionati, chi li sanziona compie un atto di auto-separazione da questo Magistero. Gli articoli del prof. Josef Seifert sono mossi dall’amore per la Chiesa e soprattutto per la Verità. Il vescovo che lo punisce si separa dalla legge naturale e divina che proibisce l’adulterio, l’omicidio ed altri peccati gravi, senza eccezioni o compromessi. Accusandolo di rompere l’unità con il Papa, il prelato manifesta l’esistenza di un magistero di papa Francesco incompatibile con il Magistero della Chiesa di sempre. Mons. Martínez Fernández ha punito il prof. Seifert perché chiedeva al Papa, con tono umile e rispettoso, di ritrattare un’affermazione che conduce all’adulterio e alla dissoluzione della morale. Dunque nella diocesi di Granada, come in quelle di Malta e dell’Argentina e in tanti altri luoghi della Cristianità, per essere in comunione con papa Francesco bisogna ammettere, almeno in certe occasioni, la liceità dell’adulterio e di altre trasgressioni della legge morale. Papa Francesco è il successore di Pietro, ma Nostro Signore non dice: chi mi ama deve seguire ciecamente il successore di Pietro. Dice invece: «chi mi ama accoglie i miei comandamenti e li osserva» (Gv 14, 15-21). Se il Supremo Pastore dovesse discostarsi dai comandamenti divini ed invitare il gregge a seguirlo, i fedeli dovrebbero allontanarsi da lui, perché «bisogna obbedire a Dio prima che agli uomini» (Atti 5, 29). Se per essere in comunione con papa Francesco si è costretti ad abbracciare l’errore, chi vuole permanere nella verità di Cristo, è obbligato a separarsi da papa Francesco. È questo che pubblicamente afferma mons. Martínez Fernández, arcivescovo di Granada. (fonte: corrispondenzaromana.it)
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Letteratura in viaggio
Dante Alighieri
E io a lui: «I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo Ch’e’ ditta dentro vo significando». [Purgatorio, XXIV 52-54]
L’esempio della Scuola siciliana, una traduzione in volgare dell’Amor cortese sviluppatosi in Francia, ebbe un’evoluzione unica a Firenze; il Dolce Stil Novo. L’amore di trovatori e trovieri e degli autori presenti alla corte di Federico II di Svevia, come Giacomo da Lentini, da pulsione carnale, passionale ed erotica muta in un amore puro, spirituale e divino. La componente extraconiugale resta, ma l’unico atto che gli autori chiedono alle proprie muse, delle vere e proprie “donne-angelo”, è quello di salvare la loro anima degnandoli di un gesto affettuoso, qualunque esso sia.
Vero capostipite del movimento è Dante Alighieri (1265-1321), cavaliere e politico di una Firenze assai instabile a causa della lotta intestina che vedeva schierate due fazioni: guelfi neri, sostenitori del papato, e guelfi bianchi, difensori della città dall’influenza di papa Bonifacio VIII, visto come l’emblema della decadenza spirituale del periodo. Schierato con questi ultimi, Dante viene mandato nel 1301 a Roma come ambasciatore per accordarsi con il pontefice affinché non invii in città Carlo di Valois, ufficialmente incaricato di fare da paciere, ma in realtà conquistatore papale. Proprio mentre è trattenuto nello Stato della Chiesa, le truppe papali irrompono a Firenze, deponendo il governo dei Bianchi in favore dei Neri. Con un’accusa di baratteria Dante è spinto l’anno successivo all’esilio, prima per due anni, poi fino alla morte e con estensione a tutti i suoi famigliari.
Dal 1302 il poeta è un ramingo: abbandonato dalla propria patria e senza più un partito a difenderlo, tutto ciò che gli resta è cercare ospitalità negli stati italiani, prestando di tanto in tanto i propri servizi come ambasciatore e allietando le corti con le proprie opere. Da Firenze si sposta a Forlì, poi Verona, Treviso, Bologna, Padova, Venezia e ancora Treviso. Da qui si dirige nella Lunigiana ed è proprio durante questo tragitto che, probabilmente, visita la Pietra di Bismantova, immortalandola per sempre come paragone per il monte del Purgatorio. In seguito è la volta del Casentino, poi Lucca e, infine, ritorna a Verona nel 1312, dove rimarrà come ospite di Cangrande della Scala fino al 1318, anno in cui si sposterà a Ravenna, la città in cui morirà e rimarrà sepolto fino ai giorni nostri.
