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#narrativa araba
gregor-samsung · 2 years
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“ – Non vedo in cosa questo matrimonio sconvolgerebbe la nostra vita, disse Serag. – Come fai a non capire! Questa donna può rovinarmi. Una donna vuole sempre vestiti, gioielli, e chissà cos’altro ancora! Un giorno può credersi posseduta dal demonio e voler organizzare una seduta d’esorcismo. Ci vedi a dormire in mezzo a tutte queste ballerine frenetiche? Serag si mise a ridere. L’idea di Rafik lo divertiva come uno scherzo formidabile. – Non ridere, disse Rafik, severo, è molto grave. Tuo padre può perdere sino al suo ultimo millesimo in quest’avventura. Forse saremo obbligati a lavorare! – Ebbene! disse Serag, non chiedo di meglio. – O idiota! Ti pentirai di queste parole. – Te l’assicuro, Rafik, voglio lavorare. – Vuoi lavorare! Mi domando come una tale idea abbia potuto germogliare in te. Sei probabilmente un mostro o un imbecille. In ogni caso, sicuramente non sei della famiglia. – Voglio lavorare, disse Serag con accento disperato. E anche andarmene da questa casa. – Sul mio onore! Sei un ingrato. Se non fossi mio fratello, ti avrei lasciato fare questa follia. Ma ho pietà di te. A proposito, a che punto sta la tua fabbrica? – La fabbrica sta sempre allo stesso punto, rispose Serag. Sono stato a vederla di nuovo stamattina. È come se nessuno volesse finire di costruirla. – Allora finiscila tu stesso, disse Rafik. Ecco un lavoro eccezionale. Di che ti lamenti? – Mi prendi in giro, maledetto! – Ascolta Serag, non ti prendo in giro. Cerco solo di allontanarti da una cattiva strada. Credimi, il lavoro non fa per te, né per nessuno di noi. – Forse, disse Serag. Ma non posso piú continuare a vivere cosí. – Sei giovane. Ho veramente pietà di te. Non sai ancora cosa sia una fabbrica. – E tu, lo sai? – Sí, disse Rafik. Quando studiavo per fare l’ingegnere, ci hanno fatto visitare delle fabbriche. Erano grandi edifici insalubri e tristi. Vi ho passato i momenti piú penosi della mia vita. Ho visto gli uomini che lavorano in quelle fabbriche; già non erano piú uomini. Tutti portavano l’infelicità impressa sul viso. Se ho abbandonato i miei studi, è unicamente per non essere a capo di una tale orda di moribondi. A sentire questa evocazione lugubre, Serag rabbrividí. Chiuse gli occhi; vedeva il suo romantico sogno di lavoro crollare, sprofondare nel dedalo di un dolore incommensurabile. Il lavoro dunque non poteva essere che dannazione e sofferenza. Serag taceva: era in preda a una sorda inquietudine. “
Albert Cossery, I fannulloni della valle fertile, traduzione e cura di Giuseppe A. Samonà, Einaudi (Collana Letture n° 69), 2016¹; pp. 59-61.
[1ª Edizione originale: Les Fainéants dans la vallée fertile (roman), Éditions Domat, Paris, 1948]
P.S.: Devo ringraziare per il piacere di questa lettura sorprendente @dorettaus, sempre attenta ed interessante nei suoi suggerimenti.
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dariorigoniarte · 2 months
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Dune 2 è un capolavoro al pari se non più del primo. Direi fuor di dubbio il film dell’anno.
Non tanto per il genere ma per la metrica narrativa, per la sontuosa bravura degli attori, per le ambientazioni e la ritmica.
Una colonna sonora poderosa che supera le perplessità del primo Dune, ampliando e caratterizzandosi nelle campionature e nelle sonorità oltre che nella melodia, ormai matura.
Lessi il romanzo a 13 anni la prima volta restandone profondamente coinvolto, ovviamente favorito dall’età. Bisogna essere pazzi a quell’età a leggere un simile tomo.
Fui trascinato fin da subito dalla complessità narrativa percependone il potere e carattere formativo.
I precisi e fitti riferimenti e richiami alla cultura Phastun e araba tribale, l’esaltazione delle culture caucasiche e persiane.
Per ciò ho sempre ritenuto la Jihad l’ultima forma di resistenza del pensiero e la figura mitizzata del Fedahyn un baluardo della lotta fra l’idolatria imperialista e la vita stessa.
Emozionanti poi per me le sequenze girate sul memoriale di Brion.
Tutto il film rientra perfettamente, grazie alla visionarieta de regista Denis Villeneuve, sul filone modernista decadente di Antonioni con espliciti riferimenti iconografici e omaggi ai massimi architetti del 900: Scarpa, Lloyd, Zaha Hadid, Wright, Lovell, Lyoid.
199 minuti di assoluto piacere che ti lasciano una insaziabile voglia di rivederlo ancora e poi ancora.
Riferimenti che ho colto alla prima visione c’è ne sono molti incluso un omaggio a Sergio Leone e ad Apocalips Now con la cavalcata all’alba degli ornitopteri…è molto altro ancora.
Totale quindi l’abbandono della cifra stilistica Deco’ legata ai designer primo novecenteschi, a Henry Dreyfuss e Rennie Macintosh ampiamente usata nel Dune del 1984 di David Lynch.
Ora siamo passati a ambientazioni da colossal, nettamente più rigide e minimali ma rigorosamente monumentali e imperiali, a certificazione delle aspirazioni della pellicola.
Dalle tinte cupe e criptiche di Lynch alla sapiente caratterizzazione fotografica delle luci di Villeneuve.
Nel film l’aestetica delle astronavi e di tutta la tecnologia sfuggono come
Inutili, quasi prive di consistenza argomentativa rispetto al primo Dune, anonime e superflue nel dialogo stilistico. Siamo quindi agli estremi opposti delle altre saghe, dalla metrica alla narrativa estetica. Un abisso separa infatti la corrente dei fanta gamer, alla Guerre Stellari, da questa colta pellicola.
Unica eccezione, necessariamente legata alla pernicita’ del contesto, la ricopre la bellissima astronave imperiale dell’imperatore Padishah Shaddam Corrino IV, interpretato da Christopher Walken.
Una rigida sfera metallica, cromata, traslucente, perfetta nel suo rigore minimalista, divisa da un sottile e provocatoria cava verticale che richiama immediatamente la grandezza espressiva dell’artista Arnaldo Pomodoro.
L’eterna lotta fra bene e male esce finalmente dalla banalità, si stratifica e intreccia gradatamente nei ventri delle madri Bene Gesserit, a misura dello spettatore, guidandolo in un percorso di consapevolizzazione, anche del presente, sottile e potente. L’aristocrazia imperialista, le sue ordite trame fameliche e sanguinose, la sete di sostituirsi al divino fallirà, nel suo ordine di governo totale e pagano, liberando l’unica spiritualità destinata a vincere a prevalere, quella che unisce i popoli e non che li divide.
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dettaglihomedecor · 10 months
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Wiik House di DTR_studio architects
La Wiik House, progettata dal team DTR_studio architects, è una moderna casa vacanze in Costa Del Sol, i cui confini tra interno ed esterno sono sfumati. Nel 2017, la stimata famiglia Wiik ha incaricato lo studio di architettura di progettare una seconda residenza per loro in Costa del Sol e di individuare un sito adatto nel vivace centro di Estepona, a Malaga. L'obiettivo era trovare un terreno che potesse ospitare la costruzione di una casa vacanze per una famiglia originaria di Oslo, Norvegia. La collaborazione si è basata su una comprensione reciproca dell'architettura e della vita così, il cliente, ha riposto la propria fiducia nello studio.
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Il team DTR_studio architects ha individuato un appezzamento di terreno a forma di "U", con una casa esistente situata al centro. Questa configurazione si traduce in due facciate distinte orientate verso la stessa strada, ciascuna con una propria presenza indipendente. L'attenta configurazione implementata dagli architetti ha consentito una chiara distinzione tra le due unità distinte del programma abitativo: la residenza principale da un lato e un appartamento separato per gli ospiti dall'altro. La strada su cui si affacciano entrambe le facciate ha un significato minimo; quindi, le facciate proposte si integrano perfettamente nel contesto circostante, evitando qualsiasi attenzione palese, e dirigendo invece l'attenzione verso lo spazio interno.
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Wiik House, il progetto
Il progetto si sviluppa intorno ai patii interni e al tetto, ispirati all'architettura araba che ha bisogno di essere vissuta, abitata e calpestata. L'uso della luce, dell'acqua e della vegetazione sono gli strumenti che danno senso al progetto. Verrà impiegata una vasta gamma di strategie di progettazione per integrare perfettamente la luce naturale nella composizione architettonica. Questi includono l'incorporazione ponderata di patii, scale-lucernari posizionati strategicamente e l'utilizzo di doppie altezze, tra le altre tecniche innovative. Gli architetti credono fermamente che ogni opportunità debba essere colta per sfruttare la luce ed elevarla a protagonista centrale del progetto. Il design della casa consente un orientamento strategico, facilitando il flusso ottimale della luce solare in tutto lo spazio.
