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#Diario di un dolore citazione
princessofmistake · 5 months
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Ogni infelicità è in parte, per così dire, l’ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma è anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire.
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mattiasteddy · 2 years
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Dom 10 luglio 22
Sono passati alcuni mesi. Lo faccio sempre. Disinstallo l’app e quando sono giù di morale la reinstallo. Perché così funziona.
Quando sei triste ascolti musica triste, perché vuoi essere triste.
È Tumblr per me è questo.
Musica bella ma triste.. fatta di arte, libri, foto, pensieri e parole.
Sono passati alcuni mesi dal mio ultimo post. Uno sfogo per la fine di una relazione.
Scrivo sempre delle relazioni che per un motivo o un altro finiscono male per cui io, puntualmente, ci resto sotto come ad un treno.
Questo è il mio diario segreto. Ci torno sempre quando ho bisogno di sfogarmi. E quando torno mi piace rileggere i pensieri della me del passato e sapere che alla fine quel periodo di dolore è terminato, forse.
#marti #pensieri #parole #confessioni #diariosegreto #citazione #libro #amore #dolore
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arreton · 4 years
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Sono tornata a “frequentare” quel vecchio forum a cui mi ero iscritta tempo fa, ma è praticamente inutile: non intervengo nei vari thread perché parlare con loro è praticamente impossibile. Qui si aprirebbe una parentesi vastissima, non sono nemmeno capace, al momento, di poter in qualche modo fare un breve riassunto inquadrando i vari tipi umani che rappresentano. Ho creato allora questo diario dove pubblico qualche riflessione così, qualche citazione. Di tanto in tanto scrivo in quei thread dal carattere più generale, che non richiedono un intervento da parte né mia né di qualche utente (ad. es. thread tipo “come vi sentite in questo momento” o “cosa state leggendo in questo momento”). Resto insomma schiva e comunque per i fatti miei - e su questo, tumblr, mi permette di esserlo molto di più e lo preferisco, infatti, dato che di mio non so intervenire nei discorsi dato che non parlo per il solo piacere di parlare o di attirare in qualche modo l’attenzione e soprattutto non parlo con chi reputo incapace di accogliere quello che ho da dire (e per “accogliere” non intendo per forza “essere d’accordo”, ma capire il mio punto di vista e analizzarlo) - ma vedo quanta differenza c’è tra me e quegli utenti, o almeno: tra me e quelli che scrivono abbastanza frequentemente nei vari thread. Una differenza abissale, nonostante io possa capire il loro stato d’animo, le loro sensazioni. Il punto è che non fanno un minimo di auto-analisi, si limitano soltanto a riversare quello che sentono, come si sentono, lo schifo (rabbia, frustrazione) che hanno dentro e allora parlano, scrivono solo per confermarsi tra loro: tutto ciò che è anche solo leggermente lo schifano, lo snobbano e spesso pure lo attaccano costringendo l’utente anche a non scrivere più o a cancellarsi dal forum (ed io l’ho pure subita come cosa). Differenza che ho notato io e che ovviamente è stata notata pure da loro: incuriosisco pure, ma sanno che non possono avvicinarsi facilmente a me, ovvero col modo in cui sono abituati ad avvicinarsi tra loro: non passo il tempo ad autocommiserarmi, ma a capire me e chi e ciò che mi sta intorno; cosa per me banalissima e automatica, ma per loro - o almeno la maggior parte - è impossibile: o sei come loro o sei una persona che non soffre, che non li capisce. Sono praticamente chiusi nella loro bolla di patetismo (perché hanno reso il loro dolore così esasperante da passare per patetici, non sono nemmeno in grado più di suscitare compassione) ed io sono in un’isola a parte. È questa distanza ad essere triste proprio perché è insormontabile: loro difficilmente si avvicineranno a me, io non mi avvicino per certo a loro. Non c’è, insomma possibilità di incastro. Se da un lato la cosa dovrebbe rendermi abbastanza fiera, di essere in un certo senso “migliore” di loro (pure se non mi ci sento affatto e non credo per niente di esserlo, proprio perché so che la sofferenza ottunde dunque sono ottusa e idiota quanto loro, su certe cose), dall’altro lato mi rattrista e pure in maniera abbastanza profonda: è come se questa mia condizione di solitudine, di distanza tra me e l’altro fosse destinata ad esserci per sempre. C’è sempre stata e pare continuamente ripresentarsi, le occasioni in cui mi sono ricreduta sono state pochissime, di cui solo una continua a perdurare, per il resto la distanza resta: l’altro resta per me un mondo a parte, inaccessibile. Ciò che mi è possibile, accessibile, dell’altro è solo ciò che l’altro produce, ciò che è esterno a sé stesso, ovvero: arte, saggistica, pensiero, scrittura, musica. L’altro, come persona, come calore umano, come individuo è inarrivabile e comincio sul serio a pensare che devo farmi bastare solo questo, ovvero: solo ciò che l’altro è in grado di produrre per il mondo e non per il suo essere un individuo a questo mondo; vivere e rapportarmi all’altro in quanto pensiero, prodotto, non in quanto essere umano. Siete voi che vi state annullando come individui e state diventando dei prodotti, delle categorie: siatene almeno consapevoli.  
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josephinelynncooper · 4 years
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Purtroppo la convivenza con Amerlee non procedeva come Joey aveva previsto.
La nuova ragazza è introversa, scorbutica e decisamente poco loquace. 