Il lungo e incessante peregrinare non impedisce al poeta di scrivere, anzi è proprio la sua condizione di esule che in parte sprona il suo estro; solo un’amnistia per meriti culturali può permettergli, infatti, di ritornare in patria non da pentito e sconfitto. Ed è proprio frutto di questi anni uno dei trattati più interessanti: il De vulgari eloquentia. Prodotto tra il 1303 e il 1305 in latino (sceglie questa lingua e non il volgare perché si tratta di uno scritto destinato a colleghi studiosi ed intellettuali e non alla borghesia neo-lettrice, per la quale, invece, elaborerà il Convivio) e rimasto incompiuto, l’opera è uno studio sui volgari presenti nella penisola, studio che Dante conduce nel tentativo di elevarne uno a lingua italiana. L’autore è, infatti, desideroso di poter vedere un’Italia unita e, poiché non era possibile dal punto di vista politico (tasto per lui dolente, a tal segno da trasparire in ben tre canti della Commedia, il VI di ciascuna cantica), poteva esserlo sul piano della scrittura. L’analisi dei quattordici dialetti allora presenti sul territorio, tuttavia, si rivela infruttuosa, dato che nessuna di queste gli pare degna. Il trattato prosegue, allora, con una descrizione di come dovrebbe essere il volgare da lui tanto cercato: illustre, in altre parole splendente, cardinale, cioè stabile e non mutevole come tutte le lingue parlate, aulico, dunque degno delle corti, e curiale, quindi impiegato dalla corte di giustizia. La scelta di non accostarsi a nessuno dei dialetti è dettata anche dal fatto che tutti i grandi poeti fino ad ora sono riusciti a scavalcare i loro confini regionali esprimendosi in un volgare sovraregionale unitario.
Ecco dunque che abbiamo raggiunto ciò che cercavamo: definiamo in Italia volgare illustre, cardinale, aulico e curiale quello che è di ogni città e non sembra appartenere a nessuna, e in base al quale tutti i volgari municipali degli Italiani vengono misurati e soppesati e comparati. [De vulgari eloquentia, I, XVI, 6]
La questione della lingua italiana è rimasta in sospeso per secoli: nel 500 Pietro Bembo eleggerà a lingua dei dotti il toscano di Petrarca e Boccaccio, dunque un volgare vecchio di due secoli e ormai desueto, ma altri umanisti proporranno alternative differenti, senza riuscire a trovare un accordo. Inoltre, la condizione frammentata della penisola poneva in secondo piano quella linguistica, resa ancor meno importante dall’elevatissimo tasso di analfabetismo. Tornerà in auge come argomento solo nella seconda metà dell’800, quando spetterà ad Alessandro Manzoni porsi il quesito di quale lingua scegliere da far parlare all’Italia appena sorta, un’Italia divisa, fragile ed esclusivamente dialettale.
Gabriele Chincoli
Questo articolo è stato pubblicato sul Cimone, il notiziario del CAI di Modena. Per scaricarlo Cliccate Qui
Bibliografia: D. Alighieri, La Divina Commedia, Clio 2014 G. Ledda, Dante, il Mulino 2008 R. Luperini, Letteratura Storia Immaginario, vol.1, Palumbo Editore 2008 L. Surdich, Il Duecento e il Trecento, il Mulino 2005
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ilfrommiano · 7 years
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La caduta #3
Voglio coinvolgervi in un piccolo esercizio. È una di quelle cose che amo fare durante i miei seminari, soprattutto quando mi rivolgo a un pubblico più ristretto e posso permettermi un’interazione diretta con i presenti. Ma prima, una necessaria premessa.
