Tumgik
#intellettuali europei del '900
gregor-samsung · 1 year
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“ Agli occhi del marxista la lotta di classe non è in nessun modo il combattimento tra il Bene e il Male: è un conflitto di interessi tra gruppi umani. Ciò che induce il rivoluzionario ad adottare il punto di vista del proletariato è anzitutto il fatto che questa classe è la sua, poi il fatto che è la classe oppressa, che è la classe di gran lunga più numerosa e la sua sorte, per conseguenza, tende a confondersi con quella dell'umanità, infine che le conseguenze della sua vittoria necessariamente comporteranno la soppressione delle classi. Lo scopo del rivoluzionario è quello di cambiare l'organizzazione della società. E per ottenerlo occorre senza dubbio distruggere il vecchio regime, ma questo non basterebbe: prima di tutto conviene costruire un ordine nuovo. Se per assurdo la classe privilegiata volesse concorrere alla costruzione socialista e si avessero prove manifeste della sua buona fede, non ci sarebbe alcuna ragione valida per respingerla. E se è assai improbabile che essa offra di buon grado il suo concorso ai socialisti, è perché la sua stessa situazione di classe privilegiata glielo impedisce, non certo per chissà quale demone interiore che la spingerebbe suo malgrado ad agire male. In tutti i casi, delle frazioni di questa classe, se se ne staccano, possono sempre essere aggregate alla classe oppressa e queste frazioni saranno giudicate dai loro atti, non dalla loro essenza. «Me ne infischio della vostra essenza eterna», mi diceva un giorno Politzer. Per il manicheista antisemita invece l'accento è posto sulla distruzione. Non si tratta di un conflitto di interessi, ma dei danni che una potenza malvagia causa alla società. Di conseguenza, il Bene consiste innanzitutto nel distruggere il Male. Sotto l'acredine dell'antisemita si nasconde l'ottimistica convinzione che l'armonia, una volta soppresso il Male, si ristabilirà da sola. Il suo compito è dunque esclusivamente negativo. Non si tratta di costruire una società, ma solamente di purificare quella che esiste. Per ottenere questo scopo, il concorso degli ebrei di buona volontà sarebbe inutile ed anzi nefasto e d'altra parte un ebreo non potrebbe essere di buona volontà. Cavaliere del Bene, l'antisemita è sacro, l'ebreo è pure lui sacro a suo modo: sacro come gli intoccabili, come gli indigeni colpiti da un tabù. Così la lotta viene condotta su un piano religioso e la fine del combattimento non può essere altro che una distruzione sacra. I vantaggi di questa posizione sono molteplici: per prima cosa, essa favorisce la pigrizia dello spirito. Abbiamo visto che l'antisemita non capisce niente della società moderna, sarebbe incapace di concepire un piano costruttivo; la sua azione non può collocarsi al livello della tecnica, ma si mantiene sul terreno della passione. Ad una impresa di largo respiro egli preferisce un'esplosione di rabbia analoga all'amok dei malesi. La sua attività intellettuale si rifugia nell'interpretazione: cerca negli avvenimenti storici il segno della presenza d'una potenza malvagia. Da ciò quelle invenzioni puerili e complicate che lo rendono simile ai grandi paranoici. Ma d'altra parte l'antisemitismo convoglia le spinte rivoluzionarie verso la distruzione di determinati uomini, non delle istituzioni; una folla antisemita crederà d'aver fatto abbastanza quando avrà massacrato alcuni ebrei e bruciato qualche sinagoga. Rappresenta dunque una valvola di sicurezza per le classi possidenti che incoraggiandolo sostituiscono ad un odio pericoloso contro il regime un odio benigno contro dei privati. “
Jean-Paul Sartre, L'antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, introduzione di Filippo Gentili, traduzione di Ignazio Weiss, Mondadori (collana Oscar / Saggi), 1990. [Libro elettronico]
[ 1ª Edizione originale: Reflexions sur la question juive, Gallimard, novembre 1946 ]
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Siamo nel 413 A.C. A Micalesso sta sorgendo il sole, e i bambini – cosa strana nell’antichita’, ma non troppo – se ne stanno andando a scuola. Gli abitanti della citta’ non sanno bene cosa stia per succedere, e non sospettano che un’armata di traci si stia dirigendo verso la citta’ con l’intenzione di sterminare tutti gli abitanti.
Certi dell’impunita’, i traci uccidono tutto quel che trovano insieme alle persone trucidano anche gli animali, in modo che i ragli disperati dei poveri asini si mescolano alle grida dei bambini. Entrano nella scuola di Micalesso e (stando a Tucidide) uccidono un paio di migliaia di ragazzi.
Ora, si direbbe di avere a che fare con qualcosa di simile alla strage di Marzabotto, o di Sant’Anna, ma se andate a Ritzóna , cittadina greca che oggi sorge dove c’era Micalesso, non vedrete nessuna commemorazione.
Se io chiedessi come mai a si facciano commemorazioni sulle Foibe e non per Micalesso, pur trattandosi di eventi molto simili (anche politicamente) , la vostra risposta diventerebbe molto chiara: non si fanno commemorazioni col sindaco e le corone di fiori per la strage di Micalesso perche’ e’ una cosa troppo antica. E’ storia.
E’ interessante ,sapere a questo punto, quando inizi la storia. Voglio dire: quando sara’ di preciso che si smettera’ di commemorare le Foibe? Tra quanto tempo il “genocidio armeno” sara’ “storia”? 2100? 2200?