Tutto l’opposto della Cooper e della sua parlantina. Josephine è stata adottata da poco meno di un’anno, mentre Amerlee è ancora in “prova”. Si dice così quando la tua famiglia affidataria ti ha accolto in casa da meno di una settimana. C’è un periodo di tempo come per i capi di abbigliamento, periodo entro il quale è possibile restituire il capo acquistato senza passare troppe rogne. Assurdo il fatto che questo principio venga applicato anche con le famiglie affidatarie. Amerlee ne ha cambiate parecchie di famiglie affidatarie, o almeno questo è ciò che l’assistente sociale ha riferito ai Johnson. Amerlee, d’altro canto, non ne ha mai fatto parola.
Forse è per questo che è così silenziosa, non deve essere stato facile per lei. Josephine può comprendere solo in parte il dolore che ha provato la sua nuova “sorella”, dato che ha perso la sua mamma in tenera età. I Johnson l’hanno presa con loro quasi subito perciò si può dire che sia sempre vissuta circondata dall'amore dei suoi cari, nonostante il padre assente.
Amerlee non può di certo dire lo stesso, considerando che entrambi i suoi genitori avevano problemi con alcol e droga e l’hanno lasciata in un orfanotrofio ancora prima che fosse in grado di aprir bocca.
[…]
Quel pomeriggio, approfittando di quella bella giornata di sole, i Johnson avevano proposto a Aimee e Joey di passare il pomeriggio al parco. Niente genitori, soltanto le ragazze e il loro gruppo di amiche per un paio d’ore. Sarebbero tornare a prenderle dopo aver fatto un paio di commissioni.
“Può essere un’ottima occasione per legare con lei e farle conoscere le tue compagne di scuola. Senza noi adulti in mezzo ai piedi!”
Le aveva suggerito Carol. Ed era una buona idea, se non fosse per le compagne di classe di Josephine. Dopo meno di cinque minuti in loro compagnia, Amerlee se l’era data a gambe. Come biasimarla? Chi dice che i bambini siano le anime più pure al mondo, non ha mai conosciuto le ragazzine della seconda media. Joey non le ha mai considerate davvero sue amiche, ma spesso uscire con loro si rivelava una piacevole alternativa allo stare chiusa in camera ad ascoltare vecchia musica e a scrivere nel suo diario. Si sono sempre prese gioco di lei per la sua parlantina e le sue stramberie, ma Josephine ha sempre finto di non esserne a conoscenza. 
«Avete visto Amerlee? Era qui fino ad un minuto fa!»
«La tua nuova amica?»
Domanda Lydia, una delle compagne di Joey.
«La mia nuova sorella.»
Precisa Joey correggendo la ragazzina. 
«Già… Ho visto passare di là una signora anziana con una collana di perle. Sarà andata a sfilargliela dal collo.»
«Cosa? Di che parli?»
«Mamma mi ha detto di starle alla larga, è stata fermata dalla polizia per piccoli furtarelli prima di essere rispedita in comunità.»
Interviene un’altra delle amiche spiegando alla Cooper il commento di Lydia.
«Si sa, il lupo perde il pelo ma non il vizio.»
Aggiunge Lydia scrollando le spalle, seguita poi dalle risatine dell’amica. Josephine alza gli occhi al cielo e volta le spalle alle ragazze, pensando a dove possa essere finita la Stevens. 
«Dove vai? Stavamo per iniziare a giocare ad obbligo o verità! Josephine?»
Joey ignora le domande delle ragazze e prosegue a passo svelto verso l’altro capo del parco, decidendo saggiamente di ignorare i commenti delle due pettegole in lontananza. Era accanto a loro fino a qualche minuto fa, non deve essere andata troppo lontano.
[…]
«Hey, tu! Ti ho cercata dappertutto!»
Dopo dieci minuti buoni di ricerche eccola lì, Amerlee Stevens, con le gambe a penzoloni sul bordo di una piscina abbandonata alta almeno un paio di metri. Josephine frequenta spesso quel parco, eppure non aveva mai osato spingersi tanto in là, sull'orlo di quel “fossato”. 
«Avevo bisogno di staccare un po’.»
Si limita a commentare Amerlee, senza nemmeno distogliere lo sguardo dall’albero che osserva da oltre un quarto d’ora. Sa bene che è Josephine, riconoscerebbe quella sua vocina squillante ovunque. La Cooper si avvicina lentamente al bordo della vecchia piscina, procedendo cautamente fino a sedersi accanto a lei.
«Posso?»
«Lo hai già fatto.»
Ribatte Aimee scollando le spalle, lasciando trapelare qualcosa di simile ad un sorriso. 
«Scherzavo… Fa pure, è un paese libero.»
Josephine sorride nervosa grattandosi la nuca, maledicendosi per aver guardato in basso per qualche secondo di troppo. 
«Era una piscina parecchi anni fa. Vedi la scaletta laggiù? Adesso è un ottimo posto per sbucciarsi le ginocchia. Sono caduta là sotto almeno un miliardo di volte!»
«Sul serio? E perché diavolo continui ad andarci? È pericoloso!»
«È un bel posto per pensare. E poi… Quando cadi un miliardo di volte sullo stesso ginocchio, alla fine impari a rialzarti più in fretta. Adesso non mi spaventa più.» 
Ammette Amerlee con tutta la calma e risolutezza del mondo, per poi gettarsi senza pensarci due volte all'interno della piscina. Josephine strabuzza gli occhi ed assiste alla scena senza parole, lasciandosi sfuggire un piccolo urletto di terrore.
