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#davide io non ce la faccio ho bisogno di sapere di più
criminalmindsitalia · 4 years
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[Attenzione: Il seguente articolo contiene IMPORTANTI spoiler sul finale di serie di Criminal Minds, “And in the End.”]
Il lavoro della BAU potrebbe non essere finito dopo il finale di serie di Criminal Minds, ma quello di Garcia (Kirsten Vangsness) sì.
Sebbene tutti pensavano di riunirsi nel giardino di Rossi (Joe Mantegna) per la sua festa di pensionamento, in realtà hanno scoperto che stavano dicendo addio a Garcia. (Rossi probabilmente non smetterà mai di fare almeno da consulente per l’FBI.) Penelope continuerà ad aiutare le persone, ma lo farà in una no-profit lì vicino. Anche la vita personale di Garcia è cambiata, dal momento che ha accettato l’invito a cena di Luke (Adam Rodriguez).
Il finale ha visto Garcia dire addio alla squadra e spegnere il suo ufficio. Ma prima di andare via, ha scritto un bigliettino — non abbiamo visto cosa diceva — e lo ha infilato tra le scrivanie.
Qui, Vangsness — che ha co-sceneggiato il finale con lo showrunner Erica Messer — discute il cambio di carriera di Garcia, le sue relazioni e il suo futuro.
Garcia ha scelto di andare via dalla BAU, ma ovviamente continuerà ad aiutare le persone. Quanto è stato difficile per lei prendere questa decisione e, oltre al fatto che si trattava del finale di serie, perché era arrivato il momento giusto? Kirsten Vangsness: Per lei è stato davvero difficile. È stata un’idea di Erica Messer. Abbiamo co-sceneggiato l’episodio; di solito io faccio una metà dello show e lei l’altra e poi ci scambiamo. Ci diamo idee a vicenda, ad esempio se lei sta scrivendo il terzo atto, io le dico: “Ehi, forse potrebbe succedere questo.” Quindi, lei ha proposto questa cosa, e abbiamo pensato: “Wow, davvero?” E lei ha risposto: “Sì.” Perché Garcia aveva due battute nel primo episodio, e non pensavamo che l’avremmo vista di nuovo, e invece l’abbiamo vista più di chiunque altro.
Lei è lo sguardo degli spettatori, in realtà. Lei è empatica. Lei è quella che di solito dice se qualcosa è disgustoso o buono o brutto, quindi se dobbiamo scrivere il finale di serie e mostrare che lo show è qualcosa che continuerà ad andare avanti, che i buoni sono ancora lì fuori ad aiutare, vogliamo che siano gli spettatori ad allontanarsi. Dal momento che Garcia è gli occhi degli spettatori, far allontanare lei ha senso.
È stato incredibilmente difficile. Il momento era giusto. Una delle cose che amo del recitare è che se ti lasci andare, scopri cose del tuo personaggio che ti vengono naturali. Quando io e Shemar [Moore] abbiamo fatto una scena insieme per la prima volta, abbiamo entrambi realizzato: “O mio Dio, abbiamo questa chimica pazzesca.” Quando abbiamo sceneggiato “Ogni Fine Ha Anche Un Inizio,” che vedeva proprio l’uscita di scena di Shemar, stavamo facendo una scena scritta da me — ricordo cosa stavo pensando quando avevo scritto la scena — e, come attrice, mi sono detta: “O mio Dio, sono innamorata di lui da tutto questo tempo. Anche dopo che si è sposato, Garcia pensava ancora che forse c’era una possibilità e sta realizzando che invece non c’è. E non sa nemmeno che ruolo ha in questo lavoro senza di lui.” Ho avuto un’intera crisi esistenziale.
Poi quando il personaggio di Adam è arrivato nella serie, mentre stavamo facendo una scena ho pensato: “Sono così arrabbiata con lui. Lo odio. Non riesco a fare una scena senza prenderlo in giro. Non so perché.” Non riuscivo a capirlo, e poi mi sono detta: “Ha una cotta per lui, vero? Si sta comportando così perché… ti piaceva già questo ragazzo, non può piacerti anche lui. È la cosa più stupida del mondo.” Quando succede e lui le chiede di uscire perché lei ha smesso con quel comportamento, è nell’esatto momento in cui sta per andare via. Non andrebbe mai ad un appuntamento con qualcuno con cui lavora. La metterebbe troppo a disagio.
Parlando di quei due, in questa stagione lei si è davvero affezionata a lui. Lui l’ha aiutata con il caso dello stalker e le ha detto di fargli sapere se mai avesse una pista sul tizio che la sta importunando. Pensi che potrebbe funzionare tra loro? Sì, assolutamente! Ma chi lo sa? Rimane comunque molto dolce e adorabile e l’origine di questa storia è molto dolce e adorabile. Quello che credo che sia davvero divertente, come attrice che deve mettere in scena tutto ciò, è che ci hanno dato la scena in cui ci incontriamo in ascensore. Voi vedete che lei dice: “No so cosa penso di te.” L’ho fatto per dare forma al mio comportamento, e segnalare che sarei stata abbastanza scortese nei suoi confronti. Poi hanno cominciato a cambiare le battute, il che ha fatto cambiare anche noi. Quel percorso è stato davvero divertente.
Abbiamo avuto un’altra festa nel giardino di Rossi. Come è stato scrivere quel finale con Erica? C’erano delle scene che sapevi di volere nel finale? Volevamo mettere la cosa di “Heroes” perché loro sono degli eroi e le parole di quella canzone di David Bowie sono semplicemente speciali. David Bowie ripercorre come un tema in Criminal Minds — quando sparano a Garcia, lei parla di lui, e altre cose come questa — quindi volevamo quella canzone. E volevamo dare del tempo a tutti per stare insieme e lasciare solo che la telecamera li riprendesse. Quindi la scena della festa, se ci pensate attentamente, continua davvero per molto tempo in cui non succede nulla. Ci stavano solo riprendendo mentre scherzavamo e ci divertivamo tra noi. C’era una gioia reale. E poi, molte delle persone sullo sfondo sono quelle che hanno lavorato negli uffici di produzione, alcuni addirittura dal primo giorno. Quindi è stato davvero molto speciale.
E volevamo solo dei momenti in cui la gente pensasse: “Oh, quel momento mi ha fatto sentire bene.” Ci piaceva quest’idea di riportare in scena tutti. Ma non puoi riportare in scena tutti. Ovviamente devi omaggiare Morgan, Gideon, e Hotch perché sono parte del motivo per cui la serie è quella che è, ma devi essere molto creativo nel farlo perché ci sono solo 44 minuti per concludere uno show. Abbiamo cercato di accennare a quante più cose possibili.
E avevate bisogno di quella gioia, specialmente dopo quella telefonata del Camaleonte che mi ha ricordato la telefonata di Foyet e Haley. Sì. E Michael Mosley è un attore così bravo che guardi quelle scene e ti rendi conto che non sono scene grandi. Non succede molto, ma, in ogni caso, lui prende delle decisioni così gustose che le rendono davvero belle.
Ho parlato con Erica, e ha detto che voi due avevate idee diverse su quello che Garcia ha scritto sul bigliettino. Quale era la tua? Lei vi ha detto la sua?
No. Sì, vedi? Esattamente. Ce lo siamo detto tra noi. Siamo davvero vicine, quindi ce lo siamo sussurrato a vicenda come ragazzine di scuola al banco, “Penso che dica questo,” e poi hanno continuato a fare altre riprese e quello che c’era scritto diventava sempre più importante con il passare del tempo. Quindi, un po’ come David Bowie che dice che non scrive i suoi testi perché pensa che le persone dovrebbero prendere da soli quelle decisioni, io la penso allo stesso modo. Mi domando, però, se Garcia abbia lasciato quel biglietto perché possa trovarlo qualcun altro o se piuttosto lo abbia lasciato perché lo ritrovi lei stessa.
Sappiamo che qualcuno dovrà arrivare per riempire quel posto vacante, ma ovviamente Garcia non potrà mai essere rimpiazzata. Giusto.
Cosa pensi che Garcia vorrebbe vedere nella persona che lavorerà con la sua squadra? Penso che voglia vedere che quella persona non voglia fare nulla per rovinare la vita di qualcuno, ma è già abbastanza brutto, che dovranno pregarla di tornare per lavorare part-time o qualcosa del genere. Lei non vuole che siano bravi nel suo lavoro, per nulla. Vorrebbe che fosse quella ragazza che era nel cubicolo accanto al suo, [Anita,] nell’episodio di due stagioni fa, in cui Kim Rhodes interpretava il cattivo direttore dell’FBI e Garcia era dovuta andare a lavorare in quell’ufficio e c’era quella strepitosa attrice che lavorava accanto a me e le ho dato il mio piccolo unicorno.
Abbiamo visto anche quelle straordinarie conversazioni tra Garcia e Diana in ospedale e Garcia ha ricordato tutte le volte in cui sono stati feriti. Come erano quelle scene? Davvero oneste e vere, quando ci pensi. È una delle cose che vengono dall’essere in uno show davvero molto violento e che va preso in considerazione. Quelle cose hanno sempre un prezzo e devi sempre riprenderti dopo che hai fatto una cosa così stressante a livello emotivo, ed è qualcosa che Garcia capisce. “Oh, sì, non penso di poter fare questa cosa ogni giorno per sempre. Ho bisogno di una piccola pausa.”
