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#50%ebrea
campanauz · 3 months
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La frustrazione di avere un nodo in gola da mesi e non trovare le parole corrette per esprimersi.
Questo è uno di quei momenti in cui invidio gli intellettuali veri, quelli che scrivono per mestiere, quelli che fanno della comunicazione corretta un mestiere-mi viene sempre in mente la Murgia che si spiegava con milioni di termini e non ne sbagliava uno, che nella sua abbondanza era asciutta e perfetta, sapevi esattamente cosa intendeva dire- mentre invece io sono qui con un nodo in gola da mesi, dicevo, perché non sono abbastanza: non abbastanza ebrea da essere chiamata in causa, non abbastanza neutrale per poter sparare sentenze sui social, non abbastanza orfana per dare un dispiacere a mia nonna e dire apertamente cosa penso.
Non oso nemmeno dire di essere angosciata, guardo mia figlia e penso: se la perdessi per colpa di una guerra probabilmente mi farei esplodere, distruggerei tutto, e poi prego e mi sento in colpa perché mia figlia è al sicuro e il mondo è pieno di merda e io sono una sola e in mezzo a dichiarazioni orrende e nessuno con cui possa parlarne.
L'unica cosa che mi ha fatto sentire almeno un pochino meno stronza è questa lettera. (riportata dall'avvenire) dove per la prima volta qualcuno che appartiene al mio stesso gruppo genetico dice qualcosa in cui mi riconosco.
Poi dicono che le parole non sono importanti.
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lamilanomagazine · 8 months
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La Spezia presenta in anteprima nazionale il film “L’ultima volta che siamo stati bambini” di Claudio Bisio.
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La Spezia presenta in anteprima nazionale il film “L’ultima volta che siamo stati bambini” di Claudio Bisio. Aspettando il via della XIII edizione di "Libriamoci. Leggere ovunque leggere comunque", la sala cinema ex Odeon della Mediateca Regionale Ligure S. Fregoso ospiterà in anteprima nazionale il 12 ottobre il film “L’ultima volta che siamo stati bambini” di Claudio Bisio, tratto dall’omonimo romanzo di Fabio Bartolomei. Dall’apertura della sala Odeon in Mediateca nel marzo 2022, Libriamoci ha sempre dedicato uno spazio serale anche all’importanza del legame fra letteratura e cinema: lo farà anche quest’anno nei giorni della manifestazione e ad una settimana dall’inaugurazione con un film in anteprima nazionale che segna l’esordio da regista di Claudio Bisio alle prese con la tragedia della Shoah e della Seconda Guerra Mondiale guardate dal punto di vista leggero dei bambini. La Mediateca aderisce alle promozioni in occasione della Festa del Cinema e offre ai primi 50 spettatori dello spettacolo pomeridiano delle ore 17 e ai primi 50 dello spettacolo serale delle ore 21, il costo del biglietto al prezzo scontato di 3.50 euro. La ripresa della stagione cinematografica 2023/2024 della sala ex Odeon alla Mediateca è prevista per giovedì 26 ottobre con una grande inaugurazione e prima nazionale. Sinossi del film "L’ultima volta che siamo stati bambini". Siamo nell’estate del 1943, quattro bambini, che nonostante i tempi duri che stanno vivendo, mantengono la loro voglia di scoprire il mondo giocando per strada. Sono molto diversi tra di loro, ma ancora non lo sanno. Italo è figlio di un ricco Federale, Cosimo ha il papà che combatte al confino, Vanda è un’orfana e Riccardo è figlio di un’agiata famiglia ebrea. I loro giochi, che simulano la guerra in maniera del tutto innocente, li porta a fare un “patto di sputo” che li rende inseparabili. Nell’autunno dello stesso anno, Riccardo viene portato in un campo di concentramento insieme ad altri mille ebrei del Ghetto. I suoi amici decidono di onorare il patto andando in missione per convincere i tedeschi a liberarlo. Ad accompagnarli ci sono due adulti, Agnese, suora dell’orfanotrofio in cui vive Vanda, e Vittorio, fratello di Italo. Inizia così un viaggio attraverso l’Italia dilaniata dalla guerra, una storia di spensieratezza e di desiderio di libertà vista dagli occhi dei ragazzini che, guidati dall'incoscienza dell'infanzia, non si arrendono neanche di fronte a una delle pagine più oscure della storia mondiale. Orari del film L’ultima volta che siamo stati bambini Giovedì 12 Ottobre ORE 17.00-20.30 Venerdì 13 Ottobre ORE 21.00 Sabato 14 Ottobre ORE 17.00-19.00-21.00 Domenica 15 Ottobre ORE 15.15-17.15-19.15 Lunedi 16 Ottobre RIPOSO Martedi 17 Ottobre RIPOSO Mercoledi 18 Ottobre ORE 15.15-17.15-21.00 Info e prenotazioni MEDIATECA REGIONALE LIGURE “S. FREGOSO”, Tel. 0187.745630, [email protected], www.facebook.com/mediateca.laspezia, Ig @mediateca.laspezia Via Firenze, 37 - La Spezia... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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fotopadova · 2 years
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Alla ricerca della luce: presentazione della la nuova biografia di David Seymour
da https://www.magnumphotos.com (trad. G.Millozzi)
--- La sua vita è stata segnata da una guerra quasi costante. Ed è stata la guerra a prenderlo, appena nove anni dopo aver co-fondato Magnum Photos. Peter Hamilton presenta in anteprima la nuova esauriente biografia di David "Chim" Seymour di Carole Naggar.
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Una tomba tedesca nella foresta di Huertgen, Germania, 1947 © David Seymour/Magnum Photos.
La straordinaria nuova biografia di Carole Naggar della figura forse più enigmatica tra i padri fondatori di Magnum - nato Dawid Szymin, ma conosciuto per gran parte della sua breve ma straordinaria vita più semplicemente come "Chim" - ti fa pensare: "Mi sarebbe piaciuto incontrare quell’uomo."
Parlando con la storica della fotografia e autrice prima della uscita di Alla ricerca della luce. 1911-1956 , pubblicato oggi da De Gruyter , siamo stati d’accordo sui modi in cui la vita di Chim rappresenta un simbolo della guida etica del fotografo impegnato, e ciò che Magnum, come collettivo, rappresenta.
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David 'Chim' Seymour, Grecia, 1948. Immagine © Magnum Photos.
I fotografi possono spesso essere chiamati - o più propriamente sentire il bisogno - di essere multiformi, scambiando la propria individualità personale con l'anonimato della persona dietro la macchina fotografica, piuttosto che il soggetto del loro obiettivo. E questo è soprattutto il caso in cui il loro oggetto è prevalentemente in situazioni di conflitto umano e le loro conseguenze per coloro che sono coinvolti nel vortice, e che ha segnato quasi l'intera vita di Chim.
Nato in Polonia nel 1911, crebbe anche conoscendo nel periodo della sua giovinezza molto sull'antisemitismo e sulla sua rapida crescita. La sua famiglia ebrea possedeva un'importante casa editrice a Varsavia che produceva libri in yiddish ed ebraico, quindi, sebbene il suo background fosse di tipo borghese, era ambientato in un contesto di crescente antisemitismo negli anni '20 e '30, anche se tale insicurezza fosse stata evidente anche prima.
Questo forse spiega perché la sua vita sia stata segnata anche da tanti viaggi linguistici, dallo yiddish, polacco ed ebraico della sua famiglia, all'acquisizione del russo, tedesco, francese e inglese – anche se quest'ultimo fu acquisito solo quando, nel 1939 finì a New York - e precedeva la sua definitiva acquisizione dell'italiano negli anni '50, quando stava lavorando alla sua grande documentazione sull'analfabetismo infantile del dopoguerra nell'Italia meridionale per la neonata UNESCO.
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Un bambino a Saucci, Italia, 1950 © David Seymour/Magnum Photos.
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I bambini delle scuole spingono lo scooter del maestro Antonio Jannì prima di dirigersi verso Bagaladi. Non c'è posto per Jannì a Saucci e vive a Bagaladi, a 16 km di distanza. La strada è estremamente pericolosa in inverno. Io e Jannì portiamo sempre un pesante carico di cibo per i bambini delle scuole perché non c'è nessun altro a trasportare le provviste fornite dal governo italiano e dall'UNICEF per le mense scolastiche. Italia, 1950 © David Seymour/Magnum Photos.
La ricerca profonda ed esauriente di Carole Naggar sulla vita di Chim copre ogni possibile punto e tocca anche questioni contemporanee, con così tanti parallelismi che possono essere tracciati con l'attuale conflitto in Ucraina come un'eco degli anni '30. 
Carole Naggar (i cui libri precedenti includono Magnum Photobook: The Catalogue, Saul Leiter: In My Room e Bruno Barbey: Passages), mi racconta del suo accesso agli archivi Magnum e ai provini di contatto di Chim che ripercorrono i suoi viaggi fotografici dal 1934 al 1956, e ai frammenti superstiti della sua corrispondenza. Le dico che ci si sente, mentre si legge il libro, come immersi nel mondo di Chim, così chiaro e vivido è il suo resoconto di quella che è stata, in ogni caso, una vita straordinaria, anche se conclusa da una morte crudele e inutile in uno stupido e casuale incidente di guerra.
Crede che il background familiare di Chim nell'editoria potrebbe essere stato decisivo nella sua carriera di fotoreporter. "Se sei nato in quel mondo, hai una prospettiva molto più sofisticata su come utilizzare le fotografie", dice. "Una cosa che ho scoperto è che mentre era ancora uno studente era stato stagista per un giornale di Lipsia, ed è lì che ha avuto la sua prima conoscenza della stampa".
Forse conosceva Gerda Taro a quel tempo, poiché entrambi erano studenti nella stessa città e probabilmente avevano amici in comune, con una visione politica simile, ed entrambi erano ebrei. Un'affascinante visione della loro successiva relazione è arrivata quando è stata scoperta la famosa "valigia messicana", contenente negativi da tempo perduti degli anni '30 da Chim, Taro e dal suo compagno, Robert Capa.
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Giovani minatori, Francia settentrionale, 1935 © David Seymour/Magnum Photos.
Naggar ritiene che la biografia di Chim abbia aumentato il suo profilo, in particolare tra i giovani fotografi, in parte perché "il suo lavoro enfatizza il fatto che i fotografi possono vedere cose che solo i fotografi possono vedere". Come negli anni Trenta, il potere della singola immagine, specialmente sullo sfondo dei resoconti della stampa, può essere molto potente nel porre l'attenzione sulla ferocia del potere dittatoriale, come mostrato in Spagna negli anni Trenta e oggi per quanto avviene in Ucraina. Laddove il mondo di Chim aveva i cinegiornali, noi abbiamo oggi una copertura televisiva 24 ore su 24, 7 giorni su 7, ma resta il fatto che una singola immagine è potenzialmente molto più forte di una pletora di videoclip.
Chim, ovviamente, stava lavorando in un mondo diverso e, come sottolinea Carole Naggar, raggiunse la maturità come fotoreporter negli anni '30, quando la rivista francese Regards lo assunse come collaboratore a tempo pieno. La sua filosofia era che "sebbene la fotografia possa essere veritiera, non è neutrale". Chim ha fatto sue le convinzioni dei suoi colleghi che avevano intenzione di usare la fotografia per rimediare alla disuguaglianza sociale e, in definitiva, per "cambiare il mondo mentre lo registravano".
In effetti, questo credo è stato alla base del resto della sua vita lavorativa come fotoreporter, che è durata fino al suo incarico finale nel conflitto di Suez del 1956.
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Battaglia del fiume Ebro (25 luglio-3 agosto 1938), Spagna © David Seymour/Magnum Photos.
L'esaustiva ricerca di Naggar mette in luce tutti gli incontri e le esperienze che sono state le tappe della sua vita e della sua carriera; i punti di connessione con altri fotografi e i tanti e diversi incarichi che la sua professione gli ha portato.
Willy Ronis lo incontrò per la prima volta a metà degli anni '30, poco dopo che Chim arrivò a Parigi dalla Polonia. Diventarono amici e per un po' Chim poté utilizzare la camera oscura dello studio fotografico del padre di Ronis nel distretto di Belleville. A volte hanno seguito lo stesso evento e in un'occasione i due fotografi hanno realizzato fotografie quasi identiche di una manifestazione comunista del gruppo Mars, un coro di quattro uomini al Mur des Federés nel cimitero di Père Lachaise (1937). La foto di Chim è arrivata sulla rivista Life, ma per un po' Ronis ha sospettato che fosse la sua versione dello stesso evento (erroneamente, come si è poi scoperto).
Ha anche incontrato mentre era a Parigi Capa e Cartier-Bresson, con il quale sarebbe stato in seguito co-fondatore di Magnum, insieme a George Rodger.
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Una grande folla rende omaggio allo scrittore francese Henri BARBUSSE al suo funerale. L'omaggio è rivolto all'uomo che fu subito reduce di guerra dalla guerra del 14-18, autore di 'Under Fire' (Le Feu) e un intellettuale antifascista © David Seymour/Magnum Photos.
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Tereska, una bambina in una residenza per bambini disturbati. Ha disegnato un'immagine di "casa" sulla lavagna. Polonia, 1948 © David Seymour/Magnum Photos.
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Angela vende sigarette che riceve dal mercato nero, alle persone nei caffè. La maggior parte delle sigarette americane sono preparate abilmente a Napoli da vecchie cicche, a partire da 250 lire per confezione; il prezzo ufficiale è di 350 lire. La maggior parte delle sue vendite sono sigarette singole a circa 15 lire. Il governo persegue i venditori di sigarette del mercato nero di Roma, perché hanno tagliato il prezzo legale del monopolio italiano del tabacco, ma a Napoli i venditori vanno in giro apertamente. Napoli, 1948 © David Seymour/Magnum Photos.
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Una famiglia cammina attraverso la città in rovina, Duren, Germania, 1947 © David Seymour/Magnum Photos. 
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Un uomo che cammina con i suoi figli vicino alla Porta di Brandeburgo, Berlino, 1947 © David Seymour/Magnum Photos.
"Il suo lavoro sottolinea il fatto che i fotografi possono vedere cose che solo i fotografi possono vedere".
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I ragazzi giocano in edifici bombardati nel quartiere operaio di Favoriten, Vienna, 1948 © David Seymour/Magnum Photos.
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 Famiglia di senzatetto nella loro cantina, Essen, 1947 © David Seymour/Magnum Photois.
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Gli scolari tornano a casa a piedi attraverso le rovine del ghetto di Varsavia. La chiesa sullo sfondo era l'unico edificio non distrutto, Varsavia, 1948 © David Seymour/Magnum Photos.
Il lavoro di Chim nel dopoguerra fu segnato da un incarico molto importante nel 1948 per la nascente organizzazione UNICEF, Children of Europe. Il suo lavoro in tempo di guerra aveva anche trovato posto per i bambini, spesso come contrappunto alle scene di morte e distruzione che così spesso figurano nelle sue immagini.
Il suo approccio alla fotografia di guerra sembrava leggermente diverso da quello di Capa e Taro, essendo "premuroso e analitico" e spesso concentrandosi sulla "vita dietro le quinte" dell'azione militare, fermando maggiormente l'attenzione sui civili. L'attento riferimento di Carole Naggar all'analisi dei suoi taccuini, stampe d'epoca e pubblicazioni (come ritrovato nella perduta "Valigia messicana") lo rivela ancora più diverso di quanto si pensasse all'inizio, essendo "più riservato, più critico, più esigente nei confronti del proprio lavoro."
Carole Naggar utilizza l'attento recupero dei negativi di Chim sulla guerra civile spagnola da tale fonte per dimostrare che il suo approccio era, nonostante le pressioni dei reportage di guerra, più attento e ponderato e composto in modo molto preciso, come se si prendesse più tempo per valutare nella sua testa le immagini che voleva fare prima di premere il pulsante di scatto.
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Madre che allatta un bambino mentre ascolta un discorso politico vicino a Badajoz, Estremadura, Spagna © David Seymour/Magnum Photos. (Dalla valigia messicana)
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Parata, Bibao, febbraio 1937 © David Seymour/Magnum Photos. (Dalla valigia messicana) 
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 Messa all'aperto per i soldati baschi, Amorebieta, Spagna, 1937 © David Seymour/Magnum Photos. (Dalla valigia messicana)    
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I bambini si rifugiano in rifugi sotterranei per sfuggire ai bombardamenti. Minorca è l'unica isola rimasta fedele alla Repubblica. Situato direttamente di fronte alla costa catalana e vicino al Franqu. Nell'isola di Maiorca, il suo capoluogo si trovò sulla strada dell'esercito fascista italiano, 1938 © David Seymour/Magnum Photos.
Nonostante fosse un fotografo di guerra ben pubblicato e abile, lo scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939 avrebbe riservato a Chim un'altra sorpresa: non fece ritorno in Europa fino all'ultima guerra, nel 1944 quando divenne un interprete fotografico per l'esercito americano (e come cittadino americano ora noto come "David Seymour"). Tuttavia, sebbene avesse con sé le sue macchine fotografiche, le sue fotografie di questo periodo sono principalmente di soggetti personali, senza un incarico specifico.
La fine della guerra fu un periodo inquietante, ma Chim, tornato a New York, avrebbe presto iniziato a ricevere nuovi incarichi. Tra gli altri uno da parte della rivista This Week per documentare i progressi dell'esercito americano in Europa alla fine della guerra e, cosa insolita per lui, doveva essere principalmente a colori. A questo punto, una nuova agenzia - Magnum Photos - era stata fondata, precisamente con Capa, Cartier-Bresson, George Rodger e Chim come direttori dei fotografi, i quali avevano tutti circa 40 anni. Come ha osservato Inge Bondi, che vi ha iniziato a lavorare lì nel 1950, "Chim e Capa avevano entrambi l'idea di aver bisogno di una comunità di persone che la pensano allo stesso modo per prosperare".
Il resto, come si suol dire, è storia. Chim ha svolto la sua parte nell'organizzazione del nuovo collettivo. Poi, nel 1956, il leader dell'Egitto, il colonnello Nasser, prese improvvisamente il controllo del Canale di Suez e lo nazionalizzò. Tre mesi dopo, le truppe israeliane lo hanno invaso. Chim voleva documentarlo, anche se non si trovava in una zona di guerra dalla fine della seconda guerra mondiale. Voleva essere coinvolto nella fotografia del conflitto, poiché sentiva che Magnum "non può stare fuori dagli eventi mondiali" e, essendo in Grecia, pensava di essere abbastanza vicino da poterlo raggiungere abbastanza facilmente.
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Un ragazzo sulla linea Siegfried, fortificazioni tedesche costruite sul confine belga-tedesco, 1947 © David Seymour/Magnum Photos.
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Cupola di San Pietro, Italia, 1949 © David Seymour/Magnum Photos.
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Seminaristi neri che giocano a pallavolo, Città del Vaticano, 1949 © David Seymour/Magnum Photos.
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Primo figlio (Miriam Trito) nato nell'insediamento di Alma, Israele, 1951 © David Seymour/Magnum Photos.
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 Una donna tra le rovine di Port Said dopo la sua distruzione da parte dei bombardamenti israeliani, Egitto, 29 ottobre 1956 © David Seymour/Magnum Photos.   
