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#Dolores Calò
francyfan-bukowsky · 5 months
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NARRAMI18 FEBBRAIO 2019
Bukowski, ultimo atto
di ILARIA CALÒ
Capita molte volte che nell’ultima parte di esistenza un essere umano intraprenda un colloquio con se stesso per formulare una sorta di calcolo finale, stilare un resoconto definitivo catalogando il proprio passato al fine di rendersi cosciente di averlo vissuto e infine di accettarlo. Così si suddividono i ricordi, per comprendere ciò che di buono c’è stato, facendo riaffiorare immagini piacevoli alla mente, ma anche riflettendo sulla parte negativa. Tutti abbiamo un fardello, chi più pesante, chi meno, di ricordi spiacevoli: eventi definiti da scelte personali che si sarebbero potuti evitare oppure da ciò che siamo stati costretti a vivere per volontà altrui.
Gli ultimi dieci anni trascorsi da Charles Bukowski prima di spegnersi a San Pedro nel 1994 sono differenti da tutta la sua vita precedente: l’incontro con Linda Lee Beighle sembra essere la sua redenzione, lui stesso disse: “Linda era stata mandata dagli dei per salvarmi la vita”. Nel 1976 infatti la quotidianità di Charles viene stravolta da questa persona esteticamente semplice, salutista e affascinata dal misticismo, capace di attrarre lo scrittore a sé più di tutte le altre donne frequentate prima.
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Charles Bukowski con Linda King
Bukowski grazie a lei riduce il consumo di alcool, migliora la sua dieta e grazie a Linda guadagna dieci anni di vita. Nel 1985 viene celebrato il matrimonio di Charles e Linda dal filosofo e autore canadese Manly Palmer Hall e solo tre anni dopo Bukowski si ammala di tubercolosi, evento che segna l’inizio di una lenta discesa fino alla leucemia, causa della sua morte. Nel frattempo si avvicina alla dottrina buddhista, rito con cui verrà svolto il suo funerale.
Questo intenso decennio trascorso con Linda fa scoprire a Charles il lato felice dell’esistenza umana, un argomento da sempre al centro delle sue riflessioni, di cui discorre in ogni sua opera con uno stile tremendamente schietto e cinico. Ma il motivo di questo crudo realismo è semplice: l’uomo dietro quelle parole è sempre stato oppresso dal susseguirsi di situazioni spiacevoli sin dall’infanzia, di cui racconta amaramente in “Panino al prosciutto”, per poi proseguire durante l’esperienza lavorativa alle Poste e la totale perdizione tra sesso, alcool e scommesse. La scrittura, si può dire, è stata l’ancora di salvezza insieme a Linda. Gli unici due approdi sicuri in un mare in tempesta. Prima che arrivasse lei, il solo battere a macchina per imprimere i pensieri riusciva a mantenerlo in vita, concedendogli di superare l’ennesimo evento travagliato nello scorrere degli anni.
Si dice che la raccolta di poesie di Bukowski più rilevante è quella che nasce dopo la morte di Jane Baker, il suo primo grande amore con cui trascorre un decennio burrascoso, ma la cui perdita provoca in lui un forte dolore, tanto da spingerlo più volte a tentare il suicidio. Ma anche in questo caso la possibilità di scrivere e di poter pubblicare lo trattengono. Le poesie per l’appunto vengono pubblicate nel 1962 con il titolo “ It Catches my Heart from my Hands”, tradotte in italiano solo in parte e pubblicate nel 1986 dalla Mondadori in “Poesie” di Charles Bukowski . Poco dopo Charles diventa padre di una bambina avuta con una giovane poetessa e la sua vita riprende a scorrere altalenante come sempre.
Il suo pubblico di lettori si amplia, ma lui rimane fedele a se stesso, rifiutando di comportarsi come qualsiasi altro scrittore.
L’incontro con Linda addolcisce però il suo animo, dopo moltissimi rifiuti accetta nel 1987, poco prima di ammalarsi, di scrivere soggetto e sceneggiatura per il film “Balfly – Moscone da Bar” un film diretto da Barbet Schroeder e prodotto da Francis Ford Coppola. La storia narra una delle tante vicende di Henry Chinaski, alterego di Bukowski. Lo stesso scrittore parla della rocambolesca e travagliata creazione del film nell’opera “Hollywood Hollywood”, dove inoltre Sara è il personaggio che rappresenta Linda.
Il suo puzzle composto da centinaia di tessere malinconiche ha potuto completarsi con un ultima tessera fondamentale, fatta di amore e serenità. Bukowski ha trovato comunque un lieto fine che di certo né a lui né tantomeno a quel che scriveva poteva attribuirsi.
Se paragonassimo la sua vita ad un suo romanzo potremmo scrivere come explicit quel che leggiamo sulla sua lapide, ovvero Don’t try: il consiglio che era solito a dare ai giovani scrittori, perché secondo lui l’arte dello scrivere non doveva svolgersi a tentativi, ma seguendo precise linee di ispirazione. Charles mostra infatti grandi doti creative e di scrittura fin dagli anni di scuola, dove il suo stile già si presenta realista e sincero: quando viene assegnato alla classe lo svolgimento di un tema che doveva essere il resoconto di una gita il suo risulta essere il migliore, nonostante lo abbia scritto confessando di non aver partecipato alla gita.
Tenta negli anni di gioventù di pubblicare racconti su alcune riviste e romanzi presso case editrici, eppure alle persone la verità non piace, le sue frasi buttate addosso ad una società molto spesso ipocrita non lo portano al successo fino ai cinquant’anni, dopo anni vissuti come impiegato postale. Lui stesso in quel lasso di tempo non aveva più considerato l’idea di pubblicare quel che scriveva. La sua creatività persisteva, in un mondo troppo semplice per accoglierla, così da condurlo a mostrarsi silenzioso e cinico, coltivando nell’intimo le migliaia di parole che oggi compongono le sue opere.
Secondo Charles è importante non fingere per piacere, per essere accettati dagli individui con cui si ha a che fare ogni giorno. Proprio nel documentario “You Never Had It”, afferma di odiare chi fa lo scrittore di mestiere, non potendo essere sufficientemente realista nel descrivere l’esistenza umana e tutti i fatti ad essa correlati. Bukowski non si è mai definito scrittore professionista, per l’appunto, aggiungendo inoltre che l’artista di successo è colui che viene apprezzato dopo la sua morte, perché esprime concetti estremamente complessi da comprendere dalla generazione presente, così evoluti e geniali da potersi adattare solo ad una società futura.
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Charles Bukowski con Linda Lee Beighle
Charles Buk🖤wski
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popolodipekino · 11 months
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aria, colori, fine
- Ayl! Ayl! - e la mia voce, il suono, proprio il suono della mia voce, si propagava forte come mai l'avevo immaginato, e le onde rumoreggiavano più forte della mia voce. Insomma: non ci si capiva più niente di niente. Mi portai le mani alle orecchie assordate, e in quel momento sentii pure il bisogno di tapparmi naso e bocca per non aspirare la forte miscela d'ossigeno e azoto che mi circondava, ma più forte di tutti fu l'impulso a coprirmi gli occhi che mi pareva scoppiassero. La massa liquida che si stendeva ai miei piedi era a un tratto diventata d'un colore nuovo, che m'accecava, ed io esplosi in un urlo inarticolato che di lì in poi doveva assumere un significato ben preciso: - Ayl! Il mare è azzurro! Il grande cambiamento da tanto tempo atteso era avvenuto. Sulla Terra adesso c'era l'aria e l'acqua. E sopra quel mare azzurro appena nato, il Sole stava tramontando colorato anche lui, e d'un colore assolutamente diverso e ancor più violento. Tanto che io sentivo il bisogno di continuare le mie grida insensate, tipo: - Che rosso è il Sole, Ayl! Ayl, che rosso! Calò la notte. Anche il buio era diverso. Io correvo cercando Ayl, emettendo suoni senza capo né coda per esprimere quel che vedevo: - Le stelle sono gialle! Ayl! Ayl! Non la ritrovai né quella notte né durante i giorni e le notti che seguirono. Intorno, il mondo sciorinava colori sempre più nuovi, nuvole rosa s'addensavano in cumuli violetti che scaricavano fulmini dorati; dopo i temporali lunghi arcobaleni annunciavano le tinte che ancora non s'erano viste, in tutte le possibili combinazioni. [...] Un'enorme catena di montagne s'era formata in quel punto. Mentre io ero stato proiettato fuori, Ayl era rimasta dietro la parete di roccia, chiusa nelle viscere della Terra. - Ayl! Dove sei, Ayl? Perché non sei di qua? - e giravo lo sguardo sul passaggio che s'allargava ai miei piedi. Allora, a un tratto, quei prati verde-pisello su cui stavano sbocciando i primi papaveri scarlatti, quei campi giallo-canarino che striavano le fulve colline digradanti verso un mare pieno di luccichii turchini, tutto m'apparve così insulso, così banale, così falso, così in contrasto con la persona di Ayl, con il mondo di Ayl, con l'idea di bellezza di Ayl, che compresi come il suo posto non avrebbe mai più potuto essere di qua. E mi resi conto con dolore e spavento che io ero rimasto di qua, che non sarei mai più potuto sfuggire a quegli scintillii dorati e argentei, a quelle nuvolette che da celeste si cangiavano in rosate, a quelle verdi foglioline che ingiallivano ogni autunno, e che il mondo perfetto di Ayl era perduto per sempre, tanto che non sapevo più neppure immaginarmelo, e non restava più nulla che potesse ricordarmelo nemmeno di lontano, nulla se non quella fredda parete di pietra grigia. da I. Calvino, Senza colori, in Le cosmicomiche
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corallorosso · 3 years
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Il 16 ottobre del 1943. In tutta Roma, non solo al ghetto vengono portate via dalle loro case 1024 persone. Tra di loro 200 bambini. Torneranno in sedici. Una sola donna e nessun bambino. Lorella Zarfati un giorno, dopo la morte di sua nonna Emma Ajò Calò, ha trovato in un cassetto della sua casa una federa ingiallita dentro la quale c’era un vestitino da bambina. Era quello della sua cuginetta, Emma di Veroli, e le era stato donato quando aveva compiuto quaranta giorni. La bambina era del 1941. In quel maledetto ottobre aveva dunque due anni. Sua mamma era una ragazza di 23 anni. Si chiamava Grazia Ajò Di Veroli e si era sposata con Mario. Erano una coppia bella, di ragazzi che sognavano il futuro. Quella mattina Mario e la bimba sono nella piazza di Monte Savello. I tedeschi li prendono e li caricano sui camion della deportazione. Nel caos di quei momenti qualcuno avverte Grazia che scende da casa disperata alla ricerca dei suoi cari. Li vede sul mezzo tedesco e non ci pensa un istante, chiede di salire per restare con loro. Destinazione Auschwitz. Tutti cercano di mettersi in salvo, Grazia, ragazza ebrea, non può immaginare di sopravvivere senza suo marito e sua figlia. Giunti al campo di sterminio la mamma e la figlia verranno passate subito per la camera a gas. È trascorsa solo una settimana da quella mattina nel ghetto. Mario, invece, distrutto dal dolore e dalla fatica, morirà qualche mese dopo. Anche il padre di Grazia ed Emma, si chiamava Giacobbe, verrà ucciso ad Auschwitz-Birkenau. Era un ambulante, uno dei tanti mestieri che gli ebrei, dopo le infami leggi del 1938, non potevano più esercitare. Fu arrestato nell’aprile del 1944 e portato a Fossoli. Di lì poi trasferito con i viaggi della morte al campo di sterminio, dal quale non è mai tornato. Coltiviamo la memoria ogni giorno perchè coloro che non ricordano il passato sono destinati a ripeterlo (Il razzismo non ci piace)
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ellmick · 3 years
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È che a volte mi si annebbia il cervello. Vedo nero, non riesco a non rispondere. Devo parlare, tirar fuori tutto, urlare.
Altre volte, invece, non riesco ad esprimere le mie emozioni. Mi chiudo in un bozzolo, impermeabile a tutti. Solo poche persone sulla terra saprebbero dire che c'è qualcosa che non va in me. E di questo, ringrazio mille volte il cielo.
Ovviamente, sapevo perché ero lì, davanti ad uno sconosciuto che avrebbe voluto che gli leggessi i registri di 25 anni di pensieri e sentimenti provati. Sapevo cosa avevo fatto, ma non sapevo come. Non sapevo esattamente cosa fosse quella cosa.
Era stato molto difficile per me rielaborare il tutto, dare un senso a ciò che avevo visto e fatto. I miei ricordi erano vividi, non è che non ricordassi più cosa era successo, ma ecco, per me semplicemente non avevano il ben che minimo senso.
Da allora sono passati tanti anni, la mia vita è cambiata radicalmente, ma nessuno ancora riesce a superare quel momento. Io lo avevo accettato già allora ed in seguito avrei fatto in modo che la mia, ecco, condizione, non avesse influenzato le vite altrui. Avevo dovuto compiere delle scelte e seguire certune strade invece di altre. Ma non era così facile per tutti accettarlo e non capivo ancora il perché.
Ma in quel momento dovevo rassegnarmi e quindi mi decisi a parlare e raccontai.
La prima volta accadde per caso. Ero a pranzo, accanto al camino. Mi riposavo in attesa di un'altra portata, (sì, perché, naturalmente, a casa mia ancora non ci si era rassegnati ad essere solo in tre). Le mani vicino al fuoco, il lento scoppiettare delle fiamme era l'unico rumore percepito.
L'unico.
Fino a quando non li sentii urlare. Naturalmente sapevo che la quiete sarebbe durato poco, la nostra famiglia non è mai stata tranquilla. Ci si infiamma anche per la sterile discussione sul nome di un attore nel film che si sta vedendo.
Dicevo, li sentii urlare.
Questa volta era diverso. Questa volta erano ai due angoli opposti del ring. Questa volta mia madre non voleva non vedere. Si era stancata di incassare in silenzio.
La rabbia accumulata negli ultimi tre mesi esplose. Partirono urla, grida. L'orrore a cui stavo per partecipare si stava facendo strada facilmente. Avevo paura, la tensione mi irrigidiva i muscoli. Ero ferma, immobile con le mani vicino al fuoco. Pietrificata nello sguardo.
Mamma ne era sicura ormai, suo marito aveva un'altra.
Le sue lacrime erano sgorgate giù come rubinetti aperti. Si agitava, bestemmiava e imprecava contro quell'uomo che, se prima considerava il suo Salvatore, ora stava diventando il suo nemico più importante.
Lei cercava di colpirlo debolmente sul petto, ma si agitava convulsamente e con uno schiaffo gli colpì la faccia.
