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#occhi che parlano
misunderstanding-17 · 8 months
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Ne ho passate tante nell’arco della mia breve vita , eppure nonostante la mia tenera età , per un lungo periodo sono stat risucchiata in un vortice di malinconia ed oscurità. Una cosa non causata da me, ma da tutto quello che avevo attorno, non do colpe a nessuno , sono una persona che ci tiene. Questo lungo periodo però è finito. Ho ripreso a vivere davvero, anche se non ho mai perso la mia persona; ne il mio essere solare , ne il mio essere espansiva, sole e e premurosa con tutti. Beh se ve lo state chiedendo si io sono una di quelle poche persone su questa faccia della terra che pur non conoscendo chi ha davanti gli da il 200% dell’appoggio e della felicità. Ma comunque si ne sono uscita un po’ lesa non lo nego, ma ho imparato che io valgo tanto ed ora la gente deve lottare per ottenere il mio 200%
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mi specchio su una vetrina o in una pozza d'acqua
osservo il mio riflesso con aria stanca
e mi domando che senso abbia tutto questo
i miei capelli scombinati la mattina presto
quel viso congelato
con la stessa espressione di sempre
gli occhi parlano e la bocca tace e acconsente
faccio qualche foto sperando di imprimere
qualche bel ricordo
ma ogni scatto è destinato ad essere dimenticato
metto da parte il telefono e continuo ad
osservare
quella sagoma allo specchio che vorrebbe soltanto scappare
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bluehartsblog · 2 years
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Ho guardato molti occhi, ma mi sono perso solo nei tuoi.
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antanasias · 2 years
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Sono sempre gli occhi a dire le cose più belle
anonimo
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tuttavitame · 2 years
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Anche senza parlare
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blackdevil999 · 10 months
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UNA PERSONA INNAMORATA gli occhi di una persona innamorata sono occhi diversi, gli occhi di una persona innamorata sono occhi ricoperti da una trasparente e sottile pellicola, impossibile da vedere all esterno ad occhi nudi, chiamata illusione.l'illusione sta davanti alla nostra iride e ci fa vedere le cose in modo sublimante, affinché anche le cose più piccole e più innocue risultano alla nostra vista dannatamente perfette. ed è una sensazione bella ma allo stesso tempo nociva in quanto vorresti non finisse mai, quando però la pellicola comincia a farsi più sottile si inizia a vedere con uno sguardo comune la cruda e sincera verità. e inizi a rimuovere pian piano per quanto doloroso e triste possa essere quella piccola pellicola che si era formata attorno agli occhi e inconsapevolmente inttorno alla mente. E niente ha più lo stesso significato che aveva prima.
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canyoureadme · 1 year
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E aveva gli occhi che sapevano di qualcosa di mio
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Cosa c'è di più spudorato, vero e traditore dei nostri occhi? È l'unica parte del nostro corpo che cambia in base a chi abbiamo di fronte. Le mani restano uguali, le unghie, il collo, anche i capelli. Ma gli occhi... Si illuminano o si spengono. Gridano o esultano. Si disperano e a volte si perdono. Puoi trattenere i muscoli di un sorriso, ma non uno sguardo. Fermare una carezza o un bacio. O un urlo. Ma non gli occhi. Spudorati. Tanto da doverli abbassare quando dicono troppo. O volgerli altrove quando parlano oltre. Non si fanno coprire. Sono la nostra impronta digitale, il nostro respiro. Portano il nostro nome. Gli unici che se ne fregano di tutto. Gli unici che ci tradiscono e, tradendoci, ci salvano.
Perché gli occhi restano liberi.
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rosefuckinggenius · 4 months
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“E gli anni passano e non ci cambiano,
davvero trovi che sia diverso?
Guardami in faccia i miei occhi parlano
e tu dovresti ascoltarli un po' più spesso”
Fuori tutto è magnifico, sì, ma loro un po’ di più ❤️
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volumesilenzioso · 1 year
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sono particolare, si. storta come la torre di Pisa, segnata da rabbia, odio, ansia e depressione.
quell’odio ce l’ho scritto sulla pelle. il mio corpo è da sempre l’unico posto in cui riesco a scaricare rabbia e sofferenza.
ho perso il conto delle volte in cui mi sono sentita giudicata per tutte le cicatrici che porto addosso. d’altronde non mi aspetto che tutti capiscano, ma sono state le mie esperienze a farmi smettere di giudicare gli altri, perché ho capito che non posso capire tutto e tutti, ed è proprio perché non capisco che non mi permetto di giudicare.