Attenzione: non sto parlando di “dimenticare”. Gli storici ricordano il massacro di Micalesso: non lo sto raccontando perche’ lo ricordo io. Saro’ vecchio, ma non cosi’ tanto.
Sto parlando di quella linea oltre alla quale le cose le ricordi, ma non le commemori e non le consideri piu’ come una parte della tua memoria civica
Lo chiedo per una ragione: siamo sull’orlo della storia. Dopo il 1945, non abbiamo piu’ avuto una vera e propria storia, nel senso che abbiamo avuto solo le notizie. E’ vero che e’ successo un genocidio in Rwanda, ma non era un evento storico: per noi era una notizia. E’ caduto il muro di Berlino, ma per noi non era un evento storico: era una notizia.
C’erano poi i fatti che consideravamo parte di una storia da commemorare, come la seconda guerra mondiale e i grandi genocidi europei. Ma se prendiamo per esempio la prima guerra mondiale, notiamo che non tendiamo a commemorarla cosi’ tanto – neanche a livello politico – la vera domanda e’: per quanto tempo ancora commemoreremo la seconda guerra mondiale?
Ma oggi tutto sta sfumando nella storia: man mano che passa il tempo, la prima guerra mondiale ha gia’ festeggiato il centenario del suo inizio (1914-2014), e entro una ventina di anni, anche la seconda guerra mondiale entrera’ nel suo centenario. Questo significa che la ricorderemo come ricordiamo la prima guerra mondiale.
Siamo sull’orlo della storia.
Solo gli storici credono negli “eventi storici”, per il mondo reale si tratta semplicemente della continuita’ di eventi.
Allora, se l’identita’ del 900 e’ fatta di una serie di eventi (seconda guerra mondiale, campi di sterminio, guerra fredda), cosa conterra’ l’identita’ del 2000? Se negli USA il “reduce” e’ uno che ha fatto la guerra in Iraq , e non del vietnam, cosa rimane , sul piano culturale, della guerra in Vietnam?
Un tempo, bastava nominare il Vietnam per gelare il sangue nelle vene agli americani. Cosi’ come bastava nominare Caporetto, che e’ diventata sinonimo di sconfitta. Ma oggi Caporetto e’ una parola, e moltissimi non sanno bene cosa sia successo.
Il novecento e’ stato un secolo estremamente identitario per l’ Europa. Gran parte dei valori che la societa’ applica si sono formati dalla riflessione su questo secolo. E ovviamente, sulla memoria di quegli avvenimenti.
Prendiamo un esempio: i valori della costituzione. La costituzione italiana contiene numerosi punti che sono usciti dall’esperienza del 900 Per esempio, l’ art.15 dice che sia vietato spiare le comunicazioni altrui, cioe’ dice che sono segrete.
Questo e’ un valore che sino a pochi anni fa era considerato un dogma delle liberta’ personali .Oggi la questione viene derubricata a “Privacy”, una specie di vezzo borghese, che essendo una parola inglese indica una specie di contenitore vuoto, come capita ad “escort” che e’ meno offensivo.
Il motivo per il quale il problema del diritto alla segretezza della corrispondenza sia stato derubricato e’ molto semplice: il problema dei regimi totalitari del 900 sta scivolando oltre l’orlo della storia. Se un tempo delle intercettazioni illegali avrebbero scatenato un inferno oggi tanti raffinati intellettuali discettano durante il brunch, se il diritto alla Privacy sia una moda recente o meno. Il motivo?
Il motivo e’ che le grandi dittature occidentali sono scivolate oltre l’orlo della storia, e quindi nessuno percepisce piu’ alcun senso di repulsione viscerale verso le pratiche di questi regimi. Gulag? Ma vediamoci per l’aperitivo.
Quando qualcosa scivola oltre l’orlo della storia, e diventa storia, prenderlo sul serio diventa sempre meno facile.
Quasi tutto e’ stato rinnegato: il laicismo ha ormai prevalso, la repubblica democratica regna quasi ovunque, la repulsione verso le vecchie ideologie (nazismo e comunismo) e’ quasi onnipresente, i diritti umani sono parte del sentire comune. Eppure, tutto cio’ nasce nel 1945.
Che cosa succedera’ quando il 1945 scivolera’ oltre l’orlo della storia, per diventare antichita’?
Siete pronti per la storia?
Non e’ una domanda retorica.
Stiamo per perdere i binari , il percorso obbligato, che la IIWW ci ha dato. Non appena la IIWW varchera’ la linea sottile che separa la storia dall’antichita’ nella coscienza collettiva, cio’ che consideriamo assoluto svanira’ dalla politica, e cio’ che consideriamo “memoria” diventera’ “accademia”.
Molti si sentiranno nudi. Molti si sentiranno vecchi. Molti si sentiranno confusi.
E voi?
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jamariyanews · 7 years
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Le menzogne occidentali sul terrorismo islamico
12 febbraio 2017
Qui un articolo ben documentato e molto chiaro in merito all’andamento delle vicende che riguardano il cosiddetto Stato islamico negli ultimi tempi. Purtroppo sono un disordinato e non mi riesce facile trovare quanto vado scrivendo (a volte non so bene nemmeno dove ho cacciato lunghi articoli di carattere teorico, figuriamoci gli altri).