Si fermò.
Calò il silenzio, lei immobile continuava a piangere e singhiozzare.
Lui si portò le mani al viso arrossato, vidi nascere nei suoi occhi una furia improvvisa. Mise la mano dietro la schiena, sulla penisola della cucina, afferrò il coltello e fece per colpirla.
Il tutto mi parve lentissimo, ancora ora se ci penso, non capisco come possa essere successo. Le mie mani erano ancora vicino al fuoco, ma all'improvviso non le sentivo più calde. Era come se la mia pelle avesse inglobato la temperatura del fuoco. Il mio primo istinto fu quello di tendere le mani verso il polso di lui, per fermarlo, ma nel fare quel gesto le mie mani si bloccarono a mezz'aria. Dai palmi uscì un getto di fiamme, così violento da colpire immediatamente il polso di lui, il quale urlando, per il dolore e lo stupore, cadde a terra.
L'ultima cosa che ricordo fu lo sguardo di mia madre, su di me. Incredulo, spaventato, sollevato.
Nel cadere la mia testa sbatté sul pavimento opaco.
Questo è tutto ciò che ho da dire, su quell'episodio.
~λ.
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rithbytirh · 4 years
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L'usignolo e la rosa - Oscar Wilde
«Ha detto che ballerà con me se le porterò delle rose rosse» si angosciava il giovane studente, «ma in tutto il mio giardino non c’è nemmeno una rosa rossa.»
L’usignolo lo sentì dal suo nido nella quercia, guardò tra le foglie e si stupì.
«Neanche una rosa rossa in tutto il mio giardino!» si angosciava, e i suoi begli occhi si riempirono di lacrime.
«Ah, da che piccole cose dipende la felicità! Ho letto tutto quello che i saggi hanno scritto e la filosofia non ha segreti per me, ma la mia vita è rovinata dalla mancanza di una rosa rossa.»
«Ecco finalmente uno che ama davvero» disse l’usignolo. «Notte dopo notte ho cantato di lui, anche se non lo conoscevo: notte dopo notte ho raccontato la sua storia alle stelle e adesso lo vedo. I suoi capelli sono scuri come i giacinti in fiore e le sue labbra sono rosse come la rosa del suo desiderio, ma la passione ha reso il suo viso come pallido avorio e la sofferenza gli ha posto il suo sigillo sulla fronte.»
«Il principe dà un ballo domani sera» mormorava il giovane studente, «e il mio amore sarà tra gli invitati. Se le porterò una rosa rossa ballerà con me fino all’alba. Se le porterò una rosa rossa la terrò tra le braccia, lei appoggerà la testa sulla mia spalla e stringerò la sua mano nella mia. Ma non c’è nessuna rosa rossa nel mio giardino, così io siederò da solo e lei mi passerà accanto. Non mi presterà attenzione e il mio cuore si spezzerà.»
«Ecco proprio uno che ama davvero» disse l’usignolo. «Di quello che io canto, lui soffre; ciò che è gioia per me, per lui è dolore. Certo l’amore è una cosa meravigliosa. È più prezioso degli smeraldi e dei pregiati opali. Perle e granati non possono comprarlo, non è nemmeno in vendita al mercato. Non può essere acquistato dai mercanti, né pesato sulla bilancia per l’oro.»
«I musicisti siederanno nella loro tribuna» diceva il giovane studente, «e suoneranno gli archi, e il mio amore ballerà al suono dell’arpa e del violino. Ballerà così leggera che i suoi piedi non toccheranno terra e i cortigiani nei loro abiti splendenti le si affolleranno attorno. Ma con me non ballerà, perché io non ho una rosa rossa da darle»; e si gettò nell’erba, nascose il viso tra le mani e pianse.
«Perché sta piangendo?» chiese una piccola lucertola verde mentre gli sfrecciava davanti con la coda in aria.
«Già, perché?» disse una farfalla che volteggiava inseguendo un raggio di sole.
«Già, perché?» sussurrò una margherita alla sua vicina, con un filo di voce.
«Piange per una rosa rossa» disse l’usignolo.
«Per una rosa rossa?» esclamarono, «Che assurdità!» e la piccola lucertola, che era una vera cinica, gli rise in faccia.
Ma l’usignolo capiva il segreto della sofferenza dello studente e restando in silenzio nella quercia pensava al mistero dell’amore. All’improvviso spiegò le sue ali brune e si librò nell’aria. Oltrepassò il boschetto come un’ombra e come un’ombra attraversò il giardino. Al centro dell’aiola si ergeva un bel roseto e, quando lo vide, lo raggiunse in volo e si posò su un ramoscello.
«Dammi una rosa rossa» implorò, «e io ti canterò la mia canzone più dolce.»
Ma il roseto scosse la testa.
«Le mie rose sono bianche» rispose, «bianche come la schiuma del mare e più bianche della neve sulla montagna. Ma va’ da mio fratello che cresce attorno alla vecchia meridiana e forse ti darà quello che vuoi.»
Così l’usignolo raggiunse in volo il roseto che cresceva attorno alla vecchia meridiana.
«Dammi una rosa rossa» implorò, «e io ti canterò la mia canzone più dolce.»
Ma il roseto scosse la testa.
«Le mie rose sono gialle» rispose, «gialle come i capelli della sirena che siede su un trono d’ambra e più gialle del narciso che fiorisce nel prato prima che il mietitore arrivi con la falce. Ma va’ da mio fratello che cresce sotto la finestra dello studente e forse ti darà quello che vuoi.»
Così l’usignolo raggiunse in volo il roseto che cresceva sotto la finestra dello studente.
«Dammi una rosa rossa» implorò, «e io ti canterò la mia canzone più dolce.»
Ma il roseto scosse la testa.
«Le mie rose sono rosse» rispose, «rosse come le zampe della colomba e più rosse dei grandi ventagli di corallo che ondeggiano nell’antro dell’oceano. Ma l’inverno mi ha ghiacciato le vene, il gelo ha bruciato i miei boccioli e la tempesta ha spezzato i miei rami e io non avrò per niente rose quest’anno.
«Un’unica rosa rossa è tutto ciò che voglio» implorò l’usignolo, «solo una rosa rossa! Non c’è modo per averla?»
«Un modo c’è» rispose il roseto, «ma è così terribile che non oso spiegartelo.»
«Spiegamelo» disse l’usignolo, «io non ho paura.»
«Se vuoi una rosa rossa» disse il roseto, «devi costruirla con la musica al chiaro di luna e colorarla con il sangue del tuo cuore. Devi cantare per me con il tuo petto contro una spina. Devi cantare per me tutta la notte, la spina deve trafiggere il tuo cuore e il tuo sangue vitale deve scorrere nelle mie vene e diventare mio.»
«La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa» si angosciava l’usignolo, «e la vita è molto cara a tutti. È piacevole sedersi in un bosco verde e guardare il sole nel suo cocchio d’oro e la luna nel suo cocchio di perla. Dolce è il profumo del biancospino e dolci sono le campanule che si nascondono nella valle e l’erica che ondeggia sulla collina. Eppure l’amore vale più della vita e che cos’è il cuore di un uccello in confronto al cuore di un uomo?»
Così spiegò le sue ali brune e si librò nell’aria. Percorse il giardino come un’ombra e come un’ombra attraversò il boschetto.
Il giovane studente era ancora steso sull’erba, dove l’aveva lasciato, e le lacrime non si erano ancora asciugate nei suoi begli occhi.
«Stai sereno» esclamò l’usignolo, «stai sereno; avrai la tua rosa rossa. Io la costruirò con la musica al chiaro di luna e la colorerò con il sangue del mio cuore. Tutto ciò che ti chiedo in cambio è che tu ami davvero, perché l’amore è più saggio della filosofia, che pure è saggia, e più potente del potere, che pure è potente. Del colore della fiamma sono le sue ali e colore della fiamma è il suo corpo. Le sue labbra sono dolci come miele e il suo alito è come incenso.»
Lo studente alzò lo sguardo dall’erba e ascoltò, ma non riuscì a capire quello che l’usignolo gli stava dicendo perché sapeva solo le cose che sono scritte nei libri.
Ma la quercia capì e si sentì triste, perché era molto affezionata al piccolo usignolo che aveva costruito il nido tra i suoi rami.
«Cantami un’ultima canzone» sussurrò, «mi sentirò molto sola quando te ne sarai andato.»
Così l’usignolo cantò per la quercia e la sua voce era come acqua che sgorga da un vaso d’argento. Quando la canzone fu finita lo studente si alzò e tirò fuori dalla tasca un taccuino e una matita.
«Ha tecnica» disse tra sé mentre si allontanava attraverso il boschetto, «non si può negare, ma ha anche sentimento? Temo di no. In realtà è come la maggior parte degli artisti; è tutto stile, senza alcuna sincerità. Non si sacrificherebbe per gli altri. Pensa solo alla musica e tutti sanno che le arti sono egoiste. Però bisogna ammettere che ha dei bei suoni nella voce. Che peccato che non significhino niente, o che non producano alcun bene concreto.»
E andò nella sua stanza, si stese sul suo giaciglio e cominciò a pensare al suo amore; e dopo un momento si addormentò.
E quando la luna brillò nel cielo l’usignolo volò al roseto e pose il petto contro la spina. Per tutta la notte cantò con il petto contro la spina e la fredda luna di cristallo si sporse ad ascoltare.
Per tutta la notte cantò, la spina entrò sempre più in profondità nel suo petto e ne scaturì il sangue vitale. Cantò prima della nascita dell’amore nel cuore di un ragazzo e di una ragazza. E sul ramoscello più alto del roseto fiorì una stupenda rosa, petalo dopo petalo, mentre una canzone seguiva l’altra.
All’inizio era pallida come la foschia che aleggia sul fiume: pallida come i piedi del mattino e argentea come le ali dell’alba. Come l’ombra di una rosa in uno specchio d’argento, come l’ombra di una rosa in una pozza d’acqua, così era la rosa che fioriva sul ramoscello più alto del roseto. Ma il roseto gridava all’usignolo di premere di più contro la spina.
«Premi di più, piccolo usignolo» gridava il roseto, «o il giorno arriverà prima che la rosa sia finita.»
Così l’usignolo premeva di più contro la spina e il suo canto diventava sempre più intenso, perché cantava della nascita della passione nell’anima di un uomo e di una donna.
E un tenue rossore si diffuse nei petali della rosa, come il rossore sul viso dello sposo quando bacia le labbra della sposa. Ma la spina non aveva ancora raggiunto il suo cuore, così il cuore della rosa rimaneva bianco, perché solo il sangue del cuore dell’usignolo può rendere rosso il cuore di una rosa. E il roseto gridava all’usignolo di premere di più contro la spina.
«Premi di più, piccolo usignolo» gridava il roseto, «o il giorno arriverà prima che la rosa sia finita.»
Così l’Usignolo premette di più contro la spina, la spina gli toccò il cuore e una violenta fitta di dolore lo trafisse. Più feroce era il dolore, più impetuoso diventava il suo canto, perché cantava dell’amore che è reso perfetto dalla morte, dell’amore che non muore nella tomba. E la stupenda rosa divenne rossa, come il rosa del cielo a oriente. Rossa era la cintura di petali e rosso come un rubino era il cuore.
Ma la voce dell’usignolo diventava più debole, le sue piccole ali cominciarono a sbattere e un velo gli calò sugli occhi. Il suo canto diventava sempre più debole e sentiva in gola qualcosa che lo soffocava.
Allora donò un’ultima esplosione di musica. La bianca luna la sentì, dimenticò l’alba e indugiò nel cielo. La rosa rossa la sentì, tppremò tutta per l’estasi e aprì i petali all’aria fredda del mattino. L’eco la portò nel suo antro purpureo tra le colline e svegliò dai loro sogni i pastori che dormivano. Fluttuò tra le canne del fiume e loro portarono il suo messaggio al mare.
«Guarda, guarda!» esclamò il roseto, «la rosa è finita ora»; ma l’usignolo non diede risposta perché giaceva morto nell’erba alta, con la spina nel cuore.
E a mezzogiorno lo studente aprì la finestra e guardò fuori.
«Ma guarda, che splendido colpo di fortuna!» esclamò, «ecco una rosa rossa! Non ho mai visto una rosa come questa in tutta la mia vita. È così bella che sono sicuro abbia un lungo nome latino»; e, sporgendosi, la colse. Poi si mise il cappello e corse alla casa del professore con la rosa in mano.
La figlia del professore sedeva sulla soglia e avvolgeva della seta blu su un arcolaio, con il cagnolino disteso ai suoi piedi.
«Avete detto che avreste ballato con me se vi avessi portato una rosa rossa» esclamò lo studente. «Ecco la rosa più rossa del mondo. La porterete stasera vicino al cuore e mentre balleremo insieme vi dirà quanto vi amo.»
Ma la ragazza si accigliò.
«Temo che non si intoni col mio vestito» rispose, «e, inoltre, il nipote del ciambellano mi ha mandato dei gioielli autentici e tutti sanno che i gioielli valgono molto più dei fiori.»
«Be’, in fede mia, siete proprio ingrata» disse lo Studente con rabbia, e gettò la rosa in strada, dove cadde in un rigagnolo e fu schiacciata dalla ruota di un carro.
«Ingrata!» disse la ragazza. «Vi dirò, voi siete proprio scortese; e, dopotutto, chi siete voi? Solo uno studente. Be’, non credo abbiate neanche fibbie d’argento alle scarpe come il nipote del ciambellano» e si alzò dalla sedia ed entrò in casa.
«Che cosa sciocca è l’amore» disse lo studente mentre se ne andava.
«Non è utile nemmeno la metà della logica perché non prova niente, ci parla sempre di cose che non accadranno e ci fa credere in cose che non sono vere. In realtà non è proprio pratico e, dato che in questa epoca essere pratici è tutto, tornerò alla filosofia e studierò metafisica.»
Così ritornò nella sua stanza, tirò fuori un grosso libro polveroso e cominciò a leggere.