un tempo mostrare le mie cicatrici mi spaventava, sapevo che tutti (o quasi) mi avrebbero giudicata, in primis la mia famiglia. l’estate era un inferno, dovevo scegliere tra morire di caldo o andare in giro con le braccia scoperte e le cicatrici bene in vista, odiavo il fatto di non poterle nascondere. ad oggi le mostro volontariamente, non perché ne vado fiera, non c’è niente di cui andar fiera. le mostro senza problemi semplicemente perché mi sono rotta il cazzo, non mi importa del giudizio degli altri, anzi, in fin dei conti io le trovo anche “carine”, o almeno mi piace consolarmi pensando che lo siano. mi sono rotta il cazzo di avere paura dell’intimità, di avere paura dei vestiti estivi, di avere paura di farmi vedere. ci devo convivere con queste cicatrici, fanno parte di me, quindi non me ne frega un cazzo. dopo aver scattato queste foto, riguardandole, mi sono odiata più del solito, ho pensato “le ragazze normali possono fare foto del genere e risultare attraenti, mentre io sono solo qualcosa di rotto, per niente attraente”. però poi ho pensato che non fa niente, nella vita non voglio essere attraente, anzi, non vorrei proprio essere in vita. quindi è già tanto che sto resistendo, sono ancora “viva”, per così dire, a chi importa se ho qualche cicatrice addosso? ai miei nonni brillano gli occhi quando mi vedono sorridere, loro sono felici che io sia ancora qui. i miei amici hanno visto ogni singola cicatrice e mi parlano ancora, tengono ancora a me, hanno sofferto quando ho provato a togliermi la vita, ci sono stati male entrambe le volte, loro sono felici che io sia ancora qui. il mio cane mi fa ancora le feste e vuole ancora le mie coccole quotidiane, lui è felice che io sia ancora qui. sono io a non esserne felice, ma voglio provare ad esserlo, voglio darmi ancora una possibilità. tutti gli altri non contano, tanto la gente avrà sempre tante critiche da fare e poche parole gentili.
#me
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Cosa c'è di più spudorato, vero e traditore dei nostri occhi? È l'unica parte del nostro corpo che cambia in base a chi abbiamo di fronte. Le mani restano uguali, le unghie, il collo, anche i capelli. Ma gli occhi... Si illuminano o si spengono. Gridano o esultano. Si disperano e a volte si perdono. Puoi trattenere i muscoli di un sorriso, ma non uno sguardo. Fermare una carezza o un bacio. O un urlo. Ma non gli occhi. Spudorati. Tanto da doverli abbassare quando dicono troppo. O volgerli altrove quando parlano oltre. Non si fanno coprire. Sono la nostra impronta digitale, il nostro respiro. Portano il nostro nome. Gli unici che se ne fregano di tutto. Gli unici che ci tradiscono e, tradendoci, ci salvano.
Perché gli occhi restano liberi.
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#lanimaneradiunafarfalla
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be-appy-71 · 9 months
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"A letto, nudi, dopo l’amore…I corpi distesi, un po’ sovrapposti.
La pelle calda, carica di profumi condivisi, di odori che parlano. Ridere. Sonnecchiare. Allungare la mano per toccarsi. Abbracciarsi di spalle… con il seno che sfiora la schiena: estremità aderenti che raccontano intimità. Guardarti mentre riposi e sorridere. “Vuoi un bicchiere d’acqua?”, “Hai caldo?”… prendersi cura… in piccoli gesti.
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Chiudere gli occhi. Brevi secondi di assenza.
“Hai dormito?”. Qualche battuta. Ancora silenzio.
Tanta pace nell’aria intrisa di desiderio appagato.
La nuca. Le spalle. Lo sguardo che cade su frammenti di corpo in un gioco sottile di infinito conoscersi. Stare bene. Sentirsi bene. Poi la mano sul fianco e, in un piccolo gesto, un brivido di ricominciare. Qualche bacio per cercare consenso. E si riaccendono i sensi. In quel gioco dell’amore che sarebbe sempre uguale se non fossimo Io più Te a renderlo speciale.
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Nuovamente pace.
Ti guardo e sussurro:
“Mi fa un gran bene il tuo corpo sul mio”.