Tuttavia, ricordo di avere più volte scritto, pur non facendo previsioni a breve periodo, che alla fine anche l’Isis sarebbe entrato in quella fase “di stanca” e progressivo esaurimento che ha già colto Al Qaeda, malgrado ogni tanto ancora si torni a parlare di qualche non vivida fiammata di tale organizzazione, cui – ricordiamocelo – viene ancora attribuito l’abbattimento delle due Torri gemelle l’11 settembre del 2001; e il cui presunto capo (Bin Laden), dopo anni di “residenza coatta” a pochi Km. da Islamabad (di fatto prigioniero dei pakistani, ma certamente senza avere troppi fastidi né pressioni di consegna da parte americana), sarebbe stato ucciso dai Navy Seals perché stava per opporre resistenza alla cattura e prendere in mano un mitra.
Si ricordi la ben nota sceneggiata di Hillary Clinton e altri maggiorenti politici e militari che avrebbero assistito via TV alla cattura ed effettivo assassinio del presunto capo di Al Qaeda, di cui si era scoperto infine il “covo” (in realtà era prigioniero dei pakistani e dunque anche degli americani, che lo tenevano in serbo per le varie evenienze elettorali del presidente Obama).
Hillary lanciò il ben recitato “wow”, quando gli “alti” spettatori finsero di vedere la soluzione finale. In realtà, sono convinto che, quando si ritenne opportuno chiudere la parentesi di Al Qaeda per inneggiare all’ottimo comportamento delle forze di sicurezza americane (in modo che il popolo potesse sentirsi più tranquillo e grato ai “delicati” personaggi che lo governano e prendono in giro), Bin Laden venne prelevato, accoppato e se ne fece sparire il corpo “a scanso di equivoci”. Del resto, siamo abituati allo specifico genere di criminalità in uso negli Stati Uniti, dove politica e gangsterismo hanno ormai una lunga vita “coniugale” (senza quei facili “divorzi” che coinvolgono attori e cantanti).
Perché ho rifatto questa più lontana “istoria”? Per il semplice fatto che è ora di finirla con tutte queste menzogne sul terrorismo islamico. Non vi è dubbio che – data la situazione venutasi a creare con tutto il caos provocato nel mondo islamico dopo l’attacco degli Usa all’Afghanistan, seguito da molti altri disordini voluti dagli Usa (anche, non scordiamocelo, ai confini della Russia, in Cecenia e nelle Repubbliche centroasiatiche in particolare), che hanno poi trovato speciale accelerazione nel 2011 con l’infame “primavera araba”, approvata pure dai farabutti della presunta “sinistra radicale” europea e italiana (quanto deve essere riscritta la storia degli ultimi anni!) – vi è stata senza dubbio la “fiammata” islamica, che ha conquistato perfino alcune migliaia di “spostati” in paesi europei (ma si tratta di una netta minoranza dei “combattenti”).
Resta il fatto che i capi di tale “fiammata” sanno bene quali rapporti intrattengono con i dirigenti Usa e di una serie di paesi arabi (a questi ultimi strettamente legati), da cui sono stati ampiamente alimentati e foraggiati per una serie di finalità non ancora del tutto note.
Nel gioco sono probabilmente entrate anche le rivalità tra le due subpotenze turca e iraniana. Si sono comunque verificate molte manovre, dal nord Africa e verso il Medioriente, che si sono concentrate pure sul tentativo di buttare giù Assad in Siria e sulla fortissima tensione creata in Irak, ecc. Gli esaltati dalla religione islamica si entusiasmano e vanno in giro a fare i suicidi; ma i loro capi sanno bene di che si tratta, prendono accordi con chi di dovere e si destreggiano in mezzo ai giochi in questione.
E gli intellettuali e giornalisti, ecc., difensori della “nostra civiltà”, fanno da cassa di risonanza (alcuni, pochi, in buona fede, altri perché sono dei tirapiedi degli Usa e genia “di contorno”), stonandoci la testa e raccontandoci che, al massimo a metà secolo, saremo tutti in mano all’Islam. Bene, io faccio una previsione diversa e poi i più giovani diranno chi ha avuto ragione. Nel giro di un ventennio (mi prendo largo) passeremo dal multipolarismo in tendenziale crescita (un assetto mondiale in cui ancora una potenza è superiore alle altre; un po’ come tra guerra civile americana e primo decennio del ‘900) al policentrismo conflittuale acuto del tipo di quello caratterizzato dalle due guerre mondiali del ‘900.
Come sarà in questa fase storica il conflitto per la supremazia mondiale, quali altre fasi di “assestamento” vi saranno, ecc., non lo so prevedere. Dico solo che non è il “destino islamico” quello che ci aspetta, ma qualcosa di ben diverso e che altre volte si è visto nella storia di questo nostro mondo. Tutto sarà assai diverso nelle forme, ma la sostanza del conflitto per la supremazia sarà invece abbastanza simile.
Una delle solite code. Nessuno ha ancora riflettuto abbastanza sul fatto che, nel periodo più acceso del “terrorismo islamico”, l’Italia è stata risparmiata da eventi drammatici come quelli verificatisi in Francia, Germania, ecc.; malgrado abbia accoppato uno dei loro (a Sesto San Giovanni) e malgrado i nostri “esimi” Servizi abbiano messo in allarme più volte le “istituzioni” (e la popolazione).