L'invasione israeliana è stata rapidamente seguita dal coinvolgimento di Gran Bretagna e Francia. A ciò è stato infine posto fine con l'arrivo di una forza di mantenimento della pace delle Nazioni Unite e il ritiro delle forze britanniche e francesi. Venerdì 10 novembre 1956 Chim e il collega Jean Roy, giornalista di Paris Match, avevano sentito parlare di uno scambio di prigionieri ad Al Quantara, l'ultimo avanposto prima delle linee egiziane. Sebbene avvertiti da un ufficiale britannico di stare attenti, Chim e Roy guidarono verso il posto nonostante gli ulteriori avvertimenti da partedi un avamposto delle truppe francesi sul nervosismo dei soldati egiziani. 
In effetti così era e gli egiziani aprirono il fuoco. La jeep ha zigzagato ed è caduta nel canale. Solo tre giorni dopo il cessate il fuoco, entrambi furono trovati morti, i loro corpi crivellati di proiettili. A Chim mancavano solo 10 giorni dal suo 45esimo compleanno. Dopo una breve cerimonia in Egitto, il suo corpo è stato riportato in aereo negli Stati Uniti ed è stato sepolto a New York. 
Come scrive Carole Naggar, sebbene fosse "una figura accademica e da gufo che sembrerebbe l'antitesi dell'eroico fotografo di guerra, Chim fu ucciso nella guerra di Suez del 1956, durante un presunto cessate il fuoco, quando la sua jeep si allontanò dalle linee egiziane".
Sessantasei anni dopo, il suo spirito e il collettivo di fotografi che ha co-fondato, sopravvivono ancora come agenzia Magnum Photos di fama mondiale.
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Altri articoli su David Seimour nel sito dell’Agenzia Magnum:
David Seymour
Una vita degna d’esser vissuta
Non si son fermati a Eboli
Il reportage di David Seymour sulla guerra civile di Spagna
Bambini d’Europa
All’interno del vaticano durante il regno di Papa Pio XII
L’ascesa del Fronte Popolare
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k-erelle · 3 years
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PER NON DIMENTICARE
Moni Ovadia
attore, scrittore , musicista di origine ebraica.
Non c'è nessuno scontro, perché non c'è paragone tra la forza dell'esercito israeliano e quella della resistenza palestinese. Parliamo di un'aggressione vera e propria e di una superiorità soverchiante da parte di Tel Aviv. Da anni Israele occupa illegalmente le terre dei palestinesi e sottopone a continue e quotidiane umiliazioni quel popolo nell'indifferenza della comunità internazionale. Quello di Israele è un governo razzista e segregazionista; se non fosse per le elezioni direi anche fascista. Vogliono cacciare i palestinesi dalle loro case, cancellare la loro identità culturale, e lo stanno facendo forti della compiacenza di gran parte delle potenze mondiali, compresi paesi arabi come Egitto, Giordania e Arabia Saudita. Quello palestinese è il popolo più solo e indifeso del mondo.
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I governi di USA e UE, salvo rare eccezioni, sono composti da ipocriti perché accettano il ricatto degli israeliani sulla Shoah. Io sono ebreo, so cosa è stata la Shoah, e per questo mi domando come si possa legittimare la politica cattiva e sadica del primo ministro Benjamin Netanyahu nei confronti dei palestinesi. Israele continua a giocare il ruolo del povero, piccolo paese indifeso, ha invece uno degli eserciti più potenti del mondo e l'appoggio incondizionato di USA  e UE, mentre la Cina se ne lava le mani. Uno dei suoi pochi nemici storici, la Siria, sarà fuori gioco per 50 anni. Dell'Iran non parliamo: ogni volta che alza la voce, Israele la fa pagare ai palestinesi.
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La legge sullo stato nazione prevede che in Israele siano titolari di pieni diritti solo i cittadini ebrei, ovvero i figli di madre ebrea. I palestinesi, invece, no. Eppure sono almeno 1,8 milioni. Quella del governo israeliano nei confronti dei palestinesi è, come rilevato di recente anche da Human Right Watch, una politica di apartheid sotto alcuni punti di vista non troppo diversa da quella praticata in Sudafrica.
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La pace si può fare solo tra eguali: finché gli israeliani non si ritireranno dalle terre occupate, finché cioè non verrà ristabilita la legalità internazionale, non si potrà iniziare nessun vero negoziato di pace.
( nelle foto uccisione di Mohamed Al Durrah, palestinese, 12 anni , da parte di soldati israeliani nel 2000)
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jaysreviews · 2 years
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Midge Maisel è entrata nella nostra vita in modo particolare. Ne sentivo parlare benissimo da tanti, quasi tutti, avevo sentito che era la nuova serie di Amy Sherman-Palladino (Gilmore Girls anyone?). Ti trovi senza serie da guardare, proponi di inizare questa. La storia di una donna ebrea di New York negli anni '50 con una vita fantastica che... NO! Mentre io ero curioso di vedere dove andava, la mia bella non era rimasta colpita.
Passa del tempo, si decide di dare una nuova chance a Midge Maisel, la donna ebrea di New York negli anni '50 con una vita fantastica che si ritrova, dopo una brutta sorpresa, a reinventarsi come stand-up comedian. Una donna comica tra anni '50 e '60? Ci sarà da divertirsi! Ed infatti, questa volta è amore tra lei e la mia dolce metà!
Marvelous Mrs. Maisel segue lo stile Sherman-Palladino di personaggi femminili fantastici, parlantina veloce, battute geniali con la scusante del mondo della stand-up comedy quindi è difficile non amarla! Il cast fa il suo lavoro in maniera non egregia, DI PIU'!!! Ogni scambio di battute è piacevole oltre ogni immaginazione (ogni minuto con Midge e Susy è oro, oro puro!). Non fraintendetemi, c'è molto di più, ci sono personaggi magnifici a cui affezionarsi, di cui seguiamo l'evoluzione, la maturazione, toccando anche temi come essere donne negli anni '50 negli USA, tra la casalinga perfetta e l'emancipazione, lo showbusiness fatto di amicizie e dispetti.
È una serie piacevole, una puntata tira l'altra perché appassiona e perché fa ridere. Tanto ridere. Non posso che ringraziare Amazon per queste tre stagioni (quarta in corso). Il tempo senza la Sig.ra Maisel è vuoto.
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carmenvicinanza · 3 years
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Anna Kuliscioff, la dottora dei poveri
https://www.unadonnalgiorno.it/la-dottora-dei-poveri/
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Tutti gli uomini, salvo poche eccezioni, e di qualunque classe sociale, considerano come un fenomeno naturale il loro privilegio di sesso e lo difendono con una tenacia meravigliosa, chiamando in aiuto Dio, chiesa, scienza, etica e leggi vigenti, che non sono altro che la sanzione legale della prepotenza di una classe e di un sesso dominante.
Anna Kuliscioff è stata una rivoluzionaria, medica e giornalista russa naturalizzata italiana. Arrestata varie volte, svolse un’intensa attività gratuita a Milano, per cui veniva chiamata la “dottora dei poveri”.
È stata cofondatrice e tra le principali esponenti del Partito Socialista Italiano, apparteneva alla corrente riformista. Militò attivamente nel movimento per l’emancipazione delle donne.
Nacque col nome di Anja Rosenstein a Sinferopoli, in Crimea, il 9 gennaio 1855, in una ricca famiglia ebrea di commercianti. Nel 1871 andò a studiare filosofia all’Università di Zurigo.
Rientrata in Russia fece parte della cosiddetta andata verso il popolo, il lavoro nei villaggi al fianco dei contadini per condividerne la misera condizione, convinta della necessità dell’uso della forza per liberarsi dall’oppressione.
A causa della sua attività rivoluzionaria venne processata e scappò in Svizzera. Per evitare di essere rintracciata dagli emissari zaristi, cambiò il suo cognome in Kuliscioff, che denotava persone di basso grado sociale.
Si innamorò di Andrea Costa, rivoluzionario romagnolo, che condivideva i suoi ideali e lotte e col quale si trasferì prima a Parigi e poi a Firenze, dove venne arrestata con l’accusa di cospirazione anarchica.
Dopo vari andirivieni e arresti tra Italia e Svizzera, in cui contrasse varie malattie tra cui la tubercolosi e l’artrite che la tormentò per tutta la vita, nel 1881 diede alla luce la figlia Andreina. Quando la relazione tra i due terminò, Anna Kuliscioff, tornò in Svizzera e si iscrisse alla facoltà di medicina di Berna. Continuò gli studi a Napoli, dove, dopo una ricerca sulle origini batteriche della febbre puerperale svolta a Pavia con Camillo Golgi, futuro premio Nobel, si laureò, nel 1886. Specializzata in ginecologia, con la sua tesi contribuì alla scoperta che avrebbe salvato milioni di donne dalla morte dopo il parto.
Iniziò a esercitare la professione a Milano dove  offriva assistenza ginecologica gratuita alle donne povere dei quartieri più degradati.
Legata sentimentalmente a Filippo Turati, trasformarono la loro casa nella redazione di Critica sociale, rivista che diressero assieme, dal 1891. Nel salotto c’era un piccolo divano verde, oggi custodito nella Fondazione che porta il suo nome, dove Anna Kuliscioff riceveva a ogni ora del giorno personaggi della cultura, della politica, ma anche persone umili che andavano a chiederle consiglio e sostegno.
Sempre in prima linea nelle lotte sociali, fu al fianco delle operaie tessili milanesi nella lotta per ottenere migliori condizioni lavorative come le otto ore, la libertà di disporre del proprio salario e la maternità.
Contribuì alla nascita della prima formazione organizzata della sinistra nel nostro paese, il Partito dei Lavoratori Italiani del 1892, che tre anni dopo divenne Partito Socialista Italiano e non ebbe timore, negli anni successivi, a scontrarsi con i colleghi maschi a causa del suffragio universale.
Ha redatto una proposta di legge sulla tutela del lavoro minorile e femminile approvata in Parlamento nel 1902 come Legge Carcano.
Grazie al suo impegno politico a favore dell’estensione del diritto di voto alle donne, nacque il Comitato Socialista per il Suffragio Femminile.
Stabilì, per prima in Italia, un rapporto di comunicazione diretta con le operaie e contadine per renderle consapevoli dei loro diritti e porle nella condizione di uscire da disparità e sottomissione.
Nel 1912 la proposta di legge per il diritto di voto alle donne venne respinta, fu un duro colpo che portò alla rottura del suo rapporto con Filippo Turati.
Fondò “la difesa delle lavoratrici” gettando le basi per il progetto “la giornata delle donne”, manifestazione nazionale che avrebbe dovuto porre l’accento sulla questione femminile, ma che venne cancellata dalla guerra.
Il suo inarrestabile attivismo continuava anche con la stesura di articoli taglienti firmati con lo pseudonimo “OMEGA” perché, spiegava, “mi sento come l’ultima ruota del carro”.
Neutralista convinta, dopo la guerra combatté il massimalismo socialista e fu rigorosa oppositrice del fascismo.
Portavoce dei diritti delle donne, a 65 anni tenne una conferenza presso il Circolo Filologico Milanese dove era vietata l’iscrizione alle donne. Il suo intervento, pubblicato con il titolo “Il monopolio dell’uomo”, è stato considerato il primo manifesto femminista italiano.
È morta a Milano il 9 gennaio 1925. Durante il funerale alcuni fascisti si scagliarono contro le carrozze del corteo funebre trasformandolo in una guerriglia urbana. È stata una donna le cui idee facevano paura anche dalla bara.
Anna Kuliscioff è stata indipendente, libera, determinata e non ha esitato a scontrarsi coi compagni di partito con cui condivideva gli ideali e anche con l’uomo con cui condivideva la vita. Una donna che ha dato voce alle altre, convinta che la vera liberazione passa attraverso quella di tutte le altre.
Di seguito il suo disegno di legge per mitigare lo sfruttamento eccessivo del lavoro femminile e infantile.
LAVORO DELLE DONNE
Durata di lavoro di 48 ore maximum per settimana, non oltre il mezzodì del sabato, onde ogni operaia possa fruire d’un riposo di 42 ore consecutive.
Le ore supplementari di lavoro non potranno essere più di 50 durante l’anno, distribuite in modo che la giornata legale di lavoro non possa prolungarsi più di due ore per giorno, né più di tre giorni per settimana.
Vietato l’impiego delle donne nei lavori insalubri e pericolosi.
Vietato il lavoro notturno.
Vietato il lavoro nell’ultimo mese di gravidanza e nel primo mese dal puerperio.
All’assistenza delle donne nei due mesi antecedenti e successivi al parto provvederà la legge sull’assicurazione obbligatoria per le malattie, in ragione almeno del 75% del salario giornaliero.
La legge sul lavoro delle donne sarà applicata, oltreché alle grandi, anche alle piccole industrie, alle industrie casalinghe, ai lavori di risaia e possibilmente a ogni altro lavoro agricolo.
Il testo della legge sarà esposto, in modo facilmente visibile per le interessate, nei laboratori, nelle officine, negli stabilimenti e ovunque sono donne impiegate al lavoro salariato.
I regolamenti interni saranno fissati d’accordo fra gli imprenditori e le rappresentanze delle operaie: in difetto d’accordo, statuirà il Collegio dei probiviri.
L’applicazione della legge sarà vigilata da ispettrici elette dalle operaie e retribuite dallo Stato.
Ispettori tecnici saranno incaricati di visitare regolarmente gli opifici, le fabbriche, i laboratori, ecc., e di verificare le condizioni d’igiene e di sicurezza.
Una legge speciale stabilirà le norme relative all’igiene e alla sicurezza del lavoro.
La responsabilità dell’osservanza delle disposizioni di questa legge spetterà solidamente ai direttori, imprenditori e proprietari, salva fra di essi la rispettiva azione di regresso. Le trasgressioni saranno punite con ammenda da Lire 50 a L. 200 per ciascun caso e per ciascuna persona impiegata. In caso di insolvibilità di tutti i corresponsabili, l’ammenda sarà convertita in detenzione a carico del più direttamente responsabile, secondo la proporzione stabilita dal Codice penale, purché il totale del carcere non superi un anno.
Le ammende saranno devolute alle Casse di sovvenzione per malattie e vecchiaia.
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ilpost0dellefragole · 3 years
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MONSIEUR IBRAHIM E I FIORI DEL CORANO
Trama e Recensione
Monsieur Ibrahim e i Fiori del Corano, un film di François Dupeyron uscito nelle sale nel Settembre del 2003, è una poesia impressa su pellicola, un piccolo diamante della cinematografia dei nostri tempi, tratto dal libro di Éric-Emmanuel Schmitt. Il film è una favola moderna in cui mille fili si intrecciano per andare a creare un meraviglioso capolavoro • Siamo in un quartiere della Parigi degli anni ’50, e un giovane ragazzo ebreo undicenne di nome Moїse è solito recarsi nella drogheria di un anziano turco, che tutti chiamano l’Arabo della Rue Bleu, il quale pian piano comincia a fare conoscenza con il ragazzino, e comincia così a chiamarlo “Momo” per comodità • Momo è solito fare acquisti dall’Arabo, ma puntualmente gli sottrae anche qualche scatoletta di carne, credendo che egli non se ne accorga. Non è così, e tra i due nascerà un’amicizia che è molto più di un semplice rapporto amicale tra due esseri umani. Monsieur Ibrahim a detta di tutti, è “un saggio • Sicuramente perché da almeno quarant’anni era l’arabo di una via ebrea • Sicuramente perché parlava poco e sorrideva tanto” • Inizialmente i due si scambiano poche frasi; l’elemento comunicativo è dunque molto risicato, ma nel corso del film si fa sempre più fitto, metafora di una comunicazione anche tra culture e religioni diverse • Sarà l’arrivo di un’attrice bionda che sembra Brigitte Bardot, la quale è lì perché nelle vicinanze si sta girando un film, a sancire definitivamente l’amicizia tra i due e ad aprire le porte alla comunicazione più vera e sincera • Momo troverà in Monsieur Ibrahim un confidente, un amico che va oltre gli stereotipi, oltre le regole non scritte, una figura paterna che egli non aveva mai avuto e che non è importante che sia di una religione e cultura diversa • Monsieur Ibrahim infatti incarna proprio la figura del padre che Momo è come se non avesse mai avuto, nonostante lui un padre effettivamente ce l’abbia, ma sia freddo, distaccato e arido tanto che la moglie e il figlio maggiore Popòl lo hanno abbandonato, e lui ora è costretto a vivere solo con il figlio minore • L’Arabo quindi accompagna per mano Momo in un momento complicato che è l’adolescenza, prendendosi cura di lui, insegnandogli a sorridere sempre, metafora di una vita vissuta con leggerezza che non vuol dire superficialità ma semplicemente come diceva Calvino “senza pesi sul cuore”, insegnandogli che “quello che tu dai è tuo per sempre, quello che tieni per te è perduto per sempre” • E Momo �� sempre lì, sempre attento e desideroso di imparare, che pende dalle labbra del saggio e bizzarro amico • Quando il padre di Momo muore suicida, Monsieur Ibrahim adotta formalmente il piccolo amico ed insieme intraprendono un viaggio nel Corno d’Oro che è proprio il paese natale dell’Arabo • Qui Momo entra in contatto con culture e religioni diverse dalla, sua che sono altrettanto belle ed affascinanti come la sua • Durante questo bellissimo viaggio Momo impara che non tutti assomigliano umanamente a suo padre e che ognuno di noi è infinitamente prezioso ed insostituibile, anche senza essere perfetto come suo fratello maggiore Popòl, che il padre adorava e al quale egli lo paragonava sempre • Questo risulterà non essere un semplice viaggio, ma un vero e proprio percorso alla riscoperta dell’amicizia, del rispetto per gli altri, dell’integrazione: è dunque un viaggio di vita • È un’iniziazione alla vita adulta quella che Momo compie durante questo percorso • Monsieur Ibrahim assume ad un certo punto il ruolo della figura paterna, ma anche quello del maestro che vuole insegnare tutto ciò che sa al suo “discepolo” • Ed è proprio questo che accade • Momo accetta l’eredità spirituale dell’Arabo, che muore durante il viaggio, diventando egli stesso l’Arabo della Rue Bleu, nonostante sia ebreo •
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makorchronicles · 7 years
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The Continent of Makor, located in the northern hemisphere of the world. 
The continent is called Makor. The grid is about 200 miles square. The southern reaches straddle the equator while the northern most mountains quickly give way to tundra and eventually arctic ice caps. The countries of Makor are listed below:
The Ranfus Sea: The countries around the inland sea were once united under the Osheth Empire until a great betrayal gave way to civil war and fracture the Empire into many different countries. The countries are a plurality human, with sizeable numbers of elves, dwarves, halflings, and gnomes.
The Osten Empire: The last remains of the Osheth Empire, now called the Osten Empire, they are the richest and most powerful country. They have a great deal of very fertile farmland in the lowlands and massive forests to the north. The capitol is Osheth, and major cities include Frington, Stington, and Treflund to the North. The ancient city of Cheadal is the center of Osheth faith. Stington is at the southern end of the Bleir Bore. It is bordered to the north by the Mhara Mountains: cold, monster-filled, almost impassable.