Per seguirmi in questo test non avete bisogno di nessuno strumento: niente carta, niente penna, solo una buona dose di onestà e di sana voglia di sbagliare. Perché il più grande nemico di chi vuole imparare è la smania di sembrare più intelligenti di quel che si è. Se dall’apprendimento togliete la gioia del conoscersi (soprattutto attraverso gli errori!) e l’energia del confronto, nella testa non vi resteranno che un pugno di dati sterili e vuote nozioni.
Se sui banchi eravate tra quelli che inseguivano ossessivamente il dieci più o il trenta e lode, è ora di cambiare approccio: certo, un bel voto fa molto piacere, ma non è tutto e non dovrebbe mai esserlo per nessuno. Se state leggendo questo libro non è perché dovete dimostrare qualcosa a qualcuno, ma perché cercate un’occasione di riscatto per voi stessi. Se mentre studi, lavori e rifletti non distogli la mente dal risultato, dal podio, dalla promozione che hai sempre atteso, non ti godrai mai il percorso, non sentirai mai le imperfezioni della strada e non imparerai mai a prevedere i rischi lungo il tracciato. Il più delle volte, lasciarsi ossessionare dagli obiettivi è il modo migliore per non raggiungerli.
Detto questo, torniamo al nostro test. Si tratta di un semplice esercizio di visualizzazione.
Tutti quanti abbiamo una nostra idea di quel che vuol dire «momento buio». Può essere legata a una delusione sentimentale, a un problema familiare, a una brutta china lavorativa o a una preoccupante svolta sul fronte della salute. Stavolta, però, è bene andare alla radice di quell’espressione, attaccarsi al primo e più immediato significato di «momento buio» e cioè all’assenza di luce. Proviamo quindi con la nostra immaginazione a calarci in una situazione che rappresenti alla lettera e in maniera universale il concetto di «momento buio».
Immaginate di essere nella quiete di casa vostra o in qualsiasi altro posto chiuso a voi piuttosto familiare. È sera inoltrata e la giornata volge pigramente al termine, le ore sono trascorse senza grandi novità e voi non avete particolari preoccupazioni. A un tratto, però, va via la luce. Di scatto, il vostro sguardo volge alla finestra. Casa vostra è l’unica rimasta senza corrente: davanti ai vostri occhi si stende il panorama della città, una pennellata nera punteggiata di mille lucine. Il blackout ha colpito solo la vostra abitazione. All’orizzonte si intravedono le finestre illuminate degli altri, che continuano la loro vita come se nulla fosse. Alcuni guardano la TV, altri stanno sparecchiando i resti di una cena tra amici durata più a lungo del solito. Voi invece siete lì, soli, in un posto che fino a un attimo prima era ospitale e accogliente e che adesso, senza luce, non vi è più familiare, è divenuto estraneo e anche un po’ minaccioso.
Che cosa fate? Qual è la prima cosa che vi viene in mente? Per quanto possa sembrare illogico o addirittura stupido, molti di noi provano ad accendere la luce. Sappiamo benissimo che non c’è corrente, ma il nostro istinto ci dice di provarci. La mano corre sulla parete e il dito si accanisce sull’interruttore, anche se il nostro cervello è ben consapevole che quel gesto è solo una perdita di tempo e che il risultato sarà solo la nostra frustrazione.
Assodato che non si tratta di una valida soluzione, troviamo altre strategie. Dobbiamo arrivare all’interruttore generale, e quindi alla radice del problema. Già, ma come? È buio pesto!