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francesca-fra-70 · 4 years
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Fermatevi un attimo per guardare questi volti. Un nonno e la sua nipotina. Provate a ricostruire un giorno di 22 anni fa. Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, contava qualche migliaio di abitanti. Negli ultimi anni sulle strade correva il sangue di tanti innocenti e in pochi si domandavano perché: era così e basta. Quell'8 maggio 1998 era un venerdì, il sole stava tramontando e la piazza era animata di persone. Un giorno apparentemente normale, fino a quando quella serenità venne spezzata da alcuni spari. All'interno di una macelleria, gli affiliati delle cosche avevano assassinato due persone. Fuori c'era il fuggi fuggi e sulla piazza calò il silenzio. I killer stavano per andare via quando da un vicolo videro avanzare una fiat Croma. All'interno c'era la famiglia Biccheri, ancora ignara di quanto era appena accaduto: Giuseppe, 54 anni, la moglie Annunziata, la figlia Francesca, di 31 anni, e i nipotini Mariangela e Giuseppe. Il signor Giuseppe era un cassintegrato, una persona perbene come i suoi famigliari. La figlia Francesca aveva passato tutto il pomeriggio a scuola con i suoi due figli: Giuseppe, di sette anni, che si chiamava come il nonno e Mariangela, che di anni invece ne aveva nove, ed era felice perché le sue maestre l'avevano riempita di complimenti. Come premio per i suoi ottimi voti, sua madre le aveva promesso un gelato in compagnia dei nonni. Sorridevano, all'interno di quella fiat Croma grigia, e si raccontavano le loro giornate. Giunti nei pressi della macelleria, però, una scarica di proiettili tornò a seminare il terrore. Stavolta i bersagli erano loro. I sicari scambiarono l'auto dei Biccheri con quella del padre del macellaio ucciso poco prima e fecero fuoco all'impazzata. Quella piazza nel giro di pochi minuti si trasformò in una carneficina. Nonno Giuseppe e la nipotina Mariangela morirono sul colpo, gli altri furono ridotti in fin di vita. Il sole nel frattempo era tramontato, erano da poco passate le 20.00 e la gente era tornata in strada. C'era chi, tra le lacrime, cercava di capire se tra i morti c'erano amici o parenti. In mezzo alla folla, un ragazzo di vent'anni prese in braccio Mariangela e la portò in ospedale. Una corsa contro il tempo ma era già troppo tardi. "Me lo son visto davanti col corpicino coi vestiti imbrattati di sangue tra le braccia. Sembrava una scena della peste del Manzoni. Gli ho dovuto dire che non c'era nulla da fare e ho fatto poggiare la bimba in una stanza", raccontò il dottore. Sembra quasi di vederle le lacrime di quel ragazzo. Impotente, di fronte a quel piccolo corpo devastato, in una stanza vuota e buia, circondata da fiori e lumini. All'arrivo dei carabinieri la piazza si era nuovamente svuotata. Le case sembravano vuote. Nessun testimone, almeno così riportavano i giornali. Solo la rabbia per la morte di una bimba e di suo nonno che non avevano fatto male a nessuno. Poi di nuovo un angosciante silenzio. E quella fiat Croma, con la carrozzeria metallizzata piena di proiettili. Il piccolo Giuseppe l'indomani avrebbe compiuto otto anni ma non ci fu nessun compleanno, perché era in ospedale, con le ossa frantumate, la pancia bucata, il fegato e il polmone lacerati. Anche nonna Annunziata e mamma Francesca lottavano tra la vita e la morte. In paese la paura aveva fatto posto al dolore: atroce, inspiegabile. Il banco di Mariangela rimase vuoto, sul muro dietro la cattedra un'immagine di Padre Pio. L'aveva portata lei. Il suo ultimo regalo ai compagnetti e alla maestra, prima di essere assassinata come un boss. Senza pietà. "Per errore". Così ragionano i mafiosi: sparano quando lo ritengono opportuno, anche da lontano, quando è impossibile riconoscere il bersaglio. E poi scappano come dei vigliacchi. Vale la pena ribadirlo: non esistono errori quando si parla di questi pezzi di merda. Non uccidono per errore, uccidono e basta. Il modo migliore per raccontare quanto fanno schifo, è ricordare le vittime. Uomini, donne, bambini, ai quali quella montagna di merda che è la mafia, ha strappato sogni e speranze. Come nel caso di Mariangela. Una brava bambina di appena nove anni, con una vita davanti, che quel giorno voleva solo mangiare un gelato...
#mafiamerda #AccaddeOggi  #pernondimenticare #MariangelaAnsalone #GiuseppeBiccheri
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‘L’ULTIMA NOTTE SULLA TERRA’
O ‘COME UN ANGELO E UN DEMONE TROVARONO IL MODO DI DICHIARARE IL PROPRIO AMORE E DI FREGARE I RISPETTIVI SUPERIORI’
Salve gente! Vista la buona accoglienza della mia prima fanfiction, ho deciso di pubblicare anche le altre che tenevo nel cassetto computer... E’ ora che vedano la luce: forse questa quarantena qualche lato positivo ce l’ha :-)
Parole: 3782
Fandom: Good Omens
Ineffable Husbands, ambientato nella notte del Sabato della sventata Apocalisse, risoluzione di una lunga slow burn, mutual oblivious pining, menzione del gruppo scultoreo ambiguo a casa di Crowley, dei loro celebri amanti passati, Aziraphale conosce meglio di quanto sembri le canzoni dei Queen, jealous!Crowley
Dicono che le idee migliori vengano quando non ci si pensa troppo. Tutte le grandi invenzioni sono nate quando il rispettivo inventore era impegnato a fare tutt'altro: degli alchimisti medievali cercavano di ottenere l'elisir di lunga vita e invece realizzarono una polvere che avrebbe spento molte vite; Flaming voleva capire da cosa dipendesse il raffreddore e finì per scoprire come fermare in anticipo qualsiasi epidemia (causando il pensionamento di Pestilenza e l’ascesa di Inquinamento) e così via... Fino a Crowley e ad Aziraphale.
Il demone e l'angelo avevano appena sventato l'Apocalisse, non senza difficoltà, temendo in una certa misura quale sarebbe potuta essere la reazione dei rispettivi capi, reazione che però tardava a farsi sentire; ciò aveva dunque spinto i due 'traditori' a passare quella che credevano fosse la loro ultima notte sulla Terra a darsi ai piaceri della vita terrena... Ma andiamo con ordine.
Mancava poco al finire di quel sabato che aveva rischiato di venir ricordato come il giorno dell'Apocalisse: Aziraphale e Crowley si trovavano nell'appartamento di quest'ultimo a consumare la sua riserva di vini pregiati collezionati negli anni. l’angelo era stato poche volte a casa sua e ogni volta non aveva potuto fare a meno di chiedersi perché l'arredamento dovesse essere così minimale: certamente era ordinato e non c'era nulla di sporco, rotto o rovinato (nemmeno le piante presentavano imperfezioni [Aziraphale era al corrente del suo 'metodo' per avere le piante migliori di Londra e se aveva scelto di presentarsi come giardiniere presso la famiglia di Warlock era stato per dimostrare al demone che si potevano ottenere buoni risultati con la gentilezza]), ma non poteva esimersi dal pensare che una piccola libreria non avrebbe sfigurato. E tutti i suoi conseguenti ragionamenti per migliorare l'arredamento arrivavano inevitabilmente a formulare la frase: "Se vivessimo insieme...", che puntualmente poneva fine al suo flusso di pensieri. Guardò il demone che se ne stava stravaccato sul divano a riempirsi per la (aveva perso il conto) volta il bicchiere: anche sotto l'effetto di parecchie bottiglie, Crowley riusciva sempre ad essere estremamente affascinante; prerogativa dei demoni, per indurre meglio in tentazione. Per 6000 anni si era mescolato agli umani, seguendo ogni moda, mutando continuamente il suo aspetto e il proprio nome... Ma per Aziraphale era sempre stato quell'angelo caduto che non smetteva mai di stuzzicarlo con le domande che lo tormentavano dalla Grande Guerra tra gli angeli, che non smetteva mai di stupirsi della capacità degli umani di rubargli il lavoro, se non di mostrarsi più caritatevoli degli stessi angeli...
"Apriamo lo Chardonnay?" propose Crowley.
"No..." rispose Aziraphale puntando un dito avanti e cercando di spostarlo da destra a sinistra: "Prima dobbiamo cercare di capire il significato della profezia!"
Crowley alzò gli occhi al cielo: "Angelo, anche se quella profetessa matta si stesse riferendo a noi due, dubito che troveremo un modo per sfuggire alla nostra punizione!"
Aziraphale quasi sbiancò: "Vuoi dire... Che ci arrendiamo? Così? Dopo aver sventato un'Apocalisse?"
"No... Prima ci facciamo la più gran bevuta della Storia" disse aprendo la bottiglia di Chardonnay e riempiendo prima il bicchiere dell'angelo e poi il suo: "e solo dopo ci arrendiamo!"
Quel giorno non era la prima volta che Crowley cercava consolazione nell'alcool ed ora era una scusa per passare le ultime ore della sua vita terrena con l'unica creatura soprannaturale che aveva vissuto la sua stessa esperienza... Mentre qualche ora fa se ne era servito per piangere la sua scomparsa. Il pensiero che l'indomani sarebbero morti insieme rendeva quasi più allettante il sapersi condannato. Tutto ciò aveva un sapore molto romantico, che li avvicinava a quel genere di storie che Crowley non avrebbe ammesso neanche sotto tortura di guardare [nel 1997 era stato costretto a trasformarsi in serpente in una sala cinematografica spaventando una coppietta colpevole di averlo beccato a piangere per il congelamento di Leonardo Di Caprio). Non ricordava di aver provato un dolore così forte dal lontano giorno in cui aveva perso per sempre la Grazia: ma se gli anni avevano contribuito a sfumare quel ricordo rendendolo meno doloroso, l'ora trascorsa pensando che il suo angelo fosse scomparso era ancora vivida nella sua memoria. E se quella era davvero la loro ultima notte sulla Terra, forse sarebbe stato il caso di rendergli noto che per quanto i suoi gusti in fatto di vestiario e di musica fossero fermi agli anni '50, rimaneva l'angelo più compassionevole e leale alla sua missione come lui non era mai riuscito ad essere.
Avevano appena fatto l'ennesimo brindisi quando l'attenzione di Aziraphale venne catturata da un gruppo scultoreo che quasi stonava con lo stile dell'appartamento.
"Quello è un pezzo nuovo?" chiese alzandosi e incamminandosi traballante verso esso.
"L'ho comprato qualche mese fa..."; biascicò Crowley, di malumore per essere costretto ad alzarsi (e per essere stato interrotto nel suo proposito di parlargli di una certa questione): "Simboleggia il male che trionfa sul bene..."
"... A me sembra che stiano facendo qualcos'altro!"
Come sempre accade quando qualcuno sta bevendo e il suo compagno esprime un pensiero che il primo non avrebbe pensato avrebbe mai potuto concepire, Crowley rischiò di ingozzarsi con il Chardonnay.
"Aziraphale!"
"Mi domando come a TE non sia venuto in mente!"
"Solo perché sono un demone non significa che la mia mente sia occupata da immagini dei sette vizi capitali 24 ore su 24..." rispose Crowley mandando giù il sorso che aveva rischiato di strozzarlo.
Rimase un attimo zitto, per poi mettersi a ridere: "Pensa se dopo tutto quello che è successo oggi, i nostri superiori ci trovassero in una situazione del genere!"
Calò il silenzio. Non volò una mosca (non sarebbe comunque volata perché in casa di Crowley non era mai entrato alcun insetto). Aziraphale lo guardava con gli occhi spalancati, tenendo però con entrambe le mani il bicchiere nel terrore che lo Chardonnay andasse sprecato. In quel lunghissimo attimo di silenzio, Crowley si morse la lingua innumerevoli volte: perché era vero che era sulla strada dell’ubriachezza, ma era sempre riuscito a conservare uno sprazzo di lucidità. Soprattutto quando si ubriacava con Aziraphel.
"Fammi tornare sobrio..."
Crowley era sempre stato bravo a tirarsi fuori dai problemi.
"Dunque, quello che volevo dire è che..."
Era facile stordire di chiacchiere e di domande il proprio interlocutore in modo da potersi dileguare senza troppe difficoltà.
"... Questa è la nostra ultima notte sulla Terra..."
"... Forse..."
"... Ok, al 99%..."
Ma era difficile trovare le parole adatte per qualcosa che si era tenuto dentro per tutto quel tempo e che in quella giornata era venuto lievemente alla luce.
"Il punto è che... Quando ti ho proposto di scappare su Alpha Centauri, quando ho trovato la biblioteca in fiamme..."
"... Mi stai chiedendo di fare sesso?" chiese candidamente Aziraphale dondolando il calice nella mano.
"Cosa?"
Crowley trattenne l'impulso di sprofondare nel pavimento e divenire parte di esso. E ringraziò di avere ancora indosso i suoi occhiali da sole.
"Perdonami, non ero tornato sobrio..."
S’incamminò nella direzione di Crowley, eliminando di due passi la distanza che c'era tra loro.
"... Continua pure, non ti interromperò!"
Crowley deglutì agitato. Ma in nome del Cielo, dell’Inferno e di qualsiasi cosa, oramai era troppo tardi per tornare indietro. Si tolse gli occhiali e lo guardò dritto in quegli occhi azzurri.
"Se davvero questa è la nostra ultima notte sulla Terra, la voglio passare col migliore amico!"
Aziraphale aggrottò le sopracciglia e appoggiò vicino alla scultura incriminata il calice: "Per migliore amico intendi quello della canzone?"
Crowley lo guardò interrogativo, per poi sbarrare gli occhi per la sorpresa: “Te la ricordi?”
"Avrò sentito le canzoni dei Queen innumerevoli volte grazie a te, caro! Ma, tornando a quella canzone... Ci ho pensato spesso e non credo che parli solo di amicizia... Insomma, you're the best friend that I ever had / I've been with you such a long time..."
Crowley sentì una fitta allo stomaco ricordandosi l'ultima volta che aveva sentito quelle parole...
"... You're my sunshine and I want you to know / that my feelings are true…”
… E I battiti del cuore aumentargli mano a mano che s’avvicinava a quella frase.
“... I really love you..."
E colmò delicatamente la distanza rimasta tra loro. Le sue gambe cedettero momentaneamente al contatto con le sue labbra: era come se tutto ciò che ci fosse di buono in lui si stesse risvegliando per venire definitivamente allo scoperto. Per la prima volta in quella lunga serata iniziò a sperare che forse, forse avrebbero davvero trovato un modo per salvarsi.
"6000 anni..."
"...Non è vero che vai veloce..."
"... Oh angelo, fidati: ne è valsa pena!"