The Frelands: The Freland Forest is the name for the expansive, ancient forest across the straight from the Osten Empire. It is claimed by Osten, but in reality that claim only extends for about 50 miles from the coast, just enough for New City and it’s surrounding villages. Osten has also cut and burned a mile wide track along the cliff coast of the Frelands to link New City with Athye Harbor on the lowlands, creating the High Road. Outside of that area, the depths of the forest are impenetrable, unmappable, and unscryable. Adventurers tell the tale of ancient ruins, mysterious fey, talking trees, and intelligent beasts. The Frelands are bordered by a snow capped mountain range. Upstream from Athye Harbor lies Nanwei City, an ancient, isolationist city that is frequented by religious pilgrims of the Cult of the Maker.
Droiland, Achland, and Schauland have a long lasting and close allegiance, culturally and politically. Between Droiland and Osten lies the Druoi Drain, a land of lakes and rivers, the largest of which is called the Bleir Bore. Droiland’s capital is Guthaus, Achland’s is Khestaad, and Schauland’s is Lostrait. Schauland and Achland share stewardship of the only trade route to the western coast of the continent. The city of Dusmen lies in the mountains between Droiland and Achland and is the largest surface city of dwarves in the region.
Nonsu: This is a country of endless, rolling grasslands bordered by Schauland to the west, the Tomeri Desert and empire of the same name to the south west, the Shabok drylands to the south, and Freland and the great impenetrable mountain range to the east. The people of Nonsu are a mixed bunch of nearly every humanoid race, all tribal, clanfolk, or other roaming people. The one city is called Tenghar, the city that has never been conquered. The great Taivi river rests in the western region of the country and has rich farmland and the only real settlements in the country. The current clan that holds Tenghar is the Sun clan, lead by Chiakonee the bugbear.
Other Countries:
Mythashara: The country of elves rests in an expansive forest spanning hundreds and hundreds of miles. There is an even more ancient forest on the Shrenl’on Island, where most races are forbidden to set foot unless explicitly invited by a resident of Mythashara. The city of Elyhil on the northern coast is the most welcoming to visitors and is a bustling trade port, though they are in constant conflict with the Kaspians across the bay. The capital city is Illidell, and there is also a southern city of Motothalas.
Ebrea: Within this mysterious jungle filled peninsula lives the deadly and xenophobic yuan ti. The snake people use the more violent lizardfolk as the lower class, soldiers, servants, and slaves. The ruling yuan ti have little need to trade with any of the northern countries, though some trade of magical items and luxury items exists. The capital city is Kespa.
Ichtaca: Little contact is had with this region. It is inhabited by tribes who worship strange animal gods. Strangely, for the last five hundred years, a small diplomatic contingency of Ichtacans reside in the Nonsu capital of Tenghar, though little of trade or treaties is ever discussed and the Tenghar Lord is always tightlipped about anything that may be discussed.  
Thessana Island: The homeland of the tabaxi cat people is a jungle filled island dominated by a long dormant volcano. Though tabaxi live in many other places on the continent, Thessana is their cultural homeland and the place where their legends say the Cat Lord created them. The capital is R’lasso.
The Tomeri Empire: The empire might compare to Osten in political and economic power, if it wasn’t mostly desert. They have compensated for a lack of economic power by becoming the most magically powerful country, second only to Mythashara, or maybe the dragonborn of Xaelryss. Often struck by droughts and internal strife, they used to adhere to a strict castes system until about thirty years ago when an uprising of the lower classes overthrew the ruling regime. The Empire opened its borders and diplomatic relations only within the last twenty years. They have a tense relationship with Schauland after generations of border raids. Cities known include Gostri, Triele, and Askel.
The Land of Xaelryss. The large island is topped by three active volcanos, each supposedly housing an ancient golden dragon. The dragonborn of all colors live on this island (some small communities live elsewhere, usually in large cities). Chromatic and Metallic dragonborn usually belong to different families and have quite a bit of tension between them.
Kaspian: This swampy, forested country is bordered by the Frelands and impenetrable mountains. They have little in the ways of tradeable goods, but they hold themselves to be the best sailors (and pirates) in the world, and they just might be right. The capital city of Jashea is a lawless wreck of a town filled with pirates funded by the corrupt ‘Pirate’ King.
The 100 Tribes of Asmund are the denizens of the frozen northwestern coast. There are at least a hundred tribes of goliaths, dwarves, orcs, and humans, each claiming their own territory. They follow shamanistic religions, and are famous for their berserkers.
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busybee96 · 5 years
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TITOLO: THE MARVELOUS MRS MAISEL
GENERE: COMEDY, DRAMMA
DURATA: 52 minuti
DOVE: PRIME VIDEO
VOTO: 4.5/5
Sono risorta dalle mie ceneri e non potevo farlo dopo aver visto la seconda stagione di #themarvelousmrsmaisel che dire... Una DROGAAAAA.
Questo gioiellino è un prodotto Amazon (a mio avviso il migliore finora), vanta già la conquista di diversi Emmy e Golden globes, tutti strameritatissimi, ma di cosa parla vi chiederete?
Questa serie, ambientata in una new York di fine anni '50, ha come protagonista una giovane casalinga ebrea che sembra vivere una vita perfetta, finché un giorno non vede tutto stravolgersi: viene lasciata dal marito per un'altra donna, e tutti criticano le sue scelte di vita. Non sa più cosa fare, al punto che si ritrova su un palco ubriaca a parlare della sua vita e scoprendo così un suo talento nascosto, la comicità. Questo però non fa altro che spingere la nostra protagonista a scoprire se stessa, e capire che non faceva altro che nascondersi dietro una maschera della "perfetta donna degli anni 50". È così che decide di cambiare tutto e fare ciò che è brava a fare, ovvero far ridere gli altri. Decide, allora, con l'aiuto di Susie, la sua stravagante manager, di cimentarsi in questo nuovo mondo, uno in cui le donne non vengono prese per niente sul serio, quello del cabaret.
I dialoghi sono molto veloci e divertenti, gli episodi in se, nonostante la lunga durata, sono molto scorrevole e non ti fanno staccare gli occhi dallo schermo.
Recitazione non c'è bisogno di commentarla, i premi parlano da sé. Per tutto il resto la fotografia e i costumi, rispecchiano benissimo l'arco temporale in sui si sta svolgendo la storia, ponendo l'attenzione su tutti i dettagli.
Che dire cosa state aspettatando a iniziarla?! Se invece l'avete vista ditemi cosa ne pensate. 😉😘 #primevideo #mrsmaisel #serietv #seriesaddict #telefilm #telefilmaddicted #comedy #goldenglobes #telefilmaddicted
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I volti di Adolf Eichmann
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I volti di Adolf Eichmann
Molti criminali nazisti ebbero un aspetto assolutamente ordinario. A dispetto della propaganda di regime, neppure Adolf Hitler fece eccezione. Friedrich Reck-Malleczewen, un intellettuale nostalgico del kaiser disgustato dallo spettacolo di folle di tedeschi osannanti la svastica, confidò al proprio diario che il führer aveva l’aria di un “bigliettaio di tram” dal viso floscio, sformato, gelatinoso, livido e malaticcio.
Lo sguardo miope ed assorto del sanguinario reichsführer delle SS, Heinrich Himmler, fu paragonato a quello di un mite maestro di provincia.
Durante il processo di Norimberga, un avvocato americano descrisse il comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, come una persona all’apparenza normale come può esserlo un commesso di drogheria. Molti internati polacchi confermarono questa impressione. Lo psichiatra che interrogò Höss subito dopo la sua cattura, rimase scosso dal pensiero che lo sterminio di oltre un milione di persone potesse essere stato commesso da un uomo così banale. Lo stesso sbigottimento provò un ufficiale britannico quando notificò l’atto di accusa a Walter Funk, “…un individuo insignificante, basso, flaccido, calvo, con un viso paffuto ed ovale…”, che durante la guerra aveva diretto il ministero dell’Economia e la Reichsbank.
A Gerusalemme, nell’aprile del 1961, un altro e ben più feroce “criminale da scrivania” come Adolf Eichmann stupì tutti i commentatori per il suo aspetto ordinario e dimesso. Lo scrittore Moshe Pearlman si sentì quasi truffato vedendo comparire alla sbarra un uomo qualunque di mezza età e non il mostro che aveva immaginato. Il filosofo e matematico Bertrand Russell, autore nel 1954 del best seller “Il flagello della svastica”, vide in Eichmann lo stereotipo del burocrate anonimo e senza volto. La stessa impressione ebbe il giurista Telford Taylor, che poteva vantare una notevole esperienza in fatto di criminali nazisti, avendo ricoperto l’incarico di assistente di Robert H. Jackson, capo del collegio di accusa americano al processo di Norimberga.
Dopo la sentenza, persino il pubblico ministero israeliano Gideon Hausner, che aveva compiuto ogni sforzo per presentare Eichmann alla corte in termini demoniaci, dovette ammettere che “…il suo portamento da leader della Gestapo era scomparso e non c’era alcun indizio della sua forza diabolica e poco che indicasse la sua fin troppo nota malvagità, la sua arroganza e la sua capacità di compiere il male.”.
Al coro di stupore si unì anche l’inviata a Gerusalemme della rivista “New Yorker”, la filosofa ebrea tedesca Hannah Arendt che presentò Eichmann come un uomo terribilmente normale. All’amico, confidente e collega Karl Jaspers lo dipinse non come un’aquila, ma piuttosto come un fantasma chiuso in gabbia, reso ancor più fragile e vulnerabile da un fastidioso raffreddore che lo costringeva a soffiarsi il naso in continuazione. Un’immagine ben lontana da quella del superuomo ariano, sadico e fanatico, diffusa prima del processo dalla stampa e dalla pubblicistica.
Il “cacciatore di nazisti” Simon Wiesenthal, per evitare il rischio che pubblico e giuria potessero provare pietà per un uomo così ordinario ed all’apparenza inoffensivo, propose di far comparire in aula Eichmann in uniforme delle SS. Il suo consiglio rimase ovviamente inascoltato, lasciando all’opinione pubblica mondiale che seguiva le udienza in TV l’arduo compito di conciliare il ritratto dell’aguzzino sadico tratteggiato dagli instant book usciti prima del processo con l’immagine di quell’uomo di mezza età, miope e dalla calvizie incipiente, che prendeva meticolosamente appunti chiuso in una gabbia di vetro antiproiettile e si ostinava a ripetere di essere stato soltanto un esperto di trasporti. Ad accrescere l’imbarazzo ed il disorientamento di milioni di spettatori contribuì anche l’inserimento relativamente recente di Eichmann nel novero dei più esecrabili nemici dell’umanità. Alla fine della guerra il suo nome era infatti quasi sconosciuto agli Alleati e non compariva nell’elenco dei grandi criminali da processare a Norimberga. Fu Dieter Wisliceny, un subordinato di Eichmann, ad indicarlo per la prima volta nel novembre del 1945 come un personaggio chiave nell’attuazione della “soluzione finale della questione ebraica”. Le deposizioni rese da Höss nel marzo del 1946 fornirono ulteriori conferme, ma non furono sufficienti a destare l’attenzione né degli inquirenti, che non assegnarono alcuna priorità alla sua ricerca, né della stampa, che continuò ad ignorarlo, né degli storici, che fino alla metà degli anni ’50 si limitarono tutt’al più a citarlo come un amministratore incolore del genocidio. Neppure Wiesenthal, che a Mathausen aveva sentito nominare Eichmann come artefice della deportazione degli ebrei ungheresi, si rese immediatamente conto dell’importanza del suo ruolo. La lettura degli atti del processo di Norimberga gli aprì gli occhi quando ormai era troppo tardi. Con l’intensificarsi della “guerra fredda” l’interesse degli Alleati per la ricerca dei criminali nazisti era bruscamente calato, così come la pressione dell’opinione pubblica europea, assorbita dai problemi della ricostruzione e dall’incubo della minaccia comunista.
Soltanto la spavalda determinazione con cui, nel maggio del 1960, lo stato d’Israele sfidò il diritto internazionale, autorizzando il suo servizio segreto a rapire Eichmann in Argentina, convinse la stampa mondiale ad occuparsi del responsabile del dipartimento IV B4 dell���Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA). A ridosso del processo vennero pubblicate, in diverse lingue, decine di biografie di Eichmann che, in mancanza di informazioni attendibili, fecero ampie concessioni al sensazionalismo. Alcune invenzioni furono ripetute così tante volte da diventare certezze, come la fandonia, suggerita da Wisliceny, secondo cui il fanatico antisemitismo di Eichmann sarebbe stato generato da un trauma infantile: lo scherno dei compagni di scuola che lo additavano come un ebreo. Simili grossolane interpretazioni si ispiravano, semplificandole sino all’involontaria parodia, alle teorie psicologiche sul nazismo, molto accreditate negli anni ’40 e ’50. Lasciando trasparire uno schema interpretativo comune alle biografie di tutti i gerarchi nazisti, a cominciare dallo stesso Hitler, Eichmann veniva ritratto come un disadattato ed un fallito, capace di trasformare la propria frustrazione in odio fanatico per il popolo ebraico. La compiaciuta descrizione di episodi, spesso non verificabili, di sadismo, brutalità e perversione sessuale completavano a fosche tinte il quadro di una personalità demoniaca.
Il pubblico ministero Hausner non seppe e non volle rinunciare ad una rappresentazione così sensazionalistica di Eichmann, ritenendo, erroneamente, che avrebbe giovato alla sua tesi accusatoria. Alla mostruosità dell’olocausto non poteva che corrispondere una incarnazione del male assoluto, anche se, al posto di fauci, zanne, artigli ed occhi iniettati d’odio, aveva le fattezze di un qualunque impiegato di mezza età.
Hausner diede ampio risalto ad episodi insignificanti o addirittura dubbi al solo scopo di dimostrare la personalità arrogante e brutale dell’imputato. Analizzando le attività dell’ufficio per l’emigrazione ebraica di Vienna, chiese conto ad Eichmann degli schiaffi inferti, in preda ad un accesso d’ira, al dottor Josef Löewenherz, capo della comunità ebraica viennese. Pur in assenza di prove certe, come riconobbe la stessa corte, si affrettò ad accusare Eichmann di aver ordinato l’esecuzione, nel 1944, di un giovane ebreo colpevole del furto di alcuni frutti nel giardino della sua villa di Budapest.
Oltre ad indugiare sul cliché dell’aguzzino sadico e spietato, Hausner si spinse a rappresentare Eichmann, fingendo di ignorarne la modesta posizione gerarchica, come la molla del genocidio: “… era la sua parola che metteva in azione le camere a gas; lui sollevava il telefono e i vagoni partivano verso i centri di sterminio; era la sua firma a suggellare il destino di migliaia di persone.”.
L’atto di accusa, articolato in quindici capi, non si limitò a contemplare le attività svolte dal dipartimento IV B4 diretto da Eichmann, già di per sé così mostruose da garantire la condanna dell’imputato e la sua perenne esecrazione, ma comprese anche un ampio catalogo di imputazioni che costituiva una sorta di summa delle sofferenze e delle atrocità subite dal popolo ebraico durante il regime nazista. Eichmann fu perciò chiamato a rispondere di una quantità sconcertante di crimini odiosi: dall’istigazione della “notte dei cristalli” nel novembre del 1938 alla pianificazione dello sterminio nella conferenza di Wannsee nel gennaio del 1942, dall’ordine di impiegare il gas Zyklon B nelle camere a gas all’efferatezze commesse dagli Einsatzgruppen in Russia nel 1941, dalle disumane condizioni di vita nei lager alle marce della morte, dalle sterilizzazioni di massa agli aborti coatti, dalla spoliazione degli ebrei europei alla loro riduzione in schiavitù, dalla deportazione di mezzo milione di polacchi, di decine di migliaia di zingari e di 140.000 sloveni all’assassinio di 100 bambini deportati dalla cittadina boema di Lidice. Alcuni capi di imputazione non furono altro che pretesti per moltiplicare le testimonianze sulla barbarie nazista, lasciando in ombra il ruolo dell’imputato. Nella terrificante grandiosità dell’affresco generale gli elementi probatori della sua colpevolezza a tratti quasi svanirono.
Nelle centoventuno udienze del processo sfilarono un centinaio di testimoni per l’accusa, tutti ansiosi di raccontare la loro storia d’orrore. Alcune deposizioni assunsero quasi i caratteri di conferenze sull’olocausto, altre riproposero stralci di memorie di deportazione e di prigionia già da tempo pubblicati. Incurante del richiamo della corte a non tracciare dispersivi “quadri generali” ed a rientrare nei binari tradizionali della procedura penale, Hausner si ostinò a chiamare a deporre testi il cui legame con Eichmann era talvolta vago se non evanescente. Zindel Grynszpan, padre di Herschel autore dell’assassinio di vom Rath, che aveva offerto alle SS, nel novembre del 1938, il pretesto per la “Notte dei cristalli”, riferì la sua vicenda personale benché fosse evidente che Eichmann non aveva avuto parte alcuna nell’organizzazione del pogrom e non vi aveva neppure preso parte. Il poeta e scrittore Abba Kovner, che aveva militato nella resistenza ebraica in Ucraina, fu ascoltato soltanto perché asseriva di aver appreso da un sergente tedesco che all’interno della Wehrmacht circolavano voci sull’importanza di Eichmann nell’organizzazione dello sterminio. Ben cinquantatre testimoni si dilungarono sulla tragedia degli ebrei in Lituania ed in Polonia, dove però l’autorità di Eichmann era stata quasi nulla. Pur di portare in aula l’eroica resistenza del ghetto di Varsavia, Hausner non esitò a sacrificare la pertinenza con le responsabilità dirette del dipartimento IV B4; e non fu l’unica volta che accadde. Altri sedici testimoni descrissero le atroci condizioni di vita di Auschwitz, Treblinka, Chelmno e Majdanek su cui, a differenza di quanto avvenne per il “ghetto per vecchi” di Theresienstadt, l’imputato non poté minimamente influire.
La sentenza non mancò di stigmatizzare l’inconsistenza della connessione di Eichmann con alcuni capi di imputazione, come a proposito del suo presunto controllo sugli Einsatzgruppen o sulle condizioni di vita nei lager, ma Hausner raggiunse comunque il suo scopo: raccontare al mondo l’olocausto.
Se le ampie concessioni del procuratore al cliché del sadico aguzzino nazista furono influenzate in parte dalle pressioni e dalle aspettative dell’opinione pubblica israeliana ed in parte dalle semplificazioni operate dalla pubblicistica, l’enfatizzazione del ruolo di Eichmann come pretesto per tracciare difronte al mondo intero un bilancio generale dell’enormità dell’olocausto rispose invece alla volontà del governo di Ben Gurion che, superate le iniziali preoccupazioni per il clamore internazionale suscitato dal rapimento del criminale nazista, si era convinto a trasformare il processo in una dimostrazione dell’imperativo dell’esistenza dello stato ebraico.
Con chiaro intento provocatorio, ma cogliendo pienamente il significato esemplare che il processo avrebbe dovuto assumere per ribadire la legittimità dello stato d’Israele, Wiesenthal propose che Eichmann fosse chiamato a dichiararsi colpevole o innocente difronte alla corte sei milioni di volte, una per ciascuna delle vittime dell’olocausto. Hausner respinse ovviamente una procedura così irrituale, ma si guardò bene sia dal rinunciare alla spettacolarizzazione del processo, sia dall’ergersi a difensore del principio della separazione tra potere esecutivo e giudiziario. Come membro del governo, in veste di ministro della Giustizia, accettò infatti di buon grado le indicazioni di Gurion circa la necessità di ammorbidire i riferimenti al popolo tedesco, per non incrinare gli ottimi rapporti con il cancelliere Adenauer, di non approfondire troppo il ruolo dei consigli ebraici nell’organizzazione delle deportazioni e di tacere l’imbarazzante partecipazione dello stesso Gurion ai negoziati avviati tra nazisti e sionisti in Ungheria nel 1944.