Dove pensi che sarà Garcia tra uno o cinque anni? Starà realizzando i suoi sogni sempre meglio e con sempre più chiarezza. Scoprirà modi più efficienti per rendere il mondo e l’universo posti più felici, più pacifici, più amichevoli. Probabilmente avrà anche un fidanzato latino molto sexy, di nome Luke.
Quando guardi al percorso di Garcia, ovviamente tutto quello che è successo e tutti quelli che ha conosciuto l’hanno resa quella che è alla fine. Hai già parlato del suo rapporto con Morgan e Luke. Ma quali momenti e altri rapporti spiccano per te per il suo personaggio? La scena con Hotch in ospedale, quella in cui lui dice: “Grazie per essere rimasta,” e lei risponde: “Cavalli selvaggi, signore, cavalli selvaggi.” Penso davvero che fosse così vero per me e Thomas. Pe me e Matthew, quando lui era in ospedale e io ho sparato a quel tizio. Ci sono state così tante scene con me e lui. L’episodio in cui JJ va via. Avevamo una scena nel mio ufficio, che ricordo sempre distintamente.
L’episodio che abbiamo girato dopo che Meshach Taylor aveva lasciato il pianeta, e Joe ed io eravamo nell’ufficio di Rossi e lui stava parlando di questo suo amico. È stato un tale onore essere in quella scena. È stato toccante e speciale. Per quanto riguarda Daniel ed io, quando ci siamo ri-incontrati, e avevamo una scena in cui scoprivamo che il personaggio di Damon era morto. Una scena di Damon e me, quella in cui parlavamo di come ci calmavamo con questo canto buddista.
C’erano così tante scene con me e Paget, ma quella che mi viene in mente in questo momento è quando le ho letto questo monologo per dirle che sarebbe stata al sicuro. Mi diverto così tanto con [Aisha], è così difficile [scegliere]. Adoravo sempre quando Aisha era in ufficio con me perché potevamo sempre scherzare e divertirci e parlare come due amiche. Ogni volta che noi quattro donne potevamo stare insieme, quelli erano momenti davvero da favola. La mia prima scena con Adam è probabilmente quella che ricordo davvero alla perfezione.
Hai già citato “Ogni Fine Ha Anche Un Inizio,” ma ci sono delle altre scene o un episodio che hai scritto e a cui pensi adesso e che si distingue in particolare? C’è una scena tra Matthew e una figlia in “Segreti Oscuri”, in cui lei gli dice che si prende cura di sua madre che è una tossica. Ricordo che quando l’abbiamo mostrata alla rete, ci è stato detto: “Beh, abbiamo davvero bisogno di questa scena?” E io ho risposto: “Assolutamente sì!” Per me era davvero importante e mi è piaciuto sentire di altre persone che l’avevano vista e mi hanno detto che li aveva toccati nel profondo.
La scena ne “Il Passero di Nelson” dove — è una piccola scena, penso che ne abbiano tagliato una buona parte — io e AJ stiamo mangiando il gelato. [In “Spencer”], tutto quello che ha fatto Matthew in prigione è stato molto bello, anche solo essere in quello scenario.
Fonte: TV Insider
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yesiamdrowning · 6 years
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uno scrittore geniale che non avremo mai più.
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Nella primavera del 1999 mandai una cugina siculo-canadese esperta di pop svenevole e di mondanità in una libreria di Barnes & Noble a Montréal a caccia dell'autografo di uno scrittore. Il mio scrittore vivente preferito presentava una ristampa del suo primo successo editoriale, e anche se abitavo letteralmente dall’altra parte del mondo, mi sono accorto che volevo comunque un autografo vero e proprio su un suo libro vero e proprio da poter mettere su un mio ripiano vero e proprio. Dato che in quel momento guadagnavo una miseria (non che ora io guadagni chissachè, ma non poco quanto allora) non potevo andare di certo di persona alla presentazione, e mi vergognavo anche un po’ d’essere tra i pochi a farne nome in un periodo in cui i miei compagni del liceo, mi ricordo, stravedevano per autori come Isabella Santacroce o Alessandro Baricco. Mia cugina, invece, a prezzo di un certo sacrificio ha vuotato l'amaro calice di non poter proporre ai suoi amici la presentazione di un nuovo libro di Wilbur Smith, primo nelle vendite già allora, e ha accettato di andar al mio posto. La Ragazza dai Capelli Strani (Girl with Curious Hair, in orginale suona anche meglio) era stata, nel 1989, la prima memorabile raccolta di suoi racconti. La messa in fila di una decina di perle. Da quella volta, quel libro, verrà ristampato in almeno altre cinque o sei occasioni soltanto in Italia - sempre dalla Minumum Fax. Il giorno dopo l’appuntamento era a un’ora improbabile su MSN (per qualcuno di voi come dire l’Alto Mesozioico). Le ho chiesto un resoconto della serata: “Il posto era pieno che non ci si poteva  muovere… e poi è arrivato lui“ “Com’ era vestito?” “Mmmh.. aveva una specie di camicia da matematico? Anzi, aveva una camicia da prof di matematica, hai presente, con le maniche corte?“ “Ma aveva pure le penne nel taschino?“  “No, niente penne!”. “😛” “😁” “E poi che altro? Che mi dici? Portava la bandana?“ “Sì una grande bandana… si  sta facendo crescere i capelli ha detto. Sudava un casino. Sembra la versione intellettuale del cantante dei Blind Melon” “Shannon Hoon?” “Si” “Ma Shannon Hoon mica porta la bandana!” “Se è per questo è pure più figo” “😄” “😝”. “Ma vi ha letto qualche cosa?” “Si, per circa mezz’ora…” “Ed è stato molto terrificante? Voglio dire, tu c’hai capito qualosa?” “Guarda che è stato grandioso… ma nella parte delle domande e risposte è stato più divertente. E’ serio ma è un tipo in gamba davvero“. “Perché? Cos'è successo?”. “Okey, allora, per esempio, uhm… c'era un ragazzo… e gli fa questa bella domanda su “che effetto fa sapere che fra i tuoi coetanei e per un sacco di lettori più giovani, tu sei un po’ un mito, e se ne sei consapevole, e che effetto fa esserne consapevole se lo sei eccetera”, e tra il pubblico c'è stato un mormorio come dire: Giusto, bella domanda, e allora lui, David, ha detto una cosa del tipo: “Non lo so se ne sono consapevole, ma sono un po’ scettico su tutta questa concezione… e poi ha parlato di DeLillo e Thom Pynchon e di come c'era questa specie di amore-odio totale per loro quando la sua generazione faceva l’ università, e delle inimicizie tra i fan di Capote e quelli di Kerouac prima… e di come queste situazioni siano un po’ rock, almeno nella misura dell’inutile rivalità tra gli Stones e i Beatles… è  stato divertente, davvero, bella testa!”. “E il libro te lo sei fatto firmare?”  “Ah, no, scusa… c'era una fila e non finiva  più… avevo un impegno e quindi sono andata via…  e in ogni caso sarebbe stato troppo strano… cioè, andavo lì e gli dicevo? Ciao sono la cugina di un ragazzo italiano che non è potuto venire, non ho mai letto nulla di tuo ma per piacere mi firmi questo… mi sono sentita un’imbrogliona, una crocerossina fuori luogo, mi sono vergognata insomma… ma ti ho preso una copia eh…”. “Ma che me ne faccio ora di una copia in originale senza autografo quando già posseggo la versione in italiano senza autografo?” me lo tenni per me. Ci sono altre cose insolite in questa storia, però: 1) Un lettore italiano di poco più di 2O anni che vuole per sé l'autografo di uno scrittore vivente scoperto quasi per un puro caso tra un disco degli AFI e uno dei Type O Negative 2) Un gran numero di persone che si va a suppare un tizio americano che presenta una ristampa dopo una manciata di libri dai titoli volutamente antipatici (Una Cosa Divertente Che Non Farò Mai Più, Brevi Interviste Con Uomini Schifosi, Il Rap Spiegato Ai Bianchi) e un monolite di oltre 13OO pagine fatto di trame, sottotrame e note a piè di pagina chiamato Infinite Jest che qualcuno ha definito il suo capolavoro. 3) Un gran numero di canadesi, che nella mia testa immagino freddini e austeri come Leonard Cohen, che emette mormorii di approvazione quando qualcuno lascia intendere che uno solo fra loro è straordinariamente intelligente, pieno di talento e spiritoso 4) Una cugina lasciata con un CD di Natalie Imbruglia che, in mezzo a questo pubblico, si trova a pensare al cantante dei Blind Melon e fare a sua volta mormorii d’approvazione. 