Chissà perché, questo mi ricorda quando ci furono (anni ’70 e dintorni) contatti di importanti politici italiani (governanti e “oppositori”) con Arafat e il “terrorismo” palestinese; fatto che ci preservò tutto sommato da pericoli estremi (si racconta di contatti tra BR e palestinesi; secondo me, altra balla propagandata dagli americani e governanti italiani per nascondere le loro manovre con alcuni membri di questo spezzone del “rivoluzionarismo” italiano, dimostratosi molto utile, ad es., nel “caso Moro”, e non solo), salvo irritare gli israeliani che ci misero sull’avviso di non esagerare con l’abbattimento dell’Argo nel novembre ’73.
Beh, per il momento terminiamo qui. Però avremo ancora modo di “divertirci” con tutti i casini che gli Stati Uniti continueranno a provocare in giro per il mondo al fine di ritardare la crescita di altre potenze “fastidiose”; fino a quando il multipolarismo non si muterà nel ben temuto policentrismo.
(di Gianfranco la Grassa – Conflitti e Strategie)
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gregor-samsung · 2 years
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“ Atrocità peggiori non si vedevano da quando nei paesi tedeschi si era cessato di giudicare secondo le norme processuali del Malleus maleficarum e la procedura delle corti criminali medievali. Ma il ringraziamento dell'onesto studioso dei costumi, ai cui occhi la verità conta più della sensibilità, spetta di diritto al coraggioso senato di Leoben, che ha compreso la profonda nostalgia dell'anima popolare per quelle venerande istituzioni e di sua iniziativa s'è costituito in tribunale dei malefizi. L'accusa suonava «per bigamia», dato che non si poteva parlare di processo per stregoneria senza offendere la coscienza civile di quei cultori progressisti del diritto che considerano sacro il codice penale del 1803. Ma a Leoben, alla fine del 1904, è stato calato uno scandaglio nel più profondo pozzo della sensibilità popolare austriaca e questo, guarda un po', è andato a toccare un bisogno di esorcismi. Leontine von Hervay era arrivata in volo a Mürzzuschlag a cavalcioni di una scopa, lasciando intravvedere la sua sottoveste di seta. Subito una presaga anima di fustagno ha esclamato: «T'ho capita, te!». A che le è servito aver reso felice il capitano distrettuale? La figlia di un mago, e per di più poliglotta! E quindi gravemente sospetta di «intesa col demonio». A questo s'è ammalato magari il bestiame, all'altro forse s'è guastato il grano. Il paese intero è in subbuglio. Al capitano distrettuale ha propinato un filtro d'amore, altri notabili seguiranno presto, le più ambite ragazze di Mürzzuschlag si vedono trascurate. Si dovrà lasciarla arrivare al punto di «impedire agli uomini di generare e alle donne di partorire, e agli uomini di rendere alle loro donne, e alle donne ai loro uomini il debito del matrimonio»? «Una strega è una persona» — questa la definizione di un famoso maestro del Malleus Maleficarum — «la quale, di proposito e deliberatamente facendo uso di arti diaboliche, si studia di portare a compimento il suo disegno, o con le suddette arti di conseguire e far sua alcuna cosa». Solo che «il doveroso proposito di sterminare secondo il diritto imperiale codeste femmine maligne per i loro perversi intendimenti oggi, purtroppo, non può che restare un pio desiderio. Compito del tribunale è fingere per la forma il proprio plauso. “
Karl Kraus, Morale e criminalità, introduzione di Cesare Cases, traduzione, cronologia e bibliografia di Bianca Cetti Marinoni, Rizzoli (collana B.U.R.), 1976¹; pp. 79-80.
NOTA: il volume Sittlichkeit und Kriminalität (1908) raccoglieva vari saggi apparsi tra il 1902 ed il 1907 su Die Fackel, il periodico scritto quasi interamente da Karl Kraus per i 37 anni della sua pubblicazione. Il testo italiano presenta una scelta degli articoli dell'edizione austriaca.
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gregor-samsung · 2 years
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“ Il fatto è che lo scrittore non deve esibire se stesso, anche se da sé trae ciò che scrive. Trarre qualcosa da sé è tutto il contrario dell'esibire sé stesso. E se il trarre da sé con polso sicuro l'immagine fedele da trasparenza alla verità dello scritto, il porre con vuota incoscienza le proprie passioni davanti alla verità l'appanna e l'oscura. La fedeltà, per essere conseguita, esige una totale purificazione dalle passioni, che devono essere messe a tacere per far posto alla verità. La verità ha bisogno di un grande vuoto, di un silenzio in cui poter prendere dimora senza che nessun'altra presenza si mischi alla sua, falsandola. Chi scrive, mentre lo fa, deve far tacere le proprie passioni e, soprattutto, la sua vanità. La vanità è una gonfiatura di qualcosa che non è riuscita a essere e si gonfia per coprire il suo vuoto interiore. Lo scrittore vanitoso dirà tutto ciò che deve essere taciuto per mancanza d'entità, tutto ciò che per non essere davvero non deve essere messo in chiaro, e per dirlo, tacerà ciò che deve essere rivelato, lo passerà sotto silenzio o lo falserà