Tali omissioni indignarono Hannah Arendt che denunciò ai lettori del “New Yorker gli intenti mistificatori del processo, arrivando a sostenere che il popolo ebraico durante il Terzo Reich aveva dovuto difendersi da due terribili nemici: i nazisti ed i consigli ebraici, soprattutto quelli più permeabili agli ideali sionisti. Gli uni animati da un odio inestinguibile verso gli ebrei, gli altri disposti a tutto pur di compiacere le autorità, entrambi vittime di un collasso morale generato dallo stato totalitario hitleriano. Attirandosi gli strali del World Jewish Congress, scrisse: “Ovunque c’erano ebrei, c’erano stati capi ebraici riconosciuti e questi capi, quasi senza eccezioni, avevano collaborato con i nazisti, in un modo o nell’altro, per una ragione o per l’altra. La verità vera era che se il popolo ebraico fosse stato realmente disorganizzato e senza capi, dappertutto ci sarebbe stato caos e disperazione, ma le vittime non sarebbero state quasi sei milioni. …circa la metà si sarebbero potute salvare se non avessero seguito le istruzioni dei Consigli ebraici.”.
In questa chiave di lettura il genocidio non era semplicemente il risultato più aberrante di secoli di antisemitismo, ma la tragica conseguenza del potere totalitario che aveva rimosso il confine tra bene e male e corrotto la coscienza di ebrei e gentili, di funzionari nazisti come Eichmann e di funzionari ebraici come il dottor Rudolf Kastner che in Ungheria “…salvò esattamente 1684 persone al prezzo di circa 476.000 vittime.”. Pertanto il processo ad un burocrate della “soluzione finale” non avrebbe dovuto diventare un pretesto per celebrare le immani sofferenze del popolo ebraico, ma una occasione per esecrare l’orrore dello stato totalitario di cui l’olocausto non era che un’espressione.
Con altrettanta fermezza la Arendt denunciò l’esagerazione strumentale del ruolo di Eichmann nella persecuzione del popolo ebraico. Il principale ostacolo all’obiettivo di Gurion e di Hausner di rendere credibile che Eichmann fosse stato la molla dello sterminio, e non un semplice esecutore, era costituito dalla sua modesta posizione nella gerarchia dell’establishment nazista. Senza risultare mai convincente, fin dalle prime udienze Hausner si affannò a mettere in guardia il pubblico e la corte sul fatto che il grado di Obersturmbannführer delle SS, tenente colonnello, ricoperto dall’imputato non rispecchiava affatto la sua posizione di potere, che era in realtà unica, tale da consentirgli di trattare con i ministri del governo nazista, i capi di stato stranieri ed i vertici della Wehrmacht. Moltiplicò i suoi sforzi per indicare Eichmann come la forza motrice e l’organizzatore della conferenza di Wannsee, in cui furono appianate tutte le dispute interministeriali che rischiavano di inceppare la macchina dello sterminio. A queste forzature che stravolgevano la realtà, trasformavano il segretario della conferenza di Wannsee nel suo ideatore, ignoravano la gerarchia, elevavano un tenente colonnello, una rotellina nella macchina di morte nazista, a deus ex machina di una delle più grandi tragedie della storia dell’umanità, la Arendt reagì proponendo un altro stereotipo, non meno mistificatorio. Costruì sulla banalità di Eichmann un edificio filosofico, piegando i fatti alle sue esigenze teoriche, scrivendo un ottimo libro di filosofia ed un pessimo libro di storia. Creò un Eichmann altrettanto artificioso ed abnorme di quello Hausner, facendone la sintesi dell’uomo totalitario, dalla coscienza annullata e perciò capace, senza neppure rendersene conto, di qualsiasi disumana atrocità. Tracciò un profilo della personalità dell’imputato, destinato ad influenzare per decenni la riflessione di intellettuali ed accademici, assistendo ad appena quattro udienze. Le fu sufficiente gettare uno sguardo nella gabbia di vetro in cui era confinato il genocida ed ascoltare qualche parola del suo tedesco burocratico per avere la conferma di ciò che la sua teoria sullo stato totalitario corruttore di uomini e di coscienze le imponeva di vedere. Senza perdere troppo tempo in faticosi riscontri documentali si sentì subito pronta a fornire un’interpretazione della vita di Adolf Eichmann.
Facendo riferimento di sfuggita ad una dozzina di perizie psichiatriche, senza neppure degnarsi di menzionarne gli autori, la Arendt si premurò di sgombrare il campo dalle frettolose affermazioni della pubblicistica e di porre la pietra angolare del suo edificio filosofico: Eichmann non era né uno psicopatico, né un fanatico, ma un uomo normale, non aveva mai nutrito alcun odio verso gli ebrei e non aveva abbracciato la causa nazista per convinzione. Si era lasciato come inghiottire dal nazismo quasi senza accorgersene, mosso soltanto dal desiderio di crearsi una prospettiva di carriera rispettabile e di scrollarsi di dosso la sgradevole sensazione di sentirsi un fallito. Minimizzando l’influenza del background ultranazionalista ed antisemita in cui Eichmann era cresciuto, fingendo di ignorare che nel 1932 il partito nazista austriaco, diviso al suo interno, litigioso ed ancora ben lontano dal potere, non poteva apparire a nessun giovane ambizioso una scelta vincente per il futuro, la Arendt inventò il mito del nazista per opportunismo che si appunta la svastica al bavero della giacca senza conoscere né il programma, né l’ideologia di Hitler. A dispetto di ogni verosimiglianza, neppure l’addestramento delle SS, notoriamente incentrato sull’ossessivo indottrinamento ideologico antisemita, aveva potuto secondo la filosofa tedesca instillare l’odio nell’animo di Eichmann.
Per sprofondare il suo personaggio nel grigiore burocratico la Arendt gli negò arbitrariamente ogni traccia di idealismo ed ogni capacità di pensiero autonomo e scelse il carrierismo, con il suo ovvio corollario di piaggeria verso i superiori, come spiegazione universale del suo agire: “Se in una cosa egli credette sino alla fine, fu nel successo, il distintivo fondamentale della ‘buona società’ come la intendeva lui. Tipico fu l’ultimo giudizio che espresse sul conto di Hitler…‘avrà anche sbagliato su tutta la linea, ma una cosa è certa: fu un uomo capace di farsi strada e di salire dal grado di caporale dell’esercito al rango di Führer di una nazione di quasi ottanta milioni di persone… . Il suo successo bastò da solo a dimostrarmi che dovevo sottostargli.’.”.
“La banalità del male” dipinse il ritratto di un arrampicatore sociale, pronto a riconoscere in Hitler non il baluardo della razza ariana, il demiurgo della nuova Europa judenrein, liberata dagli ebrei, ma soltanto un uomo che si era fatto da sé. Presentò la vicenda professionale di Eichmann come una continua lotta per l’affermazione, senza l’assillo di qualsiasi scrupolo di coscienza. Quando da esperto di emigrazione forzata gli era stato imposto di tramutarsi in attuatore della “soluzione finale” si era allineato prontamente, cercando, come sempre, di fare del proprio meglio per ottenere l’encomio dei superiori. Leggi, regolamenti, ordini e disposizioni provenienti dalle legittime autorità gli avevano fornito tutte le giustificazioni di cui aveva bisogno per reprimere ogni remora morale e rendersi complice dello sterminio di milioni di persone. Nulla aveva potuto turbare il suo serafico distacco, generato dalla convinzione di agire come un cittadino ligio alla legge, cioè alla volontà del führer. Per la Arendt, l’odio ed il fanatismo non avevano sfiorato Eichmann neppure nell’autunno del 1944 in Ungheria quando, tra le macerie del Reich, aveva osato sfidare l’autorità di Himmler, ormai deciso a porre un freno al genocidio, organizzando le marce della morte, cioè il trasferimento a piedi da Budapest verso Vienna di colonne di migliaia di ebrei laceri, affamati ed infreddoliti.
L’episodio ungherese, palesemente rivelatore di una personalità tutt’altro che gregaria e scevra d’odio e di fanatismo, costrinse la Arendt a qualche acrobazia logica, ma non la convinse comunque a mettere in discussione il suo profilo di Eichmann, anzi le offrì l’occasione di renderlo ancora più suggestivo, come può esserlo l’immagine di un ingranaggio che una volta messo in moto non può più fermarsi, qualunque cosa accada.
Hannah Arendt accettò come veritiere le affermazioni di Eichmann che parevano confermare il suo profilo, ad esempio quelle in cui aveva paragonato il suo stato d’animo dopo la conferenza di Wannsee alla libertà da ogni senso di colpa di Ponzio Pilato, e liquidò invece come assurde ed insignificanti vanterie quelle che lo smentivano: “Chiunque poteva vedere che quell’uomo non era un mostro, ma era difficile non sospettare che fosse un buffone.”. Utilizzò la scorciatoia della millanteria per svilire il significato dello spirito di iniziativa dimostrato da Eichmann nell’organizzazione dell’ufficio per l’emigrazione ebraica di Vienna nel 1938, della carica di entusiasmo e di energia con cui aveva sviluppato nel 1940 il progetto volto al trasferimento degli ebrei in Madagascar, delle non comuni doti amministrative di cui aveva dato prova tra il 1942 ed il 1944 nei vari paesi in cui aveva scatenato la sua burocratica ferocia sulle comunità ebraiche; in questo modo rese più convincente la leggenda della rotellina passiva dello sterminio, impersonale, facilmente sostituibile, ed altrettanto facilmente riproducibile in qualsiasi stato totalitario, in ogni tempo.
L’intuizione della Arendt di universalizzare la figura di Eichmann, attraverso una lettura ideologica dei fatti e dei documenti ed una astrazione dal contesto storico, parve trovare, negli anni ’60, una conferma scientifica negli esperimenti sul comportamento dei soggetti sottoposti all’autorità condotti presso l’università di Yale dallo psicologo sociale Stanley Milgram. Posti difronte all’ordine, impartito da una autorità percepita come legittima, di eseguire azioni in conflitto con i propri valori etici, gli individui selezionati non si erano in maggioranza tirati indietro, anzi avevano obbedito ciecamente. L’estrazione sociale ed il livello di istruzione non avevano influito sul comportamento; il grado di obbedienza era invece crollato quando i soggetti avevano potuto vedere da vicino gli effetti del loro agire. L’immagine del “killer da scrivania”, che chiuso nel suo ufficio sigla documenti, sposta carte ed attiva processi senza rendersi conto delle sofferenze da lui generate, e proprio per questo è portato ad obbedire anche agli ordini più mostruosi, pareva quindi corroborata da un riscontro scientifico sperimentale. Confortati dai risultati di Milgram, intellettuali, accademici e larga parte dell’opinione pubblica finirono per accettare come una verità irrefutabile l’interpretazione secondo cui Eichmann sarebbe stato un uomo qualunque e chiunque avrebbe potuto essere Eichmann, spostando dal singolo individuo all’autorità dello stato il peso della responsabilità per i crimini contro l’umanità. Ancora oggi tale presunta verità continua a sedurre, nonostante l’evidenza sia degli aspetti arbitrari e mistificatori della teoria della “Banalità del male”, sia dell’assoluta incomparabilità tra gli ordini immorali impartiti da Milgram in laboratorio e la mostruosità dei crimini nazisti, su cui oltretutto influirono elementi storici, politici e culturali non riproducibili.
Pur rifuggendo da ogni astrazione filosofica e da ogni pretesa di svelare i segreti della psiche umana, anche il difensore di Eichmann, Robert Servatius, un attempato avvocato di Colonia che, difendendo senza successo Fritz Sauckel a Norimberga, si era guadagnato una certa reputazione come paladino legale dei nazisti, sposò la tesi della rotellina passiva nella grandiosa macchina di morte del Terzo Reich. Dopo aver contestato il fondamento giuridico del processo, sollevando dubbi sull’imparzialità dei giudici, in quanto ebrei, sulla competenza della corte ad emettere una sentenza su crimini commessi ben prima della nascita dello stato ebraico e sulla legalità del trasferimento di Eichmann in Israele, Servatius dichiarò che l’imputato era stato soltanto un ufficiale che aveva eseguito degli ordini ed applicato delle leggi dello stato. Chiese quindi il non luogo a procedere ed il proscioglimento di Eichmann, dal momento che la responsabilità di ogni eventuale crimine commesso era da attribuire allo stato tedesco ed alla sua leadership politica e non ad un misero funzionario.
La corte rigettò queste richieste, ma non poté impedire alla difesa di perseverare nella strategia di presentare Eichmann come un personaggio minore, privo di qualsiasi potere decisionale e discrezionale, mettendo in risalto le esagerazioni e le insinuazioni di Hausner, attraverso efficaci controinterrogatori dei testimoni dell’accusa. Servatius riuscì a far apparire vaghe, contraddittorie e tendenziose alcune deposizioni che avrebbero dovuto invece essere accolte come autorevoli ed oggettive; seppe sfruttare ogni occasione per ribadire la posizione subordinata del suo assistito; confutò specifiche accuse, dimostrando l’estraneità di Eichmann tanto allo sterminio dei bambini di Lidice, quanto all’assassinio del giovane ebreo ungherese sorpreso a rubare della frutta. Tuttavia l’efficacia della sua lunga esperienza forense fu indebolita non solo dall’impossibilità, a causa delle ristrette risorse del collegio di difesa, di analizzare una mole enorme di documenti, ma anche dalla verbosità e dalla controproducente puntigliosità burocratica del suo assistito. David Cesarani osserva:”Eichmann sembrava incapace di rispondere a una domanda con un semplice sì o no. Si imbarcava in spiegazioni prolisse, punteggiate da innumerevoli frasi subordinate che lasciavano il traduttore e gli stessi giudici disorientati sul significato di ciò che intendeva dire.”.
Servatius affidò grande importanza alla ricostruzione della catena di comando della “soluzione finale”, ma la deposizione del suo assistito risultò tutt’altro che convincente ed illuminante. Eichmann si sforzò di far comprendere la modestia della sua posizione gerarchica esponendo, in un gergo burocratico quasi impenetrabile, ben diciassette tabelle multicolori che non fecero altro che creare maggiore confusione e suggerire l’idea che stesse nascondendo le sue reali responsabilità dietro una spessa cortina fumogena di competenze, ruoli e funzioni.
Eichmann in prigione
Ancora più controproducente risultò l’ostinazione dell’imputato a dipingersi come un esperto di emigrazione con profonde e sincere simpatie sioniste. Come segno del suo interesse per l’ebraismo, citò la richiesta, avanzata ai suoi superiori nel 1936, di una sovvenzione con cui sostenere i costi di un ciclo di lezioni di yiddish. Irritò pubblico e giuria rivendicando con orgoglio di aver reso possibile l’emigrazione di due terzi degli ebrei austriaci, passando sotto silenzio la loro sistematica spoliazione. Interrogato in merito al progetto Madagascar, azzardò un paragone, involontariamente provocatorio, con le idee di Theodor Herzl, padre del sionismo. Suscitando mormorii in aula affermò: ”Il mio unico sforzo era … suggerire in ogni modo che da qualche parte – come ho detto più e più volte – si mettesse una terra sotto i piedi degli ebrei.”. Senza preoccuparsi di sfidare il ridicolo, finse di non rendersi conto del carattere implicitamente genocida dello sradicamento di quattro milioni di europei per ammassarli in un’isola semiselvaggia, priva di risorse ed infrastrutture e per giunta sottoposta al controllo poliziesco delle SS. Si trattò certamente di una goffa finzione, dal momento che, su scala ben più ridotta, Eichmann nell’autunno del 1939 aveva personalmente organizzato il trasferimento forzato di appena qualche migliaio di ebrei austriaci, polacchi e moravi nello sperduto villaggio di Nisko, nei pressi di Lublino, con esiti disastrosi in termini di vittime causate da malattie, disagi, malnutrizione e maltrattamenti delle SS.
Eichmann descrisse la conferenza di Wannsee, a cui ribadì di aver partecipato come semplice relatore e senza nessun potere decisionale, come la definitiva sconfitta del suo sogno “sionista” di una ordinata emigrazione ebraica ed al tempo stesso come l’assoluzione da qualsiasi responsabilità penale personale, poiché in quell’occasione i vertici politici avevano impartito gli ordini di sterminio. Tentò di dimostrare la propria riluttanza ad obbedire ai nuovi orientamenti della politica nazista, dichiarando di aver chiesto a più riprese e senza successo un trasferimento ad altri incarichi, ma non fu in grado di esibire alcun documento a suo favore. Sconsolato affermò: “Quando la leadership di uno stato è buona, il subordinato è fortunato. Io sono stato sfortunato, perché a quel tempo il capo dello stato aveva emesso l’ordine di sterminare gli ebrei”.
Pur respingendo ogni accusa sul piano legale, riconobbe la propria colpa morale, ma non risultò affatto convincente, poiché non rinunciò al suo consueto tono glaciale e liquidò il rimorso come una consolazione per bambini. Anche sforzandosi di dimostrare di avere una coscienza tormentata non perse l’occasione per ribadire di essere una vittima e nulla più: “Esprimo il mio dolore e la mia denuncia per le attività di sterminio contro gli ebrei ordinate a quei tempi dai leader tedeschi. Però personalmente non potevo fare diversamente o di più. Io ero solo uno strumento nelle mani di poteri più forti e di forze più grandi e di un destino inesorabile.”.
Dietro la maschera del sionista divenuto genocida suo malgrado, tra parziali ammissioni, spudorate menzogne, ipocriti accenni a conflitti interiori sopiti nell’obbedienza, autoinganni ed amnesie selettive, Eichmann lasciò fugacemente intravvedere un altro volto: quello di un nazista che aveva consapevolmente accettato di diventare complice dello sterminio del popolo ebraico. I giudici di Gerusalemme, costretti sulla base delle evidenze processuali a ridimensionare le iperboli di Hausner, lo colsero, descrivendo Eichmann come un nazista convinto, colmo di un “odio freddo e calcolatore rivolto al popolo ebraico”, che aveva mentito per evitare la condanna, dimostrando le stesse qualità di cui aveva dato prova come responsabile del dipartimento IV B4: “una mente vigile, abilità di adattarsi a qualsiasi situazione difficile, astuzia, facilità di parola.”. I giornalisti, i commentatori ed il pubblico ministero, troppo impegnati ad innalzare simboli, ad inseguire astrazioni filosofiche, ad additare aberrazioni psicologiche, a trovare conferme a preconcetti ideologici, guardarono altrove.
Alla luce di una visione più complessa e documentata del Terzo Reich e della “soluzione finale”, la storiografia ha cercato recentemente di indagare sul volto nazista di Eichmann. Secondo l’approfondita analisi di David Cesarani, per diventare complice di crimini contro l’umanità Eichmann non assecondò un istinto innato, ma effettuò una scelta che, ad un certo momento della sua carriera di SS ed in una precisa fase della guerra hitleriana, intesa come lotta per la sopravvivenza della Germania e con essa della razza ariana, gli parve inevitabile. Accettò il genocidio spinto non solo dal senso del dovere, dal desiderio di rispettare il giuramento di fedeltà prestato, ma anche dalla convinzione, instillata nel suo animo da anni di indottrinamento nazista, secondo cui gli ebrei erano irriducibili nemici della razza ariana e perciò dovevano essere annientati.