5) Un gruppetto di intellettuali che, assai propabilmente nascosti tra i presenti nell’aspetto di altri scrittori e aspiranti tali, tollera qualcuno con una bandana in pubblico senza che sia Little Steven. La spiegazione delle suddette stranezze è che David Foster Wallace godeva di un grande e insolito affetto da parte di molti fra coloro che costituiscono  quella che viene chiamata educatamente “la cricca dei lettori”. Come spiegarlo? Non è solo il fatto che Wallace producesse della buona narrativa - ovvio è   così, ma in un certo senso questo è un aspetto marginale. E non è nemmeno il fatto che fosse divertente e innovativo e geniale nel riuscire a rendere attraente diverse cose notoriamente stracciapalle come i numeri o la noia (leggetevi il bellissimo Il Re Pallido) e dotato in maniera leggendaria dei vari strumenti di cui bisogna un romanziere per fare il proprio lavoro (empatia, intuito, perspicacia, abilità di connessione, aver-letto-tutto-quel-che-esiste-sulla-faccia-della-terra). Non  ha poi molta importanza cosa facesse - se scrivesse un reportage sulla campagna elettorale di un senatore, oppure un libro sull’idea d’infinito nella matematica, o un articolo sulle navi da crociera, o sull'uso del linguaggio al giorno d’oggi, o sul tennis, o le storie di molta gente che non esiste  affatto, e che fa cose che non sono successe davvero. La narrativa era una delle varie cose che David Foster Wallace faceva con il cervello, senza timore di mescolare quello che gli americani chiamano highbrow e lowbrow, la cultura alta e quella popolare, o di essere divertentissimo e serissimo nel giro di due pagine, ma i suoi fan hanno imparato da subito a tenere d'occhio attentamente tutto quello che produceva - che fosse un saggio, un'introduzione, metà conferenza o perfino un'intervista in radio, proprio come di solito si fa con le “rockstar”. Perché quando una voce è tanto voluminosa, la si vuole sentire in qualsiasi  forma. David Foster Wallace era un'intelligenza generosa - ed è a questo che  volevo arrivare in fondo. E su di me fa un effetto che Capote non è mai riuscito a fare. Né DeLillo. Mentre David mi fornisce tutte le informazioni di cui ho bisogno, con tutta la  precisione che mi serve per capire come stanno le cose, di cosa è fatta la nostra modernità e, nel mentre, riesce comunque ad aver una risonanza tale da ricondurmi a me stesso. Ricondurmi alla mia vita vissuta, alle mie esperienze affettive più autentiche, alle mie paure, e al mio singolare (ma, senza ombre di dubbio, condiviso) destino. E d'altra parte, ciascuno troverà o ha già trovato un proprio modo di leggerlo, non c'è dubbio. E’ in questo senso che Wallace è a tutti gli effetti uno scrittore di culto, come Erlend Loe o Azar Nafisi, oppure Wers Anderson e David Lynch nel cinema: sembra che stia parlando soltanto a voi. Se ve ne ho parlato attraverso un aneddoto è perché, se in parte è difficile scindere le persone che non ci sono più dai ricordi che ce li hanno fermati nella memoria, se devo esser onesto, è anche perché Wallace è il genere di scrittore di cui si preferisce non parlare o scrivere; in questo senso mi ricorda Charms. Quando si cerca di dire qualcosa di più riguardo a Charms mi pare sempre di vedere da qualche parte, con l'occhio della mente, Daniil stesso che fa smorfie. Wallace era un grande produttore di smorfie e in modo particolare i suoi saggi ne sono ancora pieni: verso la crudeltà, la vanità, la prepotenza emotiva e, più di ogni altra cosa, della  volgarità intellettuale degli uomini. Forse è poi per tutto questo che, dietro la  timidezza dello sguardo, la spiccata rapidità nell’incontro dialettico (”Una spiegazione lunghissima per una domanda innocua”, ironizzava in un’intervista) o la lettura illuminante di ogni fottuto avvenimento, provava un dolore al quale non ha saputo  resistere. David Foster Wallace si è tolto la vita impiccandosi nella sua casa di Claremont, in California, dieci anni fa, il 12 settembre del 2OO8. Aveva compiuto 46 anni, e specie negli ultimi tempi, aveva dato a tutti l'impressione di essersi liberato dai demoni che lo tormentavano fino da quando era bambino, e di avere trovato la serenità, se non addirittura la felicità con la moglie, che era solito chiamare con nome e cognome: Karen Green. Non per vezzo, ma come elemento rivelatorio di sé, del  suo carattere e anche del suo sguardo sull'esistenza: in quel modo di rivolgersi per esteso alla donna amata, c'era di certo un misto di ironia e affetto, ma anche, soprattutto, l'esigenza di comprendere e definire con minima precisione ogni elemento dell'esistenza, anche il più intimo. Non una Karen a caso, Karen Green. Quando venne ospite delle Conversazioni Letterarie, nel 2OO6, a Capri, la sera catturò un'enorme cavalletta che aveva fatto fuggire gli altri scrittori inorriditi e gliela regalò. Come si fa a non voler bene a uno così?
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Sarah Felberbaum: «Ho scelto per amore»
Figlia di padre americano e di madre inglese, avrebbe potuto lavorare all’estero. Ha invece deciso di rimanere in Italia per realizzare il suo sogno accanto a Daniele De Rossi. In quest’intervista parla di lui, del ruolo delle donne, dell’occasione «mancata» di Dissenso comune, del caso Brizzi, e del desiderio di un progetto «che mi appassioni»
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Lei non si sente italiana: «E purtroppo o per fortuna, sperando che nessuno si offenda, non lo sono. Mio padre è un ebreo americano di origini russe-ungheresi cresciuto nel Bronx. Mia madre una londinese abituata all’indipendenza e al viaggio che lui corteggiò a lungo e conquistò a fatica dopo che lei, al culmine di un litigio, era fuggita per mesi con un’amica in Africa. Io sono nata in Inghilterra, vivo a Roma e credo di essere pronta ad abitare ovunque.
Sono figlia di influenze diverse e in fondo, avere radici in molti luoghi e da nessuna parte, non mi dispiace». Ogni tanto, quindi, Sarah Felberbaum confonde i termini, dice «omertoso» al posto di «discreto», «cadenzare» invece di «programmare» e alterna i linguaggi pur avendo chiari i termini della questione: «Ho scelto un lavoro che mi ha esposto in pubblico fin da giovanissima. Quindi ho sempre dovuto cercarmi, trovarmi e capirmi davanti a tutti. Ho attraversato i normali processi della vita, i dolori e le gioie, superando turbamenti che sarebbero dovuti rimanere intimi e che invece intimi non sono mai stati». Dopo decine di film, serie e programmi tv (l’ultimo, Cinepop, un quotidiano di 8 minuti per raccontare il cinema su Sky per cui condurrà anche la serata degli Oscar) ripensare a quando pubblicizzava telefonini con Sergio Castellitto nei ristoranti e il conto si pagava ancora in lire, fa scoprire a Sarah Felberbaum di aver estinto quasi tutti i debiti. «Avevo meno di vent’anni e oggi ne ho 37. Rispetto a ieri sono più consapevole, forte e centrata, forse ancora timida e un po’ insicura, ma finalmente pacificata. Che non tutto si potesse controllare già lo sapevo, ora ho imparato anche ad accettarlo».
Da ragazza era più difficile? «Non ho avuto un’adolescenza infernale e ho sempre avuto una bella famiglia alle spalle, ma il problema, o se preferisce la parte difficile da gestire, ero proprio io. Cercavo di capire chi ero, cosa volevo e dove stavo andando. Avevo alti e bassi, euforie e tristezze. Ci ho dovuto lavorare tanto».
A che scopo? «Per non perdermi, per essere concreta, per gestirmi, per evitare di fare delle cazzate e quando parlo di cazzate, parlo di cose serie. Ho iniziato a lavorare molto presto e presto sono diventata economicamente indipendente. Non possedevo gli strumenti, ma avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a orientarmi, che mi desse una mano a non farmi male e a non pensare di risolvere tutto semplicemente uscendo la sera».
Chi le ha dato questa mano? «Nonostante l’amore che i miei genitori non mi hanno mai negato, l’analista. Il dispiacere di mia madre me lo ricordo ancora. “Dove ho sbagliato?”, diceva. Oggi siamo quasi all’abuso, ma un tempo l’analisi sembrava una cosa da stregoni».
Per un periodo fece la modella. «Senza traumi. Era tutto molto divertente e io sono sempre stata un soldatino. La vita mi ha offerto tante occasioni, le ho cavalcate tutte e poi ho scelto quello che mi piaceva di più. Cambiare spesso abito mi sembrava normale, naturale. Mi era capitato anche a scuola. Avevo studiato per anni in quella americana, poi, quasi fosse un esperimento, passai a quella italiana. Mi iscrissi follemente in un istituto gestito dalle suore. Mio padre come le ho detto è ebreo, mia madre protestante, io non sono stata neanche battezzata. Non avevo il permesso di fare l’ora di religione e quando andavamo giù in chiesa occupavo regolarmente l’ultima fila».