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La matericità del progetto abbraccia il concetto di “finiture sincere” selezionando con cura gli elementi che contribuiscono alla narrativa complessiva del progetto. I pavimenti in cemento lucidato collegano perfettamente aree diverse, creando un senso di unità e coerenza. L'uso strategico dei pannelli in legno massimizza le opportunità di archiviazione aggiungendo anche un tocco di raffinatezza allo spazio. L'introduzione di elementi in terracotta conferisce una caratteristica unica e distintiva, elevando il design a un nuovo livello. Infine, il soffitto funge da quinta facciata, valorizzando ulteriormente la composizione architettonica.
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Architetti DTR_studio: Jose Maria Olmedo / Jose Miguel Vázquez Architetti collaboratori: Pablo Olmedo / Ruben Muñoz Crediti fotografici: Juanan Barros Read the full article
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enkeynetwork · 1 year
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lamilanomagazine · 1 year
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Modena, al Windsor Park nasce la Biblioteca dei ragazzi 
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Modena, al Windsor Park nasce la Biblioteca dei ragazzi.    Dalle favole dei fratelli Grimm a Geronimo Stilton, dai classici di narrativa e poesia ai grandi contemporanei, e poi fumetti e libri di storia e scienza per conoscere, riflettere e capire se stessi e il mondo intorno. Arriva nel quartiere San Faustino un nuovo punto di lettura e di ritrovo: la Biblioteca Windsor che inaugura domenica 19 febbraio, alle 16.30, la sezione dedicata ai ragazzi al piano terra del Windsor Park nella sede dell’Officina Progetto Windsor (in via San Faustino 155/U). La biblioteca è stata realizzata grazie alle donazioni e al lavoro dei volontari e rientra nelle azioni di accompagnamento sociale agli interventi di riqualificazione che hanno interessato il complesso Windsor, nell’ambito dei progetti di sicurezza urbana promossi dal Comune di Modena. In occasione dell’inaugurazione, nel pomeriggio di domenica 19 febbraio, dalle 16.30 sono in programma una lettura animata del racconto “La magica medicina” di Roald Dahl e un laboratorio per realizzare segnalibri ispirati a mostri leggendari, a cura di Mara Marchesini. Il taglio del nastro della sezione ragazzi della Biblioteca Windsor sarà effettuato, intorno alle 18, dall’assessore alla Cultura e alle Politiche giovanili del Comune di Modena Andrea Bortolamasi. L’incontro si concluderà con un rinfresco per tutti i presenti. La Biblioteca Windsor può contare su un patrimonio di oltre 1.500 libri, oltre la metà dei quali destinati a bambini, ragazzi e giovani. Sarà gestita dai volontari delle associazioni attive nell’Officina (Aliante Cooperativa sociale, Arci Modena, Banca del tempo Modena, Legambiente – Circolo “Angelo Vassallo”, Officina Progetto Fotografia e Rete degli Studenti medi, Civibox, MovimentoNonviolento), nell’ambito della convenzione con l’Ufficio legalità e sicurezze del Comune di Modena. La biblioteca sarà aperta al pubblico, che potrà trovare anche un punto informativo, il lunedì e il mercoledì pomeriggio, dalle 17 alle 19. La consultazione è libera, al prestito si potrà accedere dopo essersi iscritti. Il servizio è gratuito e si possono presentare richieste per nuovi acquisti. Il lunedì, mercoledì e venerdì, dalle 17 alle 19, sarà aperto anche un Punto informativo per gli utenti. L’attivazione della biblioteca integra il ricco assortimento di iniziative dell’Officina Progetto Windsor che promuovono la socializzazione, l’informazione e il confronto culturale, nell’ottica di una cittadinanza attiva e consapevole. L’Officina è attiva da 13 anni, durante i quali ha strutturato numerose attività: dal doposcuola, frequentato attualmente da una sessantina di bambini e ragazzi, ai centri estivi, dall’insegnamento della lingua italiana per gli stranieri, in particolare donne, a quello della lingua araba al quale partecipano un centinaio di ragazzi, dai concerti alle conferenze sulla pace, l’ambiente, la coesione sociale. Dal 2017 è attivo il Windsor Point, aperto il martedì, giovedì e venerdì dalle 17.30 alle 19.30 che rappresenta un punto di riferimento per famiglie e persone (in particolare residenti al Windsor Park) alle quali offre orientamento sui servizi pubblici, informazioni e supporto per diverse attività, come le iscrizioni online ai servizi scolastici, a corsi, a portali di lavoro, a bonus. Il Windsor Point fa parte della rete urbana dei centri a supporto dei cittadini per le pratiche online e accoglie persone per la compilazione del curriculum vitae. Il Net Garage attivo presso il Windsor Park offre a giovani e adulti accesso alle postazioni informatiche offrendo anche una formazione digitale come strumento di crescita e per aprire nuove opportunità di formazione e lavoro.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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urielbertolami · 5 years
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Gesù era ebreo israeliano
GESÙ EBREO ISRAELIANO
Negli ultimi anni la narrativa araba-islamista vuole farci credere che Gesù era palestinese; è l'ennesimo tentativo di diffondere una menzogna.
Gesù era nato e vissuto nel Regno di #Israele, per ciò era israeliano, Ebreo di fede, vissuto sotto l'impero Romano che dominava la terra d'Israele.
Il nome #Palestina non esisteva ancora, vediamo qual'era l'origine del nome per capire quanto è gigante la menzogna araba.
Il Regno di Israele era stato invaso dal popolo Filisteo, un popolo greco proveniente da Creta, un popolo di guerrieri del mare, arrivati via mare nel Regno di Israele, conquistarono 5 città israelite, #Ashdod, #Ashkelon, #Gaza, #Gat e #Ekron, nella parte sud del Regno.
I Romani conquistarono questa parte del mondo, e come di loro abitudine, denominavano i territori dividendoli in provincie, come ad esempio la provincia #Giudea oppure la provincia #Galilea.
Sotto l'imperatore Adrianus gli ebrei furono cacciati dalla terra d'Israele di seguito alle rivolte, l'imperatore Adrianus ha voluto far dimenticare la terra d'Israele agli ebrei denominandola nel anno 135 provincia Palestina, così come i romani chiamavano i filistei.
Questo nome deriva dalla parola ebraica pleshet, plishtim in plurale, e significa INVASORI, perché i filistei erano appunto invasori della terra d'Israele.
In questo periodo lungo della storia, non ci sono arabi nella terra d'Israele, sono nella loro terra d'origine, la penisola araba, sono pagani, e pagani resteranno per altri circa 600 anni, fino alla nascita di Maometto, nel 570.
Israele resta sotto il dominio Turco Ottomano dal 1535 al 1917 quando l’impero Ottomano perde la prima guerra mondiale contro Francia ed Inghilterra.
Dal 1917 al 1947 poi, Israele diventa protettorato Britannico ma gli ebrei si liberano dagli inglesi e proclamano l’indipendenza dello stato ebraico il 14 maggio 1948.
In duemila anni non si trova traccia di alcuna Palestina.
Ebrei e musulmani vissero assieme in israele seppure non a stretto contatto.
Non è mai esistito uno stato palestinese ne un parlamento palestinese ne una moneta palestinese.
La Palestina nasce solo nel 1967 dopo la guerra dei sei giorni vinta da israele contro gli stati arabi confinanti: Gaza era Egitto e la West Bank era Giordania.
Territori persi in guerra ma Israele ha restituito Gaza e per la West Bank ci sono trattative in corso.
Ci auguriamo che la classe dirigente palestinese approvi la nostra ennesima offerta di pace e che cessino finalmente tutte le ostilità che i palestinesi NON vogliono ma che le loro classi dirigenti fomentano per continuare a ricevere miliardi di dollari che spariscono in un buco nero ma che il popolo non vede mai.
LIon Udler
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unatomoporaccidente · 2 years
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Sawubona
Sigo rumiando mis pensamienos, todo está en la cabeza ¿alguna vez alguien recibe un cumplido por lo calmado y enfocado que se ha vuelto? No pierdes algo que nunca te perteneció, sólo lo sueltas, sólo fluye. Esta es la visión de los vencidos, La Conquista de Adya Yala (Mario Vargas Llosa podría entender la referencia), y todo empezó precisamente en Perú, me refiero a mi narrativa. La disolución de la gran Colombia, no era gran nada (hablo de mi relaión) sólo fue un...¿como lo dijo?, ¿y si no me voy? ¿y si no se da el viaje? ¿la opcion, la alternativa? Teresa y Rebeca jamás fueron mías, en esa relación yo sólo araba en el mar, en la nada. Oh Rosa, espero que no exista otra como tu (se que el Principito estará un tanto en contra de esto), pero es por un bien social mi comentario, nada morbido.