Aziraphale d’altro canto si sentiva come se stesse scivolando in un abisso di perdizione, di cui si stava godendo ogni minuto (relativamente parlando, dal momento che Crowley aveva fermato il tempo [per quanto ci avesse scherzato, non era assolutamente dell’idea di farsi beccare dai suoi o dagli altri in quel momento che aveva così tanto desiderato]). Il suo demone stava reagendo alla sensazione di beatitudine che gli dava avere le mani nei suoi capelli, riscoprendo la morbidezza dei capelli angelici (in particolare di quei capelli angelici), quando sentì crescere in sé stesso e nel compagno determinate sensazioni che solitamente precedevano una delle attività preferite dagli umani. Sentiva più caldo di quanto avrebbe dovuto sentirne in quella stagione dell'anno, i suoi vestiti insopportabilmente stretti e una curiosità ancora più accentuata riguardante il corpo di Crowley. Aprì un occhio per vedere da che parte si trovasse la camera da letto e cercò di guidarlo in quella direzione, continuando a baciarlo.
"Mi stai portando in camera?" gli chiese Crowley. I suoi occhi brillavano come quando aveva scoperto cosa aveva fatto della sua spada di fuoco.
"Pensavo che volessi portarmi tu!" rispose innocentemente Aziraphale, ma il tono strideva con la bramosia con cui guardava il suo corpo. Crowley schioccò le dita e si ritrovarono seduti in mezzo al suo letto.
"Sei sicuro di voler cadere in tentazione?" domandò il demone sciogliendogli il cravattino.
L'angelo gli sbottonò il primo bottone della camicia e avvicinò la sua bocca all'orecchio destro.
"So resistere a tutto... Tranne alle tentazioni!"
"Di chi era questa? Oscar Wilde?"
"Tecnicamente gliel'ho suggerita io..."
Sul momento Aziraphale pensò che l'improvviso balzo di Crowley fosse dovuto al fatto di avergli toccato la schiena mentre gli sfilava la camicia: ma la ragione era più dovuta a ciò che per molti è considerato il miglior nutrimento dell'amore.
"Quindi sei stato con Oscar Wilde? Mi avevi detto che non c'era stato niente tra di voi..."
"Ci eravamo appena riconciliati: non volevo rischiare di non vederti per un altro secolo..."
Fin dall'inizio dei tempi, Crowley e Aziraphale erano sempre stati curiosi di capire in prima persona perché gli umani tendevano a compiere tante sciocchezze in nome del sesso e dell'amore, due cose per le quali sia gli angeli che i demoni non avevano grande considerazione [i primi considerano uno inaffidabile se non rivolto a Dio e l'altro disgustoso per tutto ciò che ne conseguiva (nessuna eccezione per qualsiasi tipo), mentre i secondi consideravano entrambi meri strumenti per indurre gli umani in tentazione]. Tuttavia, c'era sempre stata una certa ritrosia a parlare delle proprie esperienze in questo campo, dato il legame per così dire ineffabile che indipendentemente dal loro Accordo sembrava legarli.
"... Non me la sarei presa per così poco!" esclamò Crowley. Poi con un tono leggermente più vago: "... Ce ne sono stati altri?"
Aziraphale distolse lo sguardo. Perché dovevano fare quel discorso proprio adesso?
"Perché tu, non hai avuto... Esperienze?"
Crowley gli rivelò che aveva avuto modo di capire molto presto quanto il sesso fosse importante per gli umani e quanto facile fosse tentarli tramite questo. Troppo facile. Negli anni quest’ultimi avevano trovato dei modi brillanti per complicarsi la vita con esso, così si era lasciato aperta quella finestra per quei momenti in cui si sentiva solo e non ci sarebbe stato lui a fargli compagnia. Aveva tutti i mezzi a sua disposizione per attirare qualcuno nella sua rete ed era un modo di unire l'utile al dilettevole, come nel caso del gentiluomo autrice di un diario pressoché indecifrabile e del cantante di Zanzibar che pensava di non saper scrivere delle buone canzoni.
"... E poco dopo, scrisse una canzone talmente assurda e talmente geniale che nessuno pensò che non sapesse scriverne!" concluse con un sorrisetto soddisfatto ripensando a quel vecchio miracolo.
Più che la lista di amanti più o meno celebri di Crowley, fu quell'ultimo dettaglio a mettere Aziraphale in subbuglio: "Mi sono dichiarato con una canzone scritta da lui?"
"Oh no, quella non è sua, l'ha solo cantata..." lo tranquillizzò Crowley: "Parlò quello che utilizza le frasi ad effetto dette agli ex!" disse prendendolo dentro con tono scherzoso.
Aziraphale sorrise imbarazzato: "Quella gliel'ho suggerita molto prima che... Ci conoscessimo... In senso biblico!"
L'angelo aveva sempre osservato quel fenomeno dall'esterno (accumulando una buona parte di libri sull’argomento), ricevendo nel frattempo numerose proposte 'indecenti' di cui cercava di non vantarsi per l'opinione che la sua parte aveva a riguardo. E avrebbe mantenuto questa condotta se durante un Carnevale a Venezia non avesse incontrato un giovane seduttore che nell'aspetto e nei modi gli ricordava vagamente un demone di sua conoscenza che l'aveva finalmente convinto a sperimentare in prima persona ciò di cui aveva sempre e solo letto. Peccato che man mano che elencava le persone con cui era stato da allora (tutte personalità passate alla storia per le proprie capacità amatorie), vide la preoccupazione manifestarsi sul viso di Crowley .
"... Lo sapevo, non avrei dovuto dirtelo... Adesso penserai che sono difficile da accontentare!"
Non aveva sbagliato. Ma nella mente di Crowley era sorto anche un altro pensiero in seguito a quella rivelazione: "In realtà, stavo pensando a tutto quello che avrai appreso!"
Aziraphale lo guardò. L'aveva fatto. Di nuovo. Il suo demone lo conosceva proprio bene. Vide formarglisi quel sorrisetto soddisfatto che faceva ogni volta che riusciva a cogliere nel segno e decise che gli avrebbe ricordato com'era sentirsi in Paradiso.
Mai come nei minuti che seguirono Crowley temette di invocare il nome di Dio e che Questa si manifestasse nella stanza. Ed era difficile pensare a qualsiasi altra invocazione che non si riferisse a niente di supernaturale come risposta alle sensazioni che lasciava il passaggio dell'angelo. Per anni si era domandato cosa avrebbero potuto provare le pietanze che Aziraphale aveva degustato con gusto e quando l'aveva visto abbassarsi avidamente verso il suo basso ventre, pensò che non l'avrebbe più guardato mangiare con gli stessi occhi. Fu l'ultimo pensiero razionale che riuscì a formulare: doveva immaginarselo che da quel dandy non avrebbe dovuto aspettarsi niente di più lontano dall'eccezionale.
Tutte le volte che Aziraphale era giaciuto con qualcuno, non aveva potuto fare a meno di sentirsi in colpa, non importava quanto soddisfacente fosse stato. Quel fantasma era inevitabilmente comparso anche in quel momento, non appena aveva visto quegli occhi gialli divorare il suo tramite mortale: ma non appena Crowley aveva dimostrato il suo apprezzamento con baci e carezze, si era sentito come un condannato a morte il cui pentimento non avrebbe alleggerito la pena e quindi tanto valeva godersi l’ultima notte di bagordi. E quando sentì cosa sapeva fare con la lingua, ringraziò che il demone fosse stato un serpente e capì perché non era poi così male essere dannati.
 "Vuoi ancora cercare di comprendere la profezia?" chiese Crowley risalendo il corpo di quell'angelo che tentava di riprendersi dal trattamento appena ricevuto.
"La notte è ancora giovane, caro" rispose Aziraphale, infilando una mano fra i suoi capelli rossi. E prima che il demone se ne potesse accorgere, aveva ribaltato le posizioni e ora cercava di impedirgli di protestare con un bacio appassionato.
"Angelo... Stai provando a tentarmi?" domandò dopo essersi riuscito a liberare da quell'attraente morsa.
Aziraphale fece un sorrisetto innocente. Ma 6000 anni di conoscenza erano bastati a Crowley per capire che quella era l'entità soprannaturale meno innocente di tutte.
"Non sarebbe la prima volta: ricordi a Roma" disse avvicinando la mano destra alla vita di Crowley e infilandola dietro la schiena: "quando ti invitai a mangiare le ostriche?"
"Non ricordo se ero più eccitato per la prospettiva di mangiarle con te o... Angelo!"
Crowley spalancò gli occhi e credette di essere andato a fuoco (per la seconda volta in quella lunga giornata) non appena sentì dove Aziraphale aveva intenzione di infilare le dita.
"Continua..." lo invitò l'angelo con voce suadente, per poi tornare momentaneamente ad essere quello di sempre: "... O devo smettere?"
L'unica ragione al mondo per cui Crowley avrebbe potuto ritenere accettabile che Aziraphale smettesse sarebbe stata la comparsa dei loro rispettivi superiori e la loro conseguente cattura... Ma anche in quel caso, prima avrebbero dovuto vedersela con lui.
"... O ero più eccitato per il tuo tentativo di tentarmi..."
La pronuncia del pronome personale fu leggermente più lunga del solito.
"... E di quando ti ho convinto ad andare in Scozia al posto mio?" continuò Aziraphale infilando un altro dito. Crowley fece in modo che il suo corpo lo accogliesse al meglio con un miracolo al volo.
"Non avrei potuto resistere a quegli occhi supplicanti!"
"E di quando..."
Aziraphale fece una pausa, sorridendo per la freschezza di quell'ultimo ricordo.
"... Hai eliminato quella macchia dalla mia giacca..."
"Smettila di tormentarmi ed entra e basta!" esplose Crowley, prendendo con la mano sinistra entrambe le loro erezioni e stringendole.
Aziraphale non se lo fece ripetere due volte: sollevò il bacino di Crowley con entrambe le mani e il demone si aggrappò all'angelo per spingerlo ancora di più dentro di sé. E dopo aver trovato il proprio ritmo, per i successivi minuti, non prevalse la beatitudine o la tentazione. Era qualcosa di... Ineffabile. Tutti quegli anni passati a cercarsi, a farsi regali e favori a vicenda, a trovare scuse per godere della rispettiva compagnia e per farsi salvare li avevano condotti lì, in quell'istante fermato nel tempo. E se la loro storia sarebbe dovuta finire l'indomani, quella storia non avrebbe avuto finale migliore.
 "Crowley..."
"Aziraphale..."
Furono le uniche parole che riuscirono a pronunciare al termine dell'amplesso. Avrebbero potuto far sparire la stanchezza e ricominciare da capo, ma stare abbracciati su quel letto, senza alcuna barriera tra loro era qualcosa che sentivano di voler sperimentare nella loro ultima notte sulla Terra... Ma un piccolo dettaglio era saltato all'orecchio di Crowley e la sua tendenza a fare domande si manifestò anche in quel momento.
"... Angelo, perché hai la mia voce e io la tu..."
Entrambi lanciarono un urlo, allontanandosi per lo spavento.
"C-c-cosa?" balbettò Crowley stupito dapprima per vedere il suo corpo dall'esterno e poi per ritrovarsi in quello dell'angelo. Provò a schioccare le dita per far tornare tutto com'era prima. Niente da fare. Le schioccò di nuovo. Ancora niente. Cosa diavolo era successo?
"Crowley, caro, per l'amor del cielo, calmati!" gli si avvicinò Aziraphale. Era un bello e strano spettacolo sentire quel demone usare quelle parole così estranee al suo vocabolario.
"Come pensi che faccia a calmarmi? Stavamo facendo il sesso migliore che avessimo mai fatto [Crowley ebbe modo di vedere sé stesso abbassare gli occhi sorridendo imbarazzato per la prima volta], quando a un tratto... Puf! Io sono te e tu sei me!"
"Sono sicuro che c'è una spiegazione logica a tutto questo..."
"... E se fosse l'inizio della nostra punizione?”
“... Non può essere...”
“... Ma tecnicamente sarebbe la punizione perfetta: un angelo che si fa tentare e un demone che riacquisisce la Grazia, ma nessuno dei due può andare all'Inferno o in Paradiso..."
"... Dimentichi che non ci è mai pesato restare sulla Terra, anzi..."
Aziraphale vide per la prima volta sé stesso buttarsi a peso morto su un letto.
"Hai ragione, angelo..." sollevò di poco la testa per guardarlo: "... O adesso devo chiamarti demone?"
Aziraphale fece un gesto con la mano per dirgli che non aveva importanza. Rimasero uno seduto e l'altro in piedi in silenzio cercando di capire l'origine di quello strano evento, quando Crowley si rialzò e guardò il suo vecchio corpo appoggiato alla testata del letto (per la prima volta in maniera composta) a pensare.
"Devo dirtelo... Stare nel tuo corpo è come essere una sorta di paladino medievale: coraggioso, gentile, sempre pronto a far la cosa giusta..."
"Grazie... E stare nel tuo è come essere uno di quei eleganti e seducenti avventurieri, così bravi ad adattarsi a qualunque situazione..."
Crowley si avvicinò al suo angelo e lo baciò.
"Magari la chiave per tornare come prima è rifare quello che stavamo facendo..." propose a un certo punto.
"Sarà curioso scoprire com'è a parti invertite!"
Ma avevano appena ricominciato a baciarsi e a stringersi tra loro che al primo tentativo di riprendere fiato s'accorsero di essere ritornati nelle loro originali sembianze.
"Ma che... Adesso ogni volta dovremo trasformarci nell'altro?" sbottò Crowley.
Detestava quando niente e nessuno poteva rispondere alle sue domande. Aziraphale, al contrario, era rimasto fermo, con gli occhi persi nei suoi pensieri.
".. . Crowley, abbiamo trovato il modo di salvarci!"
"Come?"
"Quando tutto sarà finito, dovrete scegliere saggiamente i vostri volti, perchè presto giocherete col fuoco: sta parlando del nostro scambio di corpi!"
Crowley sollevò un sopracciglio.
"Fidati, ho passato la scorsa sera a leggere il suo libro e non c'è una delle sue profezie che ha mancato di dire la verità!"
Passò cinque minuti buoni a fargli esempi di avvenimenti storici che aveva anticipato la profetessa, di cui Crowley ascoltò solo la metà, avendo la mente occupata da un pensiero più assillante.
"Sei sicuro che funzioni?" chiese a un certo punto. Il tono era calmo, ma Aziraphale sentiva trasparire la paura.
"I tramiti acquisiscono le capacità di chi li ospita, le voci sono rimaste le stesse perciò nessuno ci riconoscerà..."
Si fermò e prese il volto spaventato del demone, accarezzandogli una guancia: "Funzionerà. Qualunque cosa abbiano in serbo per noi, non ci toccherà minimamente... Devi solo avere fede... Nella nostra parte!"
Crowley spalancò gli occhi. Aziraphale fu certo di scorgere una lacrima di felicità. Sorrise e lo baciò così appassionatamente da convincere lui e sé stesso che non dubitava nemmeno un momento del loro piano.
Quando tutto sarà finito, dovrete scegliere saggiamente i vostri volti, perchè presto giocherete col fuoco.