Prima di fare l’attrice a tempo pieno condusse Unomattina. «Ero ancora nella fase in cui non sapevo cosa volessi fare da grande e non ero felice. A forza di svegliarmi tutti i giorni alle 4 di mattina avevo perso la cognizione del tempo. Finita la stagione iniziai a studiare da attrice. Conoscevo Piergiorgio Bellocchio, il figlio di Marco e gli chiesi consiglio. Mi mandò da sua madre, Gisella Burinato, un personaggio meraviglioso, una donna forte, particolare, severa e determinata. Quando non facevi quello che ti chiedeva, ti lanciava una scarpa sul palco. A me piaceva».
Le piaceva essere presa a scarpate? «Mi piaceva e mi piace ancora la verità nei rapporti personali. La verità non deve essere per forza violenta. Può essere anche delicata. A un sorriso falso comunque, anche se può ferire, ho sempre preferito la sincerità. La battuta di Troisi in Pensavo fosse amore invece era un calesse è formidabile».
Quale battuta? «La fidanzata lo tradisce e gli amici, malevoli, glielo vanno di corsa a riferire. Lui è dispiaciuto più con loro che con lei: “Ma queste sono cose che non si dicono – si lamenta – perché siete tutti così sinceri con me?”».
Con Il gioiellino, il film sul crac Parmalat, venne candidata al David di Donatello. «Per il mio ruolo avrei dovuto recitare al fianco di Toni Servillo. Non l’avevo mai incontrato e all’appuntamento stabilito per il provino mi presentai tesissima. “Come va?”, provai a dire per rompere il ghiaccio e lui, masticando un sigaro tra i denti, sibilò: “Oggi mi rode il culo”. “Non ce la faremo mai”, pensai».
Ce la faceste. «Lavorare con Toni è stato un dono, ma all’inizio avevo il terrore di deluderlo, di disgustarlo, di non essere all’altezza. Pensi sempre che attori così grandi non respirino, non ridano e non si lascino mai andare. Toni invece è speciale e molto spiritoso. Una sera, su un divanetto dell’albergo, ci raccontammo le nostre vite bevendo vodka».
Quanto è difficile oggi per un attore italiano avere i ruoli che desidera? «È una corsa a ostacoli che ogni tanto si rivela straziante. A volte ti domandi perché hai scelto un mestiere così incerto e altre invece godi e hai le risposte a tutti i tuoi dubbi. Vivi di piccoli attimi, di fiammate, di ricerca. Insegui un bel progetto o un ruolo in cui pensi di poter dare qualcosa e spesso non arriva né l’uno né l’altro. Il resto è un galleggiare tra accettare o rifiutare, cercando di capire quanto ti possa fare bene dire troppi no».
Le capita? «Io ne dico tanti. Mi propongono delle lunghe serialità che non mi interessano più, oppure ruoli che non sento miei. Se mi offrono una parte che capisco non potrà mai essere mia preferisco rifiutare. È una prospettiva comunque migliore che ritrovarsi ingabbiati in una situazione che ti rende infelice».
Lei è inglese, non ha mai pensato di andare a lavorare all’estero? «Quando recito in inglese provo qualcosa che non riesco a sentire quando lo faccio in italiano. Così, dopo aver interpretato Il gioiellino avevo preso contatti per rimanere in America con un’importante agenzia. Prima ottenni in modo non facilissimo un incontro e poi, quando sembrava tutto avviato, tornando in una delle pause a Roma, venni travolta da una storia d’amore».
Parla di Daniele De Rossi, calciatore della Roma, il padre dei suoi figli Olivia e Noah? «Lo avevo già incontrato, tornai a frequentarlo allora ed ebbi l’intuizione di fermarmi perché stavo vivendo finalmente qualcosa di vero e diverso da quel che c’era stato fino a quel momento. Non me la sono mai più sentita di andarmene. Se fossi partita, avrei rinunciato a lui per la mia carriera. Sapevo che sarebbe stato impossibile conciliare le due cose, ma Daniele è l’amore della mia vita e non mi pentirò mai di quella scelta. Sono stata sempre molto individualista, ho sempre pensato prima a me e poi agli altri. Con Daniele è cambiato tutto. Di lui ti puoi fidare. È intelligente, dissacrante, spiritoso. Ha un enorme senso dell’umorismo, proprio come mio padre. Papà ha 88 anni. Inizia ad avere i suoi acciacchi. “Come stai?”, gli chiedo e lui: “Benissimo, oggi ho preso il Toradol, non sento più nulla».
Sua madre? «La loro storia è stata tumultuosa. Si sono lasciati, ripresi, inseguiti. Lui aveva un’altra famiglia e all’epoca il divorzio era un tabù. Quando lei si stancò dell’impasse, si allontanò e finì in Africa da un’amica infermiera. Lui la cercò ovunque. Le mandò un biglietto di prima classe per poter tornare in Italia e lei lo rivendette per prolungare la permanenza e poter continuare a viaggiare. Sono diversissimi, ma nutro grande ammirazione per entrambi».
Ha ammirazione anche per Asia Argento? Quando il caso Weinstein era agli albori, nello scorso ottobre, lei ritwittò un suo post. Da allora sono accadute tante cose e nel documento delle artiste italiane, Dissenso comune, documento che ad Argento non è piaciuto, c’è anche la sua firma. «Veder litigare le donne tra loro mi fa molta impressione. C’è una cattiveria, una rabbia quasi, che mi spaventa e mi mette a disagio. La lettera l’ho firmata, ma è ovvio che mi auguro non si rivelino solo parole messe in fila. Mi aspetto che accada qualcosa, ma non so se in Italia ci sarà mai il coraggio di fare la rivoluzione in atto negli Stati Uniti».
La lettera le sembra debole? «L’ho firmata e non posso rinnegarla solo perché intorno al testo si è scatenata una polemica. Può essere più o meno debole, ma è importante che ci sia. Non capisco perché ci si debba subito urlare in faccia e non si possa semplicemente iniziare un percorso. È fondamentale parlarne, prima in Italia lo facevano in pochissimi».
Asia Argento e Miriana Trevisan hanno parlato. «Posso non essere come Asia, posso non avere la sua veemenza, ma la ammiro. Ha avuto le palle. Ha aperto una porta. Adesso è ora di andare avanti. E tanto per essere chiari, penso sia importante la sua verità esattamente come quella di Miriana Trevisan. Non mi permetterei mai di giudicare o di metterla in dubbio. Quando ho letto le loro parole, qualche tempo dopo le loro reazioni alla lettera, avrei voluto parlare con Asia, ascoltarla, sapere perché si era scagliata contro Dissenso comune. Mi interessa e forse lo farò. Le chiederei: “Questo documento secondo te è sbagliato? Come si può fare a migliorarlo?”. Non so cosa sia accaduto per farla allontanare, non so se ci siano ragioni valide o ragioni deboli. Però mi resta la sensazione amara dell’occasione mancata».
Anche le ragazze che hanno denunciato in tv le molestie di Fausto Brizzi hanno diritto di essere credute? Lei con Brizzi ha lavorato. «Ma sì, perché no? Anche se credo che le denunce andrebbero fatte nelle sedi appropriate e non in tv, in Italia nessuno, escluse Asia, Miriana Trevisan e le ragazze che si sono esposte alle Iene, ha mai affrontato il tema. Posso dirle un’altra cosa?».
Prego. «Parlare pubblicamente di Brizzi mi mette in grande difficoltà. Conosco lui. Ma conosco anche sua moglie Claudia e la figlia che hanno avuto. Non oso pensare cosa stiano passando e se immagino che tra dieci anni, Penelope, cresciuta, leggerà le cose che dicono su suo padre sto male».
Lei è l’unica attrice nota che si sia espressa sul tema senza difendere aprioristicamente Brizzi. «Non posso difenderlo a priori e non posso neanche sostenere che sia colpevole. Non so cosa sia accaduto davvero tra lui e quelle ragazze, ma so che è importante parlare della questione senza voltarsi dall’altra parte e senza trattarla come un tabù. Spero di non ascoltare più un Weinstein scusarsi e giustificarsi sostenendo che essendo cresciuto in un’epoca in cui le donne venivano trattate come oggetti, si era adeguato all’andazzo. Nessuno deve dare più per scontato che la donna sia debole. Sa perché?».
Perché? «Perché se siamo unite, deboli non siamo».
(Vanity Fair  22/02/2018)
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giancarlonicoli · 5 years
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27 MAR 2019 15:31
''SE AVESSI CONOSCIUTO GLI INTESTATARI DEI CONTI IOR, SAREI MORTO''. LA SECONDA, CLAMOROSA, INTERVISTA DELLE ''IENE'' A GOTTI TEDESCHI, EX BANCHIERE DI DIO, E QUEI 4 CONTI LEGATI ALLA FONDAZIONE MONTE DEI PASCHI. DAVID ROSSI PRIMA DI FINIRE GIÙ DALLA FINESTRA SI STAVA FACENDO RISTRUTTURARE LA CASA DALLA DITTA CHE FACEVA I LAVORI PER LO IOR E NELLE BASILICHE DI ROMA. COME MAI ARRIVAVA FINO A SIENA? FORSE PERCHÉ ROSSI FACEVA ANCHE LO SPALLONE DI FONDI NERI TRA IOR E MPS?