«Visto? Ora cado sempre in piedi. Negli anni l’ho imparato, è solo un fottuto salto. Non dire ai Johnson che ho detto “fottuto”.»
«Oh… Okay. Acqua in bocca.» 
Risponde Josephine ancora scossa dal salto di poco prima. Amerlee, che nel frattempo ha raggiunto la scaletta con una breve corsetta, impiega alcuni secondi prima di tornare a sedere accanto a lei.
«È per questo che mi hai lasciato sola con quelle? Per tuffarti all'interno di una piscina vuota e fissare un vecchio albero ingiallito?»
«Quelle? Pensavo fossero tue amiche.»
«Pensano che io sia una svitata e che tu sia una ladra. No, non sono mie amiche.»
«E allora perché ci esci?» 
«Perché a volte è meglio di stare da sola con i miei pensieri, a fissare vecchi alberi ingialliti.»
Amerlee coglie la citazione di Joey e si lascia sfuggire un sorriso, continuando a fissare la grande quercia di fronte alla piscina.
«Touchè.»
Josephine rimane qualche secondo in silenzio a valutare cosa sia più giusto dire in queste circostanze. Non capita spesso di interagire con Amerlee per più di due minuti e non vorrebbe dire nulla in grado di smorzare quella bella atmosfera. Eppure, ancora una volta, è la sua curiosità e la voglia di “esplorare i sentimenti altrui” ad avere la meglio.
«È difficile, vero? Ricominciare da zero. Nuovi amici, nuova famiglia, nuovo tutto…» 
«A dire il vero… Questa è la parte più semplice. La peggiore è quando te ne vai. Dici a te stessa “Sono abituata a sbucciarmi le ginocchia, questa volta non farà male quanto le prime”. Ma è inevitabile. Ci rimani male ogni singola volta.» 
«Sai bene che questa volta non sarà così, non è vero? Tu hai noi. Hai i Johnson, hai me…»
«Non puoi capire, Jo, la tua vita è perfetta. Hai visto dove vivi? È praticamente una reggia!» 
«È dove vivi anche tu, Amerlee. È casa tua. Perché non provi a credere che questa volta sarà diverso?» 
«Sono un caso perso. Lo capiranno anche i Johnson.» 
«Non dire così, sono sicura che—»
«E le tue amiche hanno ragione. Io sono una ladra. E tu sei stramba. Eccome se lo sei, a volte sembri uscita da un cartone animato. Il modo in cui riesci sempre a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno è a dir poco fastidioso. E sì, io rubo. Ho rubato per sopravvivere, ho rubato al fruttivendolo quando non avevo niente da mangiare, ho rubato nei negozi quando non avevo una giacca con cui scaldarmi la notte… Non sono una santa, Jo. Non sono un personaggio della tua stupida serie animata. Per questo non esagero quando dico che prima o poi se ne accorgeranno anche i tuoi genitori.» 
«Sono stata adottata anche io, te lo ricordi questo?» 
«Già, perché tua madre è morta tragicamente in un incidente stradale, non di certo perché i tuoi erano così strafatti da non riuscire più ad occuparsi di te.»
Josephine rimane per qualche secondo in silenzio, non sapendo come reagire. Sentire parlare della morte di sua madre è un ricordo decisamente troppo doloroso per lei ed Amerlee se ne è immediatamente resa conto.
«Scusami, non volevo essere senza cuore. Mi dispiace per tua madre.»
«Già, e a me dispiace per la tua. Però fidati di me quando ti dico che Henry e Carol sono la cosa migliore che ti sarebbe mai potuta capitare. Ti adorano e non si libererebbero di te neanche per tutto l’oro del mondo.»
«Adorano te. A me nemmeno conoscono.»
«Ti conosceranno.» 
Aimee scrolla le spalle per l’ennesima volta, mentre Josephine si appresta a trovare le parole giuste… Quel consiglio che scombussola tutte le carte in tavola, quella frase che rende tutto improvvisamente più semplice.. 
«Okay. Mettiamo che hai ragione e che il lieto fine esiste soltanto nelle favole. Perché non rincorrerlo, invece che stare su questo muretto a piangersi addosso? Non ti serve una vita da cartone animato per essere felice, devi solo crederci un po’ di più.»
«Joey, sono stanca di correre.»
«Devi solo fidarti di me. Sei mia sorella ormai, non abbandonerei mai una sorella.»
Conclude la Cooper, rivolgendo il più raggiante dei suoi sorrisi a quella che ben presto diventerà parte integrante della sua famiglia. Amerlee ricambia il suo sguardo sforzandosi di abbozzare un sorriso, ma il suo sguardo cala ben presto in corrispondenza della sua coscia nel momento in cui Josephine decide di poggiare la mano sulla sua, per poi stringerla energicamente.
«Che diavolo stai facendo?»
«Ti sto stringendo la mano. Ti conviene abituarti, è così che fanno le amiche.» 
«Grazie allora, credo.» 
«Oh… Non c’è di che.»
«Senti, Jo… Se vuoi andare dalle altre va pure, io ti raggiungo tra poco.» 
«Mi piace qui… Non c’è alcuna fretta.»
«Ti rendi conto che potresti cadere in piscina da un momento all'altro, non è vero?» 
«Non se continuo a tenerti la mano.»