Forse Eichmann non mentì del tutto quando dichiarò di aver avuto qualche sussulto di coscienza difronte alla “soluzione finale”, ma certamente non rifiutò la carriera del genocida, probabilmente con le stesse motivazioni di tante altre SS. Nessuna delle immani sofferenze inflitte al popolo ebraico riuscì ad impedirgli di svolgere i compiti assegnatigli con il massimo dell’impegno e con febbrile dedizione.
La strategia difensiva della rotellina dello sterminio, passiva e priva di odio, che ispirò così profondamente la Arendt, fu un’invenzione con ben pochi contatti con la realtà. Dopo la lettura della sentenza di condanna Eichmann confidò al suo legale: “E’ qualcosa che non mi aspettavo affatto, non mi aspettavo che non mi credessero per niente. Naturalmente io non ero la rotellina più piccola, e non sopporto più di sentire la parola ‘rotellina’, perché non è vero. Ma d’altra parte non ero neppure la molla.”.
Hitler, ossessionato dall’incubo della cospirazione ebraica, ordinò il genocidio, Himmler ed Heyndrich, ai vertici dell’apparato poliziesco del regime, ne pianificarono le direttrici, Eichmann ne divenne il direttore generale, affrontando con energia continui conflitti di competenza, beghe amministrative, cavilli giuridici e problemi organizzativi apparentemente insormontabili. Una mole di lavoro che avrebbe inceppato qualsiasi rotellina passiva, non sorretta da una robusta fede nazista. Eichmann invece portò a termine il suo compito, mostrando qualità superiori a quelle di un banale carrierista. Probabilmente il comandate di Auschwitz non esagerò tracciandone un ritratto vulcanico: “Era sulla trentina, molto vivace e attivo, sempre pieno di energia. Andava macchinando continuamente nuovi piani e continuamente era a caccia di innovazioni e di miglioramenti. Era incapace di starsene quieto. La sua ossessione era la questione ebraica.”.
Eichmann non fu esattamente il plenipotenziario per la “soluzione finale” immaginato da Hausner, quanto piuttosto un funzionario con gravosi compiti di collegamento e controllo. Il suo ruolo fu operativo, non rimase chiuso in ufficio a timbrare carte, si mosse frenetico da un capo all’altro dell’Europa per spronare e controllare il suo personale affinché il programma di sterminio tracciato in alto loco non subisse intoppi, visitò più volte i lager, poté vedere con i propri occhi l’orrore celato dietro le formule burocratiche, quasi materialmente spinse gli ebrei sui treni della morte. Come dimostrano i fatti d’Ungheria, non affievolì il suo impeto neanche quando l’edificio del Terzo Reich era sul punto di crollare ed una parte della leadership nazista tentava di far sparire le tracce dell’olocausto per aprirsi uno spiraglio verso il futuro.
L’incessante indottrinamento antisemita del regime nazista produsse effetti da un capo all’altro della catena di comando. Prima di impiccarsi nella sua cella, sottraendosi così alla sentenza dei giudici di Norimberga, Robert Ley, a capo del Fronte del Lavoro, l’organizzazione nata dalla nazificazione dei sindacati, scrisse: “Siamo finiti con il vedere tutto con occhi antisemiti. Era diventato un complesso… . Noi nazionalsocialisti vedevamo nelle lotte adesso alle nostre spalle solo una guerra contro gli ebrei, non contro i francesi, gli inglesi, gli americani o i russi. Credevamo che fossero tutti solo strumenti degli ebrei…”. Interrogato a Norimberga sulle radici del suo antisemitismo, un criminale come Höss spiegò: “…era qualcosa di scontato che gli ebrei avessero la colpa di tutto… . Come vecchio nazionalsocialista fanatico, io ho preso tutto come un dato di fatto … esattamente come un cattolico crede nei dogmi della sua chiesa. Era semplicemente la verità senza riserve, io non avevo dubbi in merito. Ero assolutamente convinto che gli ebrei fossero al polo opposto rispetto al popolo tedesco e che prima o poi ci sarebbe stato uno scontro tra il nazionalsocialismo e l’ebraismo mondiale … Ma tutti erano convinti di questo; era questo che si sentiva e si leggeva in giro.”
Anche scendendo la scala gerarchica sino all’ultima delle SS, risulta evidente che il genocidio non fu attuato da robot disumanizzati, ma da individui disciplinati che condividevano con i propri superiori le finalità degli ordini che eseguivano. Giunto al termine della sua vita, Oskar Groening, un graduato delle SS che aveva prestato servizio ad Auschwitz, ha raccontato al documentarista della BBC Laurence Rees la propria reazione quando scoprì quale orribile destino attendeva gli ebrei considerati non abili al lavoro: “Era inimmaginabile. Riuscii a comprenderlo del tutto solo quando fui di guardia agli oggetti di valore e alle valige alla selezione. Se devo dirla tutta fu uno shock che ci volle tempo per smaltire. Ma non bisogna dimenticare che ben prima del 1933 … la propaganda di quando ero ragazzo, sui mezzi di comunicazione e nella società in cui vivevamo, ci diceva che gli ebrei erano stati la causa della Prima guerra mondiale e alla fine avevano anche ‘pugnalato la Germania alle spalle’. E che gli ebrei erano responsabili dello stato di miseria in cui si trovava la Germania. Eravamo convinti che ci fosse una grande cospirazione ebraica contro di noi e quella visione del mondo trovava espressione ad Auschwitz. Bisognava evitare quello che era successo con la Prima guerra mondiale, cioè che gli ebrei ci facessero di nuovo precipitare nella miseria. I nemici interni dovevano essere uccisi, sterminati se necessario. E tra queste due battaglie, quella dichiarata al fronte e quella sul fronte interno, non c’era alcuna differenza. Stavamo sterminando dei nemici.”.
Eichmann mostrò, come osserva Cesarani, la sua intima e consapevole adesione al genocidio quando a Berlino nell’aprile del 1945 dichiarò ai suoi collaboratori del dipartimento IV B4 che sarebbe sceso con gioia nella tomba sapendo di aver contribuito allo sterminio di milioni di ebrei. Durante il processo di Gerusalemme, incalzato da Hausner non smentì di aver pronunciato una frase simile, ritenuta dalla Arendt nulla più che la melodrammatica vanteria di un uomo oppresso dalla mediocrità, si affrettò però a precisare di essersi riferito ai milioni di nemici del Reich, in particolare ai russi. Tuttavia alla domanda del pubblico ministero se nemico ed ebreo fossero per lui sinonimi Eichmann non esitò a rispondere affermativamente.
Alcuni anni prima di essere rapito, ritenendosi ormai al sicuro e dimenticato da tutti, Eichmann accettò di registrare ore ed ore di conversazioni sulla “soluzione finale” con il giornalista di origine olandese Willem Sassen, con cui condivideva oltre alla lingua la passata militanza nazista. In un clima di confidenze tra camerati, opportunamente surriscaldato dal cognac, si lasciò andare a dichiarazioni rivelatrici della sua determinazione genocida. Si dolse di non essere riuscito a superare tutti gli ostacoli che avevano ritardato ed intralciato il suo lavoro. Ricordò invece con soddisfazione le occasioni in cui, come in Ungheria, le deportazioni si erano svolte rapidamente ed ordinatamente. Tracciando un bilancio della sua battaglia per l’attuazione della “soluzione finale”, Eichmann affermò: “No, non ho assolutamente rimpianti e non mi cospargo il capo di cenere. Nei quattro mesi durante i quali hai presentato tutta la materia, durante i quali hai cercato di rinfrescarmi la memoria, mi sono tornate in mente molte cose. Sarebbe troppo facile, e potrei ragionevolmente farlo per ingraziarmi l’opinione pubblica corrente, recitare la parte di un Saulo che è diventato un Paolo. Ma devo dirti che non posso farlo, perché il mio essere più profondo rifiuta di dire che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. No: devo dirti in tutta sincerità che, se dei 10,3 milioni di ebrei … ne avessimo uccisi 10,3 milioni, io sarei soddisfatto. Direi: ‘Benissimo. Abbiamo sterminato un nemico’.”.
Forse al momento di salire sul patibolo l’unico dilemma che turbò la coscienza nazista di Eichmann fu quello espresso in termini poetici da Primo Levi:
“Salterai nel sepolcro allegramente?
O ti dorrai come in ultimo l’uomo operoso si duole, cui fu la vita breve per l’arte sua troppo lunga, dell’opera tua trista non compiuta, dei tredici milioni ancora vivi?”
Bibliografia
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vitasemplice · 5 years
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E la storia continua
Prima di riprendere a scrivere gli appunti di viaggio riporto una frase sentita in un film oggi: siamo tutti dei senzatetto alla continua ricerca della strada per tornare a casa.
.....30/12  Questa mattina iniziamo la giornata visitando la spianata delle moschee. Dopo aver attraversato i controlli della polizia, attraverso una passerella di legno che ci fa andare oltre il Muro del Pianto ci ritroviamo su questa grande spianata, spianata perché in origine non era un terreno piano, è stato spianato per costruire il Tempio. Il re Davide conquista Gerusalemme, già re del sud diventa così anche re del nord, Gerusalemme non era mai stata ebrea ed era considerata imprendibile vista la sua posizione su un’altura ma grazie ad una spia Davide viene a conoscenza dell’esistenza di un canale sotterraneo usato dalla popolazione per l’approvvigionamento di acqua quindi riesce ad infiltrarsi in città e a conquistarla decidendo poi di dichiararla la capitale del regno visto che si trovava in mezzo non facendo così torto ne al regno del sud ne a quello del nord. Da questo momento incomincia la sventura di Gerusalemme che si protrae ancora oggi. Davide vuole costruire un tempio a Dio ma Dio non glielo permette, lo costruirà suo figlio Salomone nella parte più alta della città che fa spianare, ora qui ci sono la Moschea di Omar e la Moschea al-Aqsa. Questo tempio viene distrutto da Nabucodonosor e per 70 anni restano solo macerie; quando gli ebrei ritornano in città ricostruiscono il tempio e quando diventa re Erode, 30 anni circa prima di Gesù, forse per ingraziarsi il popolo, visto che lui abile politico tanto che resta reggente anche durante l’occupazione romana fors'anche perché non era un puro ebreo, fa costruire un grande muro di cinta intorno alla spianata rendendo più agevole il movimento intorno al tempio. Quando Gesù frequentava il tempio questo muro c’era già, qui sono successi tanti avvenimenti riportati nel Vangelo uno di questi fatti è il ritrovamento di Gesù al tempio da Maria e Giuseppe (Luca 2,41-50), queste pietre Lo hanno visto! Al tempo di Gesù c’era un grande portico dove si fermavano i rabbini, ma non solo, ad insegnare, qui chiunque poteva fermarsi e dire la propria idea o ascoltare quella degli altri, qui Gesù predica e compie miracoli, qui scaccia i mercanti ecc. quindi anche se ora ci sono le moschee questo luogo trasuda cristianità. 
La moschea di Omar chiamata anche Cupola della Roccia è un santuario islamico e  con la Moschea al-Aqsa, costituisce l'al-Ḥaram al-Sharīf, considerato dal Sunnismo il terzo sito più sacro del mondo islamico dopo la Kaʿba e la Moschea del Profeta di Medina; secondo la tradizione islamica, Burāq (o Burak; in arabo: lampo) è un destriero mistico venuto dal paradiso islamico, destinato alla cavalcatura dei vari profeti, specie di Maometto, la tradizione narra che nel VII secolo Burāq fu incaricato dall'angelo Gabriele di portare il profeta dell'Islam  con un miracoloso tragitto avvenuto di notte dalla Mecca a Gerusalemme, qui lega il cavallo al muro del pianto e vola in cielo fin sotto il trono di Dio.
Anche per gli ebrei questo luogo è il più santo perché la roccia venerata dai mussulmani come il punto dove Maometto è salito al cielo, è la roccia dove Abramo doveva sacrificare Isacco quindi per tutte e tre le religioni questo è un luogo di Dio, ci sono quindi molti controlli con il compito di impedire agli integralisti ebrei di far danno alle moschee perché si scatenerebbe un disastro, gli integralisti sono molto aumentati e i mussulmani hanno paura, se qualche ebreo vuole salire alla spianata viene scortato dalla polizia. L��attentato peggiore nella moschea di al-Aqsa è stato fatto da un cristiano, gli evangelici sostengono il movimento sionista, uno di loro è riuscito ad entrare nella  moschea con una bottiglia di benzina e ha dato fuoco ad un pulpito donato da Saladino........
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usaroadtripp-blog · 7 years
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Day 99
“Nessuno può mettere Baby in un angolo”
Difficile non adorare Dirty Dancing, la storia di una ragazza normale che nel giro di un'estate diventa una principessa, una ballerina, una ribelle, scoprendosi donna e librandosi in aria, in una delle scene iconiche degli anni 80. Eppure c'è una maledizione intorno a questo film, una iattura o una jettatura Gauteriana di cui in pochi sono al corrente, noi la chiameremo semplicemente “la maledizione del ballo proibito”! Tutto ebbe inizio negli anni 50 anche se il film è ambientato nel 1963, Eleanor Bergstein, giovanissima newyorkese di 17 anni di buona famiglia ebrea, trascorreva le vacanze nei vicini Catskill Mountains, in un periodo in cui“tutti mi chiamavano ancora baby e a me non dispiaceva affatto. Era prima che uccidessero Kennedy, prima dei Beatles, quando io credevo nell'impegno civile e soprattutto quando mai avrei pensato che al mondo potesse esistere un altro uomo oltre a mio padre.” A questo punto Eleanor ebbe l'idea di scrivere una sceneggiatura per il teatro, per Broadway e le cose andarono alla grande, fu un successone fin quando Hollywood non si accorse del potenziale di quella storia e decise di farci un film. Le cose non andarono peggio, anzi, la pellicola partita con un budget ridotto e senza attori famosissimi, incassò oltre 214 milioni di dollari in tutto il mondo, diventando il primo film a vendere più di un milione di copie in quella che, non senza nostalgia, chiamiamo “cassetta”, l'home video insomma.
Un successo scritto, Patrick Swayze che fino ad allora aveva girato film come “I ragazzi della 56ª strada” di Coppola e “Alba Rossa” di Milius, di li a poco sarebbe diventato un sex symbol degli anni novanta. Alla giovane e promettente Frances "Baby" Houseman, nella vita Jennifer Grey, sarebbero state spalancate tutte le porte di Hollywood. Stessa cosa ovviamente per il regista esordiente Emile Ardolino, di origini italiane, che aveva diretto solo un documentario e nel giro di pochi mesi si trovò ad essere uno dei registi fabbrica soldi che tanto amano negli studi di L.A..
Ma le cose non andarono così.
La maledizione dei balli proibiti colpì inesorabilmente. Non subito ma col tempo.
Il primo a pagarne le conseguenze fu proprio  Ardolino che dopo essersi confermato come un regista, talentuoso con Sister Act, contrasse il virus dell'Hiv e morì a soli 49 anni per complicazioni dovute alla malattia. Swayze ebbe in effetti molto successo negli anni successivi, inanellando una serie impressionante di film cult, persino un sequel di Dirty Dancing. Poi però gli venne diagnosticato un tumore al pancreas e si spense il 14 settembre 2009 all'età di 57 anni (la stessa età della morte del padre), venti mesi dopo la conferma della diagnosi.
Max Cantor, attore che nel film interpretava il ruolo di Robbie Gould,  morì nel 1991 di overdose e una delle ballerine professioniste del cast, Jennifer Stahl, venne uccisa nel suo appartamento di New York nel 2001. Anche Jerry Orbach, attore che interpretò il ruolo del padre di Baby,  venne colpito dalla maledizione e si spense nel 2004 per un tumore alla prostata. Ma non è finita qui... persino la Vestron Video, lo studio di produzione del film, nonostante i milioni guadagnati con Dirty Dancing, finì rapidamente in bancarotta.
Meglio andò a “baby”, lo stesso anno in cui girò Dirty Dancing infatti, l'attrice ebbe un gravissimo incidente automobilistico in Irlanda, insieme al suo fidanzato di allora, il collega Matthew Broderick. I due si salvarono per miracolo, ma nello scontro morirono due donne. L'attrice per anni fece molta fatica a lavorare e pian piano Hollywood si dimenticò di lei, nonostante si fosse sottoposto ad un intervento chirurgico per cambiare il suo caratteristico naso. Nel 2010 dopo un controllo medico per la sua partecipazione a Dancing with the Stars (versione americana di Ballando con le stelle), le venne diagnosticato un nodulo maligno al collo, che successivamente è stato asportato chirurgicamente.
E la nostra Eleanor Bergstein?! L'originale “baby”, scrittrice di Dirty Dancing ci riprovò con "It's My Turn", interpretato da Michael Douglas. Il film fu un flop e lei venne nominata ai Razzie Awards per la peggior sceneggiatura, ma capì l'antifona e si ritirò, non scrisse più nulla. Ora ha 80 anni e vive da sola a casa con 12 gatti (o almeno così me la immagino).
Insomma una storia triste, ma in fondo la penso un po' come Woody Allen “Beh, essenzialmente è così che io guardo alla vita: piena di solitudine, di miserie, di sofferenze, di infelicità... e disgraziatamente dura troppo poco.”
A questo punto tocca spiegare perchè abbia dedicato un'intera giornata del mio viaggio virtuale a raccontare le disgrazie capitate ai protagonisti di Dirty Dancing. La ragione è subita servita... a pochi chilometri da Charlotte nel Nord Caroline c'è Lake Lure, una località molto affascinante dove 30 anni fa hanno girato il film. Qui nel 1987 c'era lo splendido Kutsher Hotel, neanche a dirlo pochi anni dopo le riprese di “Lucky” Dancing, chiuse i battenti e oggi al suo posto c'è un centro benessere.
Vabbè chiudiamo sta giornata con la canzone di oggi, prendo spunto proprio dal film e vi propongo un pezzo meraviglioso dalla sua colonna sonora, scritto proprio nell'estate del 1963, dall'immenso Phil Spector e portato al successo dalle The Ronettes, “Be My Baby”. Spesso considerata come la massima espressione del cosiddetto “Wall of Sound” di Spector, la canzone è riconosciuta come uno dei brani che maggiormente hanno influenzato l'evoluzione dell'intero genere pop.
“Dopo Be my baby le nostre vite sono state capovolte” ricordò Ronnie Spector, cantante di punta delle The Ronettes, nonché moglie di Phil, “tutte le cose che avevo sempre sognato finalmente si avverarono.” Sembrano un po' le parole di Frances “Baby”...
Ma i due divorziarono l'anno successivo e Spector, non proprio una brava persona, ostacolò l'ascesa delle cantanti, tanto che Be my baby è di fatto l'unica canzone per le quali vengono ricordate, visto che la loro carriera si concluse nel 1966.
Per oggi è tutto, giuro che domani parleremo di cose allegre (o quantomeno piccanti).