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VIDEO: L'INTERVISTA INTEGRALE A ETTORE GOTTI TEDESCHI
https://www.iene.mediaset.it/2019/news/david-rossi-ior-gotti-tedeschi-vaticano-nomi-pericolosi-morte_359671.shtml
Da www.iene.it, servizio a cura di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone
“Mi sono sempre rifiutato di vedere i conti per non trovarmi un giorno in imbarazzo di fronte a un giudice che mi domanda: ‘che lei sappia ci sono questi conti’?'”. Continua l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sul caso David Rossi, dopo lo Speciale Iene di giovedì 21 marzo, con nuove eclatanti rivelazioni da parte di Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, la banca del Vaticano, tra il 2009 e 2012.
David Rossi, ex capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena, vola giù dalla finestra del suo ufficio, al terzo piano della sede centrale della banca, il 6 marzo 2013. Si è trattato di suicidio, come stabilito con due archiviazioni dalla magistratura, o è stato ucciso, come sostiene la famiglia?
Nello speciale, che vi riproponiamo qui sotto nelle sei parti in cui è diviso (clicca qui per vederlo integralmente), abbiamo ripercorso tutti i dubbi che avvolgono la morte di David Rossi, dai quelli sul video della sua caduta mortale ai dubbi su alcuni aspetti delle indagini, ascoltando anche la testimone Lorenza Pieraccini, che dice di non essere mai stata sentita dalla Procura, come invece risulta agli atti, e valutando la storia dei festini a base di sesso e droga raccontata da un escort. Fino alle clamorose rivelazioni fatte proprio dall’ex presidente della banca del Vaticano, che ha parlato non solo della possibile esistenza di tangenti e soldi sporchi, ma ha addirittura lasciato intendere che uomini interni alla Curia vaticana potrebbero essere capaci anche di commissionare un delitto.
È proprio Gotti Tedeschi a fare nuove clamorose dichiarazioni nell’intervista che vedete qui sopra. Nel primo incontro tra la Iena e l’ex presidente dello Ior, Monteleone gli ha chiesto dei quattro conti correnti che sarebbero stati aperti presso la banca del Vaticano e che sarebbero riconducibili a uomini della Fondazione Mps. “Credo che fosse vero”, risponde l’ex presidente dello Ior sull’esistenza di questi conti. “Sono tangenti mi pare evidente”, dice, come avete visto nella sesta parte dello speciale che abbiamo dedicato al caso.
Dopo la prima intervista, Antonino Monteleone è tornato da Gotti Tedeschi, per capire come fosse possibile che l’allora presidente dello Ior non sapesse nulla sulla presunta esistenza di quei conti. Le dichiarazioni di Gotti Tedeschi a riguardo sono davvero clamorose.
“Mi sono sempre rifiutato di vedere i conti”, dice Gotti Tedeschi alla Iena. Come faceva a non occuparsi di tutti i conti e della loro provenienza, proprio lui che, come ci ha detto nell’ultima intervista, era stato chiamato da Papa Benedetto XVI per “ripulire lo Ior”? “Io non ho mai voluto vederli. Non era il mio compito”, risponde l’ex presidente. “Il mio incarico era di attuare le necessarie procedure per fare trasparenza, e mi fu anche detto: ‘lascia proprio stare la curiosità naturale di guardare di chi sono i conti’, infatti io non volli mai sapere”.
E perché non ha mai voluto sapere? “Se tu hai visto i conti e dici al giudice di chi erano i conti, quelli veri, la tua famiglia dove la metti?”, dice Gotti Tedeschi alla Iena. “A proteggerla, ci vuole il più grande sistema di protezione che si possa immaginare” e nomina il giornalista Mino Pecorelli. “Si ricorda perché è morto?”, chiede a Monteleone. “Ha messo le mani su che cosa? Sui nomi”. Monteleone gli fa notare che sapere chi ha i soldi allo Ior è un potere.“Sarei morto”, risponde l’ex presidente della banca del Vaticano.
Perché le dichiarazioni di Ettore Gotti Tedeschi sono così rilevanti? Primo perché mentre era presidente dello Ior, Gotti Tedeschi era stato a capo per l’Italia di Santander e partecipò all'acquisto per conto di quell’istituto della Banca Antonveneta, che è stata poi rivenduta nel 2007 a Monte dei Paschi innescando ripercussioni negative a catena sulla banca senese che venne travolta da una bufera mediatica e finanziaria. Quella durante la quale muore David Rossi, volando giù dalla finestra del suo ufficio.
L’ex presidente dello Ior, nell’ultima intervista andata in onda, ci ha detto di non ricordarsi di lui. Su una foto scattata dalla polizia scientifica il giorno del dissequestro dell’ufficio di David si vede un biglietto sulla scrivania con scritto a penna il nome "Ettore Gotti Tedeschi" e il suo numero di cellulare. I due si dovevano parlare? Nel caso, chi aveva cercato chi e, soprattutto, perché l’allora capo dell’area comunicazione di Mps doveva parlare con il presidente dello Ior?
Si tratta solo di una coincidenza? Davvero Ettore Gotti Tedeschi non conosceva David Rossi? Esistevano davvero quattro conti riconducibili a uomini della Fondazione presso lo Ior? E chi poteva sapere i nomi legati a quei conti? Sono solo alcuni dei dubbi che legherebbero il Monte dei Paschi e David Rossi alla banca del Papa.
Ecco per esteso l'intervista inedita a Ettore Gotti Tedeschi.
“Mi sono sempre rifiutato di vedere i conti proprio per questa ragione. Per non trovarmi un giorno in imbarazzo di fronte a un giudice che mi domanda che lei sappia ci sono questi conti? Io non ho mai voluto vederli".
Cioè è come se lei fosse un pilota di Formula 1 che si rifiuta di guardare cosa c’è nel cofano della sua monoposto?
"Esattamente”.
È un po’ spericolata come cosa.
"Non era il mio compito. Primo perché non sono un meccanico, se anche avessi aperto il cassone, avrei dovuto avere competenza per la meccanica. Io so guidare la Formula 1. Non significa saper cambiare le gomme".
Però siccome è lei che guida...
"Ho avuto un incarico…estremamente preciso, direttamente dal Papa. Quello di attuare le necessarie procedure, per fare la trasparenza. E mi fu anche detto lascia proprio stare la curiosità naturale di guardare di chi sono i conti, infatti io non volli mai sapere".
Però c’è una cosa che lei mi ha detto, io non volevo sapere chi erano i nomi, perché…
"Su questo non deve dubitare…".
"No no non dubito…".
"E non li so!".
Ma se io avessi avuto un mandato da Sua Santità Benedetto XVI di…
"Eh, come è stato…".
Io ho bisogno di ripulire questo istituto. Come si concilia il mandato per la trasparenza assoluta senza entrare a gamba tesa su chi ci ha messo i soldi.
"No no no… le rispondo, a poco a poco dal 2001 al 2008 sono stati chiusi tutti i paradisi fiscali nei Paesi, chiamiamoli democratici, non canaglia. va bene? si ricorda San Marino?
Certo…
"Bene. Quale era l’unico e ultimo aperto? Quello all’interno dello stato della Città del Vaticano. Benedetto dice: se noi non ottemperiamo ai criteri di massima trasparenza esemplare, mettiamo a repentaglio la credibilità della Chiesa e del Papa. Dottore vada, faccia quello che deve fare. Santità, devo fare una legge antiriciclaggio. Devo fare delle procedure e un’autorità di controllo che controlli che le procedure alla lettera vengano applicate. Vada! Cosa ho detto: come faccio io a evitare che ci siano dei conti intestati a chi non devono essere intestati? Transazioni che non devono essere fatte, cosa faccio? Senza voler andare a vedere chi li ha fatti fino al giorno prima. Faccio una legge che dice: da oggi chi li fa è un fuorilegge. Ma ha capito?"
In questo modo come si fa a sapere: noi abbiamo i soldi della mafia nelle casse dello Ior?
"Ma non voglio saperlo!".
Eh però se vogliamo toglierli quei soldi bisogna saperlo se ci sono, sennò ce li teniamo, è un gioco strano.
"No, lei mi sta chiedendo delle cose talmente, scusi eh, per me talmente semplici e banali. Io non dovevo guardare i conti. Non dovevo".
Ma chi li guardava?
L’unica persona al mondo che io sappia che conoscesse i conti di chi erano era Cipriani, Tulli e Mattietti.
Qui Gotti Tedeschi sostiene che gli unici a sapere di chi erano i conti fossero l’ex direttore aggiunto dello Ior Giulio Mattietti, licenziato nel 2017 con l’accusa di avere tradito la fiducia del Papa. E insieme a lui Paolo Cipriani, ex direttore generale, e Massimo Tulli, il suo vice. Entrambi condannati a risarcire 47 milioni allo Ior per danni in primo grado. Mentre Gotti Tedeschi, che era il Presidente, afferma che di chi fossero quei conti non ne avrebbe saputo niente.
Ma perché lei rinuncia ad avere informazioni che ha una figura all’interno dell’istituto che le è sottoposta.
"Allora stia a sentire. Lei fa il giornalista d’inchiesta, si ricorda perché è morto Mino Pecorelli? si ricorda chi era?".