con la sua intromissione vanitosa. La fedeltà crea in chi la rispetta la solidità, l'integrità del suo stesso essere. La fedeltà esclude la vanità, che consiste nell'appoggiarsi su ciò che non è, su ciò che non è verità. Questa verità è quella che ordina le passioni senza sradicarle, le fa servire, le pone al loro posto, nell'unico punto da cui sostengono l'edificio della persona morale che con esse si forma, per opera della fedeltà a quel che è vero. Così, l'essenza dell'uomo scrittore si forma in questa fedeltà con cui egli trascrive il segreto che rende pubblico, quale uno specchio fedele della sua figura, senza permettere alla vanità di proiettare la sua ombra, e di sfigurarla. Se infatti lo scrittore rivela il segreto non è per un atto di volontà, né per l'ambizione di mostrarsi qual è (cioè come non riesce a essere) davanti al pubblico. In realtà esistono segreti che esigono di per se stessi di essere rivelati, resi pubblici. “
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Brano tratto da Perché si scrive, testo raccolto in:
Maria Zambrano, Verso un sapere dell'anima, a cura e con introduzione di Rosella Prezzo, traduzione di Eliana Nobili, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996. (Raccolta di scritti apparsi tra il 1933 e il 1944) [Libro elettronico]
[ Edizione originale: Hacia un saber sobre el alma, Editorial Losada, Buenos Aires, 1950 ]
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gregor-samsung · 16 hours
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" Il riso è una contrazione del volto e nella contrazione l'uomo non ha il dominio di sé, è dominato da qualcosa che non è né la volontà né la ragione. E questo è il motivo per cui lo scultore antico non raffigurava il riso. L'uomo che non ha il dominio di sé (l'uomo al di fuori della ragione, al di fuori della volontà) non può essere considerato bello. Se la nostra epoca, contrariamente allo spirito dei grandi pittori, ha fatto del riso la forma privilegiata del volto umano, significa che l'assenza di volontà e di ragione è diventata lo stato ideale dell'uomo. Si potrebbe obiettare che la contrazione mostrataci dai ritratti fotografici è simulata, e dunque razionale e volontaria: Kennedy che ride davanti all'obiettivo non reagisce a una situazione comica, ma apre la bocca e scopre i denti con grande consapevolezza. Questo, però, dimostra soltanto che gli uomini d'oggi hanno innalzato la contrazione del riso a immagine ideale, dietro la quale hanno deciso di nascondersi. Rubens si dice: il riso è la più democratica di tutte le forme del volto: con i lineamenti immobili ci distinguiamo uno dall'altro, ma nella contrazione siamo tutti uguali. Un busto di Giulio Cesare che sghignazza è inconcepibile. Ma i presidenti americani se ne vanno nell'eternità nascosti dietro la contrazione democratica del riso. "
Milan Kundera, L'immortalità, traduzione di Alessandra Mura, Adelphi (collana gli Adelphi, n° 47), 2023²¹; pp. 343-344.
[Testo originale: Nesmrtelnost, 1988]
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gregor-samsung · 8 months
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"Depuis huit jours, j'avais déchiré mes bottines Aux cailloux des chemins…
Da otto giorni stracciavo le mie scarpe sui sassi delle strade…
scrive Rimbaud. Strada: striscia di terra che si percorre a piedi. Diversa dalla strada è la strada asfaltata, che si distingue non solo perché la si percorre con la macchina, ma in quanto e una semplice linea che unisce un punto a un altro. La strada asfaltata non ha senso in se stessa; hanno senso solo i due punti che essa unisce. La strada è una lode allo spazio. Ogni tratto di strada ha senso in se stesso e ci invita alla sosta. La strada asfaltata è una trionfale svalutazione dello spazio, che per suo merito oggi non è che un semplice ostacolo al movimento dell'uomo e una perdita di tempo. Prima ancora di scomparire dal paesaggio, le strade sono scomparse dall'animo umano l'uomo ha smesso di desiderare di camminare con le proprie gambe e di gioire per questo. Anche la propria vita ormai non la vede più come una strada, bensì come una strada asfaltata: come una linea che conduce da un punto a un altro, dal grado di capitano al grado di generale, dal ruolo di moglie al ruolo di vedova. Il tempo della vita è diventato per lui un semplice ostacolo che è necessario superare a velocità sempre maggiori. La strada e la strada asfaltata sono anche due diversi concetti di bellezza. Quando Paul dice che nel tal posto c'è un bel paesaggio, significa questo: se ti fermi là con la macchina, vedi un bel castello del Quattrocento con accanto un parco; oppure: là c'è un lago, sulla cui fulgida superficie, che si perde in lontananza, nuotano i cigni. Nel mondo delle strade asfaltate un bel paesaggio significa: un'isola di bellezza unita da una linea ad altre isole di bellezza. Nel mondo delle strade la bellezza è continua e sempre mutevole; ad ogni passo ci dice: «Fermati!». "
Milan Kundera, L'immortalità, traduzione di Alessandra Mura, Adelphi (collana gli Adelphi, n° 47), 2023²¹; pp. 242-243.