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iniziativa21058 · 7 years
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Tra­smettere la Memoria
 Il 27 gennaio è la Giornata della Memoria, l’occasione per ricordare l’indicibile tragedia dell’Olocausto. I libri scritti sull'argomento (ogni anno ne vengono pubblicati di nuovi) sono numerosi: biografie, romanzi e saggi raccontano sotto ogni aspetto una delle pagine più buie della storia occidentale. Così questo triste anniversario può trasformarsi in un’occasione non solo di memoria e compianto, quanto di riflessione e approfondimento sia sulla tragedia dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti sia sulla complessa, precaria situazione storica, politica e sociale del mondo di oggi. La Redazione de il Libraio ha selezionato alcune delle novità più interessanti del panorama letterario sull'argomento. Una lista di consigli di lettura (non in ordine di importanza) per chiunque volesse approfondire.
– Piotr Cywinski, Non c’è una fine. Tra­smettere la memoria di Auschwitz (Bollati Boringhieri) Cywinski è il direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau, un luogo che riceve ogni anno oltre un milione di visitatori che vorrebbero avere un’esperienza diretta di ciò che fu la Shoah. Con questo libro l’autore vuole trasmettere la memoria dell’indicibile e del non-credibile: pagine toccanti che andrebbero lette e meditate prima di un “Viaggio della Memoria“, per capire che lì non si troveranno risposte, ma altre domande: leggi un capitolo
– Tadeusz Pankiewicz, Il farmacista del ghetto di Cracovia (Utet) Il-farmacista-del-ghetto-di-Cracovia Quando in un quartiere periferico di Cracovia viene creato il ghetto ebraico, il 3 marzo 1941, Tadeusz Pankiewicz ne diventa suo malgrado un abitante. Pur senza essere ebreo, infatti, gestisce l’unica farmacia del quartiere, contro ogni logica di sopravvivenza, decide di rimanere e di tenere aperta la sua bottega, resistendo ai diversi tentativi di sgombero. Mescolando il rigore della ricostruzione e la delicatezza del ricordo, Tadeusz Pankiewicz restituisce la sua versione di questa tragedia, raccogliendo le storie di chi ha subito impotente la “soluzione finale”: Il farmacista del ghetto di Cracovia si fa testimone delle brutalità del nazismo, fedele cronista dei fatti e silenzioso soccorritore, cercando in tutti i modi di salvare la vita e, quando impossibile, almeno la memoria delle migliaia di ebrei del ghetto di Cracovia.
– Vanna Vinci, Aida al confine (Bao publishing) Quando Aida si trasferisce a Trieste, città dei nonni materni, si ritrova all’improvviso al centro di misteriosi mutamenti nello scorrere del tempo, e ha così modo di riabbracciare i suoi cari, morti ormai da anni. Una storia che parla della prima guerra mondiale, ma anche della seconda, delle deportazioni, dei nazisti e delle leggi razziali. Vanna Vinci dà vita a un graphic novel abitato da figure malinconiche, rivelando emozioni ed esperienze in un racconto sospeso tra la vita e la morte. Il volume sarà in libreria dal 9 febbraio e contiene una postfazione ad opera dell’autrice con documentazione storica sulla città di Trieste e, in particolare, sulla Risiera – unico campo di concentramento in Italia dotato di forno crematorio. – Primo Levi (a cura di Marco Belpoliti), Opere complete (Einaudi), Voll 1 e 2 Oggi Primo Levi è considerato un autore a tutto tondo, di importanza internazionale, e non più “solo” un fondamentale testimone della tragedia dell’Olocausto – quale era ritenuto nel 1997, all’epoca della prima edizione della sua Opera completa. Nella presente pubblicazione (composta di due volumi, cui si aggiungerà un terzo) si tiene conto degli studi intrapresi negli ultimi vent’anni attraverso convegni, mostre, dibattiti, lezioni pubbliche, nonché degli approfondimenti compiuti dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi e della recente edizione americana dei Complete Works. – Aharon Appelfeld, Il partigiano Edmond (Guanda) Il partigiano Edmond Ucraina, ultimo anno di guerra. Edmond ha 17 anni quando riesce a sfuggire alla deportazione, ed entrare in una banda di partigiani ebrei. Gli addestramenti quotidiani e la vita comunitaria lo hanno irrobustito facendo del liceale di buona famiglia un uomo pronto a fronteggiare la morte e (cosa ancor più difficile) le proprie radici e i ricordi: la fede degli avi, il distacco dai genitori e la distanza emotiva nell’ultimo periodo trascorso insieme che ora gli appare imperdonabile. Stare con i partigiani significa riscattarsi, riguadagnare uno scopo che renda la vita degna di essere vissuta. Questo gruppo di uomini, donne e bambini, che lotta contro il freddo e l’estrema miseria non vuole solo sopravvivere, ma anche, e soprattutto, salvare il proprio popolo e raggiungere “la vetta”, il luogo tanto geografico quanto spirituale della loro realizzazione. – Viktor E. Frankl, L’uomo alla ricerca di senso. Uno psicologo nei Lager e altri scritti inediti, Franco Angeli A 50 anni dalla prima edizione italiana, un’edizione nuova e corredata da un testo (finora inedito in Italia) in cui Frankl spiega in termini molto divulgativi la sua teoria. Un libro che non è solo una raccolta memorie della Shoah, anche se una testimonianza di particolare rilievo perché la condizione estrema dell’internato – sperimentata di persona da Frankl prima ad Auschwitz e poi a Dachau dal 42 al 45 – è descritta e interpretata con lo sguardo quasi distaccato dello psicologo; ma anche e soprattutto un libro di psicologia. Quella di Frankl  è infatti una ricerca ante litteram delle radici della resilienza umana. Una riflessione sulla condizione umana che vale per tutte le situazioni-limite (sofferenze, malattie, lutti…) che sfidano la capacità dell’uomo di resistere e di sopravvivere. – Emmanuelle Pirotte, Oggi siamo vivi (Nord) Dicembre 1944. Una bambina ebrea e un soldato tedesco divisi da una pistola, tutto intorno la neve. Davanti a Mathias e Renée c’è solo la guerra, una guerra in cui ormai è impossibile per loro distinguere amici e nemici, e in cui la salvezza sembra di giorno in giorno più inafferrabile. Ma anche nell’ora più buia, basta un’unica, coraggiosa scelta per varcare il confine che separa la vita dalla morte, il bene dal male, l’aguzzino dall’eroe. Un romanzo che ricorda che non è mai troppo tardi per cambiare il nostro destino. – Maurizio Molinari e Amedeo Guerrazzi Osti, Duello nel ghetto. La sfida di un ebreo contro le bande nazifasciste nella Roma occupata (Rizzoli) Moretto nel 1943 è l’unico ebreo romano che durante l’occupazione nazista resta in città per dare la caccia ai suoi persecutori. Pugile dilettante, la sua vita cambia dopo il 1938 ma lui trova il modo per ribellarsi: fa innamorare la nipote di Luigi Roselli, uno dei più spietati e pericolosi collaboratori italiani dei nazisti, e, grazie alle informazioni della giovane, lancia una sfida alle bande comandate dal colonnello Kappler, capo della polizia tedesca di Roma. Arrestato due volte, riesce sempre a fuggire mettendo in atto stratagemmi e altri intrighi, continuando a combattere contro centinaia di spie, delatori e poliziotti fascisti… – Orbach Danny, Uccidere Hitler. La storia dei complotti tedeschi contro il Führer, (Bollati Boringhieri) Questo libro è un nuovo studio della cospirazione clandestina antinazista in Germania e dei numerosi tentativi che questa rete di resistenza organizzò nel tempo per assassinare Adolf Hitler. È una storia che toglie il fiato, mentre l’autore racconta segrete riunioni notturne, profonde crisi di coscienza e duri scontri tra vecchi amici su come e quando abbattere il nazismo. Lo sguardo innovativo di Danny Orbach analizza con l’occhio dell’uomo di intelligence, oltre che con quello dello storico, la rete clandestina e le sue dinamiche operative. – Alon Confino, Un mondo senza ebrei (Mondadori) Se alla base dello sterminio degli ebrei vi era l’ideologia razziale, come spiegare un episodio come quello della “notte dei cristalli“, in cui un’esplosione di follia il 9 novembre 1938 fece bruciare la Bibbia ovunque in Germania? Partendo da questo particolare, nel suo saggio l’autore ripercorre la cultura degli anni precedenti la guerra per capire come i tedeschi arrivarono a costruire l’idea di una Germania senza ebrei: Confino ricostruisce le storie che i Nazisti si raccontavano, sulle loro origini e sul loro futuro, e come questo immaginario portò alla conclusione che gli ebrei dovevano essere sterminati perché la civiltà nazista potesse finalmente trionfare. – Saul Friedländer, Gli anni dello sterminio (Garzanti) In questa poderosa sintesi il premio Pulitzer 2008 Saul Friedländer studia la macchina nazista ai suoi diversi livelli e nei diversi paesi, al fine di capire la scala, la complessità e l’interdipendenza dei vari fattori che resero possibile lo sterminio. Il materiale esaminato è enorme: non solo documenti ufficiali, ma anche diari, lettere e memorialistica. Il libro restituisce una terribile pagina di storia in tutte le sue sfaccettature, erigendo un autentico monumento alle sue vittime.– Steven Beller, L’antisemitismo (Il Mulino)l'antisemitismoSe l’odio per gli ebrei e il giudaismo segna la civiltà occidentale fin dai tempi dell’Impero romano, l’ideologia e la politica antisemita sono un fenomeno che si sviluppa nel corso dell’Ottocento, in particolare nell’Europa centrale. È questo antisemitismo moderno che sfocia, tragicamente, nella Shoah. Questo saggio, oltre a ripercorrere le cause dell’intolleranza diffusa, arriva a dimostrare come oggi il rischio di un ritorno dell’antisemitismo stia nella ripresa dei nazionalismi esclusivisti, che non accettano e dunque negano le differenze. – Baba Schwartz, I 3000 di Auschwitz (Newton Compton) Nel marzo 1944 la Germania invase l’Ungheria e quasi 300.000 ebrei vennero deportati nei campi di concentramento. Baba Schwartz era tra loro. In questo libro, intenso come un memoir e appassionante come un romanzo, Baba Schwartz descrive l’innocenza e la spensieratezza dell’infanzia e della prima giovinezza e l’orrore indicibile dei suoi sedici anni quando, nel maggio del 1944, i nazisti arrivarono per portarlo via. Ricco di amore nonostante l’odio e di speranza in mezzo a tanta disperazione, I 3000 di Auschwitz è un libro straziante e al tempo stesso carico di fiducia. – Scheyer, Un sopravvissuto (Guanda) Non solo documento e testimonianza, non solo un caso editoriale: Un sopravvissuto è un testo di grande livello letterario, firmato da un intellettuale ebreo austriaco costretto ad abbandonare il suo paese nel 1938, dopo l’Anschluss. Giornalista e scrittore, Moriz Scheyer ha ricostruito in presa diretta un’esperienza unica, che ha del miracoloso, riversando in queste pagine la sua parabola individuale, i suoi incontri, le sue paure e le sue speranze, quando ancora non aveva alcuna certezza di quale sarebbe stato il suo destino. – Hans Mommsen, La soluzione finale: Come si è giunti allo sterminio degli ebrei (Il Mulino) Un saggio che ricostruisce come l’antisemitismo tedesco divenne la cifra caratteristica dei movimenti di destra e del partito hitleriano durante gli anni della Repubblica di Weimar, e con il nazismo al potere si tradusse in persecuzione sempre più violenta. Ma fu la guerra all’est a far precipitare la situazione: da un lato la conquista di territori con una cospicua popolazione ebraica, dall’altro il fallimento dell’attacco all’Urss che mandò in fumo il progetto di deportare gli ebrei in Siberia. Arbitrio, efficienza, ottundimento morale: lo sterminio si nutrì di se stesso, finché, con le deportazioni a partire dall’estate 1942, si dichiarò per quello che era, il programma di un genocidio. – Marco Belpoliti, La prova: Un viaggio nell’Est Europa sulle tracce di Primo Levi (Guanda) Tra l’ottobre del 2004 e l’estate del 2005, Marco Belpoliti e il regista Davide Ferrario si sono messi sulle tracce di Primo Levi per trarne un film. Dalla Polonia all’Ucraina, dalla Bielorussia alla Moldavia, dalla Germania all’Austria, hanno visitato i luoghi in cui era passato Levi, documentando quello che vedevano e ascoltando le storie che quei posti e le persone che li abitavano avevano da dire loro. Da questa esperienza è nato La prova: un taccuino di viaggio fatto di parole, fotografie e disegni Tregua per capire l’Europa che sarebbe venuta. Pubblicato con una nuova postfazione a distanza di dieci anni dalla prima uscita, il libro si muove agile tra storia e memoria, tra passato e presente e costituisce anche un modo per entrare nell’opera di Primo Levi attraverso un corpo a corpo con le sue parole, le sue idee, i suoi pensieri. – Andrea Molesini, All’ombra del lungo camino (BUR Rizzoli Ragazzi) Un libro sul potere dell’amicizia e dell’immaginazione: sul suo straordinario potere di rendere liberi, sempre. Molesini, vincitore del premio Supercampiello del 2011 e Premio Andersen alla carriera, racconta in questo libro l’amicizia tra Merlino e Schulim e il loro rocambolesco piano di fuga dall’orrore di un lager. “Hai ragione, Schulim” disse Merlino. “Quello che davvero vogliono è farci simili a bestie così, quando ci uccideranno, uccideranno delle bestie, non degli uomini. Ma finché avremo memoria, noi resteremo uomini e, a dispetto delle botte, della fame e delle umiliazioni, li costringeremo a uccidere degli uomini: così, fino alla fine dei tempi, gli assassini verranno chiamati assassini”.
– Edith Bruck, La rondine sul termosifone (La nave di Teseo) Protagonista del libro è il poeta Nelo Risi, terzo marito della scrittrice, scomparso nel settembre 2015. Edith Bruck le è stata accanto sino alla fine, trascorrendo accanto a lui gli anni della progressiva demenza, che lo ha allontanato dal mondo, dai suoi ricordi, dagli affetti, dal lavoro. Ne emerge il ritratto di una donna straordinaria che, testimone dell’orrore della Shoah e memore del dolore subito, ha deciso di rimanere al fianco dell’uomo amato. Così il ritratto di un amore diventa l’occasione per fare un bilancio della propria vita e del proprio rapporto con gli uomini, dando vita a un libro intimo, in cui la grande storia e le tragedie dell’autrice si affacciano, ma schermate dall’oblò di storie più personali. – Nicoletta Sipos, La promessa del tramonto (Garzanti) Tibor è un giovane medico ebreo che ha passato la vita a scappare: dalle leggi razziali dell’Italia fascista e dai campi di lavoro prima, dall’odio strisciante dell’Ungheria del 1951, in cui imperversa la dittatura stalinista, poi. La sua colpa è sempre stata una sola: quella di esistere. E adesso che è nascosto in un ripostiglio buio di una nave che dovrebbe portarlo verso la libertà, la luce che illumina il suo cammino è lei: Sara, la donna per cui ha rischiato tutto. La donna che lo aspetta, già in salvo, in Italia. La guerra e la famiglia di Sara, che non credeva nella forza dei loro sentimenti, hanno provato a dividerli. Ma nessuno è riuscito a spezzare il legame che li unisce, e ora Tibor sta cercando di raggiungerla. – Gian Piero Bona, L’amico ebreo (Ponte alle Grazie) Un romanzo autobiografico in cui l’autore racconta la vicenda di Sergej, ebreo quindicenne di origine russa, che la famiglia Bona accoglie in casa propria nel 1942, a Carignano, paese in provincia di Torino. Sergej viene fatto figurare come un lontano parente, stratagemma che lo pone al riparo dalle insistenti attenzioni del comandante locale delle SS, Richtel, personaggio grottesco e imprevedibile che dopo l’8 settembre ha deciso di installarsi proprio nella villa dei Bona. Tra Sergej e Gian Piero si instaura un profondo senso di comunanza, rinsaldato dalla passione per la musica e la poesia, dall’implacabile crudeltà degli occupanti tedeschi, e soprattutto dagli orrori – già in parte noti – della Shoah. Ma forze misteriose minacciano il destino del giovane latitante e della coraggiosa famiglia che lo ospita. – Tania Crasnianski, I figli dei nazisti, Bompiani Un saggio che racconta in otto storie esemplari la vita dei figli dei fedelissimi di Hitler, nati tra il 1927 e il 1944 e vissuti in un’infanzia dorata. Molti hanno scoperto la verità sui propri genitori solo dopo la fine della guerra, e le reazioni sono state le più diverse: c’è chi, come la figlia di Himmler, ha dedicato la propria vita alla riabilitazione della figura paterna o chi, come il figlio di Höss, è diventato un fiero negazionista; ma anche chi, come Rolf Mengele, ha deciso di cambiare il proprio cognome per non tramandare ai figli la vergogna, o chi ha scelto la via della fede, diventando missionario o convertendosi all’ebraismo.
http://www.illibraio.it/giornata-memoria-2017-libri-421963/
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I volti di Adolf Eichmann
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I volti di Adolf Eichmann
Molti criminali nazisti ebbero un aspetto assolutamente ordinario. A dispetto della propaganda di regime, neppure Adolf Hitler fece eccezione. Friedrich Reck-Malleczewen, un intellettuale nostalgico del kaiser disgustato dallo spettacolo di folle di tedeschi osannanti la svastica, confidò al proprio diario che il führer aveva l’aria di un “bigliettaio di tram” dal viso floscio, sformato, gelatinoso, livido e malaticcio.
Lo sguardo miope ed assorto del sanguinario reichsführer delle SS, Heinrich Himmler, fu paragonato a quello di un mite maestro di provincia.
Durante il processo di Norimberga, un avvocato americano descrisse il comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, come una persona all’apparenza normale come può esserlo un commesso di drogheria. Molti internati polacchi confermarono questa impressione. Lo psichiatra che interrogò Höss subito dopo la sua cattura, rimase scosso dal pensiero che lo sterminio di oltre un milione di persone potesse essere stato commesso da un uomo così banale. Lo stesso sbigottimento provò un ufficiale britannico quando notificò l’atto di accusa a Walter Funk, “…un individuo insignificante, basso, flaccido, calvo, con un viso paffuto ed ovale…”, che durante la guerra aveva diretto il ministero dell’Economia e la Reichsbank.
A Gerusalemme, nell’aprile del 1961, un altro e ben più feroce “criminale da scrivania” come Adolf Eichmann stupì tutti i commentatori per il suo aspetto ordinario e dimesso. Lo scrittore Moshe Pearlman si sentì quasi truffato vedendo comparire alla sbarra un uomo qualunque di mezza età e non il mostro che aveva immaginato. Il filosofo e matematico Bertrand Russell, autore nel 1954 del best seller “Il flagello della svastica”, vide in Eichmann lo stereotipo del burocrate anonimo e senza volto. La stessa impressione ebbe il giurista Telford Taylor, che poteva vantare una notevole esperienza in fatto di criminali nazisti, avendo ricoperto l’incarico di assistente di Robert H. Jackson, capo del collegio di accusa americano al processo di Norimberga.
Dopo la sentenza, persino il pubblico ministero israeliano Gideon Hausner, che aveva compiuto ogni sforzo per presentare Eichmann alla corte in termini demoniaci, dovette ammettere che “…il suo portamento da leader della Gestapo era scomparso e non c’era alcun indizio della sua forza diabolica e poco che indicasse la sua fin troppo nota malvagità, la sua arroganza e la sua capacità di compiere il male.”.