Sì certo faceva…
"Si ricorda perché è morto? ha messo le mani su che cosa? sui nomi. allora..."
Cioè lei mi sta dicendo che chi mette le mani sui nomi schiatta.
"Cosa mi viene detto? me lo ricordo come se fosse adesso: non volere mai sapere, non andare a cercare... se ti vengono a dire le facciamo vedere rifiutati di vedere. Per due ragioni. La prima, che prima o poi succederà uno scandalo allo Ior, tu verresti immediatamente interrogato. Ti dicono lei ha guardato i conti? Tu dici: sì che l’ho guardati. Allora ci dica di chi sono i conti. Oppure tu dici non li ho guardati, hai mentito perché li hai guardati, in tutti e due i casi tu sei morto. se tu hai visto i conti…"
Professionalmente?
"… e dici al giudice di chi erano i conti, quelli veri, la tua famiglia dove la metti? a proteggerla ci vuole il più grande sistema di protezione che si possa immaginare. seconda ipotesi: tu li hai visti ma dici noooo, non li ho visti, ti arrestano, perché sanno perfettamente che li hai visti!"
Tutti pensano di lei, cazzo Gotti Tedeschi sa chi c’ha i soldi allo ior. Cioè, che potenza…
"Sarei morto. non, si potrebbe aver recitato molti requiem…".
Se Gotti Tedeschi fosse stato più spericolato, lei mi dice sarebbe morto...
"Senta…"
Ma morto professionalmente o morto schiattato, cioè morto... morto
"Ehhhhhhh… lei deve riflettere sulla morte di quel giornalista".
Pecorelli.
"Vada a rileggersi i giornali dell’epoca e vada a riflettere, cioè, se lei sa dei nomi e li dice nel modo sbagliato, alla persona sbagliata e questi nomi potrebbero non gradirlo, avere un segreto è un’arma a doppio taglio. Se lei è forte le permette di influenzare gli altri. Se lei è debole o decide di essere debole... lei è morto".
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pangeanews · 4 years
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“Ho scoperto il Quinto Vangelo, quello scritto da Gesù, tra gli Esseni”. Gianluca Barbera da Gerusalemme. “Cartoline dal mondo”
Mio caro Davide, perdona se ti ho tenuto un po’ in attesa. Ma sono successe cose che nemmeno immagini. Morirai dalla voglia di sapere come è andato l’incontro con Y. Partiamo da lì. Anche se ancora non ci credo e non faccio che pizzicarmi per tutto il corpo.
Verso le sette ero davanti a casa di Y, una palazzina in collina, con vista sulle mura erodiane. Si tratta di un quartiere residenziale di nuova costruzione, dove tutto è pulito e ordinato.
Suono il campanello.
«A che piano?» domando.
Il portone si apre.
In ascensore mi guardo allo specchio da entrambi i lati. Mi sono rasato male, cosa che mi dà un’aria un po’ trasandata.
Il padrone di casa mi attende sul pianerottolo, un paio di pedalini ai piedi.
Un tipo precisino, mi sono detto. Certo, a parte l’occhio di vetro. Che gli sarà successo?
Ci siamo scambiati baci e abbracci.
Nel complesso Y. appariva in ottima forma, se non si considerava la menomazione all’occhio sinistro. Mostrava qualche annetto di più della sua età e aveva già una spruzzatina di grigio sulle tempie. Due baffetti fuori moda e i capelli tutti tirati sul lato destro. Un’aria impacciata ma intelligente.
«Vieni, entra».
L’appartamento era arredato con gusto, benché soffocato dalla tipica sovrabbondanza di libri consunti delle case degli intellettuali.
Siamo passati dall’anticamera alla sala da pranzo.
«Posso offrirti qualcosa da bere?» ha domandato.
«Se ce l’hai, un whisky».
«Ma certo. Io non ne bevo, ma lo tengo per gli ospiti. Te lo prendo subito. Tu intanto siediti pure sul divano».
Ho notato che la tavola era già apparecchiata.
Anche il salotto era arredato con gusto, pieno di oggetti provenienti da tutto il mondo. Alle pareti foto di metropoli dai cinque continenti.
«Come te la passi? Che fai di bello?» ho domandato un attimo dopo, sorseggiando il whisky.
«Insegno all’Università di Gerusalemme, come saprai» ha detto. «Ma vieni, sediamoci a tavola, è tutto pronto».
Y. non cucina, perciò aveva fatto venire tutto da una vicina gourmetteria.
«Ti domanderai che cosa mi sia capitato all’occhio».
«Be’, se proprio insisti…» ho detto con un mezzo sorriso.
«Non sentirti imbarazzato. Ormai ci sono abituato. Non mi dà problemi. Certo, non posso più fare le tirate che facevo prima, dopo un paio d’ore che leggo devo far riposare l’occhio buono. Comunque, sono caduto in moto; ho finito per sbattere la faccia contro uno spigolo del marciapiede. Risultato, occhio maciullato, irrecuperabile. Ma vedo che la cosa ti imbarazza. Parliamo d’altro».
«Figurati. Che cosa insegni?».
«Storia delle religioni monoteiste, come credo di averti scritto».
«Quello che volevi».
«Già…».
Mentre mi passa il cesto col pane azzimo, ancora caldo, ecco che lo vedo fare un gesto rituale con le mani.
Accortosi della mia sorpresa Y. si affretta a imbastire una spiegazione: «Sto tenendo un seminario sugli Esseni».
«Gli Esseni?».
«Io stesso lo sono stato. Ora non più. Mi è rimasta l’abitudine. Assaggia questi carciofi, sono ottimi».
Prendo il vassoio e mi servo.
«Non lo sapevo» dico poi. «Lo eri anche quando sei venuto in Italia?».
«A quell’epoca no».
Y. lancia un’occhiata attraverso i vetri, verso i tetti di Gerusalemme, che si stendono sotto di noi, poi torna a fissarmi.
«Cosa sai degli Esseni?».
«Qualcosa. Ma non credevo ne esistessero ancora».
«Eccome» fa lui. «Solo a Gerusalemme sono circa diecimila. E sono molto potenti. Pochi ne sono al corrente, ma in Israele quasi tutte le leve del potere, della cultura, dei media sono nelle loro mani. Credimi, è una setta molto ramificata, e perfino pericolosa».
«Ha adepti anche nel resto del mondo?».
«Ne conta un milione, sparsi tra i vari continenti. La gran parte, non ci crederai, negli Stati Uniti. Anche lì rappresentano una potente lobby».
«Infatti, non l’avrei detto. E cosa fanno? Si riuniscono a pregare, a complottare o che?».
«Sei curioso, eh?».
«Non più di tanto. Ma se non ti va di parlarne, lasciamo perdere».
A dire il vero le sue mi parevano pure fantasie; non avevo mai sentito parlare di lobby esseniche, ma ero molto incuriosito.
«Certo che mi va» ha proseguito lui. «Ho fatto delle scoperte importanti. La Chiesa e molti storici lo negano, ma sappiamo che Gesù, prima dei trent’anni, trascorse un periodo presso la comunità di Qumran. Se ci pensi un attimo, ti renderai conto che prima dei dodici anni sul suo conto sappiamo un mucchio di cose. Dopo i trenta iniziò la sua predicazione, che conosciamo dai Vangeli. Poi, dopo la morte e la presunta resurrezione, i suoi apostoli iniziarono a diffondere il suo messaggio per il mondo, prima in Palestina, poi in Asia, in Grecia, e infine a Roma, dove Paolo e Pietro furono uccisi, o martirizzati, secondo i punti di vista. Nessuno avrebbe potuto immaginare che a partire dalle parole di quegli uomini, e da quelle in particolar modo di Paolo di Tarso, sarebbe nata una chiesa universale, con oltre un miliardo di fedeli. Una istituzione e una comunità che hanno attraversato i secoli, abbattuto dall’interno l’impero romano e determinato le sorti dell’Occidente e non solo. Ma del periodo tra i dodici anni e i trenta di Gesù non si sa praticamente nulla, un buco nero. Ora però quel buco è stato in parte colmato. Nei mesi in cui Gesù visse tra gli Esseni, tra i quali compì il suo apprendistato e divenne quello che sappiamo, accaddero fatti molto strani. Gesù aveva ventotto anni. Fino a quel momento aveva trascorso un’esistenza monotona, senza scosse, come umile carpentiere, o qualcosa di simile, nel borgo di Nazareth. Non si era quasi mai mosso da lì, salvo qualche puntatina a Gerusalemme, a Silo, a Bethol, forse a Cesarea. Ma il suo animo era tormentato. Sentiva in sé il richiamo verso un destino più alto, per così dire. Un giorno incontrò un uomo. Un Esseno. Era di passaggio a Nazareth, diretto a Canaan. Dopo giorni di dubbi Gesù prese una decisione che avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Quello che nessuno sa è che di quella esperienza resta un documento, una testimonianza diretta».
«Il Quinto Evangelio?» l’ho preceduto.
«Per l’appunto».
«E tu l’hai trovato… Ce l’hai qua?».
Ha annuito, con un sorriso largo.