Agnes Nutter aveva azzeccato anche il loro destino. Angelo e demone riuscirono a farla ai propri pari e a godere altri 6000 anni e più della reciproca compagnia... Anche se non riuscirono mai a capire a cosa era dovuta quel gran colpo di fortuna che gliel'aveva permesso, limitandosi a classificarlo come il miracolo che gli aveva permesso di stare insieme. E in effetti un miracolo lo era. E faceva parte del Piano Ineffabile.
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kriss-dreamer · 4 years
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EPILOGO
Quella che sto per raccontare può sembrare una storia come tante, ma non fatevi ingannare, poche storie così si vedrebbero nel corso di un’intera vita.  Proprio perchè questa storia non possiede nulla di ordinario inizia con un epilogo... Avete capito bene, l’epilogo. Sì perchè tutte le storie hanno un inizio ed una fine e forse questa ha già raggiunto il più forte e prepotente epilogo di sempre. 
    Spiaggia immersa nel buio della notte, il mare intonava il suo spumoso canto ed il vento soffiava leggero dando a tratti dei brividi sulla pelle, confondibili con la sensazione che da la colonna sonora struggente di un film che tanto amiamo. Il cielo nero era cosparso di stelle ed ogni tanto qualcuna lo attraversava portando con se il desiderio recondito di qualche fortunato osservatore.      Era stata una notte lunga, ricca di battute e risate. Due coppie si sfidavano ad un simpatico gioco di gruppo, protagonista della serata, che aveva visto una delle due coppie sfoggiare un’affinità ed un affiatamento unico, conducendo il gioco con assurda e schiacciante superiorità: bastava un respiro dell’uno che l’altra ne completava il pensiero e viceversa... Non v’era partita insomma.      Le risate durarono ben poco però, poiché giunse improvvisamente il fratellino di Leilian che senza preavviso rovesciò sul gruppo una rabbia ed una frustrazione inaspettata, spezzando come una doccia fredda quell’armonia.      L’aria si caricò quasi immediatamente di una tensione schiacciante; i quattro che fino ad un attimo prima ridevano come matti, adesso giocavano al gioco di chi alza di più la voce per sovrastare le ragioni dell’altro. Kriss, come uno stupido, tirando affrettate conclusioni aprì bocca e tempestivamente giunse la risposta di Leilian che preparando la frusta sferzo l’aria con le sue parole tirando a Kriss il più forte e doloroso pugno nello stomaco che potesse ricevere in quel frangente.      Calò il silenzio, almeno nella mente di Kriss, perché a giudicare dal ronzio gli altri continuavano a discutere ed argomentare, ma a lui non importava più dato che l’opinione di Leilian contava nella sua vita come la forza di gravità per tutte le creature che popolano il pianeta.      Finalmente il vero silenzio sopraggiunse e solo dopo un pò due dei quattro abbandonarono l’arena sanguinanti e fecero una passeggiata per leccarsi le ferite. Rimasero su quel pezzetto di stoffa in mezzo alla fredda sabbia solo loro due.     Lei si avvicinò a lui e gli si sedette accanto. Lui venne subito investito dal suo odore, che aveva un profumo unico, lo stesso da sempre, lo stesso che gli era così familiare da poter chiamare casa. 
-“Tu hai capito perché ho detto così, vero?”- disse Leilian senza troppi giri di parole. 
    Non ricordo bene la risposta di lui, anche perché non aveva davvero importanza. FINALMENTE ERANO SOLI.      Quante volte in quei pochi giorni che il destino gli aveva regalato lo erano stati? Erano stati costretti a rubare preziose ore del tempo in mano al dio Morfeo, il quale gliene aveva fatto dono a caro prezzo, sembravano entrambi due zombie distratti e confusi che si reggevano in piedi solo con la forza delle proprie emozioni che non mancavano di sostenerli.       Da lì ben presto la situazione scivolò rapidamente verso un abisso che minacciava di inghiottirli entrambi in qualunque momento. Finirono con spaventosa facilità stretti in un abbraccio fatale. La testa di lei infilata nell’incavo spigoloso della spalla di lui. La mano di lui che non smetteva di accarezzarle quei riccioli familiari sconfinando sul viso di tanto in tanto per rubare la sensazione che dava accarezzare quella pelle così morbida. 
-”Così mi fai addormentare, lo sai?”- Leilian disse qualcosa perché il silenzio era davvero troppo rumoroso.  -”Dormi pure se ne hai bisogno, io non mi voglio fermare.”- Kriss era avido di ogni stilla di energia che il contatto con lei gli donava, stava letteralmente crollando addormentato, ma nulla al mondo lo avrebbe fermato... Aveva paura delle parole tra loro. 
     Lei si liberò da quella posizione fin troppo comoda ed iniziò a parlare portando la conversazione dove doveva inevitabilmente andare a cadere: lei era già innamorata di qualcuno, aveva già una vita che con fatica aveva costruito e stabilizzato. Lei che di tormenti e dolore era la regina, era riuscita a costruire equilibri e certezze che la presenza di Kriss aveva assolutamente stravolto e messo in discussione costringendola a guardarsi dentro alla ricerca di ogni convinzione che le desse la forza di non cadere in quella seducente trappola che quell’uomo con la sua sola presenza rappresentava.      Se la brevissima discussione di prima era sembrata un pugno nello stomaco, le dure parole che adesso riportavano Kriss alla realtà, avevano la consistenza di gelido azoto che dal cuore si spandeva attraversando ogni singola vena del suo corpo.      Lui sapeva bene di cosa stesse parlando lei ed era anche il motivo per cui era riuscito in qualche modo a mantenere quel velo sottile di distanza che poneva un limite invalicabile per i due. “Non puoi farle questo, è sbagliato. Non puoi indurla a compiere azioni per le quali si sarebbe tormentata e probabilmente distrutta.” Lui non voleva in alcun modo farla soffrire, odia vederla soffrire. Vorrebbe prendere tutta la sua sofferenza e ingoiarla, perché a dispetto di quel che poteva apparire, lui era ben avvezzo alla sofferenza, la vita gliene aveva regalata parecchia.      Quel momento difficile venne interrotto dal sopraggiungere dei due litigiosi furenti, i quali, ritrovata la pace decisero di riprendere posto su quel telo enorme che all’improvviso divenne strettissimo, scivolando entrambi nel sonno più profondo.       A quel punto Leilian decise (era sempre lei a prendere le decisioni, mai Kriss si azzardava a manovrare le sue scelte) di spostarsi in riva al mare così da esser liberi di parlare senza rischiare di esser ascoltati da un pubblico indesiderato.      Kriss la seguì nella penombra del mattino che giunge, tovaglia alla mano, osservando il suo esile corpo destreggiarsi nella sabbia, mentre muoveva passi quasi sempre danzati, lei che si muoveva così per rompere il peso dell’imbarazzo in ogni circostanza. Ne era letteralmente rapito. Quel corpo apparteneva alla persona che più di chiunque a questo mondo gli troncava il respiro. Quel corpo che lui aveva osservato così a lungo e con tanta dedizione da poterne ricostruire una fedele riproduzione nella sua mente, solo chiudendo gli occhi, in qualunque momento lui decidesse.      Si sedettero e Leilian spiegò le sue ragioni con chiarezza non lasciando spazio ad errate interpretazioni, parlò tanto e Kriss quasi non replicò, anzi finì col concordare pienamente con le conclusioni di lei aggiungendo che tutto questo lui lo sapeva già.       Lei concluse il suo discorso mettendo Kriss con le spalle al muro. Adesso toccava a lui ribattere e tante cose nella sua testa si dimenarono come serpenti in un nido che avvolgono ogni creatura vivente per divorarla: “Non capivo i miei sentimenti prima di starti accanto ancora una volta nella vita.”, “Mi ero illuso tu fossi solo frutto di una giovanile costruzione e non una creatura reale che esiste a questo mondo, in grado di comprendermi a fondo.”, “Io TI AMO davvero. Amo te e tutto quel che rappresenti. Vedo la vera te e non un  mito che ha creato la mia mente, e la amo sopra ogni cosa, più di me stesso. ORA LO SO! ”, “Sii la mia compagna di vita, ho bisogno di te, l’unica persona in grado a questo mondo di comprendere a fondo ogni mio pensiero e bisogno.”, “Vorrei donarti quel mondo luminoso che ti promisi più di dieci anni fa, perché so che per te riuscirei a plasmare la realtà a mio piacimento rendendoti felice fino a farti scoppiare il cuore.”, “Mio figlio ti ama già da morire e lo vedo come lo vivi tu, lo ami come se fosse una naturale estensione di me, la persona che nonostante tutto questo tempo riesce a farti battere ancora il cuore all’impazzata.”, “Mai più in questo mondo si incontreranno due anime affini come le nostre, così speculari e complementari, ed è un peccato divino tenerle lontane e separate.”, “Io ti amo e lo so che tu mi ami.” e mille altri pensieri che componevano ormai un rumore assordante nella testa di Kriss. 
- “NOI NON POSSIAMO PIU’ ESISTERE NELLO STESSO SPAZIO. NON POSSIAMO PIU’ SENTIRCI NE VEDERCI. NULLA PIU’ POTREMO CONDIVIDERE.” - fu quello che usci dalla bocca di Kriss. Nemmeno lui credeva alle proprie parole.      Leilian si piegò fisicamente dal dolore, cambiò lo sguardo sul suo viso e qualcosa dentro sé s’incrinò. Non voleva, non accettava una vita in cui lui non esistesse in nessuna delle sue forme. Una vita in cui le sue parole non l’avrebbero più raggiunta. Lei sapeva bene cosa significasse quel vuoto assordante che la sua assenza provocava, vi era stata immersa fino al collo per sette lunghi anni durante i quali aveva continuato ad ingoiare le loro ceneri pur di non lasciare andare quel doloroso ricordo che il loro amore passato aveva rappresentato.      Provò a ribattere, ma andò a sbattere contro la fredda e pura logica che lei stessa aveva insegnato a lui... Sì perché lei era un'essere più logico di lui, fatta di prove e calcoli concreti. Lui invece era fatto di sogni e speranze, stupidamente ed innocentemente illogico, spinto ovunque il suo cuore lo conducesse.       Ed era proprio davanti all’illogicità delle sue azioni più istintive e primordiali paragonate alle molteplici convinzioni che lei stessa gli aveva messo davanti, che Leilian crollò. Fece un passo indietro dalle sue rimostranze e si zittì.      Forse Kriss si sarebbe dovuto fermare lì... Forse. Ma non lo fece. Decise invece che quella sarebbe stata l’ultima volta insieme a lei e doveva spiegarglielo. Doveva spiegarle perché era arrivato fino a quel punto. Doveva lasciarle la verità a cui era giunto perché il rimpianto di non averglielo detto lo avrebbe perseguitato per la sua intera esistenza.       Le disse che aveva capito cosa fosse il bruciore ai polmoni, dolore che lei attribuiva alle ceneri che respirava ancora ed ancora per non far sfuggire il suo ricordo. Lui aveva capito che quel dolore era la mancanza d’aria. I polmoni di un naufrago alla deriva che boccheggia ed annaspa sul pelo dell’acqua in cerca di ossigeno.      In quei dieci giorni insieme aveva ripreso a respirare, un’aria fresca e pura, come quella che respiri in alta quota. Aveva provato il sollievo di chi sa che tutto è al suo posto, che i pianeti hanno ripreso a girare nel giusto verso.      Le disse che odio per lei nel suo cuore non ve n’era mai stato, anche se con tutte le sue forze aveva provato a costruirlo. Lei rappresentava tutto l’amore che aveva sempre provato e che non aveva mai smesso di provare. Lei era il motivo per cui non era più riuscito a rifarsi una vita. Lei era la perfetta incarnazione di ogni pregio e difetto da lui amato. Nulla stonava, nemmeno il modo di arrabbiarsi. Ai suoi occhi lei era perfetta tutta. Era perfetta persino mentre lo respingeva perché innamorata di un altro. Umana e Dea assieme. Lei era tutto il suo mondo e non avrebbe mai smesso di esserlo.      Per questo motivo non potevano coesistere. Lui e lei nello stesso spazio, negli stessi luoghi sarebbero finiti per attrarsi all’infinito e questo lui non poteva permetterlo. L’AMAVA DA MORIRE e non le avrebbe permesso di distruggere la vita che con tanta fatica si era guadagnata... LORO DUE NON SAREBBERO STATI PIU’. 
    L’alba avanzava diventando quella che sarebbe stata la più bella della loro vita. I due si abbracciavano tra i singhiozzi, trattenendo tutto quel dolore che minacciava di divorare la loro anima. Concordavano su quanto fosse unica ed irripetibile quell’alba dal sapore di tramonto. Nulla sarebbe stato più lo stesso e, con la testa sott’acqua, i due si preparavano a vivere una lunga apnea che ormai entrambi conoscevano fin troppo bene. 
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sciatu · 5 years
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Fotografie di Giuseppe Leone
Ricordo tutto perfettamente: la prima volta che vidi una tempesta nella fiumara, con gli alti pioppi che si agitavano come prefiche lamentose, strappandosi le foglie per l’improvvisa morte del sole, il vento gelido che piegava le grandi querce, gli uccelli che sfrecciavano nel cielo rapiti dall’urlo della tempesta, le nere nubi che scendevano dal monte rovesciando gocce immense nel torrente che faceva fuggire le rane sul fondo degli acquitrini mentre le pulci d’acqua correvano a trovare asilo sotto le grandi foglie a riva. Poi arrivò l’urlo del tuono, lo squarciarsi del cielo, l’intensa luce che tutto e tutti abbagliò. Mi dissi che la natura era una madre potente ma che doveva veramente amarci per lasciarci vivere anche se per lei non c’era differenza tra noi e le foglie nel vento.
Ricordo i biscotti caldi che la nonna usciva dal forno, l’odore dello zucchero caramellato quando la zia vecchia faceva il torrone, la prima volta che sul fondo del mare dove il sole disegnava onde serpeggianti, vidi intensamente rossa una stella marina; ricordo il fermentare del mosto nella botte del nonno, il suo canto continuo, inarrestabile; ricordo sulla sommità dei monti ad agosto, le felci rosse danzare nel vento, i piccoli noccioli donare i loro candidi frutti, il grano coprire i monti e gli uomini disegnare con lui lunghe strisce ondeggianti grandi quanto il monte. Ricordo le feste di paese, l’odore dei ceci arrostiti, il colore dei giochi d’artificio, le donne in attesa attraversare la piazza in ginocchio salire la scalinata per arrivare all’altare maggiore a chiedere la salute per chi portavano in grembo e mentre le vedevo lasciare strisce di sangue suo gradini candidi della chiesa, capii che l’amore era una forza immensa che vinceva il dolore, piegava il ferro delle paure che ci imprigionano, rende chi è debole forte come una enorme montagna. 