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acuorleggero · 7 years
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<<La prima cosa che lessi di Emma Goldman non fu un libro. Avevo sedici anni, facevo l'autostop al confine col Nevada. La citazione era scritta su un muro con la vernice rossa. Quando vidi quelle parole fu come se qualcuno me le avesse strappate da dentro la testa: "anarchia significa liberazione della mente umana dal dominio della religione, liberazione del corpo umano dal dominio della proprietà, liberazione dalle catene e dalle restrizioni del governo. Significa un ordine sociale basato sulla libera associazione degli individui." 
Il concetto era puro, semplice, vero. 
Fu un'ispirazione, accese un fuoco dentro di me. Ma alla fine imparai la lezione che avevano imparato la Goldman, Proudhon e gli altri, e cioè che la vera libertà richiede sacrificio e dolore. Le persone pensano solo di volere la libertà, in realtà agognano la schiavitù dell'ordine sociale, leggi rigide, materialismo. L'unica libertà che l'uomo desidera è la libertà di stare bene>> -Dal diario di John Teller- 
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pangeanews · 4 years
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Per fortuna esiste Corrado Augias, l’intellettuale per tutte le stagioni: ha letto tutto e può parlare di qualsiasi cosa
«Ma stiamo rischiando di dimenticare di cosa si parlava: dobbiamo tornare al Diario del virus del Corriere della Sera, agli otto scrittori, con Francesco Piccolo messo stranamente in quarta fila e relegato a metà fascicolo. Ci chiedevamo il perché di questa retrocessione, ma vedendo Sandro Veronesi sul trono come dominus della staffetta, a pesare sulle teste di tutti, abbiamo la risposta: Veronesi è il vincitore del Premio Strega 2020, ce l’ha già in mano, ed è bene che si sappia subito».
*
Questo lo avevamo scritto il 1° maggio scorso, con due mesi d’anticipo: la settantaquattresima edizione del Premio Strega aveva già deciso il vincitore da tempo, e i segnali erano univoci. Infatti, nel patetico “Diario del virus” del Corriere, l’apripista Sandro Veronesi veniva citato e omaggiato dagli scrittori successivi a più riprese, come se fosse il capobranco davanti al quale abbassare lo sguardo in segno di sottomissione: il classico comportamento della società letteraria come comunità animale, che rendeva tutto molto chiaro.
*
Visto che tutto era definito, della serata finale di questo Premio Strega 2020 non resta altro che il siparietto imprevisto – e sciagurato – fra il conduttore e l’unica donna finalista: «…credo che coagulino anche un pezzo della condizione femminile di questo inizio millennio, e lo dico – nel ringraziarla e salutarla e nell’augurare anche a lei buona gara – perché adesso con Corrado Augias proveremo a ragionare su un altro dei capitoli importanti – sui quali, tra l’altro, immagino che Valeria Parrella potrebbe tenerci tutta la sera – e cioè che cosa è cambiato con il “MeToo”, cos’è cambiato in questi ultimissimi anni…» «E lei ne vuole parlare con Augias?» «Sì!» «Auguri!»
*
Da questa magnifica esternazione, quasi immediatamente è partito il fuoco delle polemiche sui social e sui giornali: in pratica, due uomini – di cui uno ottantacinquenne –  pretendono in un contesto culturale di parlare della condizione femminile di oggi e delle sue manifestazioni rivendicative, arrivando addirittura a quelle ostili e avvelenate del “MeToo” di qualche anno fa, con tutto ciò che hanno comportato. Francamente, non riusciamo a immaginare quali funzionari o programmisti Rai possano aver avuto una pensata tanto rozza, bassamente prevedibile, così di vecchio stampo da suscitare solo pena o irrisione ostile. Cosa potrà mai capire Corrado Augias, classe 1935, cosa potrebbe veramente insegnarci o suggerirci, insomma quale tipo di contributo potrebbe offrire un giornalista-scrittore che ha prodotto una quarantina di libri, creato e condotto programmi televisivi, svolto intensa attività giornalistica presso la fortezza di Repubblica, con tonnellate di articoli lettere trafiletti risposte su tutti gli argomenti possibili, un uomo del Novecento immerso nei più alti livelli del potere mediatico, che ha fatto una tale montagna di cose da far sorgere il sospetto che di ogni argomento trattato abbia finito per conservare solo una nozione canonica, di superficie, a tempo, finalizzata soprattutto a creare la sua pubblicistica del momento e a consolidare la sua posizione?
*
Come nel noto bestseller Disputa su Dio e dintorni (Mondadori, 2009), scritto a quattro mani col teologo dell’Università San Raffaele di Milano Vito Mancuso, dove a pagina 246 le conclusioni di Augias risultano copiate pari pari dalla pagina 14 del saggio La creazione del biologo di Harvard Edward Osborne Wilson (Adelphi 2008), fatti salvi – come rilevarono i giornali dell’epoca – “un punto e virgola al posto di un punto e un altro al posto di una virgola; «terra» scritto minuscolo o «globo» al posto di «Terra»; un verbo cambiato («dobbiamo imporci» invece di «condividiamo»); una citazione di Dante dal canto di Ulisse per far risaltare gli studi liceali fatti in Italia; un più dubitativo «Non credo» al posto di un secco «No»; un fondamentale «Lei e io» al posto di «Io e lei»; un’aggiunta politicamente corretta sulla «libertà dal dolore e dal bisogno»”.