Sorridi. A occhi chiusi.
Null’altro.
Tutto." 😘🌹
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- Letizia Cherubino -
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frammenti--di--cuore · 2 months
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ma io le sento le tue parole che parlano di qualcosa di cui i tuoi occhi confermano l'opposto; io la vedo la tua voce che si ferma un attimo per pensare alle parole giuste da dire, ma poi lì accanto c'è il tuo cuore che silenziosamente urla quello che la tua testa sa, ma che non vuole ammettere[...]
z, confusa e triste
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libero-de-mente · 6 months
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Vorrei tornare a crederci.
Vorrei poter riassaporare la magia del Natale.
Come quando ero piccino e credevo a Babbo Natale, alla bontà dell'uomo e al candore della neve.
Come quando erano piccini i miei figli e mi fecero diventare Babbo Natale, credere nella loro bontà e al silenzio ovattato della neve.
Come quando stanco di sentire della crudeltà dell'uomo verso chiunque, senti la voglia di tornare a credere nella magia di una notte. Che per molti è speciale davvero.
Perché sei un bambino affamato e riceverai una razione più generosa di cibo.
Perché sei un ragazzino, che rivedrà seduti allo stesso tavolo mamma e papà che non si parlano più.
Perché sei povero e all'addiaccio e per una notte sentirai il calore umano scaldarti il cuore.
Perché sei in difficoltà economica e la tredicesima ti aiuterà a pagare qualcosina in più.
Vorrei trovare conforto, vorrei dare conforto.
La magia è lo scambiarsi buone azioni e non solo darle o riceverle.
Una carezza a un cuore freddo, un abbraccio a un'anima persa e protezione a chi sente paura. I doni migliori.
Vorrei esprime un desiderio, grande.
Che gli occhi di chi ha paura non debbano mai vederlo il terrore.
Che nessuno debba più sentire i timpani saltare per un'esplosione fragorosa, oppure il corpo trafitto dalle lame o, ancora, mani che si stringono troppo forte attorno al collo.
Ho bisogno di credere in questo Natale, anche se non sono più un bambino e padre di ragazzi ora consapevoli.
Perché sono un uomo diverso, che sa riconoscere il valore di coloro che sono ritenuti inferiori o ultimi per retaggi di un passato buio.
Aspetto questo Natale, cercando di tramutarlo in forza interiore e non respingerlo come negli anni passati.
E mentre lo aspetto, il ritornello di una canzone di qualche anno fa riecheggia come in un loop nel mio cervello: "immensamente Giulia..."
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viendiletto · 3 months
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Nel ricordo di Marinella… Una scelta di volontariato
“Mi aggiravo tra la folla, attratta da quella moltitudine vociante, dalle bandiere e dai labari delle nostre città istriane, fiumane e dalmate. Era il 1997, si ricordavano nella piazza principale di Trieste i 50 anni dall’esodo, anche i miei cinquant’anni essendo nata nel 1947. Ma il mio pensiero era fisso su mio padre. Vedi – gli dicevo col cuore gonfio – finalmente parlano di noi. Ma lui era mancato qualche tempo prima senza smettere di sentirsi fuori dal coro, un alieno…” 
Fu così che, durante quell’esperienza pubblica, Fioretta Filippaz, nata a Cuberton, esule a Trieste dal 1956, si rese conto di sapere ben poco della propria storia e del destino di tanta gente che come lei era stata costretta all’esodo dall’Istria.
Decise così di fare la volontaria?
“Quel ’97 fu per me uno spartiacque importante, i miei genitori non c’erano più ma le domande che avrei voluto rivolgere a loro, erano veramente tante. Allora presi informazioni e mi ritrovai all’IRCI che allora aveva sede in P.zza Ponterosso, nell’ufficio di Arturo Vigini, con lui c’era anche la figlia Chiara. Mi presentai e dissi che avrei voluto rendermi utile, partecipare dopo tanto silenzio. Non cercavo un lavoro di concetto, mi bastava anche semplicemente imbustare e affrancare gli inviti per le numerose iniziative dell’ente o per spedire la rivista Tempi&Cultura. Così ho cominciato”.