Ricordo don Calò che conosceva il giorno della sua morte e l’aspettava sereno sui gradini della chiesa, salutando chi passava, scherzando con noi bambini, osservando le rondini nel cielo prima del tramonto, finché un giorno d’improvviso si alzò e salì verso la casa in alto nel paese, salutando per l’ultima volta tutti quelli che incontrava prima di sdraiarsi a letto e, sorridendo, morire. Allora capii che la vita è un enorme solitudine che riesci a sopportare solo perché hai chi ti aiuta a portarne il peso. Questo io ricordo e dei miei ricordi ho fatto un metro con cui misuro ogni mio giorno capendo il senso e peso delle cose e degli uomini. Questo ricordo e della mia memoria ho fatto un orto i cui frutti nutrono i miei giorni, dandomi modo di capirne il senso e di vederne il bello.
I remember everything perfectly: the first time I saw a storm in the river, with the tall poplars that shook like mournful meadows, tearing off the leaves for the sudden death of the sun, the icy wind that bent the great oaks, the birds that darted into sky ravished by the scream of the storm, the black clouds that came down from the mountain, overturning immense drops in the stream that made the frogs flee to the bottom of the marshes while the water fleas ran to find shelter under the large leaves on the shore. Then came the scream of thunder, the piercing of the sky, the intense light that all and everyone dazzled. I told myself that nature was a powerful mother but that she really had to love us to let us live even if there was no difference between us and the leaves in the wind.
I remember the warm cookies that my grandmother used to come out of the oven, the smell of caramelized sugar when the old aunt was making nougat, the first time I saw a starfish intensely red on the bottom of the sea where the sun was drawing winding waves; I remember the fermenting of the must in the barrel of my grandfather, its continuous, unstoppable song; I remember on the summit of the mountains in August, the red ferns dancing in the wind, the little hazels giving their white fruits, the wheat covering the mountains and the men drawing with it long wavy strips the size of the mountain. I remember the village festivals, the smell of roasted chickpeas, the color of the fireworks, the pregnant women crossing the square on their knees, climbing the stairs to reach the main altar to ask for health for those who they were carrying and while I saw them leave strips of blood on the white steps of the church, I realized that love was an immense force that overcame pain, bent the iron of fears that imprison us, makes those who are weak strong like an enormous mountain.
I remember Don Calò who he knew  the day of his death and was waiting for  it serene on the steps of the church, greeting those who passed by, joking with us children, observing the swallows in the sky before sunset, until one day he suddenly got up and went up to the house high up in the country, greeting for the last time all those he met before lying down in bed and, smiling, dying. Then I realized that life is a huge solitude that you can bear only because you have someone who helps you carry its weight. This I remember and my memories I made a yardstick with which I measure my every day understanding the meaning and weight of things and men. This I remember and my memory I made a vegetable garden whose fruits nourish my days, giving me a way to understand its meaning and to see its beauty.
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Il volto della guerra
Questa storia partecipa al COWT di Lande di Fandom Settimana: settima Missione: M4 Prompt: Warning: Violence N° parole: 676
 La terra umida di pioggia stava iniziando a cambiare colore. Il clima rigido non riusciva a penetrare la massa di corpi che si stava scontrando nella grande radura, e tutto quello che si riusciva a vedere era una nuvola di aria condensata che si sollevava dai corpi sudati e sporchi, mentre i suoni della battaglia riempivano le orecchie di grida strazianti e del cozzare del metallo su altro metallo. Ashe si trovava là in mezzo, al comando del suo clan come doveva essere, il suo arco si muoveva veloce mentre mirava i bersagli, le frecce sibilavano nell’aria prima di colpire, a decine una dopo l’altra. Non era più sicura nemmeno del motivo per cui i clan si stessero combattendo, ma non aveva più importanza ormai, dopo anni e anni di imboscate, saccheggi e guerra l’unica cosa che aveva ormai senso era uccidere prima di essere uccisi. Una freccia si conficcò nella gola di un uomo armato di accetta che le stava correndo incontro, trapassandola da parte a parte mentre il sangue iniziava a uscire. L’uomo emise un rantolo strozzato e si portò la mano libera alla gola, cercando inutilmente di fermare il flusso di sangue che gli scorreva copioso tra le dita. Cadde in ginocchio, poi si schiantò a terra a faccia in giù senza quasi emettere un rumore. Ma Ashe non vide tutto questo perché era già concentrata sui prossimi bersagli, un gruppo di uomini che si stava dirigendo in una linea compatta verso tre dei suoi guerrieri, che feriti e stanchi si guardavano intorno terrorizzati, consapevoli che di lì a pochi secondi sarebbero morti. Ma Ashe non lo permise. Incoccò quattro frecce assieme, per un colpo che solo lei era in grado di eseguire, prese velocemente la mira e scoccò. Le frecce raggiunsero una velocità tale da non essere quasi visibili mentre si allargavano a raggera coprendo la distanza necessaria a raggiungere gli obiettivi. Una si conficcò alla base della schiena dell’uomo all’estrema destra, che si inarcò con un grido e cadde a terra con la freccia piantata talmente in profondità da paralizzargli completamente la metà inferiore del corpo, costringendolo a trascinarsi sul terreno fangoso mentre gridava di dolore e di paura; quello di fianco si ritrovò una freccia conficcata dietro il ginocchio azzoppandolo e costringendolo a piegarsi quanto bastava perché uno dei guerrieri di Ashe gli mozzasse di netto la testa con la sua spada corta e tozza ma perfettamente affilata; il terzo venne colpito alla spalla e il quarto, quello tutto a sinistra, venne colpito alla nuca perdendo la vita sul colpo e accasciandosi a terra gorgogliando il suo ultimo respiro con la bocca già piena di sangue denso e scuro. La guerra era questa, era morte e paura, adrenalina e sensi di colpa. Ashe non poteva dire di amarla, ma era innegabile che fosse nata per questo.
Quel pensiero le costò un momento di distrazione, probabilmente fatidico, per cui non vide subito l’uomo che le si era avvicinato alle spalle e che stava già alzando la lancia per scagliarla dritta nella sua direzione. Quando si voltò, lui aveva già preso la rincorsa con il braccio, e nel tempo necessario per lei ad alzare l’arco e incoccare una freccia, la lancia dalla punta argentata perfettamente affilata era già in volo. Era forse finita? La sua vita, il suo clan, i suoi sogni di riunificare il Freljord sotto la bandiera degli Avarosiani stavano forse andando in fumo? Chiuse gli occhi, non voleva vedere il suo sangue bagnare il terreno e spargersi attorno a lei. Sperava sarebbe stato rapido. Ma non successe nulla. Si sentì un forte clang! e poi calò il silenzio. Ashe riaprì gli occhi e, davanti a lei, vide un enorme scudo rettangolare sorretto da un uomo altrettanto imponente. Il busto muscoloso non era coperto dall’armatura, ma d’altronde non gliene serviva una quando aveva quella specie di portone tra le mani in grado di deviare qualunque attacco. Braum si voltò verso di lei con un sorriso e sollevò il pollice della mano destra facendole un cenno. Ashe poteva continuare a combattere.
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dolorescalo · 7 years
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Das Netz - L'undicesimo comandamento (1975, Manfred Purzer)
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edhialos · 5 years
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Tua Regina
Dedicato agli amori di un solo giorno
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Nell'impeto di una notte di mezzaluna
quando gli animi si rallegrano
e la voce è mite
Ti accorgesti di una luce nuova
in quei liquidi fuochi di vetro
-
Ti rifugiasti col pensiero in tale laguna
densa di afa e di respiri mancati
Sperando nel dono di Afrodite
che la vita del cuore sempre rinnova
-
Vagasti nell'infinito
e ci tornasti due volte
Già conscio della maledizione che ti ha colpito
Ed è una croce dal dolce dolore
Sotto cui timide speranze e voraci passioni
Nella umida terra sono sepolte
-
Ti domandasti se in questo specchio
di desideri nascosti
Si riflettesse un volto sembiante
Ma invano aspettasti risposte:
Il Velo di Maya calò trepidante.
-
Così accolsi questa Divina
folgore fatale
-
E allestito un trono di sicomoro
gli porsi la delfica corona d'alloro,
cantando con un dolce languore:
    "Donami mio Re il tuo cuore
             e farò di me
         la tua degna Regina".
-A.T.
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cesareborgiasblog · 2 years
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Inni di lodi e di guerra
- preparati ad andare - una voce femminile proveniente da ogni parte della camera da letto, mi sussurrò all'orecchio. Sgranai gli occhi restando immobile a fissare il soffitto. Se solo fossi stato a Roma avrei potuto rivendicare il mio onore e la mia gloria nel tempio di Ultor. Mi voltai a guardare fuori dalla finestra ero fuori dal mondo, fuori da me stesso. Mi Alzai e vestendomi davanti allo specchio fissai la figura riflessa, non mi riconoscevo... - chi sono? - sussurrai, improvvisamente bussarono alla porta era uno dei miei soldati. Andai con lui fino al maneggio cavalli, cavalcai per tutta la giornata, fin quando non decisi di recarmi in chiesa. Probabilmente lì avrei trovato forse ciò che stavo cercando. Posai la mia spada sull'altare è mi inginocchiai silenziosamente. Non sapevo cosa dire, cosa chiedere era come se ad un tratto mi avessero annebbiato la mente. Senza che me ne accorgessi era calata la tenebra, uscito dal sacro luogo Alzai gli occhi per cercare il volto di luna, non si fece trovare portando via con sé anche le stelle. Uno strano vento si sollevò sfiorandomi il viso, era tutto troppo insolito, mi voltai di scatto quando il soffio prepotente entrò a spegnere le candele. Salii nuovamente sul cavallo e mi diressi all'accampamento. Sentivo le risate dei soldati a pochi metri da loro, mi fermai per una sosta; c'era qualcosa di tetro quella sera, il vento soffiava tra i rami e le foglie secche, si udì improvvisamente un battere d'ali come se qualcosa o qualcuno l'avesse spaventato. Entrai come in una dimensione strana, come se mi fossi distaccato dal resto del mondo. A fatica mi diressi verso l'esercito sembrava come se trapassassi un muro solido invisibile, come se mi volessero impedire di proseguire. Vedendomi arrivare, calò un silenzio tombale, si limitavano a bisbigliare, io mi diressi verso la tenda senza guardare i loro volti, non volevo vedere. - Cesare - passai oltre ero ancora dentro quel fluido solido ogni movimento sembrava rallentato come se avessi un armatura di fuoco e di piombo. Mi lasciai cadere sul letto credo di aver perso i sensi. Mia Amata Sposa, vi scrivo tutto questo perché possiate prendere coscienza dell'accaduto, di quello che ho provato e vissuto e che ancora porto sull'anima e nella mente anche se da quel giorno sono passati 515 anni esatti. Per questo ho voluto intitolare questa lettera, Inni di Lodi e di Guerra, perché non so fare altro, che combattere ed amare voi nel tempo e fuori da esso. Venni svegliato da un tuono, sembrava che qualcuno lassù stesse spostando qualcosa di pesante e poi l'esplosione. Udì nuovamente quella voce femminile - è tempo - improvvisamente un soldato allargò le tende - Principe - uscì fuori e vidi le schiere pronte alla battaglia. Appena misi piede fuori dalla tenda cominciò a diluviare, non riuscivamo a tenere i fuochi accesi, ci avviammo alla cieca. Il fatto sta che ci siamo persi, o meglio io mi persi. I cavalli delle armate indietreggiarono, non ne vollero sapere di avanzare, qualcosa oscurò loro la vista. Mi addentrai nella foresta, anche il mio cavallo cominciò ad andare di matto tanto che venni disarcionato. Sentì contemporaneamente un dolore lancinante alla spalla, ma strinsi i denti. Sentivo delle voci che provenivano da ogni dove, sembrava che stessi combattendo contro degli spiriti, poi intravidi delle sagome, ne uccisi cinque, dieci, venti, ma i miei movimenti erano rallentati da qualcosa di invisibile. Invocai l'amore, pronunciando il tuo nome mia dea, avevo fallito, ho fallito, non ero ancora pronto, c'era ancora tanto da fare ed io non potevo, non volevo, così cercai la tua intercessione, perché potessi risorgere dai morti ed adempiere il mio destino quello di unire l'Italia. Nel bel mezzo del frastuono, il nulla… mi svegliai ricoperto di neve. Intravidi il volto di una donna che mi sollevò, mi coprì con un mantello rosso, sembravo il Cristo dopo che venne tolto dalla croce per essere cullato dal cantico della madre celeste.
12 marzo 1507 / 11 marzo 2022
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Narrami o diva, della funesta guerra che vide protagonisti due anime dannate, legate da millenni in un tumulto infernale come rappresentati di ciò che muove il mondo. Narrami o diva, se esisti ancora e se ancora hai la forza, della più grande vittoria di Venere e di suo figlio, del dardo d'amore che attraverso pa realta e la sconfitta, siggillò il patto eterno delle anime un ennesima volta.
Lì dove la madre della bellezza e dell'Amore nacque, lì dove si narra ancora del saggio Ulisse, accadde l'incontro.
Come Circe una bellissima donna sotto un celo stellato e con occhi di zaffiro sedeva sulle soglie del lungomare; un lungomare appartenente ad una città estranea a questa docile e pura anima piena di ferite seppur la piu gentile che fosse mai stata costruita.
Ed ecco il passo di un cavallo bianco, no di razza, non fiero ma più puro del nettare bevuto dal Sommo padre. Egli giunse e con delicatezza approccio colei che sara fondatrice e rovina stessa del suo presente e del suo fururo. Come per Elena e Paride, Paolo e Francesca, Beatrice e Dante inizio la storia da cui il mondo prende atto del proprio moto e crea il fato.
Amore struggente che hai dato speranze e che continui a restare anche dopo la tua stessa morte perchè decidi di uccidere in un modo clsi sublime? Perchè decidi di sposare la fine di tutto? Il non essere? Ne sei attratto? O semplicemente è il volere della Moira?.
Passarono giorni mesi e anni e tu continuasti ad insinuarti nei desideri e nei corpi di coloro che volevano semplicemente essere felici e riusciti a deviare le loro menti rendendoli stupendamente unici e desiderosi; desiderosi di un futuro fantastico e favoloso per quanto crudele possa essere. Romeo Romeo perchè combatti il misero e pietoso pensiero umano e i suoi ideali per le menzogne di un qualcosa di superiore e divino, per la tua Giulietta la donna che i poeti e che i cantanti cantano, la donna la cui aura riusciresti a percepire anche se privato di ogni senso fisico e mentale...perchè ti rendi fragile?.