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E dire che la Disputa riporta una bibliografia di 90 volumi e un nutrito indice dei nomi, nei quali però Edward Osborne Wilson è del tutto assente. Ma di fronte agli addebiti Augias non si scompose più di tanto: «Questo libro è nato da un dialogo tra i sostenitori di due tesi contrapposte. Per la mia parte mi sono avvalso oltre che di convincimenti e riflessioni personali, di numerose testimonianze, dalle Confessioni di Agostino a internet, citando la fonte ogni volta che è stato possibile». Dunque, pare fosse difficilissimo reperire la fonte di Wilson, forse perché era marchiata Adelphi.
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Ma a questo punto la questione diventa: nella sua enorme pubblicistica, quanti passi potrebbe aver copiato Corrado Augias da altri libri o da fonti in rete, senza citarli? Qualcuno se la sentirebbe di certificare – assumendosene la responsabilità – che tutti i suoi testi sono originali e non plagiati? Mentre Augias sulla questione abilmente svicolò, il teologo Vito Mancuso fu invece molto chiaro: «Sono amareggiato, completamente sbalordito. Non capisco come sia potuta accadere una cosa del genere. Spero che Augias lo spiegherà anche perché colpisce il fatto che quel passaggio si trovi nelle conclusioni, dove lui parla in prima persona, dove parla di se stesso».
*
Ma il caso Corrado Augias riguarda anche la sua indefessa attività recensoria: come osservò Luigi Mascheroni nel 2008, “Nella sua Babele sul ‘Venerdì’ di Repubblica, il mese scorso ha affrontato col piglio intellettuale che tutti gli riconosciamo sei libri (robetta: due saggi di teologia e due di storia sui rapporti tra cristiani e musulmani, un romanzo della Nemirovsky e il D’Annunzio di Giordano Bruno Guerri), per un totale di 1400 pagine, e poi ne ha ‘segnalati’ altri otto (dalle misere 118 pagine del Dizionario dei luoghi non comuni di Samuel Butler alle 558 del mattone di Josè Rodriguez Dos Santos) per ulteriori 2451 pagine. Totale: 3852. Augias, che è il decano del giornalismo culturale, di certo le ha lette tutte. Ma dove trova il tempo per scrivere, rispondere tutti i giorni ai lettori di Repubblica, firmare commenti volanti, condurre una trasmissione tv (sui libri, ovviamente) e al sabato, magari, firmare su l’Almanacco dei libri?”.
*
Quindi, per tornare alla nostra questione, il 2 luglio 2020, nella serata finale del Premio Strega, si è incaricato un vegliardo (perché ottantacinque anni non sono bazzecole) che ha vissuto per più di tre quarti nel Novecento di mettersi a discettare – con sussiego, fra l’altro – su un fenomeno del movimentismo femminista che solo pochi anni fa non si riusciva nemmeno a concepire, che ha spiazzato anche le nuove generazioni, che ha provocato deviazioni e derive impreviste, e che nemmeno si sa dove ci stia portando. Noi ci domandiamo, sul serio, cos’hanno nella testa gli autori, o i programmisti, o i funzionari, o i boiardi della tv di Stato che ancora concepiscono queste bravate. Quanti anni ha questa gente, che formazione può aver avuto, quale quoziente intellettivo, quale esperienza del sociale e del mondo può vantare. Vorremmo davvero saperlo.
Paolo Ferrucci
*In copertina: Corrado Augias (la fotografia è tratta da qui)
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caramellodiary · 4 years
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24th of February 2020
Caro Diario, 
ho riaperto questa pagina dopo più di un anno, sembra strano ma è arrivato il momento di chiarire alcune questione scritte nere su bianco. Nell’arco di quest’anno e mezzo sono successe tantissime cose, belle o brutte che siano...
Inizio col dirti che dopo tanti sacrifici alla fine sono riuscita ad entrare alla facoltà di Medicina e Chirurgia qua in Italia. Chi l’avrebbe mai detto? Dopo essere andata due volte in Spagna e una in Bulgaria, dopo aver passato due estati sui libri con 40 gradi fuori, sono arrivata al mio obiettivo, e c’è ancora molta strada da fare. Forse in tutto questo percorso lungo e tortuoso l’arma vincete è stata il non aver perso mai la speranza, per non dimenticarci della forza di volontà.
Durante quest’anno e mezzo ho conosciuto molte persone e perso molte altre. Sai come si dice dalle mie parti? La vita è fatta di cicli e ricicli, gente che va e gente che viene. Ma ad ogni ciclo, aggiungiamo un pezzo di conoscenza al nostro bagaglio. E’ come un puzzle infinito, che non smette mai di espandersi, e far sì che ogni esperienza, positiva o negativa, sia stata un’esperienza degna di essere vissuta. Penso che dovremmo iniziare a preoccuparci nel momento in cui realizziamo che ciò che stiamo vivendo sia fine a se stesso, con la consapevolezza che non ci lascerà nessun tipo di segno. In parole povere, dovremmo iniziare a preoccuparci nel momento in cui realizziamo di sentirci “vuoti”. 
Ciò significherebbe non attribuire più un senso a tutto quello che ci circonda, e uno degli effetti quasi immediati è sicuramente lasciarsi trasportare dalla casualità degli eventi: non si è più padroni delle proprie scelte, della propria vita. Perchè è vero che la vita è fatta di scelte, e ogni scelta è frutto di un percorso interiore, basato sulle esperienze vissute. Risiede proprio in questo l’importanza nell’attribuire un significato a ciò che viviamo. Se ne deduce, quindi, che chi non è capace di eseguire questo processo mentale (chi si sente “vuoto”), non è neanche capace di prendere decisioni, e questo modo di fare segnerà in maniera negativa l’intero percorso di queste persone.