Ho portato alla bocca una costoletta di agnello e l’ho addentata.
«Vallo subito a prendere» ho detto.
Il cuore mi batteva forte.
Si è alzato ed è tornato qualche minuto dopo con in mano un rotolo di papiro chiuso da un laccio di pelle.
«Non posso dirti come ne sono entrato in possesso. Tieni, mi raccomando: la massima cura».
«Non c’è bisogno di dirlo» ho risposto prendendolo in mano. Mi sentivo quasi tremare per l’emozione. Ho sciolto il laccio, ho svolto il rotolo e ho iniziato a esaminarlo.
«Da quando ne sono entrato in possesso non dormo più tranquillo. Ricevo strane telefonate, messaggi da sconosciuti…» ha detto lui mentre mi concentravo sul documento.
«Sul serio? E cosa ti dicono in queste telefonate?» ho domandato senza alzare gli occhi.
«Di bruciare il rotolo, di distruggerlo!».
«Piuttosto inquietante. Chi sa che ce l’hai?».
«Be’, diverse persone. Il direttore del mio dipartimento, per cominciare, e qualche collega con cui mi sono confrontato».
«E hai parlato con qualcuno, di queste minacce?».
«E con chi dovrei parlarne?».
«Non saprei. Con un collega, un amico. Con la polizia, per esempio».
«Ne sto parlando ora con te. È una cosa recente. Vorrei consegnare il rotolo a te. Portalo in Italia. Mi sentirei più tranquillo. Tra qualche settimana ti raggiungerò là».  
«A me?».
«Certo, so di potermi fidare».
«D’accordo, nessun problema. Ma che cosa temi, esattamente? Non capisco».
Ero piuttosto inquieto, a dire il vero. Il fatto che non sembrasse preoccuparsi dei rischi che avrebbe potuto far correre anche a me mi irritava parecchio.
«Leggilo e capirai anche tu» continuò. «È degli Esseni che si parla. E non certo bene. Li ho frequentati, so che razza di gente è, e fin dove possono spingersi. Sono dei fanatici. E quando si sentono minacciati non esitano a passare alle vie di fatto. Mi spiego?».
«Stai scherzando?».
La cosa si faceva seria.
«Niente affatto».
«Vuoi farmi credere che a causa di quello che c’è scritto in questo rotolo temi per la tua vita?».
«Precisamente. Ascolta, ne sono entrato in possesso tre settimane fa. Poi ti dirò come e perché. Comunque, ho commesso la stupidaggine di parlarne anche al Maestro di Giustizia di Gerusalemme, che credevo un amico. Mi ha chiesto di poterlo leggere. Ho acconsentito a che lo visionasse, ma solo in mia presenza. Da quel momento mi sono reso conto di essermi fatto un nemico. È un uomo potente, che non si ferma davanti a niente, quando si tratta di faccende personali».
«Ma cosa vuole da te, di preciso?».
«Te l’ho detto: che lo distrugga!».
«Anche lui! E perché?».
«Leggilo e capirai».
«Credi sul serio che potrebbero farti del male? Per un rotolo di duemila anni fa?».
«Per quanto possa sembrare strano, penso di sì».
«Questo è aramaico, vero?».
«Esatto. Tieni, su questo foglio ti ho tradotto l’inizio. Poi ti farò avere il resto della traduzione».
Ho preso il foglio e ho cominciato a leggere. Non credevo ai miei occhi. Quelle che stavo leggendo erano le parole autentiche di Gesù!
Io, Gesù di Nazareth, sono venuto tra gli Esseni di Qumran per conoscere i segni di luna e di sole, per penetrare i segreti della vita e della morte, per apprendere l’arte della guarigione e quella di resuscitare i morti. Per tutto questo sono venuto.
Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna che non ha fine. E i saggi risplenderanno come le stelle, e sarà per sempre.
Sono giunto al monastero all’imbrunire, dopo un viaggio di quattro giorni attraverso il deserto di Giudea. Il cancello era chiuso, un custode è venuto ad aprirmi e mi ha condotto al portone. Ho picchiato sul battente e sono stato fatto entrare. Ho spiegato perché mi trovassi lì e mi è stata data accoglienza.
Mentre attendevo su una panca addossata al muro si è presentato un mebaqqer, colui che mi avrebbe fatto da guida nei giorni a venire.
Ci siamo incamminati lungo il porticato.
«Questa sarà la sua stanza» ha detto davanti a una porta.
Era più di quanto avessi bisogno, benché fosse spoglia di tutto.
Ai piedi del letto un tappeto sul quale mi sono inginocchiato per pregare…
Caro Davide, mi fermo qui, anche se so di darti un dolore. Riprenderemo il discorso nei prossimi giorni. E ti darò tutti i dettagli. Ora devo scappare. Mi devo vedere con una persona.
Un abbraccio, Gianluca
Gerusalemme, 10 settembre 2020
Gianluca Barbera
(la prima puntata di “Cartoline dal mondo” la leggete qui; su tutti i testi copyright Gianluca Barbera)
L'articolo “Ho scoperto il Quinto Vangelo, quello scritto da Gesù, tra gli Esseni”. Gianluca Barbera da Gerusalemme. “Cartoline dal mondo” proviene da Pangea.
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tarditardi · 6 years
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Avicii, "Wake me Up"e la musica che unisce
Non è obbligatorio scrivere qualcosa per forza quando un grande talento come Avicii se ne va. Non è obbligatorio nemmeno su un blog come AllaDiscoteca, dedicato alla musica da ballo. Un blog o una pagina Facebook, o una roba contemporanea “devono” far fare dei click per essere almeno un po’ visibili e/o redditizi. Ma non è affatto detto che si debbano seguire logiche vecchie, il solito NECROLOGIO, per far si che qualcuno faccia click. Sia chiaro, la morte fa fare click. L’articolo più letto in assoluto su AllaDiscoteca credo sia quello dedicato alla morte di Dr. Feelx. Ma per come la vedo io, non è affatto necessario scrivere "la notizia". Perché tanto c'è sempre qualcuno che lo fa prima o dopo di te.  
E allora perché lo faccio? Perché in qualche modo non riesco a farne a meno. Non amo quelli che vedono i famosi una volta per lavoro o per quello che credono sia un lavoro e subito li chiamano per nome. Io Bob Sinclar l'avrò visto 20 volte, una volta abbiamo pure cenato insieme, ma non è un mio amico. Non credo si ricordi di me, mai. Tanti invece oggi piangono come se Tim (non Avicii) fosse loro amico. Molti sono giovani e non sanno cosa sia un vero dolore come la scomparsa di un amico o di uno della famiglia, per cui vanno tollerati... ma torniamo al punto. La morte di Avicii mi ha toccato.
Quando qualcuno che in qualche modo ci ha toccato nella vita se ne va, fosse anche solo per una cosa 'leggera' come la musica, come una canzone... abbiamo tutti bisogno di stare vicini a chi questo qualcuno lo conosceva. Abbiamo bisogno di farlo sapere, come sto facendo io ora. Io venerdì sera, il 20 aprile 2018, ero da solo, in Valdorcia (Siena), perché la mattina dopo dovevo svegliarmi presto per una gara di corsa. Quando ho capito che Avicii era morto davvero, mi sono messo ad ascoltare l'unica radio 100% dance in Italia, m2o e l'ora di programma fatta da Andrea Mattei e Manuela Doriani. Ascoltare che anche loro non si capacitavano della scomparsa di un ragazzo di talento di appena 28 anni mi ha fatto stare un po' meglio. Per questo ho mandato pure un messaggino a Manuela Doriani. Avevo paura di star solo, perché la morte fa paura a tutti. Anche a 46 anni, anche se Avicii io di persona da vicino non l'ho mai visto, anche se le star mi stanno tutte sulle scatole, più o meno.
Se ci riusciamo, e la vedo dura, potremmo imparare qualcosa da Avicii, come artista. La sua voglia di essere DANNATAMENTE pop e contemporaneamente sempre ORIGINALE quanti dj ce l'hanno? David Guetta no di certo. Guetta come ogni dj che si rispetti passa volentieri di palo in frasca pur di restare "il dj numero uno al mondo". E Garrix? Garrix il talento ce l'avrebbe, ma uno che fa uscire ufficialmente un pezzo quasi un anno dopo averlo suonato al Tomorrowland (parlo di ‘Game Over’ con i Loopers) mi sembra troppo attento al marketing. Uno come Avicii avrebbe aspettato tanto per chissà quale motivo?
Chiudo questo articolo / post assolutamente sgangherato sul pezzo più ascoltato di sempre di Avicii su Spotify, ovvero il suo pezzo più importante, ovvero "Wake me Up". Forse preferisco "Levels", personalmente, ma ricorderò per sempre la sensazione che provai ascoltando "Wake me Up" per la prima volta. Stavo, più o meno come sempre, correndo e David Guetta la suonò in anteprima in un show Radioshow. Io mi FERMAI (mai successa un'altra volta nella mia vita) e mi chiesi sorridendo chi poteva essere il pazzo a fare un pezzo pop country da ballare. Dopo 30 secondi non so come (non sono un genio) capii che era Avicii... e dopo 40 ero già innamorato della canzone, una canzone folle ovvero perfetta. Sapere oggi, dopo tanto tempo, che è il pezzo più ascoltato di Avicii in assoluto mi fa sentire meno solo. Mi fa capire che la MUSICA POP BELLA arriva a tutti. A tutti. E la musica bella resta. Resta per sempre. La musica a cui spesso sacrifichiamo tante cose (io, come artista, ci ho dedicato anni ed anni della mia vita senza risultati artistici soddisfacenti per il mondo) resta, c’è sempre. 