¿Su facebook? fue una tanto bizarro de mi parte entrar, me sigue pareciendo un tanto ascoso, y las nauceás fueron literales, pero si necesitaba respuestas, ¿que habia mal en mi? ¿en serio no era inteligente? ¿en serio no era capaz? ¿en serio era un "quedado"? ¿en serio mi apariencia era como la de Smigoll o la de Faraon? ¿en serio era un malandro de ciudad guayana? ¿en serio canto tan mal? ¿en serio era aburrido? ¿de verdad no era tan cool como para estar contigo? ¿en serio era viejo? ¿por mi culpa no llegaste nunca? ¿nunca hice lo suficiente?...esperé en una cola de días para una visa que...bueno...tambien vendí todo para reunir para el pasaje. Hasta que salió el "necesito tiempo", y bueno todo el mundo sabe que significa eso. Si agradezco por haber visto lo que vi, porque aún al día de hoy me sentía culpable, y salir inocente es paz. Gracias gracias gracias Universo.
¿Fermina Daza y Florentino Ariza? ¿La Diosa Coronada? Gabriel Garcia Márquez no creo que se refiriera a lo que fue de "nuestra relación" en Amores en Tiempos del Cólera. ¿Always? siento que J.K me odia, no eras el Always, ni tampoco el Patronus eso está claro pero si, la maldición Cruciatus, en eso si concuerda Severus, El Dementor, Dudley diría lo mismo. Tranqui...no abro hilo. Soy sólo yo soltando.
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Ningún mantuano en ningún lugar podrá entenderme.
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ultimavoce · 5 years
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Hodā Barakāt vince il premio internazionale 2019 per la narrativa araba
La scrittrice libanese Hodā-Barakāt ha vinto l'International Arabic Fiction Prize, il premio più prestigioso per gli autori di lingua araba. Il romanzo pluripremiato, "The Night Mail", racconta la storia dei rifugiati attraverso le lettere.
L’autrice libanese Hodā Barakāt ha vinto il premio internazionale 2019 per la narrativa araba (IPAF)  per il suo sesto romanzo Bârid al-layl (The Night Mail). La seconda donna a ricevere il premio. Annunciato nella cerimonia di premiazione svoltasi a Fairmont Bab Al Bahr ad Abu Dhabi. Romanzo pubblicato da Dar al-Adab nel 2017 e tradotto, dall’arabo, da Philippe Vigreux in Actes Sud, con il titolo
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gregor-samsung · 7 months
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“ Era il 1973, c'era la guerra, la gente faceva capannello attorno alla radio. Ascoltavano Radio Cairo, ancora increduli che l'esercito egiziano potesse attraversare il canale di Suez, che gli arabi potessero vincere contro Israele. Stava in piedi assieme ad altre persone, Zayn 'Alúl, davanti alla bottega di Abu Khalíl, sorseggiando tè e facendo quattro chiacchiére. A un certo punto le chiacchiere avevano preso un'altra piega, si erano trasformate in una discussione a proposito dei fatti della Bank of America. Era successo che alcuni elementi della polizia libanese avevano fatto irruzione nella banca, ucciso due degli uomini che l'avevano occupata, arrestato gli altri due e liberato gli ostaggi. Con il risultato che la banca non aveva scucito un petacchino per lo sforzo bellico arabo, scopo ultimo dell'operazione, stando alle condizioni dettate dal capo del commando, poi abbattuto. - È stato un errore, - diceva Abu Khalíl, - la guerra è in Israele, a che pro occupare una banca qui? - La banca è americana, gli americani sono Israele. Sí insomma, lí e qui è la stessa identica guerra, - aveva ribattuto uno dei ragazzi che facevano ressa attorno alla bottega.
Abu Khalíl aveva preso in mano il giornale e si era avvicinato alla luce che usciva da dentro il negozio. - Date retta a me, ragazzi, è stato un errore. 'Ali Shu'ayb ha preso in ostaggio e poi ammazzato un americano che non c'entrava niente. Leggeva, Abu Khalíl: - «L'americano John Conrad Maxwell è stato assassinato da 'Ali Shu'ayb. Quest'ultimo, ricorrendo a uno degli ostaggi perché non in grado di esprimersi in inglese, ha comunicato a Maxwell di aver deciso di ucciderlo poiché la dilazione concessa alle autorità era scaduta. L'americano ha implorato per la propria vita, ma 'Ali Shu'ayb gli ha sparato alla schiena. L'americano, supino al suolo, ha urlato e supplicato, ma 'Ali Shu'ayb, coadiuvato da un altro componente del commando, presumibilmente Jihàd As'ad, lo ha preso a calci e ha nuovamente fatto fuoco, colpendolo al ventre e togliendogli la vita». - Ma vi sembra possibile, ragazzi? Non son cose che si fanno, - aveva concluso Abu Khalíl: - E poi il problema è con Israele, la guerra è li. È stato un errore. - Tutte balle, - aveva esclamato Zayn 'Alúl, - sono tutte balle. “
Elias Khuri, Facce bianche, traduzione dall'arabo di Elisabetta Bartuli, Einaudi (collana L'Arcipelago n° 126), 2007¹; pp. 133-134.
[1ª Edizione originale: الوجوه البيضاء, (Wujuh al-bayda), editore Dar Al Adab, Beirut, 1981]
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pangeanews · 5 years
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Serotonina è un pugno allo stomaco. Anzi, no, MH farebbe meglio a rileggersi Camus! Matteo Fais raccoglie l’opinione di quattro scrittori intorno all’ultimo libro di Houellebecq
Uno scrittore non può non avere dei modelli. Il mio è Michel Houellebecq. Il che non vuol certo dire che abbia la vocazione dell’epigono. Ricordo troppo bene Nietzsche, in Così parlò Zarathustra: “si ripaga male il proprio maestro se si rimane sempre allievi”. Eppure, il romanziere in questione mi risulta un passaggio obbligatorio. In buona sostanza, se si vuole fare letteratura oggi come oggi, credo che non si possa prescindere da ciò che lui ha scritto.
Ritengo altresì che la più grande lezione dei suoi romanzi sia come descrivere anche un’esistenza priva di avventura, di epica, di tragedia. Il mio secondo libro, Storia Minima, riflette proprio su questo tema e cerca di dargli sostanza in una narrazione che è una non-storia. Certo, potrei citare anche Osamu Dazai e il suo Lo squalificato, ma Houellebecq, per appartenenza culturale, mi è più vicino e affine – il Giappone, anche quello americanizzato del post Seconda Guerra Mondiale, è pur sempre un altro mondo.
Ho letto Serotonina, quest’ultimo romanzo del Maestro, con la solita passione, sospendendo nei giorni immediatamente successivi all’uscita qualunque altro tipo di attività. Vi ho trovato dei difetti, ma i pregi erano troppi e così travolgenti che mi sono innamorato anche questa volta. Houellebecq è comunque una spanna sopra gli altri, perfino quando non dà il meglio di sé.
In verità non ritengo che il suo testo appena uscito sia fiacco, come tutti vorrebbero far credere. È diverso! Vorrei proprio capire, quelli che lo trattano con sufficienza, che accidenti di autori abbiano in mente come termine di paragone. Non certo un italiano. Il branco di donzelle politicamente corrette che ci sono in circolazione, e fanno classifica, non mi pare degna neppure di aprirgli l’ennesima bottiglia del giorno. A ogni modo, vi sono certamente dei connazionali che stimo e che, come dimostrano i seguenti interventi, hanno tratto in qualche modo ispirazione dal francese. Purtroppo, la maggior parte di questi romanzieri sono semisconosciuti – se fossero francesi, forse la sorte sarebbe stata meno avversa nei loro confronti.
Pertanto, ho pensato di raccogliere le loro impressioni a caldo, dopo la lettura di Serotonina – sapevo bene che anche loro non avrebbero resistito alla tentazione di leggerlo. Credo sia importante comprendere la ricezione di un testo, che volenti o nolenti risulta essere così importante per la narrativa europea, da parte di chi a sua volta ha la passione per la scrittura. Così ho posto loro la seguente domanda: “Rispetto all’influenza che può aver avuto l’opera di Michel Houellebecq sulla tua scrittura, ritieni che Serotonina possa costituire un modello per i tuoi prossimi lavori?”.