Ma la vera domanda è: come si riesce a passare da questa inettitudine esistenziale al vivere consapevolmente? La parola chiave è: prospettiva. Non so chi sia l’inventore di questo parola, ma chiunque sia lo devo ringraziare e ora spiego anche il motivo. Prendiamoci tutti un minuto di pausa, sia che stiamo studiando, che stiamo lavorando, che stiamo ascoltando musica, che stiamo passeggiando, che stiamo trascorrendo la serata con perone che non ci sono tanto simpatiche, che stiamo in disco ma a noi non piace ballare...insomma, in qualsivoglia circostanza noi ci trovassimo, dissociamoci da ciò che stiamo facendo e riflettiamoci su. Spazio e Tempo sono due concetti relativi, e lo sono anche gli eventi che sono legati a queste due dimensioni. Ora non voglio scocciare nessuno con discorsi circa la metafisica, per questo vorrei parlare di come tutto questo si traduce nella vita di tutti i giorni.
Immaginate di star passeggiando da soli per il lungomare, a qualsiasi ora del giorno. Ora potrebbe sembrare triste, a primo impatto, farsi una passeggiata da soli, perchè i propri amici erano impegnati o magari gli amici non ci sono proprio, e osservare per la strada altre persone che sono uscite insieme, gruppi di amici, coppie, marito e moglie, ex compagni di classe, colleghi di lavoro e chi più ne ha più ne metta. E’ giusto e umano pensarla così in un primo momento. Colui che riesce a discostarsi da questo pensiero è chi ad un certo punto deciderà di togliersi i paraocchi e improvvisamente si accorge che al proprio lato c’è una vista spettacolare, al di là di così tanta moltitudine. Perchè allora non sedersi su una panchina lì davanti e prendersi un momento per osservare così tanta bellezza? D’altronde la solitudine ha i suoi lati positivi: ci permette di riflettere su noi stessi, sul nostro futuro, e capire se la nostra vita procede nel modo in cui desideravamo. Tutto questo risulterà più piacevole se fatto seduti davanti la vista di un mare il cui limite si confonde con quello del cielo. E che dire delle onde? Talvolta così pacate che sembra vadano a tempo con i nostri pensieri più sereni, talvolta così violente che rigettano e spazzano via i pensieri più turbolenti. E’ così probabilmente che il mare ci permette di mettere ordine nella nostra testa, ma questo è possibile solo quando siamo da soli e l’unica persona con cui dobbiamo fare i conti è noi stessi.
La “logica della rimozione dei paraocchi” può essere applicata a qualsiasi contesto, e non costa nulla. La nostra mente ci ha donato la capacità di osservare tutto ciò che ci circonda da più punti di vista, questa capacità si chiama prospettiva ed è gratuita. E’ proprio questa capacità che ci dà la forza per andare avanti in maniera ottimale, quella stessa forza tipica delle persone che affrontano situazioni difficili da gestire, come una malattia mortale, la perdita di una persona amata, la separazione dei genitori, l’insuccesso di un esame...apprezzo tantissimo queste persone, che non le proprie forze hanno fatto della sofferenza una rielaborazione produttiva per la loro vita.
Non dobbiamo aver paura del momento di debolezza, anche se un’esperienza vissuta può apparirci sconfortante, umiliante, che potenzialmente potrebbe determinare la perdita di fiducia in noi stessi o scaturire in noi un senso di solitudine, c’è positività anche nel toccare il fondo. Basta stendercisi sopra, testare con le proprie mani che più di così non si può scendere, e osservare dal basso che l’unica azione possibile è risalire. Come unica opzione possibile, quella di risalire appare ai miei occhi forse la scelta migliore in assoluto. Ed è vero che risalire non è facile, comporta dolore fisico e psicologico, ma alla fine, in un modo o nell’altro, forse senza neanche accorgercene, saremo arrivati all’apice del burrone. E un giorno, magari con un lieve sorriso sulle labbra, ci volteremo indietro a salutare in lontananza ciò che abbiamo lasciato e, senza rancore o rimpianto, continueremo ad andare avanti. 
Ringraziamo noi stessi per tutto quello che abbiamo affrontato e per come ne siamo usciti vittoriosi, nel nostro piccolo siamo tutti piccoli supereroi e il nostro superpotere si chiama “prospettiva”. Vorrei concludere questa pagina con la famosa citazione di Albus Silente: “La felicità  la si può trovare anche negli attimi più tenebrosi, se solo uno si ricorda di accendere la luce.” 
A tutti coloro che stanno vivendo un momento difficile e non sanno come affrontarlo, vorrei dire di girarsi intorno, a 360 gradi, di assumere diverse angolazioni se necessario, che c’è sempre un aspetto che ancora non avete esplorato e la forza motrice che vi permette di andare avanti risiede proprio in quest’ultimo. Sfruttate il vostro potere e abbiate fede.
Alla prossima, caro Diario.
La tua Caramello.
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princessofmistake · 5 months
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Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura. Non che io abbia paura: la somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in continuazione. Altre volte è come un'ubriacatura leggera, o come quando si batte la testa e ci si sente rintronati. Tra me e il mondo c'è una sorta di coltre invisibile. Fatico a capire il senso di quello che mi dicono gli altri. O forse, fatico a trovare la voglia di capire. È così poco interessante. Però voglio avere gente intorno. Ho il terrore dei momenti in cui la casa è vuota. Ma vorrei che parlassero fra loro e non a me.