Pensare che ad uno come Avicii, un TALENTO assoluto, la musica non sia bastata, mi fa incazzare in modo assoluto. Non mi sembra giusto essere rimasto qui, ad ascoltare l’ennesimo nuovo singolo del furbo mestierante di turno senza avere tra le mani il nuovo album di Avicii, che si, certo, non ha sempre sfornato capolavori, ma è sempre stato CORAGGIOSO, POP, ORIGINALE. Come spero si sia capito, anzi è chiaro che si capisce, non piango Avicii, che non conoscevo. Piango per me, che non potrò più ascoltarmi la sua musica.
(Lorenzo Tiezzi)
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pangeanews · 5 years
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“La letteratura è quel qualcuno che puzza d’altro. E io non devo essere impreparato all’inquisizione”: il romanzo di Giorgio Anelli, “Mirabilia Dei”
«Fateci lavorare ‒ noi vogliamo lavorare ‒ io voglio lavorare ‒ ma lavorare veramente, non per darci il contentino». Eccole le parole che fanno nascere le opere. Che mettono in moto l’uomo. Lo allarmano, per costruire qualcosa di buono, per sé e per gli altri. Quando un disabile chiede di poter lavorare, non si dovrebbe più avere il coraggio di opporsi. Perché si aprono infinite prospettive. A partire da quel desiderio, da quella severa richiesta brinata di rose bianche, nascono cooperative. A partire da quella lontana domanda, grazie ad essa, io, oggi, posso avere un lavoro.
*
Da una delle mie cento vite, emergono particolari scorretti. Diciotto anni fa ‒ a pensarci, un’altra era, quasi brillo di austerità corrotta ‒, salgo su un’auto guidata da uno che lavora per la tv in Mediaset. La moglie è innamorata persa della scrittura. O, degli scrittori? Siedo dietro, accanto a Davide Rondoni. Siamo a Milano. Ci fermiamo in via Zebedia. Il poeta di Forlì, si siede a un tavolino, di fronte a una chiesa, e beve birra. Se fossi stato più lucido, probabilmente oggi come allora avrei fatto carriera? Ma avere la verità nel sangue ti porta a percorrere altre strade. La verità ti fa il sangue blu. Ecco, cosa intendeva forse mio padre, quando parlava della nostra discendenza.
‒ Questo significa che lo stile della morte è lo stile della vita, diceva Borges a Liliana Heker… Fare letteratura significa aspettare che qualcuno ti venga a trovare durante la notte, mi sussurra Luca Doninelli da epoche lontane, che sembrano pulsare ancora nelle mie vene. Sì. Ho conosciuto questo e quello. E molti altri. E non ho mai ricevuto favori. Anzi. Tante pedate. Ciò che dissi ‒ con orgoglio ‒ a un muratore, tempo fa, si rivelò fondato: io mi faccio da solo. Non ho mai avuto aiuti. In nessuno dei tantissimi lavori che ho fatto nella mia vita; men che meno in letteratura. Anzi, sarebbe un guaio, in letteratura; sarebbe la fine dell’opera… In due parole, morirò scrivendo. Me lo auguro. Come i pianisti più fortunati, s’accasciano sul pianoforte. Si può desiderare qualcosa di meglio? Mio padre è morto mentre stava lavorando. La poesia è il mio centro, io, che centro, come Rilke, non ho. Che folgorazione straordinaria. È la stessa identica cosa che domandare di lavorare. Detto fatto, io lavoro due volte: in cooperativa e per la pagina bianca. Fatemi lavorare, dunque, perché ne ho voglia! Perché ho voglia di conversare anch’io con qualcuno.
‒ Fai ciò per cui sei nato. Sii ciò che scopri di essere. ‒ Mi dice la vocina silenziosa, davanti alla tomba del babbo, in una domenica mattina goffa di vento e zuppa di commozione.
Offro la fatica del mio talento, ogni giorno. La letteratura è quel qualcuno che puzza d’altro. E io voglio essere pronto a riceverlo, questo barbone straniero. Non devo essere impreparato all’inquisizione della tradizione. Sapere di fare la cosa giusta, è l’ostinazione da perseguire ad oltranza. Dico sì, come Pietro, a morire nel deserto. Senza aspettarmi nulla da nessuno.
Sarà meglio scomparire, dunque. Fare arte. Punto e basta. Come mi consiglia il saggio S. Il quale, però, continua ad aprirmi nuove prospettive, tra immortalità, dubbi suoi sulla fede, e presenza pur nella mancanza. Sono un uomo fortunato. Conoscere in cooperativa un nuovo collega e amico, che mi spalanca quesiti cosmici, non è mica roba da tutti i giorni. Al lavoro, dove ormai pare pensino unicamente alla produzione, a fare cassa, a trasformarci in efficienti operai giapponesi ‒ spero si accorgano dell’abbaglio ‒, e sempre meno a parlare con noi (quando invece ce ne sarebbe tanto bisogno), S è un’àncora di salvezza; una boa che galleggia a vista. Ad avercene di amici inadatti come lui. Da grande esperto di cinema qual è, mi dice che: una volta morto il genitore, non ci si libera della sua presenza. Inaspettatamente e con fervore, Ingmar Bergman fa cucù, tra frustrazioni da lavoro, e effervescenti desideri dell’anima di capire dove può portarci realmente la nostra vita, tanto misera e misteriosa da essere ingoiata assieme a un trancio di pizza. Insomma. Una mancanza che si fa presenza. Come il grande assente, nella sommaria cella dove scrivo.
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D’altronde ‒ che epoca stramba, di certo non è l’era del ferro ‒ tutti vogliono che tu, poeta, li raggiunga. Non importa se vicini o lontani. Tutti ti bramano. Basta, ovviamente, la tua presenza, fino alla fine dello show. Poi, puoi anche sparire; anzi, sarebbe meglio, la cosa è ben accetta. Non sia mai che tu ti fermi pure a mangiare una pizza con noi. Perché con noi, ci stiamo solo noi. Fine ragionamento da marchetta: morti impostori, che fingono pure di non averti invitato, con quei fantastici silenzi ammorbano la coscienza. Allora vi apostrofo, gentili signori e dame dei salotti! Siete sicuri di avere un’ombra? No, dico, io ho un’ombra che avvampa come fuoco. Forse voi vi spaventate, quando camminate soli la sera, in quell’attimo in cui la luce te la fa sovrapporre. Cosa? L’ombra! È quando si sdoppia, per ricongiungersi: in quel frangente, si ha paura. Istinto d’altro. L’ombra è la prova evidente per un poeta di possedere, a tratti, la verità. Ne deduco che, avere in destino una vita simile a quella di Giobbe ‒ quello della Bibbia, per intenderci ‒ è un privilegio. Perché tutti, prima o poi, attraversiamo quel qualcosa chiamato malattia. E, avere una morte propria, morire cioè nel solco della pagina bianca, farsi lettera, sarebbe alta onorificenza.
‒ Che tutti vogliono qualcosa da te, poeta, non è mica detto. Tu, invece, cosa pretendi da te stesso? È la domanda che l’ombra di Dino Campana, oggi, sovrappone alla mia impazienza verbosa.
‒ Fateci lavorare! È la risposta. Che come eco risuona in cooperativa ogni qualvolta io vedo S. Un uomo che ha avuto l’ardire di chiedere ‒ cosciente o meno ‒ un compimento alla sua vita. Senza S e tanti altri, che in passato hanno fatto la stessa richiesta, questa storia oggi non si potrebbe raccontare.
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Piuttosto. Se C fosse ancora qui da noi, le cose andrebbero sicuramente meglio. O mendichiamo noi un aiuto, altrimenti parlare dei nostri problemi diventa un problema. Si prova un’assenza inevitabile. C, invece, parlava con tutti. Eccome. A volte ti anticipava pure, da quanto era brava a capire, guardandoti, che qualcosa non stava andando per il verso giusto. Ci conosceva uno ad uno. Amava le nostre fragilità. Fare il nostro bene, era il suo mestiere. Diceva spesso che: spendere una mezz’ora parlando insieme ‒ dopo, una volta risolto o alleviato il problema ‒, ci avrebbe fatto rendere sul lavoro il doppio o il triplo. Ed era vero. Accadeva. Aveva una sorta di poesia, in lei, della quale un giorno, per somma stima, mi fece dono…
Giorgio Anelli
*In copertina: Ingmar Bergman
L'articolo “La letteratura è quel qualcuno che puzza d’altro. E io non devo essere impreparato all’inquisizione”: il romanzo di Giorgio Anelli, “Mirabilia Dei” proviene da Pangea.
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