La speranza è, infine, quella di far scoprire ai lettori di Houellebecq che esistono scrittori i quali, pur differenti dal noto autore di Le particelle elementari, potrebbero avere qualcosa da dire a chi cerca narrativa di valore, al di là dei brand imposti dal mercato.
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Matteo Fais è nato a Cagliari, nel 1981. Ha scritto su diverse riviste. Al momento, è collaboratore fisso di “Pangea.news” e “VVox Veneto”. Il suo esordio letterario è avvenuto con L’Eccezionalità della regola e altre storie bastarde, Robin Edizioni. Per lo stesso editore ha pubblicato di recente Storia Minima.
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Seguo Houellebecq e lo rispetto molto come scrittore, ma non ho mai pensato di imitarlo. Trovo molto interessante la sua scrittura ma la sento lontana da quello che, attualmente, è il mio universo narrativo. In particolare Serotonina mi è sembrato un romanzo fuori fuoco, abbozzato, non al suo livello. Se dovessi usarlo come modello, sarebbe un modello negativo. Insomma: se persino Houellebecq può commettere simili leggerezze (vorrei dire errori) di verosimiglianza e plausibilità è perché la stesura di un romanzo è davvero una brutta gatta da pelare per chiunque.
Cristò (1976), barese, ha pubblicato Come pescare, cucinare e suonare la trota (Florestano), L’orizzonte degli eventi (Il grillo), That’s (im)possibile (Caratterimobili e Intermezzi), La carne (Intermezzi), Restiamo così quando ve ne andate (TerraRossa).
******* La risposta è no. Houellebecq è unico. Siamo molto differenti nello stile di scrittura. La sua è saramaghiana in certi momenti, con frasi lunghe, senza punto, le virgole a fare un po’ d’ordine al flusso di pensieri dirompenti. Contenutisticamente lui è il presente – io, finora, ho scritto solo del passato – e lo racconta come nessun altro. È devastante. Serotonina è un cazzotto in un occhio e un pugno alla bocca dello stomaco dei sentimenti, della nostra condizione miserabile di razza umana destinata al dolore e allo stordimento per cercare di dimenticare la sofferenza inevitabile. Nemmeno Dostoevskij era riuscito a sviscerare tanto il male di vivere. Ho letto non so dove che qualche scrittorino italiano lo avrebbe definito “populista”. Che pena noi scrittori italiani: abbiamo sempre e solo da criticare per via del senso di inferiorità che ci è connaturato. Peccato, la nostra è la lingua più bella del mondo e ci sentiamo i più sfigati. Serotonina, comunque, non mi può influenzare, perché io non so scrivere come lui e perché le mie tematiche sono lontane. Solo Houellebecq può dire certe cose del presente e sul presente. Perché le sa dire. Vorrei però aggiungere che il romanzo in questione, secondo me, non ci azzecca nulla né con i gilet gialli, né col populismo. Piuttosto, è una frustata sull’amore impossibile tra uomo e donna. Sulle “coincidenze che sono le strizzatine d’occhio di Dio”. Sulla devastazione delle nuove generazioni che si ubriacano di assenzio, come nell’Ottocento i minatori e i sottoproletari – e i ricchi borghesi nascenti –, per dimenticare una condizione lavorativa e sociale spaventosa (la stessa che viviamo noi oggi). Serotonina è la Francia socialista che ha ucciso l’amore e la speranza, ma soprattutto i desideri. Quella Francia socialista che non ha mai saputo essere liberale e liberista, ma solo un mix di niente. Filo araba, fastidiosamente filo araba. Antisemita. Fascista nel suo socialismo d’accatto della ricca gauche caviar. La Francia stronza che guarda ai suoi interessi di grandeur e fa fuori Gheddafi (e crea il casino di Ustica) e si mangia l’Africa a fettine di cannibalismo tagliate a misura col franco travestito da euro. Houellebecq e Serotonina non possono essere un modello per me, perché io non scriverò mai sul e del presente. Questo mi fa orrore, così come mi fa orrore la nuova Europa musulmanizzata, queste periferie – e non solo – rovinate dalla presenza di tribù di donne velate e maschi da monta con barba e occhi da avvoltoi, le moschee che vorrebbero innalzarsi sulle mie, anzi sulle nostre, chiese e sinagoghe. Il presente è guerra del Capitale contro gli esseri umani – scusa la divagazione. Il Capitale che non si regge più sul complotto giudaico massonico – magari lo rifacesse –, ma sulla finanza islamica e islamizzante che non conosce diritti sociali ma solo schiavi e devoti, ciò che stanno tentando di farci diventare tutti quanti. No, Serotonina non sarà un mio modello, perché ho rispetto per le grandi opere e detesto gli epigoni.
Adriano Angelini Sut, romano, traduttore e scrittore. Ha pubblicato nel 2009 101 cose da fare a Roma di notte (Newton Compton). Nel 2015 esce Jackie (Gaffi Editore), un romanzo biografico su Jacqueline Kennedy. Nel 2017 Mary Shelley e la Maledizione del lago (Giulio Perrone), la biografia romanzata su Mary Shelley. Nel 2018 è presentato allo Strega con il romanzo L’ultimo singolo di Lucio Battisti (Gaffi Editore). Ha collaborato con “Il Foglio” e “Radioradicale.it”. Collabora con http://bit.ly/2Tv8oYI. Fra le sue traduzioni, Ogni Cosa è Maschera di Janice Galloway (Gaffi); Sex Trafficking di Siddarth Kara (Castelvecchi); Il programma di  James Dashner (Fanucci).
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Ed eccoci di nuovo a tu per tu con il Maestro. Ci tengo a precisare fin dall’inizio che a me, quest’ometto che raramente vien bene in foto – una rapida ricerca su Google non può che confermarlo –, con quella faccia da pervertito etilista, sta proprio simpatico. E forse neanche troppo per qualità letterarie od originalità di una voce che si sta permutando in marchio. A me sta simpatico perché la sua faccia dice tutto. Ad andarci di fisiognomica ci si legge il disastro in atto, un senso di frana, di caduta libera, una scapigliatura – in tutti i sensi – flaccida e imbolsita. Le stesse caratteristiche che si ritrovano appiccicate ai suoi personaggi, dal Bruno Clèment di Le particelle elementari al protagonista di Estensione del dominio della lotta fino ad arrivare al Florent-Claude Labroust di questo nuovo Serotonina. Detto in estrema sintesi, il buon vecchio Michel inizia a mostrare la corda, ripetendosi in cliché, situazioni e narcisismi vari che rimandano a quel gusto di èpater un po’ fine a se stesso. Lo stesso gusto che può starci nei primi lavori, sorretto da una tensione metafisica che fa da contraltare a un certo decadentismo fuori moda. Quindi va bene il nichilismo esasperato, figlio a sua volta di un consumismo fuori controllo – simpatiche, in questo senso alcune situazioni serotoniniane, Yuzu, la ragazza giapponese letteralmente ricoperta di diciotto lozioni per la pelle, e vien da immaginare, altrettanto facilmente ricoperta di sperma canino in un filmato scovato fra le sue mail. A voler fare i sociologi da strapazzo rieccoti la solita equazione fra sessualità e consumo, la marxistica reificazione del corpo, del desiderio, eccetera eccetera. Simpatico, quindi, il buon vecchio Michel, che però pare non riuscire ancora a sganciarsi da un certo maledettismo da banchi di scuola – la stessa Yuzu è maestra di “sorprendenti” pugnette in aereo, ma davvero, apro parentesi, a quasi cinquant’anni ci si deve ridurre così? Insomma, se il nostro vuol farsi interprete di un disagio, lo stesso che fu di suoi compatrioti come Céline, Sartre o Camus, e mi par di capire che la sua ambizione sarebbe quella, gli consiglierei di metter da parte le frettolose chiacchiere con il suo agente sul tipo di pubblico a cui rivolgersi – l’editore francese è la potente casa Flammarion – e farsi una rilettura, che tanto fa sempre bene, ad esempio del suo amato Lo straniero. In esso, anche un nichilista dell’ultima ora capirebbe che le conseguenze dell’angosciante rapporto di Meursault con la madre non erano questione da risolvere con due pugnette in aereo.
Andrea Campucci nasce a Firenze, nel 1983. Qui si laurea in Filosofia e inizia a collaborare con vari editori. Nel 2009, tramite il sito ilmiolibro.it, esce il suo primo romanzo, Naive. È poi la volta di un saggio filosofico, Nietzsche, la fine della ragion pura, 2011, per l’editore Mimesis. Nel 2012 pubblica, per Arduino Sacco, la raccolta di racconti Cupio dissolvi, per poi arrivare, nel 2013, al romanzo La scampagnata, sempre per l’editore Arduino Sacco. Nel 2016, approda alla Leone edizioni con il romanzo Plastic shop. Per lo stesso editore, nel 2018, pubblica infine il romanzo Porn food.