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princessofmistake · 5 months
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E il dolore assomiglia sempre alla paura. Forse, più esattamente, alla tensione. O all’attesa: andare su e giù in attesa che succeda qualcosa. Dà alla vita una sensazione di perenne provvisorietà. A che scopo cominciare qualcosa? Non ne vale la pena. Mi è impossibile star fermo. Sbadiglio, cincischio, fumo troppo. Prima avevo sempre troppo poco tempo. Adesso non c’è altro che tempo. Tempo quasi allo stato puro, vuota sequenzialità. Una carne sola. O, se si preferisce, una nave. Il motore di dritta è andato. Io, il motore di sinistra, devo tirare avanti in qualche modo fino al porto. O meglio, fino alla fine del viaggio. Come posso essere sicuro che esista un porto? È molto più probabile una costa sottovento, una notte nera, una burrasca assordante, frangenti di prua – e se da terra brillano luci, saranno certo lanterne agitate da chi mi vuole fare naufragare sugli scogli.
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pangeanews · 5 years
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“La poesia è l’intera storia del cuore umano su una capocchia di spillo”: da Leonardo Da Vinci a William Faulkner, passando per Wislawa Szymborska, Umberto Saba, Charles Bukowski, Joyce Lussu, cronaca dei tentativi – lirici & maldestri – di spiegarci cos’è davvero la poesia
Che cos’è davvero la poesia?
Leonardo Da Vinci ebbe a dire: “La pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca”. E come ciechi sembrano davvero brancolare nel buio tutti i più grandi poeti davanti a questa domanda, a dimostrazione che la poesia può tutto, tranne spiegare sé stessa.
Wislawa Szymborska, forse la più grande icona poetica mondiale contemporanea, non si avventurò a definire la poesia nemmeno in occasione del discorso per il Premio Nobel. In quel 7 dicembre 1996, giorno in cui la piccola poetessa polacca balzò dal suo modesto bilocale di Cracovia alle cronache del mondo intero, si limitò a dire che qualunque cosa fosse l’ispirazione nasceva da un grande “non lo so”. E quando negli anni Cinquanta curava una piccola rubrica letteraria su una rivista locale, alla precisa domanda di un lettore la poetessa preferì citare il collega americano Premio Pulitzer Carl Sandburg: “La poesia è un diario scritto da un animale marino che vive sulla terra e vorrebbe volare”.
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Altra rara e preziosa conferenza venne registrata nel 1967 ad Harward, quando per ben sei lezioni fu invitato il grande Jorge Luis Borges a dirimere la questione. Ovviamente senza mai arrivare a una conclusione univoca, e rifacendosi come tutti in larga parte a citazioni altrui: “Il sapore della mela non sta nel frutto né nella bocca che lo assapora: serve l’incontro e il contatto tra i due perché la magia avvenga, così è la poesia”, disse citando prima il vescovo George Berkeley per poi ricorrere alle parole di Robert Louis Stevenson, celebre autore dell’Isola del Tesoro, per il quale “le parole nascono per un uso normale, quotidiano, ma il poeta le trasforma in elementi magici capaci,” disse citando a sua volta Coleridge “di creare un’alchimia tra chi legge e chi scrive: una volontaria sospensione dell’incredulità”.
Tutto un intreccio di metafore, insomma, perifrasi e allegorie perché, ammette Borges, in fondo noi “sappiamo cos’è la poesia e per questo non sappiamo definirla con altre parole, come non possiamo definire il gusto del caffè o il colore giallo, il significato dell’amore o dell’odio”. E per analogia cita in conclusione Sant’Agostino: “cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”. L’unica vera concessione che Borges fa riguarda sé stesso “per quanto riguarda me, mi reputo uno scrittore. Cosa significa essere uno scrittore? Semplicemente essere fedele alla mia immaginazione”.
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Tema, questo della fedeltà a sé e ai lettori, molto caro anche a Umberto Saba, il quale scrisse nel 1911 per “La voce” un articolo che però la rivista rifiutò, poi ritrovato tra le carte del poeta e pubblicato solo nel 1959: “Quello che resta da fare ai poeti”, afferma secco e perentorio nel testo, “è fare la poesia onesta”. Quella grande onestà e trasparenza che non mancò mai ad Alda Merini, poetessa nostrana per eccellenza: “il poeta è sempre lontano dall’impossibile” disse, ma soprattutto visse, scrivendo ancora “la casa della poesia non avrà mai porte”.
Altrettanto sfuggente fu Giorgio Caproni, in una altrettanto rara apparizione pubblica avvenuta il 16 febbraio 1982 al Teatro Flaminio di Roma. “Il poeta è un minatore” disse per poi rifugiarsi anch’egli in una citazione: “è poeta colui che riesce a calarsi a fondo in quelle che il grande Machado definiva «le segrete gallerie dell’anima»”. Riferendosi al paradosso per cui tanto più il poeta si immerge in profondità nel proprio io, tanto più si allontana da ogni autoreferenzialità, perché è in quella profondità vera che si cela l’universale. Ma meglio che con le parole, come spesso accade, anche Caproni se la cavò in poesia:
Buttate pure via ogni opera in versi o in prosa. Nessuno è mai riuscito a dire cos’è, nella sua essenza, una rosa.