Al coro di stupore si unì anche l’inviata a Gerusalemme della rivista “New Yorker”, la filosofa ebrea tedesca Hannah Arendt che presentò Eichmann come un uomo terribilmente normale. All’amico, confidente e collega Karl Jaspers lo dipinse non come un’aquila, ma piuttosto come un fantasma chiuso in gabbia, reso ancor più fragile e vulnerabile da un fastidioso raffreddore che lo costringeva a soffiarsi il naso in continuazione. Un’immagine ben lontana da quella del superuomo ariano, sadico e fanatico, diffusa prima del processo dalla stampa e dalla pubblicistica.
Il “cacciatore di nazisti” Simon Wiesenthal, per evitare il rischio che pubblico e giuria potessero provare pietà per un uomo così ordinario ed all’apparenza inoffensivo, propose di far comparire in aula Eichmann in uniforme delle SS. Il suo consiglio rimase ovviamente inascoltato, lasciando all’opinione pubblica mondiale che seguiva le udienza in TV l’arduo compito di conciliare il ritratto dell’aguzzino sadico tratteggiato dagli instant book usciti prima del processo con l’immagine di quell’uomo di mezza età, miope e dalla calvizie incipiente, che prendeva meticolosamente appunti chiuso in una gabbia di vetro antiproiettile e si ostinava a ripetere di essere stato soltanto un esperto di trasporti. Ad accrescere l’imbarazzo ed il disorientamento di milioni di spettatori contribuì anche l’inserimento relativamente recente di Eichmann nel novero dei più esecrabili nemici dell’umanità. Alla fine della guerra il suo nome era infatti quasi sconosciuto agli Alleati e non compariva nell’elenco dei grandi criminali da processare a Norimberga. Fu Dieter Wisliceny, un subordinato di Eichmann, ad indicarlo per la prima volta nel novembre del 1945 come un personaggio chiave nell’attuazione della “soluzione finale della questione ebraica”. Le deposizioni rese da Höss nel marzo del 1946 fornirono ulteriori conferme, ma non furono sufficienti a destare l’attenzione né degli inquirenti, che non assegnarono alcuna priorità alla sua ricerca, né della stampa, che continuò ad ignorarlo, né degli storici, che fino alla metà degli anni ’50 si limitarono tutt’al più a citarlo come un amministratore incolore del genocidio. Neppure Wiesenthal, che a Mathausen aveva sentito nominare Eichmann come artefice della deportazione degli ebrei ungheresi, si rese immediatamente conto dell’importanza del suo ruolo. La lettura degli atti del processo di Norimberga gli aprì gli occhi quando ormai era troppo tardi. Con l’intensificarsi della “guerra fredda” l’interesse degli Alleati per la ricerca dei criminali nazisti era bruscamente calato, così come la pressione dell’opinione pubblica europea, assorbita dai problemi della ricostruzione e dall’incubo della minaccia comunista.
Soltanto la spavalda determinazione con cui, nel maggio del 1960, lo stato d’Israele sfidò il diritto internazionale, autorizzando il suo servizio segreto a rapire Eichmann in Argentina, convinse la stampa mondiale ad occuparsi del responsabile del dipartimento IV B4 dell’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA). A ridosso del processo vennero pubblicate, in diverse lingue, decine di biografie di Eichmann che, in mancanza di informazioni attendibili, fecero ampie concessioni al sensazionalismo. Alcune invenzioni furono ripetute così tante volte da diventare certezze, come la fandonia, suggerita da Wisliceny, secondo cui il fanatico antisemitismo di Eichmann sarebbe stato generato da un trauma infantile: lo scherno dei compagni di scuola che lo additavano come un ebreo. Simili grossolane interpretazioni si ispiravano, semplificandole sino all’involontaria parodia, alle teorie psicologiche sul nazismo, molto accreditate negli anni ’40 e ’50. Lasciando trasparire uno schema interpretativo comune alle biografie di tutti i gerarchi nazisti, a cominciare dallo stesso Hitler, Eichmann veniva ritratto come un disadattato ed un fallito, capace di trasformare la propria frustrazione in odio fanatico per il popolo ebraico. La compiaciuta descrizione di episodi, spesso non verificabili, di sadismo, brutalità e perversione sessuale completavano a fosche tinte il quadro di una personalità demoniaca.
Il pubblico ministero Hausner non seppe e non volle rinunciare ad una rappresentazione così sensazionalistica di Eichmann, ritenendo, erroneamente, che avrebbe giovato alla sua tesi accusatoria. Alla mostruosità dell’olocausto non poteva che corrispondere una incarnazione del male assoluto, anche se, al posto di fauci, zanne, artigli ed occhi iniettati d’odio, aveva le fattezze di un qualunque impiegato di mezza età.
Hausner diede ampio risalto ad episodi insignificanti o addirittura dubbi al solo scopo di dimostrare la personalità arrogante e brutale dell’imputato. Analizzando le attività dell’ufficio per l’emigrazione ebraica di Vienna, chiese conto ad Eichmann degli schiaffi inferti, in preda ad un accesso d’ira, al dottor Josef Löewenherz, capo della comunità ebraica viennese. Pur in assenza di prove certe, come riconobbe la stessa corte, si affrettò ad accusare Eichmann di aver ordinato l’esecuzione, nel 1944, di un giovane ebreo colpevole del furto di alcuni frutti nel giardino della sua villa di Budapest.
Oltre ad indugiare sul cliché dell’aguzzino sadico e spietato, Hausner si spinse a rappresentare Eichmann, fingendo di ignorarne la modesta posizione gerarchica, come la molla del genocidio: “… era la sua parola che metteva in azione le camere a gas; lui sollevava il telefono e i vagoni partivano verso i centri di sterminio; era la sua firma a suggellare il destino di migliaia di persone.”.
L’atto di accusa, articolato in quindici capi, non si limitò a contemplare le attività svolte dal dipartimento IV B4 diretto da Eichmann, già di per sé così mostruose da garantire la condanna dell’imputato e la sua perenne esecrazione, ma comprese anche un ampio catalogo di imputazioni che costituiva una sorta di summa delle sofferenze e delle atrocità subite dal popolo ebraico durante il regime nazista. Eichmann fu perciò chiamato a rispondere di una quantità sconcertante di crimini odiosi: dall’istigazione della “notte dei cristalli” nel novembre del 1938 alla pianificazione dello sterminio nella conferenza di Wannsee nel gennaio del 1942, dall’ordine di impiegare il gas Zyklon B nelle camere a gas all’efferatezze commesse dagli Einsatzgruppen in Russia nel 1941, dalle disumane condizioni di vita nei lager alle marce della morte, dalle sterilizzazioni di massa agli aborti coatti, dalla spoliazione degli ebrei europei alla loro riduzione in schiavitù, dalla deportazione di mezzo milione di polacchi, di decine di migliaia di zingari e di 140.000 sloveni all’assassinio di 100 bambini deportati dalla cittadina boema di Lidice. Alcuni capi di imputazione non furono altro che pretesti per moltiplicare le testimonianze sulla barbarie nazista, lasciando in ombra il ruolo dell’imputato. Nella terrificante grandiosità dell’affresco generale gli elementi probatori della sua colpevolezza a tratti quasi svanirono.
Nelle centoventuno udienze del processo sfilarono un centinaio di testimoni per l’accusa, tutti ansiosi di raccontare la loro storia d’orrore. Alcune deposizioni assunsero quasi i caratteri di conferenze sull’olocausto, altre riproposero stralci di memorie di deportazione e di prigionia già da tempo pubblicati. Incurante del richiamo della corte a non tracciare dispersivi “quadri generali” ed a rientrare nei binari tradizionali della procedura penale, Hausner si ostinò a chiamare a deporre testi il cui legame con Eichmann era talvolta vago se non evanescente. Zindel Grynszpan, padre di Herschel autore dell’assassinio di vom Rath, che aveva offerto alle SS, nel novembre del 1938, il pretesto per la “Notte dei cristalli”, riferì la sua vicenda personale benché fosse evidente che Eichmann non aveva avuto parte alcuna nell’organizzazione del pogrom e non vi aveva neppure preso parte. Il poeta e scrittore Abba Kovner, che aveva militato nella resistenza ebraica in Ucraina, fu ascoltato soltanto perché asseriva di aver appreso da un sergente tedesco che all’interno della Wehrmacht circolavano voci sull’importanza di Eichmann nell’organizzazione dello sterminio. Ben cinquantatre testimoni si dilungarono sulla tragedia degli ebrei in Lituania ed in Polonia, dove però l’autorità di Eichmann era stata quasi nulla. Pur di portare in aula l’eroica resistenza del ghetto di Varsavia, Hausner non esitò a sacrificare la pertinenza con le responsabilità dirette del dipartimento IV B4; e non fu l’unica volta che accadde. Altri sedici testimoni descrissero le atroci condizioni di vita di Auschwitz, Treblinka, Chelmno e Majdanek su cui, a differenza di quanto avvenne per il “ghetto per vecchi” di Theresienstadt, l’imputato non poté minimamente influire.
La sentenza non mancò di stigmatizzare l’inconsistenza della connessione di Eichmann con alcuni capi di imputazione, come a proposito del suo presunto controllo sugli Einsatzgruppen o sulle condizioni di vita nei lager, ma Hausner raggiunse comunque il suo scopo: raccontare al mondo l’olocausto.
Se le ampie concessioni del procuratore al cliché del sadico aguzzino nazista furono influenzate in parte dalle pressioni e dalle aspettative dell’opinione pubblica israeliana ed in parte dalle semplificazioni operate dalla pubblicistica, l’enfatizzazione del ruolo di Eichmann come pretesto per tracciare difronte al mondo intero un bilancio generale dell’enormità dell’olocausto rispose invece alla volontà del governo di Ben Gurion che, superate le iniziali preoccupazioni per il clamore internazionale suscitato dal rapimento del criminale nazista, si era convinto a trasformare il processo in una dimostrazione dell’imperativo dell’esistenza dello stato ebraico.
Con chiaro intento provocatorio, ma cogliendo pienamente il significato esemplare che il processo avrebbe dovuto assumere per ribadire la legittimità dello stato d’Israele, Wiesenthal propose che Eichmann fosse chiamato a dichiararsi colpevole o innocente difronte alla corte sei milioni di volte, una per ciascuna delle vittime dell’olocausto. Hausner respinse ovviamente una procedura così irrituale, ma si guardò bene sia dal rinunciare alla spettacolarizzazione del processo, sia dall’ergersi a difensore del principio della separazione tra potere esecutivo e giudiziario. Come membro del governo, in veste di ministro della Giustizia, accettò infatti di buon grado le indicazioni di Gurion circa la necessità di ammorbidire i riferimenti al popolo tedesco, per non incrinare gli ottimi rapporti con il cancelliere Adenauer, di non approfondire troppo il ruolo dei consigli ebraici nell’organizzazione delle deportazioni e di tacere l’imbarazzante partecipazione dello stesso Gurion ai negoziati avviati tra nazisti e sionisti in Ungheria nel 1944.
Tali omissioni indignarono Hannah Arendt che denunciò ai lettori del “New Yorker gli intenti mistificatori del processo, arrivando a sostenere che il popolo ebraico durante il Terzo Reich aveva dovuto difendersi da due terribili nemici: i nazisti ed i consigli ebraici, soprattutto quelli più permeabili agli ideali sionisti. Gli uni animati da un odio inestinguibile verso gli ebrei, gli altri disposti a tutto pur di compiacere le autorità, entrambi vittime di un collasso morale generato dallo stato totalitario hitleriano. Attirandosi gli strali del World Jewish Congress, scrisse: “Ovunque c’erano ebrei, c’erano stati capi ebraici riconosciuti e questi capi, quasi senza eccezioni, avevano collaborato con i nazisti, in un modo o nell’altro, per una ragione o per l’altra. La verità vera era che se il popolo ebraico fosse stato realmente disorganizzato e senza capi, dappertutto ci sarebbe stato caos e disperazione, ma le vittime non sarebbero state quasi sei milioni. …circa la metà si sarebbero potute salvare se non avessero seguito le istruzioni dei Consigli ebraici.”.
In questa chiave di lettura il genocidio non era semplicemente il risultato più aberrante di secoli di antisemitismo, ma la tragica conseguenza del potere totalitario che aveva rimosso il confine tra bene e male e corrotto la coscienza di ebrei e gentili, di funzionari nazisti come Eichmann e di funzionari ebraici come il dottor Rudolf Kastner che in Ungheria “…salvò esattamente 1684 persone al prezzo di circa 476.000 vittime.”. Pertanto il processo ad un burocrate della “soluzione finale” non avrebbe dovuto diventare un pretesto per celebrare le immani sofferenze del popolo ebraico, ma una occasione per esecrare l’orrore dello stato totalitario di cui l’olocausto non era che un’espressione.
Con altrettanta fermezza la Arendt denunciò l’esagerazione strumentale del ruolo di Eichmann nella persecuzione del popolo ebraico. Il principale ostacolo all’obiettivo di Gurion e di Hausner di rendere credibile che Eichmann fosse stato la molla dello sterminio, e non un semplice esecutore, era costituito dalla sua modesta posizione nella gerarchia dell’establishment nazista. Senza risultare mai convincente, fin dalle prime udienze Hausner si affannò a mettere in guardia il pubblico e la corte sul fatto che il grado di Obersturmbannführer delle SS, tenente colonnello, ricoperto dall’imputato non rispecchiava affatto la sua posizione di potere, che era in realtà unica, tale da consentirgli di trattare con i ministri del governo nazista, i capi di stato stranieri ed i vertici della Wehrmacht. Moltiplicò i suoi sforzi per indicare Eichmann come la forza motrice e l’organizzatore della conferenza di Wannsee, in cui furono appianate tutte le dispute interministeriali che rischiavano di inceppare la macchina dello sterminio. A queste forzature che stravolgevano la realtà, trasformavano il segretario della conferenza di Wannsee nel suo ideatore, ignoravano la gerarchia, elevavano un tenente colonnello, una rotellina nella macchina di morte nazista, a deus ex machina di una delle più grandi tragedie della storia dell’umanità, la Arendt reagì proponendo un altro stereotipo, non meno mistificatorio. Costruì sulla banalità di Eichmann un edificio filosofico, piegando i fatti alle sue esigenze teoriche, scrivendo un ottimo libro di filosofia ed un pessimo libro di storia. Creò un Eichmann altrettanto artificioso ed abnorme di quello Hausner, facendone la sintesi dell’uomo totalitario, dalla coscienza annullata e perciò capace, senza neppure rendersene conto, di qualsiasi disumana atrocità. Tracciò un profilo della personalità dell’imputato, destinato ad influenzare per decenni la riflessione di intellettuali ed accademici, assistendo ad appena quattro udienze. Le fu sufficiente gettare uno sguardo nella gabbia di vetro in cui era confinato il genocida ed ascoltare qualche parola del suo tedesco burocratico per avere la conferma di ciò che la sua teoria sullo stato totalitario corruttore di uomini e di coscienze le imponeva di vedere. Senza perdere troppo tempo in faticosi riscontri documentali si sentì subito pronta a fornire un’interpretazione della vita di Adolf Eichmann.
Facendo riferimento di sfuggita ad una dozzina di perizie psichiatriche, senza neppure degnarsi di menzionarne gli autori, la Arendt si premurò di sgombrare il campo dalle frettolose affermazioni della pubblicistica e di porre la pietra angolare del suo edificio filosofico: Eichmann non era né uno psicopatico, né un fanatico, ma un uomo normale, non aveva mai nutrito alcun odio verso gli ebrei e non aveva abbracciato la causa nazista per convinzione. Si era lasciato come inghiottire dal nazismo quasi senza accorgersene, mosso soltanto dal desiderio di crearsi una prospettiva di carriera rispettabile e di scrollarsi di dosso la sgradevole sensazione di sentirsi un fallito. Minimizzando l’influenza del background ultranazionalista ed antisemita in cui Eichmann era cresciuto, fingendo di ignorare che nel 1932 il partito nazista austriaco, diviso al suo interno, litigioso ed ancora ben lontano dal potere, non poteva apparire a nessun giovane ambizioso una scelta vincente per il futuro, la Arendt inventò il mito del nazista per opportunismo che si appunta la svastica al bavero della giacca senza conoscere né il programma, né l’ideologia di Hitler. A dispetto di ogni verosimiglianza, neppure l’addestramento delle SS, notoriamente incentrato sull’ossessivo indottrinamento ideologico antisemita, aveva potuto secondo la filosofa tedesca instillare l’odio nell’animo di Eichmann.
Per sprofondare il suo personaggio nel grigiore burocratico la Arendt gli negò arbitrariamente ogni traccia di idealismo ed ogni capacità di pensiero autonomo e scelse il carrierismo, con il suo ovvio corollario di piaggeria verso i superiori, come spiegazione universale del suo agire: “Se in una cosa egli credette sino alla fine, fu nel successo, il distintivo fondamentale della ‘buona società’ come la intendeva lui. Tipico fu l’ultimo giudizio che espresse sul conto di Hitler…‘avrà anche sbagliato su tutta la linea, ma una cosa è certa: fu un uomo capace di farsi strada e di salire dal grado di caporale dell’esercito al rango di Führer di una nazione di quasi ottanta milioni di persone… . Il suo successo bastò da solo a dimostrarmi che dovevo sottostargli.’.”.
“La banalità del male” dipinse il ritratto di un arrampicatore sociale, pronto a riconoscere in Hitler non il baluardo della razza ariana, il demiurgo della nuova Europa judenrein, liberata dagli ebrei, ma soltanto un uomo che si era fatto da sé. Presentò la vicenda professionale di Eichmann come una continua lotta per l’affermazione, senza l’assillo di qualsiasi scrupolo di coscienza. Quando da esperto di emigrazione forzata gli era stato imposto di tramutarsi in attuatore della “soluzione finale” si era allineato prontamente, cercando, come sempre, di fare del proprio meglio per ottenere l’encomio dei superiori. Leggi, regolamenti, ordini e disposizioni provenienti dalle legittime autorità gli avevano fornito tutte le giustificazioni di cui aveva bisogno per reprimere ogni remora morale e rendersi complice dello sterminio di milioni di persone. Nulla aveva potuto turbare il suo serafico distacco, generato dalla convinzione di agire come un cittadino ligio alla legge, cioè alla volontà del führer. Per la Arendt, l’odio ed il fanatismo non avevano sfiorato Eichmann neppure nell’autunno del 1944 in Ungheria quando, tra le macerie del Reich, aveva osato sfidare l’autorità di Himmler, ormai deciso a porre un freno al genocidio, organizzando le marce della morte, cioè il trasferimento a piedi da Budapest verso Vienna di colonne di migliaia di ebrei laceri, affamati ed infreddoliti.
L’episodio ungherese, palesemente rivelatore di una personalità tutt’altro che gregaria e scevra d’odio e di fanatismo, costrinse la Arendt a qualche acrobazia logica, ma non la convinse comunque a mettere in discussione il suo profilo di Eichmann, anzi le offrì l’occasione di renderlo ancora più suggestivo, come può esserlo l’immagine di un ingranaggio che una volta messo in moto non può più fermarsi, qualunque cosa accada.