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Quando uscirono Le particelle elementari (il secondo romanzo di Houellebecq, che però l’Italia scoprì per primo) e, di seguito, Estensione del dominio della lotta, mi colpì l’andamento saggistico incistato nella narrazione con cui, tra cinismo e dolente ironia, questo scrittore smascherava le pecche del mondo contemporaneo e l’inettitudine – l’inesorabile perdita di libido compresa – del maschio bianco occidentale. Parlo delle leggi del liberalismo applicate alla competizione sessuale tra individui, impegnati in una strenua lotta; del sesso che, una volta svincolato dalla procreazione, non sussiste più come principio di piacere, ma è veicolo di differenziazione narcisistica, ecc. E qui vengo all’impatto che queste narrazioni possono aver avuto nella mia formazione di scrittore: quando nei romanzi Nicola Rubino è entrato in fabbrica (Feltrinelli 2004, Terrarossa 2016) e La gente per bene (Terrarossa 2018) ho scelto di raccontare le vite di operai o di disoccupati – quasi mai protagonisti nel panorama letterario italiano –, tratteggiando gli ambienti in cui vivono e gli stanchi rituali aziendali, ho tenuto ben presente una delle sue massime, valida ancora oggi: “Affondate il coltello negli argomenti di cui la gente non vuole sentire parlare. Il contrario del decoro. Insistete sulla malattia, l’angoscia, lo squallore. Parlate della morte e dell’oblio. Della gelosia, dell’indifferenza, della frustrazione, dell’assenza di amore. Siate abietti, e sarete veri”. Non so ancora dire se Serotonina saprà suggerirmi degli spunti interessanti, anche perché in questo romanzo c’è quello sguardo a cui Houellebecq ci aveva già abituati (le cosiddette massime, ad esempio, le ho trovate un po’ annacquate e di maniera, meno ficcanti che in passato), ma è comunque apprezzabile e vitale il tentativo di confrontarsi con la realtà e il presente. Lasciamo stare l’Italia letteraria o che si ritiene tale, ben inteso, narrativamente ferma all’analisi storica del fascismo e alla musealizzazione della Resistenza, o persa in contorti sperimentalismi, o che ciurla snobisticamente nel manico della distopia, incapace di dire pane al pane e vino al vino – un modo per schifarla, o scansarla, questa realtà. Concedetemi: conoscete altre voci europee che, al giorno d’oggi, si occupino di queste tematiche con altrettanta virulenza? Ho trovato interessanti quei passaggi in cui il protagonista, totalmente alla deriva, in preda a meditazioni suicide e ossessionato dai ricordi della sua Camille (il perduto amore di gioventù che forse avrebbe potuto salvarlo), per ignorare i festeggiamenti di Natale e Capodanno, si immerge nella provincia rurale francese. Sì, mi sono piaciute le descrizioni dei luoghi, in particolare. Un momento caustico del romanzo è quello in cui il personaggio, irrimediabilmente depresso, si stona di trasmissioni televisive, quasi sempre a carattere culinario, e afferma che l’Occidente – e con essa l’umana libido – sta regredendo allo stadio orale: nella città in cui vivo, ad esempio, è l’unica cultura che resiste, non si parla d’altro che di cibo.
Francesco Dezio è nato ad Altamura nel 1970 e ha esordito nel 1998 con un racconto nell’antologia Sporco al sole. Racconti del sud estremo (Besa). Nel 2004 ha pubblicato con Feltrinelli il romanzo Nicola Rubino è entrato in fabbrica, opera che inaugura una nuova stagione della cosiddetta letteratura industriale e ora riproposta da TerraRossa Edizioni. Del 2014 è la sua prima raccolta di racconti, Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta (Stilo), diversi dei quali già apparsi su quotidiani e riviste. Nel 2008 è stato ospite di cinque puntate della trasmissione Fahrenheit, su Rai Radio 3. Ha collaborato con “l’Unità”, “la Repubblica-Bari”, “Corriere del Mezzogiorno”. Il suo ultimo romanzo è La gente per bene (TerraRossa Edizioni, 2018).
L'articolo Serotonina è un pugno allo stomaco. Anzi, no, MH farebbe meglio a rileggersi Camus! Matteo Fais raccoglie l’opinione di quattro scrittori intorno all’ultimo libro di Houellebecq proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2SigRRM
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jamariyanews · 6 years
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Il ruolo della NATO nell’introduzione dei mercati di schiavi in Libia
di Ben Norton  – 29 novembre 2017 Mercati di schiavi nel ventunesimo secolo. Esseri umani venduti per poche centinaia di dollari. Grandi proteste in tutto il mondo. I media statunitensi e britannici si sono svegliati alla cupa realtà in Libia, dove profughi africani sono in vendita in mercati di schiavi all’aria aperta. Tuttavia un dettaglio cruciale di questo scandalo è stato minimizzato o persino ignorato in molti articoli della stampa dominante: il ruolo dell’Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico (NATO) nel portare lo schiavismo nella nazione nordafricana. Nel marzo del 2011 la NATO ha lanciato una guerra in Libia espressamente mirata o rovesciare il governo del leader di lungo corso Muammar Gheddafi. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno attuato circa 26.000 missioni aeree sulla Libia e lanciato centinaia di missili da crociera, distruggendo la capacità del governo di opporsi alle forze ribelli. Il presidente statunitense Barack Obama e il Segretario di Stato Hillary Clinton, assieme ai loro omologhi europei, hanno insistito che l’intervento militare era attuato per motivi umanitari. Ma il politologo Micah Zenko (Foreign Policy, 22 marzo 2016)  ha utilizzato materiali della stessa NATO per dimostrare come “l’intervento libico sia stato mirato sin dall’inizio al cambiamento di regime”. La NATO ha appoggiato una molteplicità di gruppi ribelli in lotta sul campo in Libia, molti dei quali erano dominati da estremisti islamisti e che coltivano visione violentemente razziste. I militanti della roccaforte ribelle, appoggiata dalla NATO, di Misurata si riferivano addirittura a sé stessi nel 2011 come “la brigata per l’epurazione degli schiavi di pelle nera”, un’inquietante presagio di ciò che stava per accadere. La guerra è finita nell’ottobre del 2011. L’aviazione statunitense ed europea ha attaccato il convoglio di Gheddafi ed egli è stato brutalmente assassinato da estremisti ribelli, sodomizzato con una baionetta. Il Segretario Clinton, che aveva avuto un ruolo decisivo nella guerra, ha dichiarato a CBS News (20 ottobre 2011) “Siamo venuti, abbiamo visto, lui è morto!” Il governo libico si è dissolto subito dopo. Nei sei anni da allora la Libia è stata intorbidita da caos e bagni di sangue. Molti aspiranti governi sono in competizione per il controllo del paese ricco di petrolio e in alcune aree non c’è ancora nessuna autorità centrale funzionante. Sono morte molte migliaia di persone anche se i numeri reali sono impossibili da verificare. Milioni di libici sono finiti sfollati; un numero sbalorditivo, quasi un terzo della popolazione, era fuggito nella vicina Tunisia a tutto il 2014. I media industriali, tuttavia, hanno in larga misura dimenticato il ruolo chiave svolto dalla NATO nel distruggere il governo della Libia, destabilizzando il paese e dando potere ai trafficanti di esseri umani. Inoltre persino i pochi servizi giornalistici che in effetti riconoscono la complicità della NATO nel caos in Libia non fanno un passo ulteriore per dettagliare il violento razzismo, ben documentato, dei ribelli libici appoggiati dalla NATO che ha introdotto lo schiavismo dopo aver attuato la pulizia etnica e aver commesso crimini brutali contro i libici neri. NATO, dove sei? A metà novembre la CNN (14 novembre 2017) ha pubblicato un servizio esplosivo che ha offerto uno sguardo di prima mano sul mercato degli schiavi in Libia. La rete mediatica ha ottenuto un video terrificante che mostra giovani profughi africani messi all’asta, “ragazzi grandi e forti per lavoro contadino”, venduti per la ridicola cifra di 400 dollari. Il vistoso rapporto multimediale della CNN includeva un’abbondanza di bonus: due video, due immagini animate, due fotografie e una mappa. Ma mancava qualcosa: la narrazione di mille parole non faceva alcuna menzione della NATO o della guerra del 2011 che aveva distrutto il governo libico, o Muammar Gheddafi, o di un qualunque contesto storico e politico. Nonostante queste enormi carenze, il rapporto della CNN è stato diffusamente celebrato e ha avuto un impatto sull’apparato dei media industriale che diversamente si preoccupa poco dell’Africa del Nord. E’ seguito un turbine di servizi mediatici. Quei servizi hanno parlato in misura prevalente dello schiavismo in Libia come di un problema apolitico e immemorabile di diritti umani, non come di un problema politico radicato nella storia molto recente. In narrazioni successive, quando dirigenti libici e delle Nazioni Unite hanno annunciato che avrebbero avviato un’indagine sulle aste di schiavi, la CNN (17 novembre 2017, 20 novembre 2017) ha nuovamente mancato di citare la guerra del 2011, per non parlare del ruolo della NATO in essa. Un servizio della CNN (21 novembre 2017) su una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha segnalato: “Ambasciatori del Senegal e della Svezia hanno anche biasimato le cause alla radice del traffico: paesi instabili, povertà, profitti dal commercio di schiavi e assenza di forze dell’ordine”. Ma non ha spiegato perché la Libia è instabile. Un altro articolo di approfondimento di 1.200 parole della CNN (23 novembre 2017) è stato altrettanto opaco.  