Le anime continuarono a ballare il dolce e lento valzzer di Cupido metre Marte e Venere si divertivano a muovere i fili del palcoscenico, sangue e ingiurie volarono e tempeatarono volto e mani dei malcapitati che con le loro diavolerie e ingegnerie continuarono a strigersi, quando i musicisti non suonavano più, loro cantavano, quando le luci si spegnevano, usavano la loro memoria per muoversi sul palco, quando calò il sipario, ballarono avvolgendosi tra le tende.
Amore amore avevi quasi convinto un'altra volta queste anime a ballare per il divertimento dei tuoi sommi genitori, e lo farai ancora nelle epoche avvenire, causando dolore e disperazione magna e indelebile nelle loro menti, per quanto ancora soffirranno e dovranno soffrire? Per quanto ancora non potranno dirsi addio? E per quanto ancora non potranno vivere come tutti coloro che sono felici assieme? Davvero credi che tutti vogliano un immortalità? O semplicemente in quanto Dio vedi oltre al mio giovane sguardo di uomo comune, confuso e stanco?.
Quell'incontro fu rovina, causo disdegni e adulterei, rimpianti e traumi, rinneghi e cambiamenti; loro furonk felici, lo sonk ancora, stanno solo cercando un altro corpo, in attesa di un altro ballo, e che sta volta sia guidato da te e non dai tuoi creatoti.
E.C.
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a6oveyall · 6 years
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Today you’re on my lipstick
Pt. 2
«Cosa ci fai qui?» fu l'unica cosa che riuscii a dire al momento
Vidi la sua espressione cambiare da un momento all'altro dopo avermi vista. Sembrava come infastidito
Intanto il ragazzo davanti a me continuava a guardarci interrogativo.
Mi voltai nuovamente
«Sto aspettando una risposta» lo ripresi nuovamente con tono acido
Più lo tenevo lontano, meglio era per me. Questa era più o meno la mia filosofia ogni volta che me lo ritrovavo davanti
«Dobbiamo parlare» disse lui guardandomi negli occhi
In tutta la mia vita ho sempre trovato insopportabili quelle due parole. Incredibile come potessero scatenare una serie di emozioni in pochi secondi.
«Non è il momento» risposi io cercando di evitare il suo sguardo
Era sempre in grado di rovinare tutto, in qualsiasi momento. Anche quando non era presente.
«E quando allora? Appena uscirai fuori da casa del nonno domani mattina?» rispose di scatto
È arrabbiato? Osa anche essere arrabbiato?
«Non ci posso credere» risi amaramente per poi prendere la mia giacca e borsa.
Mi voltai verso il ragazzo «È stato un piacere ma devo andare» dissi lasciando i soldi della cena sul tavolo
Fuori dal ristorante mi resi conto di non avere una macchina
Sbuffai sonoramente
«Sali in macchina» sentii dire da dietro, da una voce fin troppo riconoscibile
Non risposi e continuai a camminare fino a quando non sentii prendermi per il braccio
«Se non mi molli entro due secondi finirà male» sbottai io
«Solo se entri in macchina» disse lui continuando a stringermi il braccio
Non che sentissi il dolore, era l'ultimo dei miei pensieri
«Lasciami andare, ti prego» più che a lui sembrava diretto a me stessa
Solitamente non andava in questo modo, lo ignoravo e lui dopo un po’ faceva lo stesso. Ma ormai eravamo arrivati al capolinea.
«Continui a scappare, non è da te» si limitò a dire. Cosa che purtroppo era fin troppo vera
Dopo qualche secondo presi coraggio, rendendomi conto che la questione andava sistemata.
Entrai nella sua macchina in silenzio, cosa che fece anche lui con espressione sconvolta. Non parlammo per l'intero viaggio fino a quando non mi resi conto di essere arrivata a destinazione.
Scesi dalla macchina e mi diressi verso la porta. Appena lui la aprì venni inondata da un mare di ricordi. Quella casa aveva troppa aria di familiarità.
Chiuse la porta e camminò verso la cucina mentre io mi limitai a stare vicino la porta. A una discreta distanza.
Lui sospirò
«Non ti mangio» mi rassicurò
Magari fossi tu il problema in questa situazione
«Sto bene qui. Cosa devi dirmi? » risposi per poi incrociare le braccia
«Non è ora di smettere di evitarmi?» mi chiese e a quel punto persi completamente quel brucio di pazienza che mi era rimasta
Scoppiai a ridere, una risata che sembrava non aver fine. Una di quelle risate che ti saresti pentito di far finire.
«Quindi tu sei venuto da me solamente per chiedermi questo? Hai rovinato il mio appuntamento e hai insultato quel povero ragazzo per chiedermi di non evitarti?» ero io adesso a fare le domande
«Non l'ho insultato» fu la sua risposta
Come i bambini, si stava comportando esattamente come loro
«Dovresti tenere a bada le tue parole» continuai a rimproverarlo, il che mi faceva sentire ancora più stupida
«Non ho detto niente di male» continuò a difendersi lui
“Che cosa mi era saltato in mente salendo in macchina?” pensai
«Mi hai dato della ragazza facile!» alzai il tono della voce offesa
«Sai che non intendevo quello» era infantile, ecco cos'era
«Ma l'hai detto comunque. Non mi importa se non lo pensavi veramente, l'hai detto!» risposi infuriata
«Tu avresti dovuto mettere quello stupido rossetto!» alzò il tono della voce anche lui, la quale risultò più forte della mia
Il rossetto?
«Non ci voglio credere» alzai gli occhi al cielo «Hai fatto tutta questa confusione per un rossetto?» gli chiesi a quel punto basita
Ero senza parole
«Sai che non è solo un rossetto» si limitò a dire
Il mio cuore non si fermava un attimo e l'adrenalina percorreva tutte le vene
Tirai un semplice sospiro senza rendermi conto delle cose che avrei detto dopo
«Anche le altre sere non l'ho indossato, però non te ne sei mai reso conto»
Nell'arco di pochi secondi mi resi conto delle parole uscite dalla mia bocca
Il silenzio calò nella stanza.
«Cos'hai detto?» mi chiese ma io non risposi, semplicemente perché non avevo intenzione di ripeterlo
«Te ne sei accorto nel momento sbagliato. Come sempre d'altronde» dissi a bassa voce sperando che non mi sentisse
La stanza si riempì per la terza volta di un silenzio straziante.
Era una continua lotta contro me stessa
Una parte voleva che lui facesse qualcosa, l'altra voleva solamente andarsene.
Mentre gli urlavo di non stare lí fermo lui faceva l'esatto contrario. Come se i suoi piedi fossero incollati per terra.
«Smettila di guardarmi così» finalmente parlò
«Guardarti come?» gli chiesi ormai esausta
«Come se ti aspettassi qualcosa da me. Mi opprime»
In quel momento mi resi conto di quanto in realtà le parole non dette facessero male.
Io continuai a guardarlo senza dire niente
«Se continui così non starò fermo» mi avvertì
Ma io continuai
A quel punto ciò che usciva dalla mia bocca e ciò che dicevano i miei occhi avevano perso contatto andando per la propria strada.
Lo vidi sospirare nuovamente per poi fare un passo, poi un altro e un altro ancora. Facendosi sempre più vicino.
Ad ogni passo vi era un battito, ormai andavano a ritmo fino a quando non me lo ritrovai fin troppo vicino.
Sembrava come se lui adesso si aspettasse qualcosa da me. Un cenno o altro, ma io rimasi ferma.
E finalmente dopo tempo riuscii a sentire le sue mani calde a contatto con la mia pelle. Venni inondata da una serie di brividi che iniziarono a percorrere tutto il mio corpo.
Sentii la sua fronte contro la mia, i nostri nasi si incrociavano e le nostre labbra erano a pochi millimetri di distanza.
Ma si fermò, rimasimo così. Come se aspettasse una mia mossa mentre i miei occhi cercavano di evitarlo. Avrei potuto respingerlo e andarmene a casa.
Ma il mio cuore continuava a battere e il mio cervello era andato completamente in tilt.
Così mi avvicinai eliminando ogni tipo di distanza tra di noi. Diventando una cosa sola, con le sue mani sui miei fianchi e le mie braccia intorno al suo collo. I nostri respiri che si mescolavano e i nostri volti ormai umidi.
Probabilmente il bacio più triste dato in tutta la mia vita, ma anche il più bello.
Così carico di emozioni che mi portò a stringermi a lui per non cadere. Lui si limitò ad afferrarmi e senza rendercene neanche conto ci ritrovammo nella sua stanza.
Tra vari baci e carezze lo fermai.
Lui mi guardò senza capire realmente cosa stesse per accadere, ci vollero pochi secondi per farci ritornare alla realtà
«Capisco» si limitò lui a dire
Non lo avevo mai visto così, aveva gli occhi lucidi, i capelli spettinati e il viso quasi distrutto. Lo potevo sentire così vicino e mi resi conto di quanto tutto questo mi fosse mancato.
«Almeno non andartene» mi chiese a quel punto e sembrò quasi una supplica
Sentii il mio cuore perdere di nuovo un battito e cedetti del tutto
E fu così che la serata terminò con delle scuse mai date tra i vari baci, con delle carezze che erano come fuoco per la nostra pelle e con quelle famose parole mai dette che adesso si trasformavano in azioni tanto desiderate.
«.. E quindi sapevi già come sarebbe andata a finire la serata» disse lui mentre continuava ad accarezzarmi il viso
Io gli sorrisi per poi colpirlo al braccio dandogli dello stupido
E fu così che ci addormentammo, fu così che morfeo ci accolse. Uno tra le braccia dell'altro. Uno tra i sorrisi dell'altro, consapevoli del fatto che questa volta nessuno dei due sarebbe scappato.
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eleanordahlia · 4 years
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     👑     —    𝐍𝐄𝐖 𝐑𝐎𝐋𝐄      𝐞𝐥𝐞𝐚𝐧𝐨𝐫 𝐝𝐚𝐡𝐥𝐢𝐚 & 𝐦𝐚𝐫𝐥𝐞𝐧𝐞 𝐬𝐨𝐩𝐡𝐢𝐞      ❪    ↷↷     mini role ❫      r  a  v   e   n   f   i   r   e      01.03.2020  —  #ravenfirerpg      #ravenfireevent #ravenfireilconfine
Il silenzio che si udiva era pressoché irreale alle orecchie della giovane newyorchese che, nonostante fosse mattina presto, sentiva il bisogno di prendere una boccata d'aria. Tutto attorno a sé gridava di stare al riparo, di non attirare l'attenzione su di sé, soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti, ma la testardaggine di Eleanor era dura da sopperire. L'aria fresca del mattino era una una boccata d'ossigeno per la giovane che, con sguardo sempre attento attorno a sé, aveva varcato la soglia della sua abitazione per giungere sul limitare del suo quartiere. Le poche persone che aveva incrociato non l'avevano degnata nemmeno di uno sguardo, con i suoi lunghi capelli castano chiari e quel volto algido che sembrava continuare a guardare gli altri da un gradino più in alto. Le voci che correvano veloci e le teorie che i cittadini di Ravenfire tiravano fuori erano tra le più disparate, eppure qualcosa in tutta quella storia non le tornava. Preoccupazione, timore, tutte sensazioni che non erano conosciute all'animo della giovane Janssen che, giunta all'angolo della strada, si maledisse per aver dato ascolto al suo bisogno di uscire.