[Testo originale: Nesmrtelnost, 1988]
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gregor-samsung · 2 years
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“ L'antisemita ha paura di scoprire che il mondo è fatto male: perché allora bisognerebbe inventare, modificare e l'uomo si ritroverebbe padrone dei propri destini, provvisto di una responsabilità angosciosa ed infinita. Perciò localizza nell'ebreo tutto il male dell'universo. Se le nazioni si fanno guerra ciò non deriva dal fatto che l'idea di nazionalità, nella sua forma presente, implica quella dell'imperialismo e del conflitto di interessi. No, è l'ebreo che sta lì, dietro ai governi, e soffia la discordia. Se c'è una lotta di classe, ciò non si deve al fatto che l'organizzazione economica lascia a desiderare: sono i caporioni ebrei, gli agitatori dal naso adunco che traviano gli operai. Così l'antisemitismo è originariamente un manicheismo; spiega il corso del mondo con la lotta del principio del Bene contro il principio del Male. Tra questi due principi non è concepibile nessun accordo: bisogna che uno dei due trionfi e che l'altro sia annientato. Guardate Celine: la sua visione dell'universo è catastrofica; l'ebreo è dovunque, la terra è perduta, l'ariano deve badare a non compromettersi, a non venire mai a patti. Ma stia in guardia: se respira, ha già perso la sua purezza, perché l'aria stessa che penetra nei suoi bronchi è insozzata. Non si direbbe questa la predicazione di un cataro? Se Celine ha potuto sostenere le tesi socialiste dei nazisti, lo ha fatto perché pagato. Nel fondo del suo cuore non ci credeva: per lui non c'è soluzione che nel suicidio collettivo, nella non procreazione, nella morte. Altri, Maurras o il PPF, sono meno scoraggianti, prevedono una lunga lotta, spesso incerta con il trionfo finale del Bene: è Ormuzd contro Ahriman. Il lettore ha compreso che l'antisemita non ricorre al manicheismo come ad un principio secondario di spiegazione. Ma è invece la scelta originale del manicheismo che spiega e condiziona l'antisemitismo. “
Jean-Paul Sartre, L'antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, introduzione di Filippo Gentili, traduzione di Ignazio Weiss, Mondadori (collana Oscar / Saggi), 1990. [Libro elettronico]
[ 1ª Edizione originale: Reflexions sur la question juive, Gallimard, novembre 1946 ]
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gregor-samsung · 2 years
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“ Il borghese crea opere assistenziali, dona ai poveri. Ma è davvero questo dono, indubbiamente importante, una generosità? È davvero la sollecitudine per il povero a provocarlo? No, quest’opera è un calcolo (inconsapevole): bisogna arrestare l’inondazione di miseria, altrimenti essa è capace di far saltare le dighe dell’ordine, bisogna ristabilire le relazioni col povero, giacché non è possibile vivere in una società senza relazioni, e se siamo costretti a sfruttare perché la società progredisca, la cosa ci rattrista non poco. Il povero che rifiutiamo di accogliere e di considerare nell’impresa, poiché egli è là per tutt’altro, lo so bene che è un uomo e che, una volta fatto il suo lavoro, una volta compiuto il suo dovere, mi tocca occuparmene, responsabile come sono di tutta la società. Quest’opera è uno strumento di violenza nei confronti di chi si aiuta, perché egli, a sua volta, diventa debitore. Istituito il nuovo rapporto posso ancora pretendere qualche altra cosetta da lui: il suo cuore. E poi, grazie alla mia carità, forse ho il diritto e insieme il dovere (giacché anche qui si tratta di un mio diritto, sono io a pagarlo! E non mi sogno neppure di sfuggire al mio dovere) ho il diritto di sapere cosa farà il povero dei soldi che gli dò; se do, devo poter verificare che ciò serva a qualcosa (perché infine tutto deve servire). Questi poveri non sanno sfruttare le loro possibilità (d’altronde, se le sapessero sfruttare non sarebbero poveri!). Occorre offrire loro delle possibilità e insieme educarli. Si sa che il povero è, come il negro, un fanciullo. È necessario insegnargli a spendere con raziocinio, a comprare quel che gli serve di più e che è nelle sue possibilità. È necessario insegnargli a fare il suo bilancio e a non scialacquare. È necessario accertarsi che non impiegherà i soldi per bere! Orrore! Ho un dovere da adempiere nei suoi confronti, e io non sfuggo mai ai miei doveri. E neppure gli altri. È necessario condurre per mano questo povero al quale si dà, affinché un giorno, finalmente (e cessando così d’essere povero), sappia condursi da solo. Beninteso, tutti questi discorsi, queste spiegazioni, sono perfettamente sconosciuti al borghese, che resta in buona fede e pieno di buona volontà. “
Jacques Ellul, Metamorfosi del Borghese, traduzione a cura di Eugenio Ripepe, casa editrice Giuffrè (collana Valori politici n° 13), 1972.