Solo nel trentacinquesimo paragrafo di questo articolo di trentasei, il ricercatore di Human Rights Watch ha osservato: “Le autorità provvisorie libiche hanno menato il can per l’aia in virtualmente tutte le indagini supposte avviate da esse, e tuttavia mai concluse, dopo la rivolta del 2011”. La guida della NATO in quella rivolta del 2011 è stata tuttavia ignorata. Un dispaccio dell’Agence France-Press pubblicato dalla Voice of America (17 novembre 2017) e da altri siti della rete ha analogamente mancato di fornire un contesto storico per la situazione politica in Libia. “Testimonianze raccolte da AFP in anni recenti hanno rivelato una litania di violazioni di diritti per mano di capi di bande, trafficanti di esseri umani e forze di polizia libiche”, diceva l’articolo, ma senza raccontare nulla di quanto avvenuto prima del 2017. Anche servizi di BBC (18 novembre 2017), New York Times (20 novembre 2017), Deutsche Welle (ripresa da USA Today, 23 novembre 2017) e Associated Press (ripresa dal Washington Post, 23 novembre 2017) hanno mancato di citare la guerra del 2011, per non parlare del ruolo della NATO in essa. Un altro articolo del New York Times (19 novembre 2017) ha in effetti fornito un po’ di contesto: “Dopo che la rivolta della Primavera Araba del 2011 ha posto fine al dominio brutale del colonnello Muammar el-Gheddafi, la costa libica è diventata un centro di traffici e di contrabbando di esseri umani. Ciò ha alimentato la crisi dei migranti illegali che l’Europa si affanna a contenere dal 2014. La Libia, finita nel caos e nella guerra civile dopo la rivolta, è oggi divisa tra tre fazioni principali.” Tuttavia il Times ha continuato a cancellare il ruolo chiave della NATO nella rivolta del 2011. In un resoconto delle vaste proteste scoppiate all’esterno di ambasciate libiche in Europa e Africa in reazione a notizie delle aste di schiavi la Reuters (20 novembre 2017) ha indicato: “Sei anni dopo la caduta di Muammar Gheddafi la Libia è ancora uno stato privo di legge dove gruppi armati competono per terre e risorse e reti di contrabbando di esseri umani operano impunemente”. Ma non ha fornito alcuna ulteriore informazione su come Gheddafi è stato rovesciato. Un articolo dell’Huffington Post (22 novembre 2017), in seguito ripubblicato all’AOL (27 novembre 2017), ha in realtà ammesso che la Libia è “uno dei più instabili del mondo [sic], infangata in un conflitto da quando il dittatore Muammar Gheddafi è stato deposto e ucciso nel 2001”. Non ha fatto alcuna menzione della guida della NATO in tale deposizione e uccisione. Parte del problema è stato l’indisponibilità di organizzazioni internazionali e segnalare la responsabilità di potenti governi occidentali. Nella sua dichiarazione sulle notizie di schiavismo in Libia, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres (20 novembre 2017)  non ha detto nulla riguardo a quanto è accaduto politicamente all’interno della nazione nordafricana negli ultimi sei anni. L’articolo del New Centre dell’ONU (20 novembre 2017) sui commenti di Guterres è stato semplicemente altrettanto privo di contesto e non informativo, così come il comunicato stampa (21 novembre 2017) sull’argomento dell’Organizzazione Internazionale per i Migranti (IOM). Al Jazeera (26 novembre 2017) ha in effetti citato un dirigente dell’IOM che ha suggerito, nelle parole di Al Jazeera, che “la comunità internazionale dovrebbe dedicare più attenzione alla Libia post Gheddafi”. Ma il canale mediatico non ha fornito alcun contesto su come la Libia è diventata post Gheddafi, tanto per cominciare. In realtà la fonte di Al Jazeera ha fatto di tutto per rendere apolitico il tema: “Lo schiavismo del giorno d’oggi è diffuso in tutto il mondo e la Libia non è assolutamente un caso unico”. Anche se è vero che lo schiavismo e il traffico di esseri umani sono attuati in altri paesi, questa diffusa narrativa mediatica depoliticizza il problema in Libia, che ha le sue radici in decisioni politiche esplicite prese da governi e dai loro leader: cioè la scelta di rovesciare lo stabile governo libico, trasformando la nazione nordafricana ricca di petrolio in uno stato fallito, governato da signori della guerra e milizie in competizione tra loro, alcune delle quali sono coinvolte nello schiavismo e nel traffico di esseri umani e ne lucrano. Attenzione selettiva al dopo NATO in Libia La copertura mediatica industriale sulla Libia rispecchia in larga misura quella sullo Yemen (FAIR.org, 20 novembre 2017, 31 agosto 2017, 27 febbraio 2017), sulla Siria (FAIR.org, 4 aprile 2017, 5 settembre 2017) e oltre: il ruolo del governo degli Stati Uniti e dei suoi alleati nel creare caos all’estero e minimizzato, se non del tutto ignorato. Notevolmente, una delle sole eccezioni a questa prevalente tendenza dei media è arrivata in aprile dal, di tutti, comitato editoriale del New York Times. Il comitato editoriale del Times (14 aprile 2017) non ha usato mezzi termini nel collegare l’operazione militare appoggiata dagli USA alla catastrofe in corso: “Nulla di tutto questo sarebbe possibile se non fosse per il caos politico in Libia dalla guerra civile nel 2011 quando, con il coinvolgimento della coalizione NATO comprendente gli Stati Uniti, è stato rovesciato il colonnello Muammar el-Gheddafi. I migranti sono diventati l’oro che finanzia le fazioni in guerra in Libia”. Questa è una considerevole inversione di marcia. Immediatamente dopo l’avvio della guerra della NATO in Libia nel marzo del 2011 l’editoriale del Times (21 marzo 2011) aveva applaudito il bombardamento, sperticandosi: “Il colonnello Muammar el-Gheddafi è da molto un violento e un assassino che non ha mai pagato per i suoi crimini”. Aveva riversato poesia sullo “straordinario”, “sbalorditivo” intervento militare e sperava in una caduta imminente di Gheddafi. L’editoriale del Times dell’aprile 2017 ha mancato poco di essere un mea culpa, tuttavia è rimasto una rara ammissione della verità. All’epoca in cui era stato scritto questo editoriale sorprendentemente onesto, c’era stata brevemente un po’ di attenzione mediatica nei confronti della Libia. L’Organizzazione Internazionale per i Migranti aveva appena condotto un’inchiesta sullo schiavismo nel cambiamento della Libia post regime, determinando una serie di articoli giornalistici sul Guardian (10 aprile 2017) e altrove. In pratica non appena questa vicenda terribile aveva suscitato l’interesse dei media industriali, tuttavia, era presto scomparsa. L’attenzione era tornata alla Russia, alla Corea del Nord e allo spauracchio di turno. Quando i governi occidentali speravano di intervenire militarmente nel paese nell’imminenza del 19 marzo 2011, ci fu un costante torrente di notizie mediatiche sulle malvagità di Gheddafi e del suo governo – compresa una sana dose di notizie false (Salon, 16 settembre 2016). I principali giornali appoggiarono devotamente l’intervento NATO e non fecero mistero delle loro linee editoriali favorevoli alla guerra. Quando il governo statunitense e i suoi alleati si stavano preparando alla guerra, l’apparato mediatico industriale fece quello che sa fare meglio, e contribuì a spacciare al pubblico un altro intervento militare. Negli anni da allora, d’altro canto, c’è stato un interesse esponenzialmente minore al disastroso seguito della guerra della NATO. Ci saranno brevi picchi d’interesse, com’è stato agli inizi del 2017. Il più recente spruzzo di copertura della stampa è stato ispirato dalle sconvolgenti riprese della CNN. Ma la copertura invariabilmente raggiunte un picco e poi svanisce. L’estremo razzismo dei ribelli libici La catastrofe che la