Hannah Arendt accettò come veritiere le affermazioni di Eichmann che parevano confermare il suo profilo, ad esempio quelle in cui aveva paragonato il suo stato d’animo dopo la conferenza di Wannsee alla libertà da ogni senso di colpa di Ponzio Pilato, e liquidò invece come assurde ed insignificanti vanterie quelle che lo smentivano: “Chiunque poteva vedere che quell’uomo non era un mostro, ma era difficile non sospettare che fosse un buffone.”. Utilizzò la scorciatoia della millanteria per svilire il significato dello spirito di iniziativa dimostrato da Eichmann nell’organizzazione dell’ufficio per l’emigrazione ebraica di Vienna nel 1938, della carica di entusiasmo e di energia con cui aveva sviluppato nel 1940 il progetto volto al trasferimento degli ebrei in Madagascar, delle non comuni doti amministrative di cui aveva dato prova tra il 1942 ed il 1944 nei vari paesi in cui aveva scatenato la sua burocratica ferocia sulle comunità ebraiche; in questo modo rese più convincente la leggenda della rotellina passiva dello sterminio, impersonale, facilmente sostituibile, ed altrettanto facilmente riproducibile in qualsiasi stato totalitario, in ogni tempo.
L’intuizione della Arendt di universalizzare la figura di Eichmann, attraverso una lettura ideologica dei fatti e dei documenti ed una astrazione dal contesto storico, parve trovare, negli anni ’60, una conferma scientifica negli esperimenti sul comportamento dei soggetti sottoposti all’autorità condotti presso l’università di Yale dallo psicologo sociale Stanley Milgram. Posti difronte all’ordine, impartito da una autorità percepita come legittima, di eseguire azioni in conflitto con i propri valori etici, gli individui selezionati non si erano in maggioranza tirati indietro, anzi avevano obbedito ciecamente. L’estrazione sociale ed il livello di istruzione non avevano influito sul comportamento; il grado di obbedienza era invece crollato quando i soggetti avevano potuto vedere da vicino gli effetti del loro agire. L’immagine del “killer da scrivania”, che chiuso nel suo ufficio sigla documenti, sposta carte ed attiva processi senza rendersi conto delle sofferenze da lui generate, e proprio per questo è portato ad obbedire anche agli ordini più mostruosi, pareva quindi corroborata da un riscontro scientifico sperimentale. Confortati dai risultati di Milgram, intellettuali, accademici e larga parte dell’opinione pubblica finirono per accettare come una verità irrefutabile l’interpretazione secondo cui Eichmann sarebbe stato un uomo qualunque e chiunque avrebbe potuto essere Eichmann, spostando dal singolo individuo all’autorità dello stato il peso della responsabilità per i crimini contro l’umanità. Ancora oggi tale presunta verità continua a sedurre, nonostante l’evidenza sia degli aspetti arbitrari e mistificatori della teoria della “Banalità del male”, sia dell’assoluta incomparabilità tra gli ordini immorali impartiti da Milgram in laboratorio e la mostruosità dei crimini nazisti, su cui oltretutto influirono elementi storici, politici e culturali non riproducibili.
Pur rifuggendo da ogni astrazione filosofica e da ogni pretesa di svelare i segreti della psiche umana, anche il difensore di Eichmann, Robert Servatius, un attempato avvocato di Colonia che, difendendo senza successo Fritz Sauckel a Norimberga, si era guadagnato una certa reputazione come paladino legale dei nazisti, sposò la tesi della rotellina passiva nella grandiosa macchina di morte del Terzo Reich. Dopo aver contestato il fondamento giuridico del processo, sollevando dubbi sull’imparzialità dei giudici, in quanto ebrei, sulla competenza della corte ad emettere una sentenza su crimini commessi ben prima della nascita dello stato ebraico e sulla legalità del trasferimento di Eichmann in Israele, Servatius dichiarò che l’imputato era stato soltanto un ufficiale che aveva eseguito degli ordini ed applicato delle leggi dello stato. Chiese quindi il non luogo a procedere ed il proscioglimento di Eichmann, dal momento che la responsabilità di ogni eventuale crimine commesso era da attribuire allo stato tedesco ed alla sua leadership politica e non ad un misero funzionario.
La corte rigettò queste richieste, ma non poté impedire alla difesa di perseverare nella strategia di presentare Eichmann come un personaggio minore, privo di qualsiasi potere decisionale e discrezionale, mettendo in risalto le esagerazioni e le insinuazioni di Hausner, attraverso efficaci controinterrogatori dei testimoni dell’accusa. Servatius riuscì a far apparire vaghe, contraddittorie e tendenziose alcune deposizioni che avrebbero dovuto invece essere accolte come autorevoli ed oggettive; seppe sfruttare ogni occasione per ribadire la posizione subordinata del suo assistito; confutò specifiche accuse, dimostrando l’estraneità di Eichmann tanto allo sterminio dei bambini di Lidice, quanto all’assassinio del giovane ebreo ungherese sorpreso a rubare della frutta. Tuttavia l’efficacia della sua lunga esperienza forense fu indebolita non solo dall’impossibilità, a causa delle ristrette risorse del collegio di difesa, di analizzare una mole enorme di documenti, ma anche dalla verbosità e dalla controproducente puntigliosità burocratica del suo assistito. David Cesarani osserva:”Eichmann sembrava incapace di rispondere a una domanda con un semplice sì o no. Si imbarcava in spiegazioni prolisse, punteggiate da innumerevoli frasi subordinate che lasciavano il traduttore e gli stessi giudici disorientati sul significato di ciò che intendeva dire.”.
Servatius affidò grande importanza alla ricostruzione della catena di comando della “soluzione finale”, ma la deposizione del suo assistito risultò tutt’altro che convincente ed illuminante. Eichmann si sforzò di far comprendere la modestia della sua posizione gerarchica esponendo, in un gergo burocratico quasi impenetrabile, ben diciassette tabelle multicolori che non fecero altro che creare maggiore confusione e suggerire l’idea che stesse nascondendo le sue reali responsabilità dietro una spessa cortina fumogena di competenze, ruoli e funzioni.
Eichmann in prigione
Ancora più controproducente risultò l’ostinazione dell’imputato a dipingersi come un esperto di emigrazione con profonde e sincere simpatie sioniste. Come segno del suo interesse per l’ebraismo, citò la richiesta, avanzata ai suoi superiori nel 1936, di una sovvenzione con cui sostenere i costi di un ciclo di lezioni di yiddish. Irritò pubblico e giuria rivendicando con orgoglio di aver reso possibile l’emigrazione di due terzi degli ebrei austriaci, passando sotto silenzio la loro sistematica spoliazione. Interrogato in merito al progetto Madagascar, azzardò un paragone, involontariamente provocatorio, con le idee di Theodor Herzl, padre del sionismo. Suscitando mormorii in aula affermò: ”Il mio unico sforzo era … suggerire in ogni modo che da qualche parte – come ho detto più e più volte – si mettesse una terra sotto i piedi degli ebrei.”. Senza preoccuparsi di sfidare il ridicolo, finse di non rendersi conto del carattere implicitamente genocida dello sradicamento di quattro milioni di europei per ammassarli in un’isola semiselvaggia, priva di risorse ed infrastrutture e per giunta sottoposta al controllo poliziesco delle SS. Si trattò certamente di una goffa finzione, dal momento che, su scala ben più ridotta, Eichmann nell’autunno del 1939 aveva personalmente organizzato il trasferimento forzato di appena qualche migliaio di ebrei austriaci, polacchi e moravi nello sperduto villaggio di Nisko, nei pressi di Lublino, con esiti disastrosi in termini di vittime causate da malattie, disagi, malnutrizione e maltrattamenti delle SS.
Eichmann descrisse la conferenza di Wannsee, a cui ribadì di aver partecipato come semplice relatore e senza nessun potere decisionale, come la definitiva sconfitta del suo sogno “sionista” di una ordinata emigrazione ebraica ed al tempo stesso come l’assoluzione da qualsiasi responsabilità penale personale, poiché in quell’occasione i vertici politici avevano impartito gli ordini di sterminio. Tentò di dimostrare la propria riluttanza ad obbedire ai nuovi orientamenti della politica nazista, dichiarando di aver chiesto a più riprese e senza successo un trasferimento ad altri incarichi, ma non fu in grado di esibire alcun documento a suo favore. Sconsolato affermò: “Quando la leadership di uno stato è buona, il subordinato è fortunato. Io sono stato sfortunato, perché a quel tempo il capo dello stato aveva emesso l’ordine di sterminare gli ebrei”.
Pur respingendo ogni accusa sul piano legale, riconobbe la propria colpa morale, ma non risultò affatto convincente, poiché non rinunciò al suo consueto tono glaciale e liquidò il rimorso come una consolazione per bambini. Anche sforzandosi di dimostrare di avere una coscienza tormentata non perse l’occasione per ribadire di essere una vittima e nulla più: “Esprimo il mio dolore e la mia denuncia per le attività di sterminio contro gli ebrei ordinate a quei tempi dai leader tedeschi. Però personalmente non potevo fare diversamente o di più. Io ero solo uno strumento nelle mani di poteri più forti e di forze più grandi e di un destino inesorabile.”.
Dietro la maschera del sionista divenuto genocida suo malgrado, tra parziali ammissioni, spudorate menzogne, ipocriti accenni a conflitti interiori sopiti nell’obbedienza, autoinganni ed amnesie selettive, Eichmann lasciò fugacemente intravvedere un altro volto: quello di un nazista che aveva consapevolmente accettato di diventare complice dello sterminio del popolo ebraico. I giudici di Gerusalemme, costretti sulla base delle evidenze processuali a ridimensionare le iperboli di Hausner, lo colsero, descrivendo Eichmann come un nazista convinto, colmo di un “odio freddo e calcolatore rivolto al popolo ebraico”, che aveva mentito per evitare la condanna, dimostrando le stesse qualità di cui aveva dato prova come responsabile del dipartimento IV B4: “una mente vigile, abilità di adattarsi a qualsiasi situazione difficile, astuzia, facilità di parola.”. I giornalisti, i commentatori ed il pubblico ministero, troppo impegnati ad innalzare simboli, ad inseguire astrazioni filosofiche, ad additare aberrazioni psicologiche, a trovare conferme a preconcetti ideologici, guardarono altrove.
Alla luce di una visione più complessa e documentata del Terzo Reich e della “soluzione finale”, la storiografia ha cercato recentemente di indagare sul volto nazista di Eichmann. Secondo l’approfondita analisi di David Cesarani, per diventare complice di crimini contro l’umanità Eichmann non assecondò un istinto innato, ma effettuò una scelta che, ad un certo momento della sua carriera di SS ed in una precisa fase della guerra hitleriana, intesa come lotta per la sopravvivenza della Germania e con essa della razza ariana, gli parve inevitabile. Accettò il genocidio spinto non solo dal senso del dovere, dal desiderio di rispettare il giuramento di fedeltà prestato, ma anche dalla convinzione, instillata nel suo animo da anni di indottrinamento nazista, secondo cui gli ebrei erano irriducibili nemici della razza ariana e perciò dovevano essere annientati.
Forse Eichmann non mentì del tutto quando dichiarò di aver avuto qualche sussulto di coscienza difronte alla “soluzione finale”, ma certamente non rifiutò la carriera del genocida, probabilmente con le stesse motivazioni di tante altre SS. Nessuna delle immani sofferenze inflitte al popolo ebraico riuscì ad impedirgli di svolgere i compiti assegnatigli con il massimo dell’impegno e con febbrile dedizione.
La strategia difensiva della rotellina dello sterminio, passiva e priva di odio, che ispirò così profondamente la Arendt, fu un’invenzione con ben pochi contatti con la realtà. Dopo la lettura della sentenza di condanna Eichmann confidò al suo legale: “E’ qualcosa che non mi aspettavo affatto, non mi aspettavo che non mi credessero per niente. Naturalmente io non ero la rotellina più piccola, e non sopporto più di sentire la parola ‘rotellina’, perché non è vero. Ma d’altra parte non ero neppure la molla.”.
Hitler, ossessionato dall’incubo della cospirazione ebraica, ordinò il genocidio, Himmler ed Heyndrich, ai vertici dell’apparato poliziesco del regime, ne pianificarono le direttrici, Eichmann ne divenne il direttore generale, affrontando con energia continui conflitti di competenza, beghe amministrative, cavilli giuridici e problemi organizzativi apparentemente insormontabili. Una mole di lavoro che avrebbe inceppato qualsiasi rotellina passiva, non sorretta da una robusta fede nazista. Eichmann invece portò a termine il suo compito, mostrando qualità superiori a quelle di un banale carrierista. Probabilmente il comandate di Auschwitz non esagerò tracciandone un ritratto vulcanico: “Era sulla trentina, molto vivace e attivo, sempre pieno di energia. Andava macchinando continuamente nuovi piani e continuamente era a caccia di innovazioni e di miglioramenti. Era incapace di starsene quieto. La sua ossessione era la questione ebraica.”.
Eichmann non fu esattamente il plenipotenziario per la “soluzione finale” immaginato da Hausner, quanto piuttosto un funzionario con gravosi compiti di collegamento e controllo. Il suo ruolo fu operativo, non rimase chiuso in ufficio a timbrare carte, si mosse frenetico da un capo all’altro dell’Europa per spronare e controllare il suo personale affinché il programma di sterminio tracciato in alto loco non subisse intoppi, visitò più volte i lager, poté vedere con i propri occhi l’orrore celato dietro le formule burocratiche, quasi materialmente spinse gli ebrei sui treni della morte. Come dimostrano i fatti d’Ungheria, non affievolì il suo impeto neanche quando l’edificio del Terzo Reich era sul punto di crollare ed una parte della leadership nazista tentava di far sparire le tracce dell’olocausto per aprirsi uno spiraglio verso il futuro.
L’incessante indottrinamento antisemita del regime nazista produsse effetti da un capo all’altro della catena di comando. Prima di impiccarsi nella sua cella, sottraendosi così alla sentenza dei giudici di Norimberga, Robert Ley, a capo del Fronte del Lavoro, l’organizzazione nata dalla nazificazione dei sindacati, scrisse: “Siamo finiti con il vedere tutto con occhi antisemiti. Era diventato un complesso… . Noi nazionalsocialisti vedevamo nelle lotte adesso alle nostre spalle solo una guerra contro gli ebrei, non contro i francesi, gli inglesi, gli americani o i russi. Credevamo che fossero tutti solo strumenti degli ebrei…”. Interrogato a Norimberga sulle radici del suo antisemitismo, un criminale come Höss spiegò: “…era qualcosa di scontato che gli ebrei avessero la colpa di tutto… . Come vecchio nazionalsocialista fanatico, io ho preso tutto come un dato di fatto … esattamente come un cattolico crede nei dogmi della sua chiesa. Era semplicemente la verità senza riserve, io non avevo dubbi in merito. Ero assolutamente convinto che gli ebrei fossero al polo opposto rispetto al popolo tedesco e che prima o poi ci sarebbe stato uno scontro tra il nazionalsocialismo e l’ebraismo mondiale … Ma tutti erano convinti di questo; era questo che si sentiva e si leggeva in giro.”
Anche scendendo la scala gerarchica sino all’ultima delle SS, risulta evidente che il genocidio non fu attuato da robot disumanizzati, ma da individui disciplinati che condividevano con i propri superiori le finalità degli ordini che eseguivano. Giunto al termine della sua vita, Oskar Groening, un graduato delle SS che aveva prestato servizio ad Auschwitz, ha raccontato al documentarista della BBC Laurence Rees la propria reazione quando scoprì quale orribile destino attendeva gli ebrei considerati non abili al lavoro: “Era inimmaginabile. Riuscii a comprenderlo del tutto solo quando fui di guardia agli oggetti di valore e alle valige alla selezione. Se devo dirla tutta fu uno shock che ci volle tempo per smaltire. Ma non bisogna dimenticare che ben prima del 1933 … la propaganda di quando ero ragazzo, sui mezzi di comunicazione e nella società in cui vivevamo, ci diceva che gli ebrei erano stati la causa della Prima guerra mondiale e alla fine avevano anche ‘pugnalato la Germania alle spalle’. E che gli ebrei erano responsabili dello stato di miseria in cui si trovava la Germania. Eravamo convinti che ci fosse una grande cospirazione ebraica contro di noi e quella visione del mondo trovava espressione ad Auschwitz. Bisognava evitare quello che era successo con la Prima guerra mondiale, cioè che gli ebrei ci facessero di nuovo precipitare nella miseria. I nemici interni dovevano essere uccisi, sterminati se necessario. E tra queste due battaglie, quella dichiarata al fronte e quella sul fronte interno, non c’era alcuna differenza. Stavamo sterminando dei nemici.”.
Eichmann mostrò, come osserva Cesarani, la sua intima e consapevole adesione al genocidio quando a Berlino nell’aprile del 1945 dichiarò ai suoi collaboratori del dipartimento IV B4 che sarebbe sceso con gioia nella tomba sapendo di aver contribuito allo sterminio di milioni di ebrei. Durante il processo di Gerusalemme, incalzato da Hausner non smentì di aver pronunciato una frase simile, ritenuta dalla Arendt nulla più che la melodrammatica vanteria di un uomo oppresso dalla mediocrità, si affrettò però a precisare di essersi riferito ai milioni di nemici del Reich, in particolare ai russi. Tuttavia alla domanda del pubblico ministero se nemico ed ebreo fossero per lui sinonimi Eichmann non esitò a rispondere affermativamente.
Alcuni anni prima di essere rapito, ritenendosi ormai al sicuro e dimenticato da tutti, Eichmann accettò di registrare ore ed ore di conversazioni sulla “soluzione finale” con il giornalista di origine olandese Willem Sassen, con cui condivideva oltre alla lingua la passata militanza nazista. In un clima di confidenze tra camerati, opportunamente surriscaldato dal cognac, si lasciò andare a dichiarazioni rivelatrici della sua determinazione genocida. Si dolse di non essere riuscito a superare tutti gli ostacoli che avevano ritardato ed intralciato il suo lavoro. Ricordò invece con soddisfazione le occasioni in cui, come in Ungheria, le deportazioni si erano svolte rapidamente ed ordinatamente. Tracciando un bilancio della sua battaglia per l’attuazione della “soluzione finale”, Eichmann affermò: “No, non ho assolutamente rimpianti e non mi cospargo il capo di cenere. Nei quattro mesi durante i quali hai presentato tutta la materia, durante i quali hai cercato di rinfrescarmi la memoria, mi sono tornate in mente molte cose. Sarebbe troppo facile, e potrei ragionevolmente farlo per ingraziarmi l’opinione pubblica corrente, recitare la parte di un Saulo che è diventato un Paolo. Ma devo dirti che non posso farlo, perché il mio essere più profondo rifiuta di dire che abbiamo fatto qualcosa di sbagliato. No: devo dirti in tutta sincerità che, se dei 10,3 milioni di ebrei … ne avessimo uccisi 10,3 milioni, io sarei soddisfatto. Direi: ‘Benissimo. Abbiamo sterminato un nemico’.”.
Forse al momento di salire sul patibolo l’unico dilemma che turbò la coscienza nazista di Eichmann fu quello espresso in termini poetici da Primo Levi:
“Salterai nel sepolcro allegramente?
O ti dorrai come in ultimo l’uomo operoso si duole, cui fu la vita breve per l’arte sua troppo lunga, dell’opera tua trista non compiuta, dei tredici milioni ancora vivi?”
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