[Edizione originale: Métamorphose du bourgeois, Paris, Calmann-Lévy, 1967]
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gregor-samsung · 3 years
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“ Che cosa vuol dire lo scrittore e a quale scopo? Perché e per chi? Vuole dire il segreto, ciò che non si può dire a voce perché troppo vero; le grandi verità non si è soliti dirle parlando. La verità di ciò che accade nel seno nascosto del tempo è il silenzio delle vite, e che non può essere detto. «Ci sono cose che non si possono dire», ed è indubitabile. Ma è proprio ciò che non si può dire che bisogna scrivere. Scoprire il segreto e comunicarlo sono i due stimoli che muovono lo scrittore. Il segreto si rivela allo scrittore mentre lo scrive, non quando lo pronuncia. La parola rivela segreti soltanto nell'estasi, fuori dal tempo, nella poesia. La poesia è segreto parlato, che deve essere scritto per fissarsi, non per essere prodotto. Il poeta esprime con la propria voce la poesia, il poeta ha sempre voce, canta, o piange il suo segreto. Il poeta parla, trattenendo le parole nel dire, misurandole e creandole nel dire della sua voce. Si riscatta da esse senza renderle mute, senza ridurle al solo mondo visibile, senza cancellarle dal suono. Lo scrittore invece incide, fissa immediatamente senza voce. Perché la sua solitudine è diversa da quella del poeta. Allo scrittore nella sua solitudine il segreto si rivela non del tutto, ma in un divenire progressivo. Scopre a poco a poco il segreto nell'aria e sente il bisogno di fissare il suo tracciato per poter poi alla fine abbracciare la totalità della sua figura... Ciò anche quando possieda uno schema antecedente all'ultima realizzazione. Lo schema stesso dice già che c'è stato bisogno di fissarlo progressivamente in una figura, di comporlo linea per linea. “
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Brano tratto da Perché si scrive, testo raccolto in:
Maria Zambrano, Verso un sapere dell'anima, a cura e con introduzione di Rosella Prezzo, traduzione di Eliana Nobili, Raffaello Cortina, Milano 1996. (Raccolta di scritti apparsi tra il 1933 e il 1944) [Libro elettronico]
[ Edizione originale: Hacia un saber sobre el alma, Editorial Losada, Buenos Aires, 1950 ]
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gregor-samsung · 2 years
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“ Ogni vittoria umana deve essere riconciliazione, ritrovamento di un'amicizia perduta, riaffermazione dopo un disastro del quale l'uomo è stato la vittima; vittoria in cui non potrebbe esistere umiliazione dell'avversario, poiché in tal caso non sarebbe più vittoria, cioè gloria per l'uomo. Sì, perché lo scrittore cerca la gloria, la gloria di una riconciliazione con le parole, precedenti tiranne della sua potenza di comunicazione. Vittoria di un potere di comunicazione. Lo scrittore infatti esercita non solo un diritto richiesto dalla sua stringente necessità, ma anche un potere, una potenza di comunicazione che accresca la sua umanità, che porti l'umanità dell'uomo a limiti appena scoperti, ai limiti del valore umano, dell'essere umano, con l'inumano, ai quali lo scrittore giunge, vincendo nel suo glorioso incontro di riconciliazione con le parole tante volte traditrici. Salvare le parole dalla loro vanità, dalla loro vacuità, dando loro consistenza, forgiandole durevolmente, è lo scopo che persegue, anche senza saperlo, chi scrive davvero. C'è infatti uno scrivere parlando, quello che scrive «come se parlasse», e già questo «come se» deve farci diffidare, poiché la ragione d'essere qualcosa deve essere ragione d'essere questo e questo soltanto. Fare una cosa «come se fosse» un'altra la impoverisce e le sottrae tutto il suo significato, ponendo in dubbio la sua necessità. Scrivere diventa il contrario di parlare: si parla per soddisfare una necessità momentanea immediata e parlando ci rendiamo prigionieri di ciò che abbiamo pronunciato; nello scrivere, invece, si trova liberazione e durevolezza - si trova liberazione soltanto quando approdiamo a qualcosa di durevole. Salvare le parole dalla loro esistenza momentanea, transitoria, e condurle nella nostra riconciliazione verso ciò che è durevole, è il compito di chi scrive. “
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Brano tratto da Perché si scrive, testo raccolto in:
Maria Zambrano, Verso un sapere dell'anima, a cura e con introduzione di Rosella Prezzo, traduzione di Eliana Nobili, Raffaello Cortina, Milano 1996. (Raccolta di scritti apparsi tra il 1933 e il 1944) [Libro elettronico]
[ Edizione originale: Hacia un saber sobre el alma, Editorial Losada, Buenos Aires, 1950 ]
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gregor-samsung · 3 years
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“ Oggi non siamo capaci di valutare quanta energia, quanta iniziativa, quanto azzardo ci sono voluti per varare l’avventura industriale. Perché noi ci siamo dentro, perché conosciamo meglio i processi economici, perché le cose sembrano concatenarsi le une con le altre quasi matematicamente, perché sappiamo quel che rende il lavoro economico: non c’è più avventura in economia, ci sono solo «rischi calcolati». Cerchiamo di riportarci con la fantasia a quella fine del XVIII secolo e a quella prima metà del XIX in cui l’economia è una sorta di terra incognita, in cui ogni impresa è una sorta di esperienza nuova, un’esplorazione di eventualità misteriose. Quel che caratterizza quest’epoca è che, giustamente, non ci si accontenta più di riprodurre gli atti economici tradizionali. I vecchi metodi commerciali e industriali sono abbandonati: si crea, e non si sa cosa ne scaturirà. Si decide di applicare le scoperte scientifiche e tecniche: ma ci si rende conto dello spirito d’inventiva che fu necessario per integrare la macchina, per renderla efficiente e produttiva? La creazione di un ambiente sociale nuovo, sicuramente tragico e crudele. Ma perché si giustificano coloro che hanno creato l’immensa miseria della Russia dopo il 1917? La loro avventura era solo più visibile come avventura, più nuova ai nostri occhi. Ma non era certo più ardua né più mirabile dell’avventura di quei borghesi. I quali allora, con le loro successive innovazioni, sconvolsero tutta la struttura del mondo. Ancora una volta mi stupisco se leggo i libri: «ci furono le invenzioni e le macchine, si ebbe come conseguenza la modificazione della società», ed ecco tutto. Ma tra le due cose? La macchina in sé non è nulla, non sconvolge nulla. Era necessario l’uomo, che inserendola di forza in un ambiente socio-economico non fatto certo per essa, sfondò la facciata e fece scoppiare la società col suo sforzo. E se un tale sforzo presupponeva energia, l’invenzione implicava avventura. Era necessario rischiare ogni volta tutto nella valutazione di ciò che una locomotiva, un apparecchio trasmittente, potevano fruttare. Impegnare denaro, uomini, poteri. Era necessario un uomo solo, senza un’utile esperienza precedente, senza buon senso spicciolo, per orientarsi in un percorso radicalmente nuovo: il borghese. “
Jacques Ellul, Metamorfosi del Borghese, traduzione a cura di Eugenio Ripepe, casa editrice Giuffrè (collana Valori politici n° 13), 1972.