Libia avrebbe potuto subire dopo il crollo del suo stato era prevedibile all’epoca. Lo stesso Gheddafi aveva avvertito i paesi membri della NATO, mentre stavano conducendo la guerra contro di lui, che avrebbero scatenato il caos in tutta la regione. Tuttavia i leader occidentali – Barack Obama e Hillary Clinton negli USA, David Cameron nel Regno Unito, Nicolas Sarkozy in Francia, Stephen Harper in Canada – ignorarono l’ammonimento di Gheddafi e rovesciarono il suo governo con la violenza. Persino nel piccolo numero di servizi mediatici sullo schiavismo in Libia che riescono a riconoscere la responsabilità della NATO nella destabilizzazione del paese, tuttavia, manca ancora qualcosa. Guardando indietro ai ribelli libici anti Gheddafi, sia durante sia dopo la guerra del 2011, è chiarissimo che un duro razzismo contro i neri era diffuso nell’opposizione appoggiata dalla NATO. Un’indagine del 2016 del Comitato Affari Esteri della Camera dei Comuni britannica (Salon, 16 settembre 2016) riconosceva che “milizie islamiste militanti hanno avuto un ruolo critico nella ribellione dal febbraio 2011 in poi”. Ma molti ribelli non erano solo fondamentalisti; erano anche violentemente razzisti. Purtroppo non è una sorpresa che questi militanti libici estremisti abbiano successivamente schiavizzato profughi e migranti africani. Vi alludevano fin dall’inizio. La maggior parte della copertura mediatica statunitense ed europea all’epoca dell’intervento militare della NATO era decisamente a favore dei ribelli. Quando i giornalisti arrivarono sul campo, tuttavia, cominciarono a pubblicare alcuni testi più sfumati che alludevano alla realtà dell’opposizione. Furono insignificanti come numero, ma sono illuminanti e meritano di essere rivisitati. Tre mesi dopo l’inizio della guerra della NATO, nel giugno del 2011, Sam Dagher del Wall Street Journal (21 giugno 2011) scrisse da Misurata, la terza città più vasta della Libia e un importante centro dell’opposizione, dove segnalava di aver visto slogan dei ribelli quali “la brigata per purgare gli schiavi, i neri”. Dagher segnalava che la roccaforte ribelle di Misurata era dominata da “famiglie strettamente collegate di mercanti bianchi”, mentre “il sud del paese, prevalentemente nero, principalmente sostiene il colonnello Gheddafi”. Un altro graffito a Misurata diceva “Traditori state alla larga”. Con “traditori” i ribelli si riferivano ai libici della cittadina di Tawergha, che il Journal spiegava è “abitata prevalentemente da libici neri, un’eredità delle sue origini nel diciannovesimo secolo come città di transito del commercio degli schiavi”. Dagher scriveva che alcuni leader libici ribelli stavano “sollecitando l’espulsione degli abitanti di Tawergha dall’area” e “la messa al bando dei nativi di Tawergha dal lavorare, risiedere o mandare i loro figli in scuole di Misurata”. Aggiungeva che i quartieri prevalentemente Tawergha di Misurata erano già stati svuotati. I libici neri erano “andati via o si erano nascosti, temendo attacchi vendicativi dai cittadini di Misurata, in mezzo a notizie di taglie per la loro cattura”. Il comandante ribelle Ibrahim al-Halbous dichiarò al Journal: “Tawergha non esiste più; solo Misurata”. Al-Halbous sarebbe in seguito ricomparso in un articolo del Sunday Telegraph (11 settembre 2011) ripetendo al giornale britannico: “Tawergha non esiste più”.  (Quando Halbous rimase ferito a settembre, il New York Times (20 settembre 2011) lo dipinse con simpatia come un martire dell’eroica lotta contro Gheddafi. La brigata Halbous negli anni da allora è diventata una milizia influente in Libia). Come Dagher, Andrew Gilligan del Telegraph attirò l’attenzione sullo slogan dipinto sulla strada tra Misurata e Tawergha: “la brigata per purgare gli schiavi [e i] neri”. Gilligan scriveva da Tawergha, o piuttosto di quel che restava della cittadina a maggioranza nera, che egli riferiva come “svuotata dalla sua popolazione, vandalizzata e in parte data alle fiamme da forze ribelli”. Un leader ribelle disse dei residenti dalla pelle nera: “Abbiamo detto che se non se ne fossero andati sarebbero stati conquistati e incarcerati. Ciascuno di loro se n’è andato e non permetteremo mai loro di tornare”. Gilligan segnalava “un’avvisaglia razzista. Molti di Tawergha, anche se né immigrati né manifestamente mercenari di Gheddafi, sono discendenti di schiavi e hanno la pelle più scura della maggior parte dei libici”. L’Organizzazione del Trattato Nord-atlantico ha assistito questi virulenti ribelli razzisti a Misurata. Forze della NATO hanno frequentemente lanciato attacchi aerei contro la città. Caccia da combattimento francesi hanno abbattuto aerei libici sopra Misurata. Gli USA e la Gran Bretagna hanno lanciato missili da crociera contro bersagli del governo libico e gli USA hanno lanciato attacchi di droni Predator. Anche l’aviazione canadese ha attaccato forze libiche, allontanandole da Misurata. In un video di propaganda della NATO pubblicato nel maggio del 2011, agli inizi della guerra in Libia, l’alleanza militare occidentale ha ammesso apertamente di aver intenzionalmente permesso a “ribelli libici di trasportare armi da Bengasi a Misurata”. Il politologo Micah Zenko (Foreign Policy, 23 marzo 2016) ha segnalato le implicazioni di tale video: “Una nave NATO, di stazione nel Mediterraneo per forzare un embargo degli armamenti, ha fatto esattamente il contrario e la NATO si è sentita a proprio agio nel pubblicare un video che dimostrava la sua ipocrisia”. Nel corso dell’intera guerra e dopo di essa ribelli libici hanno continuato a condurre attacchi settari razzisti contro i loro compatrioti neri. Tali attacchi sono stati ben documentati da organizzazioni prevalenti per i diritti umani. Il direttore esecutivo di lungo corso di Human Rights Watch,  Kenneth Roth,  ha plaudito all’intervento della NATO in Libia nel 2011, definendo l’unanime avallo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU a una zona d’interdizione al volo, una “rimarchevole” conferma della dottrina della cosiddetta “responsabilità di proteggere”. L’organizzazione di Roth, tuttavia, non ha potuto ignorare i crimini commessi dai militanti anti Gheddafi contro libici e migranti dalla pelle nera. Nel settembre del 2011, quando la guerra era ancora in corso, Human Rights Watch riferì di “arresti arbitrari e violenze [di ribelli libici] contro lavoratori migranti africani e libici neri supposti mercenari [filo-Gheddafi]”. Poi a ottobre la maggior organizzazione statunitense per i diritti umani ha segnalato che milizie libiche stavano “terrorizzando i residenti sfollati della città vicina di Tawergha”, la comunità a maggioranza nera che era stata una roccaforte a sostegno di Gheddafi. “L’intera cittadina di 30.000 persone è stata abbandonata – in parte saccheggiata e incendiata – e i comandanti della brigata di Misurata affermano che i residenti di Tawergha non dovrebbero tornare mai”, ha aggiunto HRW. Testimoni “hanno fornito resoconti credibili di alcune milizie di Misurata che hanno sparato contro abitanti disarmati di Tawergha e di arresti e maltrattamenti arbitrati di detenuti di Tawergha, in alcuni casi causa di morte”. Nel 2013 HRW ha ulteriormente riferito sulla pulizia etnica della comunità nera di Tawergha. L’organizzazione per i diritti umani, il cui capo aveva così calorosamente appoggiato l’intervento militare, ha scritto: “La cacciata a forza di circa 40.000 persone, le detenzioni arbitrarie le torture e le uccisioni sono diffuse, sistematiche e sufficientemente organizzate da costituire crimini contro l’umanità”. Tali atrocità sono innegabili e aprono una via diretta alla schiavizzazione di profughi e migranti africani. Ma per riconoscere la complicità della NATO nel dare potere a questi militanti estremisti razzisti i media dell’industria dovrebbero innanzitutto riconoscere il ruolo della NATO nella guerra del 2011 in Libia per il cambiamento del regime. Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/nato-role-in-bringing-slave-markets-to-libya/ Originale: FAIR.org   traduzione di Giuseppe Volpe Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3. Preso da: http://znetitaly.altervista.org/art/23776 https://ift.tt/2OIJ9j8
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santaluziagard · 6 years
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6ª-feira da 12ª Semana do Tempo Comum
Uma comunidade fraca e doente, sem a força da Palavra de Deus, acaba exilada do caminho da vida. A Palavra e a presença do Senhor têm o poder de transformar as situações de sofrimento em alegria.