Una “volontaria”, oggi una del gruppo che segue l’attività dell’IRCI in via Torino, accoglie i visitatori delle mostre che si succedono numerose durante l’anno a cura di Piero Delbello e con il supporto del presidente Franco Degrassi, raccontando un esodo per immagini, attraverso i suoi personaggi, a volte famosi, a volte sconosciuti…
“Viene sempre tanta gente, chiede informazioni, racconta la propria storia, queste sale diventano un contenitore di tante vicende mai emerse, di tante storie familiari mai portate alla luce. Molti arrivano con fotografie, locandine, documenti per il museo. Per noi volontari è una responsabilità, ma anche un profondo desiderio di condivisione. Vede, questo documento alle mie spalle nell’ambito della mostra ‘Come ravamo’ è quello della mia famiglia, è lo storico dell’anagrafe dal quale hanno cancellato Marinella…”.
Chi è Marinella? È una delle storie emblematiche dell’esodo, quella di una bambina che non ce l’ha fatta, in quell’inverno polare del ’56. Aveva appena un anno e una polmonite se la portò via, “morta di freddo” sentenziarono i medici dell’ospedale che non furono in grado di salvarla.
“Ero già grandicella e Marinella me la portavo in braccio, le davo il biberon, la cambiavo, me ne occupavo per alleviare il lavoro di mia madre che doveva pensare a tutta la famiglia, al marito e ai cinque figli. I suoi occhi erano per me, con i sorrisi e i primi borbottii, una gioia infinita: non sono mai riuscita a dimenticarla, a farmene una ragione”.
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Per quanti anni siete vissuti in quella baracca?
“I miei genitori dodici anni, finché io e mio fratello non siamo riusciti a terminare le scuole nel collegio dove eravamo stati trasferiti per poter avere un’istruzione e migliori condizioni di vita”.
Vita?
“Quando la famiglia vive separata tutto è molto duro. Mio padre a Cuberton era un bravo contadino, da esule poté fare il manovale, la qualifica di profugo non era servita a nulla. Aveva sperato di entrare in fabbrica, ma nessuno ci aiutò. Ricordo che spesso diceva con convinzione, non sembrava neanche un lamento ma una semplice constatazione: ‘noi ne vol, proprio noi ne vol’ e così continuò per anni sentendosi fuori luogo, forse sconfitto. Quando ebbi diciannove anni, ci diedero una casa comunale, una sessantina di metri per la nostra famiglia numerosa, ma era comunque un miglioramento. Andai a lavorare alla Modiano”.
In che veste?
“Alle macchine per la stampa, ci ho lavorato fino alla pensione. All’inizio vista con sospetto, la nostra presenza di esuli a Trieste veniva ancora considerata un peso, ma noi istriani siamo lavoratori, disciplinati, vivaci, con il tempo mi sono conquistata le simpatie delle persone che hanno saputo apprezzare il mio impegno”.
E la famiglia?
“Mi sono sposata a 25 anni, per qualcuno era quasi tardi, per me anche troppo presto, vista la tragedia che avevamo vissuto in famiglia, non mi sentivo pronta”.
Non era solo per Marinella?
“Soprattutto per lei il cui sguardo non ho mai smesso di cercare, ma anche per tutto ciò che avevo visto al campo di Padriciano: la gente si lasciava morire, di disperazione, per mancanza di qualsiasi prospettiva, in quelle baracche dove non si poteva accendere un fuoco per scaldarsi. La mia casa era rimasta a Cuberton. Ci sono tornata per andare al cimitero. L’ho vista da lontano, diroccata, non ho avuto il coraggio di avvicinarmi”.
Nessuna assistenza psicologica in tutti questi anni?
“Nessuna. E ce ne sarebbe stato bisogno”.
Che cosa ha rappresentato il Giorno del ricordo?
“La possibilità di parlare, andando nelle scuole, fornendo testimonianza sui giornali, le televisioni. Gli italiani hanno iniziato a conoscere squarci della nostra vicenda. Ogni anno mi invitano a Cremona, in Umbria, nel Veneto, con le docenti è scattata un’amicizia importante. Dopo che Simone Cristicchi ha raccontato di Marinella nel suo spettacolo Magazzino 18, l’interesse è diventato maggiore, mi chiedono di raccontare. Lo faccio per i miei genitori, per restituire dignità a tanta gente, per rivivere il ricordo di Marinella, doloroso, ma necessario. I ragazzi delle scuole mi hanno omaggiato dei loro lavori di gruppo che custodisco gelosamente. È incredibile con quanta pietas abbiano saputo raccontare le nostre vicende, anche quelle più difficili. Mi fanno tante domande”.