[Edizione originale: Métamorphose du bourgeois, Paris, Calmann-Lévy, 1967]
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gregor-samsung · 3 years
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“ Non sentirsi superfluo, è questa, in effetti, l’ostinata battaglia del borghese, rifiutarsi ad ogni gratuità e prima di tutto al convincimento di essere gratuito lui stesso. Il borghese si sa e si vuole necessario, e costruisce un mondo in cui egli è necessario: un mondo che non potrebbe esistere senza di lui. Ma se è necessario è giustificato, e se è giustificato non è in realtà superfluo. Il meccanismo della giustificazione [...] costituisce l’elemento centrale dell’opera borghese, il suo significato, la sua spiegazione. Per giungervi, egli si costruisce un mondo reale, ma anche un mondo immaginario che fa prevalere su tutti gli altri, col meccanismo della falsa coscienza. Giacché il borghese si sa, inconsciamente, sfruttatore, ma non può sopportarsi per quel che è, non può vivere da quel che è, non può configurarsi qual è. Non è solo il fatto che è spiacevole riconoscere di essere uno sfruttatore, l’oppressore degli altri, e di vivere della loro miseria, specie quando si ha un ideale di umanismo, di uguaglianza, di rispetto. Ciò sarebbe ancora superficiale. Ma qui il borghese esprime anche una tendenza costante di ogni uomo, di qualsiasi classe, e cioè la necessità di essere in armonia con il proprio contorno, di avere l’approvazione del gruppo, di vivere ad un ritmo comune e perciò di sentirsi in pace con se stesso, di sentirsi la «coscienza tranquilla», qualunque cosa si designi con questo termine. E per non riconoscersi per quel che veramente è, il borghese non può vedere le motivazioni reali della sua azione. Non può riconoscere le forze motrici che lo spingono ad essere quello che è, agendo come agisce. Non è ipocrisia nel senso corrente: il borghese non ci riesce. È un black-out, una repressione, una carenza. Potrei, ovviamente, fare intervenire qui la teoria della prassi in Marx, e riprendere la sua concezione della falsa coscienza. Si tratta di una spiegazione anche, tra l’altro, utile. Ma non è necessario. A causa di questo obnubilamento, e non potendo più agire senza una motivazione, il borghese si crea un sistema esplicativo, un sistema di motivazioni, immaginando forze motrici irreali al fine di legittimare la sua azione. Beninteso, queste forze motrici non sono soltanto immaginarie, altrimenti non illuderebbero nessuno. Esse non sono teoriche, cosa che sarebbe contraria allo spirito borghese: sono apparenti. Uno degli atteggiamenti costanti della coscienza borghese consiste nell’evitare il profondo per dare ogni rilievo all’evidente. Il borghese si balocca con l’evidenza, e le evidenze sono le carte più sicure della falsa coscienza. Noi vediamo agevolmente i motivi apparenti, cioè evidenti di ogni condotta: occorre accontentarcene, non cercare oltre. “
Jacques Ellul, Metamorfosi del Borghese, traduzione a cura di Eugenio Ripepe, casa editrice Giuffrè (collana Valori politici n° 13), 1972.
[Edizione originale: Métamorphose du bourgeois, Paris, Calmann-Lévy, 1967]
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gregor-samsung · 2 years
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“ «Che cosa ci facciamo dentro questi corpi», disse il signore che si stava preparando a stendersi nel letto vicino al mio. La sua voce non aveva un tono interrogativo, forse non era una domanda, era solo una constatazione, a suo modo, comunque sarebbe stata una domanda alla quale non avrei potuto rispondere. La luce che veniva dalle banchine della stazione era gialla e disegnava sulle pareti scrostate la sua ombra magra che si muoveva nella stanza con leggerezza, con prudenza e discrezione, mi parve, come si muovono gli indiani. Da lontano veniva una voce lenta e monotona, forse una preghiera oppure un lamento solitario e senza speranza, come quei lamenti che esprimono solo se stessi, senza chiedere niente. Per me era impossibile decifrarlo. L'India era anche questo: un universo di suoni piatti, indifferenziati, indistinguibili. «Forse ci viaggiamo dentro», dissi io. Doveva essere passato un po' di tempo dalla sua prima frase, mi ero perduto in considerazioni lontane: qualche minuto di sonno, forse. Ero molto stanco. Lui disse: «come ha detto?». «Mi riferivo ai corpi», dissi io, «forse sono come valigie, ci trasportiamo noi stessi». Sopra la porta c'era una veilleuse azzurra, come nei vagoni dei treni notturni. Misturandosi con la luce gialla che veniva dalla finestra creava una luce verdolina, quasi un acquario. Lo guardai e nella luce verdastra, quasi luttuosa, vidi il profilo di un volto aguzzo, con un naso leggermente aquilino, le mani sul petto. «Lei conosce Mantegna?», gli chiesi. Anche la mia era una domanda assurda, ma non meno della sua, certo. «No», disse, «è un indiano?». «È un italiano», dissi io. «Conosco solo inglesi», disse, «gli unici europei che conosco sono inglesi». “
Antonio Tabucchi, Notturno indiano, Sellerio Editore (collana La memoria n° 93), 2002³³ [1ª ed.ne 1984]; pp. 38-39.
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