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In generale, più i poeti sono grandi, e più tendono a descrivere l’immensità della poesia come qualcosa di molto piccino e fragile. “La poesia è l’intera storia del cuore umano su una capocchia di spillo”, diceva Faulkner. Così pure Charles Bukowski, che oltre a essere scrittore irriverente e scandaloso fu poeta dolce e sorprendente, riferendosi alla sua scrittura diede forse una delle definizione più belle: “La poesia dice troppo in pochissimo tempo, la prosa dice poco e ci mette un bel po’. In ogni caso io godo nel minacciare il sole con una pistola ad acqua”.
Definizione che ricorda la bella e fragile sfrontatezza dell’amico Franco Arminio: “La poesia è una lucciola alle due del pomeriggio, è un mucchietto di neve in un mondo col sale in mano”. Non meno ironico e profetico seppe essere il grande Pier Paolo Pasolini quando sentenziò: “il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno”.
Altro aneddoto gustoso ci arriva da Valerio Magrelli nel suo audio libro Cos’è la poesia?, scritto in forma di abbecedario poetico, che in conclusione cita Roman Jackobson: “In Africa, un missionario rimprovera i fedeli della tribù che si ostinano a girare completamente nudi. E tu? Ribattè uno di loro indicando il viso del missionario. Non sei anche tu nudo in qualche parte? Certo, replicò lui, ma questo è il volto! Al che gli indigeni risposero: ma in noi dappertutto è volto”. Così è la poesia, dove ogni elemento ha la stessa importanza di tutto l’insieme.
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Persino i rivoltosi, i poeti rivoluzionari, gli antipoeti, finiscono per accomunarsi con i poeti mainstream nell’impossibilità di definire la poesia fosse pure per darle contro. È il caso del cileno Nicanor Parra, considerato un genio da intellettuali come Harold Bloom e Roberto Bolaño, nel ’54 pubblicò un libro fondamentale per tutta la letteratura ispano americana dove teorizzava il concetto di “Antipoesia”, termine da lui coniato in polemica con i Pablo Neruda e altri poeti dell’epoca, nella quale respinge ogni registro alto e situa la poesia nel quotidiano, inserendovi il lessico dei mass-media, facendo uso dell’ironia e della parodia, e accompagnando spesso le sue liriche con disegni e opere grafiche: “La poesia muore se non la si offende: bisogna possederla e umiliarla in pubblico, poi si vedrà cosa diventa” scrisse inserendo i versi tra due cosce di donna oscenamente aperte. Impegnato politicamente contro ogni regime, tra i suoi versi più dolenti sul ruolo dei poeti certamente ci sono quelli contro ogni repressione: “La tortura non dev’essere sanguinaria: a un intellettuale, per esempio, basta nascondere gli occhiali”.
Accanto a lui viene in mente il grande poeta rivoluzionario americano Amiri Baraka, attivista e icona della rivolta afroamericana. Per lui fare poesia significa assumere su di sé il dolore del mondo per poi trasformarlo: “È quello che Keats e Bu Bois chiedevano ai poeti di fare: portare Verità e Bellezza. Illuminare la mente umana, dare luce al mondo. Poetate!” esortava invitando alla pratica poetica come a una vera battaglia.
Concetto quanto mai attuale che sarebbe piaciuto tanto a un’autentica rosa rossa della poesia, con la quale concludiamo il nostro viaggio: Joyce Lussu, compagna dell’antifascista Emilio Lussu, ma soprattutto poetessa riscoperta troppo tardi grazie al lavoro di una giovanissima Silvia Ballestra che a metà anni ’90 per Baldini & Castoldi raccolse diciannove conversazioni incise su nastro. Joyce Lussu rompe una convenzione non da poco: parlare male degli altri poeti, senza peli sulla lingua. “I poeti andrebbero divisi in due categorie: quelli che hanno dato tanta noia al fascismo da essere schedati e combattuti come pericolosi sovversivi, Nazim Hikmet, Garcia Lorca, Agostinho Neto, Guillen, Ho Chi-Min,Marcellino Dos Santos, e quelli che al fascismo non hanno dato nessuna noia o addirittura ne sono stati accarezzati come Saba, Montale, Quasimodo o Ungaretti, del quale andrebbero prima rilette le poesie e poi il viscido discorso che fece quando fu accolto nell’accademia fascista”.
“I veri poeti”, conclude Joyce Lussu, “sono quelli che ci rendono un po’ più intelligenti, non soltanto per osservare la realtà, ma per parteciparvi attivamente. Un vero poeta non canta la rivoluzione: fa la rivoluzione cantando. E per rivoluzione intendo anche i piccoli gesti quotidiani. La vera poesia è forza liberatrice”.
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E non ultimo, anche per chi vi scrive in queste colonne, piccolo tra i grandi, la poesia resta un mistero. Mi piace però pensare che sia nata la prima volta che un essere vivente si è inchinato a raccogliere una conchiglia non perché servisse a tagliare, cacciare o coltivare, ma solo perché bella. Facendo della poesia un bisogno necessario proprio perché in grado di elevarci oltre lo stretto indispensabile. Insomma la poesia è nata “la notte in cui l’uomo ha iniziato a contemplare la luna, consapevole del fatto che non era commestibile”, come dice il poeta rumeno Valeriu Butulescu, o se preferite, dato che alle citazioni altrui non si scampa: “dunque un poeta è veramente un ladro di fuoco”, come disse Arthur Rimbaud, forse il più grande, che a soli vent’anni aveva già detto tutto e tutto piantò per avventurarsi in un lungo viaggio senza ritorno nel cuore dell’Africa e dell’umanità, dove al posto delle parole si mise a commerciare in armi. Tragica metafora.
Luca Gaviani
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