E Padriciano?
“Ho accolto le scolaresche per tanti anni insieme a Romano Manzutto, finché l’associazionismo ha deciso di formare dei giovani perché raccontassero la nostra storia”.
In maniera più asettica?
“Certo hanno avuto modo di studiare, approfondire, possono rispondere a tante domande, non certo a quelle sull’esperienza diretta che rimane di chi l’ha vissuta veramente, ormai non siamo tantissimi, il tempo decide per noi”.
Dal campo di Padriciano molti partirono per gli altri continenti…
“Avevamo considerato anche questa ipotesi, ma cinque figli piccoli a carico erano una condizione che non favoriva il giudizio dell’emigrazione. Mio padre era una persona di grande cuore, certo avrebbe fatto fortuna, ma era convinto che nessuno avesse compreso che non eravamo venuti via se non perché fosse impossibile rimanere. Questa sensazione non lo abbandonava mai e forse gli toglieva la forza di tentare altre strade. Non ne abbiamo mai parlato successivamente. Ma mi accorsi del suo dolore quando giunti al cimitero di Cuberton, al momento di decidere di andare a mangiare qualcosa insieme, mi pregò di riportarlo velocemente oltre confine. La paura non li aveva ancora abbandonati e non l’avrebbe mai fatto fino alla fine”.
Di cosa avevano paura?
“Di restare e di tornare. In Istria tutto era cambiato e quindi non ritrovavano più la loro dimensione, c’era stata la dittatura che aveva spaventato tutti. In Italia avevano dovuto imparare a vivere il quotidiano, in Istria pagavano le tasse e basta, non erano abituati ad andare per uffici, fare domande, ottenere il riconoscimento dei propri diritti. Quando Marinella morì nessuno venne a manifestare la propria solidarietà, non fecero che cancellare il suo nome dal nostro stato di famiglia”.
Quale spiegazione riesce a darsi oggi?
“Lo dico spesso e l’ho anche scritto: fummo accolti con fastidio e indifferenza, eravamo un corpo estraneo che tentava di inserirsi in un tessuto sociale che non voleva intrusioni”. Dire che la storia si ripete è anche troppo ovvio.
Intervista di Rosanna Turcinovich Giuricin a Fioretta Filippaz per La Voce del Popolo, 5 gennaio 2020
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ma-pi-ma · 4 months
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Immagina che io ti scorga, per caso, dopo questa lunga assenza
ad un angolo di strada
o in un caffè
Immagina come io corra verso di te senza prestare attenzione ai negozianti
o ai passanti che proseguono il loro cammino
Immagina come io chiami e gridi il tuo nome in mezzo alla folla
Immagina come prenda la tua mano e la stringa
perché tu non mi abbandoni una seconda volta
Immagina come io posi il mio sguardo sui tuoi occhi e sui tuoi capelli
come annusi, inumidisca, senta, cerchi il tuo essere,
come ti abbracci a lungo
come io vada gridando in mezzo alla piazza del mercato
davanti a tutti
gli stranieri e i mercanti di tappeti
dicendoti: ti amo
Immagina, che camminiamo ancora insieme, le tue mani intrecciate
alle mie
Immagina come andremo verso un ristornate
sotto i portici della vecchia Medina
Immagina come ti toglierò il cappotto nero, ti libererò della sciarpa rossa
Come asciugherò le gocce di pioggia dai tuoi capelli
che si allargano liberi
Come ammirerò il tuo vestito e la tua eleganza, mia Signora
Apprezzerai le mie cure
Immagina che andremo, come nostra abitudine, a passeggiare nella notte,
senza meta, lungo le vie
finché mi dirai che non ci lasceremo più
e che la tua recente eclissi è stata solo un’assenza temporanea e fortuita
Immagina
che ci siamo persi nel dedalo della città
mentre mi leggevi poesie di Neruda che parlano d’amore
la città ne ripete l’eco, le mura e le grandi porte
Immagina di continuare il nostro cammino fino al termine della notte.
Parleremo delle nostre affascinanti scappatelle commesse in passato
E il nostro ardente desiderio di impegnarci ancora di più in futuro
Immagina di calpestare la terra con i piedi, di aprire le ali
nel cielo verde senza che gli altri se ne accorgano
E quando la notte finisce e le strade deserte si svuotano
Torneremo a casa nostra.
Mohamed Ghozzi
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