« Lene... »
Marlene Sophie A. Griffiths
Restare in casa, tra quelle quattro mura da sempre considerate amiche, caldo ventre ove rifugiarsi nei momenti complicati, era divenuta missione impossibile per una Marlene il cui animo inquieto non riusciva proprio a placarsi. Era estremamente agitata, la giovane dooddrear, serpeggiava sempre più velocemente il sentore che il peggio non fosse ancora venuto, che l'arresto di quei ragazzi — che lei ovviamente riteneva innocenti, tutti, nessuno escluso — non fosse la fine della questione vertente intorno a Jacob Ruiz, ma piuttosto l'inizio, l'inizio di qualcosa di molto più importante, di più grande, di più tragico e che avrebbe comportato la rescissione di molte vite. No, non era mai stata particolarmente pessimista, ogni situazione era stata affrontata da lei con positività ed un ampio sorriso, ma in quel frangente entrambe le cose erano di difficile realizzazione, era diverso ciò che stava accadendo: tutta la città era in rivolta e pronta alla guerra, al sangue, alla morte. Ecco perché, di conseguenza, dormire era divenuto qualcosa difficile da fare, ormai Marlene preferiva stare più fuori casa che dentro. Anche in quel momento, seppur fosse presto, si aggirava con aria smarrita tra i vicoli della città, quando d'improvviso, per poco non urtò una figura assai familiare ma che non vedeva da molto, Eleanor. Le iridi color nocciola si sgranarono mentre per un attimo il silenzio calò, imbarazzante.     « Hey, Ele, buongiorno, anche tu mattiniera? »     Domandò, accennando un sorriso. Era da tempo che non parlavano, chissà se stava bene o se anche la sua vitta fosse in subbuglio come la propria.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Sensazioni discordanti sembravano aver preso piede nell'animo della giovane Janssen che, non sena sorpresa, si fermò nell'incrociare quella che da sempre aveva considerato come la sua migliore amica. Certo, avrebbe dovuto comportarsi mille volte meglio con lei, avrebbe dovuto parlarle, avrebbe dovuto spiegarle ciò che le passava per la mente, e invece aveva sempre fatto un passo indietro, e poi ancora. Un sorriso tirato velò le di lei labbra, incapace di tornare indietro nel tempo e poter mettere a posto le cose. E se anche avesse potuto, Marlene avrebbe potuto accettarla? V'era ancora un grande, grandissimo fatto che non avevano preso in considerazione, ovvero la sua condizione che, in qualche modo ed inspiegabilmente, era cambiata ormai da un paio d'anni. « Lene... Ehm, sì. In realtà sentivo il bisogno di fare due passi. » Disse la giovane come se fosse la cosa più normale al mondo. Distolse lo sguardo per un momento, si guardò perfino attorno prima di stringersi nelle spalle e tornare con gli occhi su quella figura che aveva contato così tanto in passato. « Come stai? E' diverso tempo che non ti vedo... »
Marlene Sophie A. Griffiths
Puro era il cuore che batteva da ventisette anni nel petto di Marlene, puro a tal punto che spesso veniva scambiata per una semplice umana, perché no, non godeva nel provocare dolore a chi le stava dinanzi, assolutamente no. Certo, per avanzare di livello aveva dovuto nutrirsi della sofferenza altrui, come un parassita, ma non aveva provato piacere in ciò, anzi, innumerevoli erano state le volte in cui s'era rifugiata nel ventre materno, disperata, sentendosi un mostro. C'erano volute le dolci parole della donna ed i saggi insegnamenti di suo padre a farle capire che purtroppo non era qualcosa che poteva comandare od impedire, che era semplicemente fatta così, al massimo poteva scegliere di non infliggerne, cosa che aveva fatto. Ecco perché, di conseguenza, non nutriva rancore alcuno nei riguardi di colei che le stava dinanzi, le circostanze avverse s'erano poste di mezzo, le avevano separate, ma per la giovane Griffiths non tutto era perduto, non se anche Eleonor la pensava in egual modo.     « Potrei star meglio, come te immagino. Siamo tutti un po' tesi, spiazzati, scossi dai terribili fatti che stanno avvenendo in città. »     Rispose, stringendosi nelle esili spalle. Quei poveri ragazzi innocenti, quelle giovani anime sofferenti ora rinchiuse in cella ingiustamente, chissà come stavano, chissà se riuscivano a nutrirsi, a dormire, se erano tranquilli o spaventati a morte: che esseri ignobili li governavano.     « Dove sei stata tutto questo tempo? Sei praticamente svanita. »     Non che volesse impicciarsi ovviamente, ma era davvero passato troppo tempo dall'ultima volta che s'erano viste, non poteva fare a meno di preoccuparsi per lei.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Impossibile non notare come una terza presenza fosse lì assieme alle due giovani donne, una presenza che entrambe conoscevano ma che senz'altro apparteneva maggiormente alla newyorchese: il senso di colpa. Un senso di colpa che non sempre le apparteneva, ma che ne confronti della mulatta era più che mai vivido. Entrambe non avevano mai realmente affrontato ciò che le avesse fatte allontanare ma ritrovarsi su territorio neutro l'una di fronte all'altra, portò inevitabilmente la Janssen quanto a lungo aveva sbagliato. Inspirò sonoramente, e si ritrovò così ad annuire con un semplice cenno secco del capo. « Quello che sta succedendo... » Eleanor scosse poi per un momento il capo cercando di immaginare come il comportamento di chi li avrebbe dovuto governarli, li stava portando inevitabilmente a una guerra. « Stento a credere che nessuno abbia ancora fatto qualcosa. Si sente aria di guerriglia, come se da un momento all'altro, tutto potesse succedere... E lo so, sono sparita. » Ella abbassò lo sguardo, una cosa assolutamente non da lei, ma che in quel momento le sembrò la cosa giusta da fare. Tante volte Marlene era stata al suo fianco per aiutarla, per comprenderla, per darle quella spalla che la sua famiglia non le aveva mai fatto avere, ma ora sembravano due estranee. « Mi sento strana, ma non so dirti il motivo. Penso a quei poveri ragazzi e non posso fare a meno di pensare a come si sentano, soli, traditi dalla stessa città che avrebbe dovuto proteggerli... »
Marlene Sophie A. Griffiths
Benché fossero trascorsi due anni dalla separazione con Evan, Marlene aveva ancora vivido in mente il ricordo di lui che le confessava un tradimento che mai avrebbe pensato potesse attuare e, con esso, gli occhi di Eleonor, colpevoli, per averlo coperto. A quel tempo, ferita e probabilmente accecata dal dolore, la giovane dooddrear non aveva avuto abbastanza lucidità per riflettere sul fatto che, per quanto si fosse divertito parecchio prima di lei, una cosa così meschina il suo ex non avrebbe mai potuto farla a lei, troppo l'amore che li univa in primo luogo, stupido sarebbe stato farlo dopo cinque lunghi anni e non durante il primo in cui peraltro egli aveva dovuto aspettare che fosse stata pronta a concedersi. Era stata, infatti, tutta una bugia architettata dal riccio per infangare chissà quale terribile segreto che ancora non le aveva rivelato, e che probabilmente non me avrebbe mai svelato. Tuttavia, il danno era ormai fatto, Marlene aveva riversato ingiustamente tutta la sua collera sulla fedele amica che ora le stava dinanzi e no, non poteva ignorare il senso di colpa che ora sentiva: doveva abbattere quel muro di freddezza che s'era creato tra loro.     « Senti, so che attualmente non c'entra molto, ma io così non posso farcela, devo assolutamente dirti una cosa, una cosa importantissima. »     Dinanzi a quanto stava accadendo in città — sommosse, rivoluzioni, arresti insensati, un Consiglio che ormai pareva prossimo a cadere — certamente i problemi tra loro erano assolutamente di poco conto, ma la Griffiths era fatta così, non lasciava cose in sospeso, non se le procuravano notti insonni e fitte al cuore.     « Evan non mi ha davvero tradita, quella ragazza che hai visto con lui, la mora bellissima, è sua cugina Loreen. È stato tutto uno stratagemma per nascondere qualcosa che non riesco a cavargli di bocca. Sono stata terribilmente ingiusta con te, ti chiedo perdono dal profondo del cuore, anche se probabilmente non lo accetterai. »     D'un fiato la fanciulla dalla pelle ambrata aveva tirato fuori quelle parole, quasi terrorizzata dall'evenienza che Eleonor potesse fermarla e non permetterle più di spiegare. Sicuramente non s'aspettava la perdonasse istantaneamente, anzi, forse l'avrebbe addirittura mandata al diavolo, ma non importava, lei doveva provarci, doveva lottare, doveva dare tutto prima di deporre per sempre le armi.
Eleanor Dahlia H. Janssen
La distanza che s'era creata con l'amica di un tempo, sembrava essere diventata insormontabile, eppure nella quiete di quella notte, entrambe erano lì a parlare come se nulla fosse. Vivido era ancora il ricordo nella newyorchese di come Marlene non ci avesse pensato due volte a non crederle, in quella faccenda che ancora stentava a capire, ma che le aveva fatte allontanare fino a diventare due sconosciute. Eleanor aveva sbagliato a mantenere il segreto, era un fatto che ancora le bruciava, ma nell'attimo in cui vide quella scena che avrebbe cambiato le loro vite, proteggere l'amica fu l'unica variabile che prese in considerazione. Aveva parlato poco prima pensando a come la situazione cittadina fosse sull'orlo del collasso, ma furono le parole dell'amica a prenderla completamente in contropiede. « C-come scusa? » Fu probabilmente la prima volta che la Janssen si ritrovò senza parole, incapace di formulare un pensiero coerente e totalmente spazziata da quella confessione. Per mesi, anni addirittura, Eleanor s'era sentita in colpa, seppur in modo latente, per quella vicenda, ma soprattutto ciò di cui si incolpava era il fatto che aveva perso l'unica amicizia a cui teneva davvero. « Per tutto questo tempo... Per tutto questo tempo, mi hai fatto credere di essere stata io a sbagliare. Mi hai incolpato, mi hai urlato contro, mi hai fatto sentire come se fossi la persona peggiore e invece tu lo sapevi... Tu sapevi ogni cosa. Che diavolo t'era passato per la testa, eh? » Ora il tono di voce si fece più forte, e l'apatia che l'aveva accompagnata nelle settimane precedenti era stata spazzata via dalla rabbia, dalla furia per quella rivelazione che ora cambiava ogni cosa. « Perché? Perché non dirlo prima? Perché rovinare la nostra amicizia, e non dirmi che è colpa mia perché la colpa è mia quanto tua. »
Marlene Sophie A. Griffiths
« Come? Io cosa? Placa la drama queen vittimista che è in te, Eleonor, ed impara ad ascoltare le persone piuttosto che sputare sentenze a caso, accusandole di essere dei mostri! È la seconda volta che lo fai, prima Evan, poi io, falla finita, il mondo non gira intorno a te! »     Era pura di cuore, Marlene, non portava rancore né nutriva rabbia nei riguardi di chi le faceva del male, al massimo rimaneva indifferente, voltava le spalle e se ne andava cancellando per sempre. Riteneva, infatti, che farsi divorare internamente da sentimenti negativi come quelli non fosse una cosa sana, né tanto meno giusta, avvelenare la vita per azioni o persone evidentemente indegne di attenzioni, a che serviva? A nulla, solo a perdersi nel frattempo quanto di più bello la vita potesse offrire. Tuttavia, ciò non implicava affatto che fosse debole ed ingenua, benché giovane aveva già dovuto affrontare innumerevoli tragedie che l'avevano fortificata e resa una sorta di roccia impossibile da scalfire, ancor più dinanzi ad infondate accuse. Ma che stava dicendo quella che credeva sua amica? La stava davvero dipingendo come un mostro senza cuore quando era tutto l'opposto? Seriamente pensava che lei sapesse tutto da anni ed avesse semplicemente voluto ingannata per cercare un capro espiatorio? Ma era pazza? Probabilmente.     « L'ho saputo appena due settimane fa da Evan stesso! Come potevo dirtelo? Ma soprattutto come osi farmi passare per una creatura così meschina e subdola? Forse ho davvero fatto bene ad allontanarti da me. »     Sentenziò offesa e sdegnata. Non se lo aspettava, non si aspettava che Eleonor potesse vomitarle addosso tanto veleno in un solo attimo senza neppure porle domande. Se era davvero questo il pensiero che aveva di lei, allora sì, non avevano null'altro da dirsi.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Non ci aveva pensato nemmeno un minuto prima di sputare la sua sentenza e in fondo era ciò che Eleanor aveva sempre fatto in passato: prima agire e poi pensare, mai il contrario. Aveva aggredito senza nemmeno chiedere spiegazioni, era partita in quarta,e le cose sarebbero dovute andare senz'altro in modo diverso se la sua istintività non fosse stata così accentuata. Puntava gli occhi sull'amica, sui quei lineamenti delicati che l'avevano sempre colpita per l'eleganza e la raffinatezza, ma in quel momento troppi pensieri sembravano accavallarsi gli uni sugli altri. « Due settimane... » Ripeté la Janssen mentre il suo respiro divenne appena più lento. Ancora non riusciva a concepire che razza di persona fosse Evan per lasciar credere una cosa del genere, ma di certo non doveva sorprendersi. Eppure la cosa che le bruciava maggiormente era il fatto che tutta quella storia avesse intaccato quell'amicizia in cui lei stessa credeva. Tante cose erano cambiate nella sua vita dal suo arrivo a Ravenfire, ma Marlene era l'unico punto di riferimento che aveva mai avuto, l'amica che che le aveva dimostrato che poteva essere tutto diverso. « Giusto, in fondo sono sempre io quella sbagliata, non è vero? Io ho sbagliato a non dirtelo, io ho sbagliato a reagire... Ma non ti ho mai fatto passare meschina, né tanto meno subdola. E' questo ciò che realmente pensi? Se non ci fossimo incontrate, me l'avresti mai detto? »
Marlene Sophie A. Griffiths
« Due settimane, sì. » Malignità non governava il cuore di Marlene tanto che, vista dall'esterno, mai sarebbe stata associata alla razza cui realmente apparteneva. Aveva le dolci movenze e l'altruismo di una fata, infatti, nessuno immaginava che possedesse canini ben affilati in grado di strappare pezzi di carne, o che potesse manipolare le paure altrui sino a provocare la più terribile delle morti, quella per arresto cardiaco ovvero. Amava ciò che era, ella, non detestava essere più veloce, più forte, guarire più in fretta rispetto ad un normale umano, ma non si adeguava alle dicerie che li volevano tutti feroci assassini, in ventotto anni aveva reciso una vita sola, per errore anche, ed ancora ne scontava le colpe. Ecco perché non aveva affatto gradito l'uscita di Eleonor, si presumeva dovesse conoscerla meglio di chiunque altro, — dopo Sophie ovviamente — come poteva accusarla di tali orrido misfatti? Mentire, intessere tele d'inganni e dolore, no, decisamente non era da lei. Certo, il loro rapporto non era più idilliaco come un tempo, ma la giovane Griffiths non aveva mai covato rancore nei suoi riguardi anzi, le aveva addirittura lasciato la porta socchiusa in caso avesse sentito il desiderio di tornare. Cosa ne aveva ottenuto? Nulla, evidentemente sua madre aveva ragione a definirla troppo buona.     « Per quanto possa sembrarti impossibile visto che vedi male ovunque, sì, te lo avrei detto non appena questo disastro che è certamente più importante, avesse trovato risoluzione. Io non sono come tu mi descrivi, Eleonor, la cattiveria, nonostante sia una delle dooddrear più potenti in città, non fa parte di me. »     Sentenziò con tono glaciale e sguardo ugualmente impregnato della medesima freddezza. Non intendeva assolutamente ferirla, Marlene, non voleva ripagarla con la stessa moneta e prendersi una inutile e stupida vendetta, solo farle capire come realmente il suo essere fosse, votato alla bontà ovvero, non al provocare ulteriori guai a chi già ne aveva di suo.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Si sentiva stupida, e il fatto che perfino Marlene le facesse notare come vedeva del male ovunque, faceva sì che Eleanor si dovette fermare a riflettere. Davvero appariva così subdola agli occhi degli altri? Lei, che tanto aveva fatto per osservare i comportamenti e la mente umana, si abbassava a compiere quei fatti. Da quando era giunta a Ravenfire, la newyorchese aveva sperato di avere una seconda opportunità, di comportarsi meglio di quanto non avesse mai fatto, ma era vero che le dure abitudini erano dure a morire. Ripeté mentalmente quel lasso di tempo che trascorse da quando Marlene scoprì la verità, tuttavia le successive parole della dooddrear bruciavano sempre di più. « Non ho mai pensato che tu fossi cattiva, Lene. » Replicò la giovane prima di scuotere il capo. Gli avvenimenti successi in città avevano scosso tutti, la Janssen per prima, costretta a tenere un profilo ancor più basso, eppure il suo protagonismo era ben più forte. Inspirò a pieni polmoni ed espirò, cercando di trovare quelle parole che in quel momento sembravano svanite. « Non era mia intenzione accusarti. Non era nemmeno mia intenzione tenerti all'oscuro ma è successo e me ne dispiace. Dico sul serio... E' meglio che vada ora, ma sono contenta che tu sappia ora la verità. » Probabilmente per la prima volta nella sua breve vita, Eleanor era costretta a far un passo indietro. Era costretta a leccarsi le proprie ferite per riflettere su quanto si fossero dette le due amiche. Non sapeva se vi era spazio di manovra per tornare quelle di un tempo, magari in un futuro, ma sapeva che doveva lavorare ancora molto su se stessa.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫  
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