Dobbiamo fare uno sforzo di concentrazione e ricostruire nella nostra mente il percorso che ci conduce, a tentoni, dal punto in cui ci troviamo fino al contatore. Possibilmente senza inciampare in qualche cavo della corrente, senza romperci gli stinchi contro il tavolino del soggiorno, senza far cadere il vaso di nonna Elena, senza sbattere il naso sulla porta del bagno e senza ribaltare lo stendino carico di panni ancora umidi che chissà perché ci ostiniamo a piazzare in quel corridoio che è già stretto di suo…
Insomma, la prima cosa davvero utile da fare quando ci si ritrova persi al buio è ricordarci quali sono i nostri punti di riferimento principali. In quei momenti non state lì a pensare che cosa vi manca in dispensa, se i libri sulle mensole sono disposti in ordine alfabetico o in base ai colori o a quante camicie vi restano da stirare. No, in quei momenti pensate agli ostacoli da evitare lungo il tragitto che vi condurrà alla soluzione del problema.
Questo esercizio di visualizzazione ci permette di capire tre insegnamenti importanti per affrontare con la dovuta serenità delle situazioni di difficoltà:
1) La situazione è cambiata, ma non del tutto: anche al buio, la tua casa resta la tua casa, così come la tua vita resta la tua vita, nonostante tutti gli stravolgimenti che può subire. A cambiare è il tuo modo di muoverti; sei più sul chi vive e avanzi a passetti, pronto a evitare o almeno ad attutire urti improvvisi.
2) Non far prevalere l’abitudine, adattati: pigiare l’interruttore non serve a nulla se non c’è corrente, così come è inutile insistere su soluzioni che hanno smesso di aver senso alla luce degli ultimi cambiamenti. Non accanirti, batti strade nuove.
3) Cancella il rumore di fondo, concentrati sull’essenziale: se il panorama intorno a te è mutato, cerca la tua stella polare e orientati in base a lei. Fatti guidare dai tuoi valori, dalle tue più profonde necessità, mai da dettagli secondari che – soprattutto in momenti di difficoltà – non farebbero altro che distrarti dalla ricerca della via d’uscita.
Ma soprattutto, impara a non temere il momento di crisi. Quando sei al buio, l’universo ti sta offrendo una grande occasione: capire una volta per tutte quali sono le tue priorità. Nessun consulente, nessuno psicologo, nessun terapista e nessun sensitivo sarà mai in grado di metterti di fronte all’evidenza con la franchezza e la brutalità di un momento di crisi. Quindi impara a non temerne il confronto e smettila di fare di tutto per esorcizzarla. I periodi difficili arrivano, sempre e per tutti. Quel che conta è individuare la causa che li ha scatenati e capire come ridurre l’impatto che hanno sulla tua vita.
«Facile a dirsi!» penseranno i più sfiduciati tra voi. E infatti di facile non c’è proprio nulla, come vedremo nei prossimi capitoli di questa prima parte, nei quali constateremo l’effetto devastante che hanno le cinque emozioni limitanti su una persona ancora nel pieno della sua prima fase di crescita emotiva, quella dell’«Io non ci sono».
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thelinkslist · 7 years
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In questo pezzo di Giorgio Sebastiano su SpecchioEconomico.com ci si pone una domanda importante: se i due terzi della popolazione italiana non sanno elaborare gli input che la società mette loro a disposizione, quale futuro potranno avere in un mondo del lavoro sempre più complesso e mutevole? Dati e informazioni utili per capire un problema che forse è IL problema che si dovrebbe affrontare per primo. D’altra parte si suol dire che la democrazia non può funzionare senza un cittadino correttamente informato, ma come può esserlo con problemi che sembrano così seri di analfabetismo funzionale?
Nella società complessa dei nostri tempi l’alfabetizzazione non si misura più solo sulla capacità di base di leggere e scrivere; essere adeguatamente alfabetizzati oggi significa saper leggere capendo quello che si legge, saper scrivere facendosi capire, saper far di conto eccetera. Significa, cioè, saper interagire con la società di oggi con efficacia, in ogni situazione, riuscendo a fronteggiare le moltissime e mutevoli richieste della società. Dati statistici e oggettivi alla mano, questo sapere indispensabile per vivere pienamente da cittadini tuttora non va oltre il terzo della popolazione italiana: per la stragrande maggioranza delle persone - nella fascia compresa tra i 15 e i 65 - interagire efficacemente e produttivamente nelle diverse situazioni sociali costituisce un problema
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