  Primeira Leitura: 2 Reis 25,1-12
Leitura do segundo livro dos Reis – 1No nono ano do reinado de Sedecias, no dia dez do décimo mês, Nabucodonosor, rei da Babilônia, veio atacar Jerusalém com todo o seu exército. Puseram-lhe um cerco e construíram torres de assalto ao seu redor. 2A cidade ficou sitiada e rodeada de valas até o décimo primeiro ano do reinado de Sedecias. 3No dia nove do quarto mês, quando a fome se agravava na cidade e a população não tinha mais o que comer, 4abriram uma brecha na muralha da cidade. Então o rei fugiu de noite, com todos os guerreiros, pela porta entre os dois muros, perto do jardim real, se bem que os caldeus cercavam a cidade, e seguiram pela estrada que conduz à Araba. 5Mas o exército dos caldeus perseguiu o rei e alcançou-o na planície de Jericó, enquanto todo o seu exército se dispersou e o abandonou. 6Os caldeus prenderam o rei e levaram-no a Rebla, à presença do rei da Babilônia, que pronunciou sentença contra ele. 7Matou os filhos de Sedecias na sua presença, vazou-lhe os olhos e, preso com uma corrente de bronze, levou-o para a Babilônia. 8No dia sete do quinto mês, data que corresponde ao ano dezenove do reinado de Nabucodonosor, rei da Babilônia, Nabuzardã, comandante da guarda e oficial do rei da Babilônia, fez a sua entrada em Jerusalém. 9Ele incendiou o templo do Senhor e o palácio do rei e entregou às chamas todas as casas e os edifícios de Jerusalém. 10Todo o exército dos caldeus, que acompanhava o comandante da guarda, destruiu as muralhas que rodeavam Jerusalém. 11Nabuzardã, comandante da guarda, exilou o resto da população que tinha ficado na cidade, os desertores que se tinham passado ao rei da Babilônia e o resto do povo. 12E, dos pobres do país, o comandante da guarda deixou uma parte, como vinhateiros e agricultores. – Palavra do Senhor.
  Salmo Responsorial: 136(137)
Que se prenda a minha língua ao céu da boca / se de ti, Jerusalém, eu me esquecer!
Junto aos rios da Babilônia † nos sentávamos chorando, / com saudades de Sião. / Nos salgueiros por ali / penduramos nossas harpas. – R. Pois foi lá que os opressores / nos pediram nossos cânticos; / nossos guardas exigiam / alegria na tristeza: / “Cantai hoje para nós / algum canto de Sião!” – R. Como havemos de cantar † os cantares do Senhor / numa terra estrangeira? / Se de ti, Jerusalém, † algum dia eu me esquecer, / que resseque a minha mão! – R. Que se cole a minha língua † e se prenda ao céu da boca / se de ti não me lembrar! / Se não for Jerusalém / minha grande alegria! – R.
Evangelho: Mateus 8,1-4
Proclamação do evangelho de Jesus Cristo segundo Mateus – 1Tendo Jesus descido do monte, numerosas multidões o seguiam. 2Eis que um leproso se aproximou e se ajoelhou diante dele, dizendo: “Senhor, se queres, tu tens o poder de me purificar”. 3Jesus estendeu a mão, tocou nele e disse: “Eu quero, fica limpo”. No mesmo instante, o homem ficou curado da lepra. 4Então Jesus lhe disse: “Olha, não digas nada a ninguém, mas vai mostrar-te ao sacerdote e faze a oferta que Moisés ordenou, para servir de testemunho para eles”. – Palavra da salvação.
  Reflexão:
Embora a narrativa seja breve, traz um conteúdo revolucionário. Leprosos, naquela época, nem se aproximavam das pessoas. Viviam afastados do convívio social, gritando sua miserável situação, para que ninguém se contaminasse. Além disso, considerados impuros, eram impedidos de prestar culto público a Deus. Dupla marginalização: social e religiosa. Ora, Jesus, tendo assumido a causa dos oprimidos, acolhe o leproso. Surpresa para todos, desconforto para alguns, que logo vão espalhar a notícia de que também Jesus é impuro, porque tocou a pele do leproso. Decidido, sem fazer cálculos sobre a possível reação dos adversários, Jesus afirma: “Quero. Fique purificado”. Os sumos sacerdotes ficarão agitados com a presença de alguém que transmite vida abundante para o povo.
(Dia a dia com o Evangelho 2018 – Pe. Luiz Miguel Duarte, ssp)
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tmnotizie · 6 years
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MACERATA – Un’altra giornata densa di appuntamenti venerdì 4 maggio alla festa del libro Macerata Racconta giunta all’ottava edizione e organizzata dall’associazione ConTESTO con il Comune e l’Università di Macerata.  Appuntamento clou della giornata l’inaugurazione, alle 16.30, nei locali dell’ex Upim, della Fiera dell’editoria Marche Libri, giunta alla settima edizione, che ha come protagonista l’eccellenza della produzione editoriale che si realizza nelle Marche.
Unica nel suo genere nel territorio marchigiano, Marche Libri si conferma uno spazio in cui trovare le migliori produzioni editoriali dell’intera regione e non solo, visto che al suo interno saranno ospitati anche alcuni editori provenienti da altre regioni italiane.
Marche Libri rappresenta un appuntamento importante per la cultura e l’imprenditoria editoriale che presenta in questa nuova edizione 47 case editrici le quali torneranno a esporre nello spazio dell’Ex Upim in corso Matteotti, sia direttamente con propri stand che rappresentate dalla libreria del festival gestita dall’associazione Libri in città.  Le case editrici che daranno vita alla Fiera Marche Libri sono:
Affinità Elettive | Altreconomia | Andrea Livi Editore | Aras Edizioni | Arpeggio Libero | Biblohaus | Bravi | Cattedrale | Claudio Ciabochi Editore | Controvento Editrice | Cromo Edizioni | Donzelli Editore | Editoria Studi Superiori | Edizioni Artemisia | EUM – Edizioni Università Macerata | EV | Fara Editore Giaconi Editore | Giometti & Antonello | I Luoghi Della Scrittura | Il Lavoro Editoriale | Ilari Editore | Infinito Edizioni | Ippocampo Edizioni | Italic Pequod | Lavieri Edizioni | Le Mezzelane | Ledra | Librati Edizioni | Libri d’aMare | Linfa Eintertainment | Lirici greci | Metauro Edizioni | Montag | Progetti Sonori | Quodlibet | Raffaello Editrice | Rivista Argo | Roi Edizioni  Rrose Sélavy | Simple Edizioni | Taschen Logos | UT | Ventura Edizioni | Vydia Editore | Zefiro Edizioni.
Tra gli altri appuntamenti alle 11.30 nell’aula Shakespeare del Polo didattico Tucci a palazzo Ugolini, in collaborazione con il Dipartimento di Studi umanistici UniMc la presentazione del libro Gramsci Una nuova biografia di Angelo D’Orsi alla che verrà introdotto da Carla Carotenuto e Michela Meschini. A ottant’anni dalla morte capire la vita e la vicenda intellettuale di Antonio Gramsci può ancora servire  per capire il mondo in cui viviamo, o per provare a rimetterlo in discussione
Angelo D’Orsi insegna Storia delle dottrine politiche nella facoltà di Scienze politiche   dell’Università di Torino. Si è occupato di militarismo e pacifismo, di nazionalismo e di fascismo. Spesso ospite di Agorà (Raitre) e ideatore del FestivalStoria è uno dei massimi esperti di Antonio Gramsci. Una nuova biografia di Antonio Gramsci è attenta soprattutto agli aspetti intellettuali e politici della complessa personalità di Gramsci, ma non trascura l’universo affettivo in cui si colloca la breve esistenza di questo personaggio.
Il libro, diviso in quattro parti, ciascuna corrispondente a un ben preciso periodo della vita di Gramsci, si snoda secondo una narrazione lineare ma che mostra di volta in volta le riprese che Gramsci farà in epoche successive di spunti che lancia nei diversi periodi. Il libro è rivolto tanto agli studiosi quanto a coloro che di Gramsci sanno a malapena il nome, in un tentativo di farlo conoscere agli uni e farlo rimeditare dagli altri, nella convinzione da cui l’autore è animato che Gramsci sia oggi terribilmente inattuale (in quanto lontanissimo dai modelli dominanti dell’agire dei politici ma anche di quello degli intellettuali), ma nel contempo drammaticamente necessario.
Nel pomeriggio di Macerata racconta, alle 16.30, al Museo della scuola ci sarà l’incontro, valido come formazione per insegnanti, educatori e genitori, “Viaggio nella letteratura contemporanea per bambini” con Nadia Terranova, giovane autrice italiana dotata di grande talento che ha esordito nel romanzo nel 2015 con “Gli anni al contrario” – Einaudi – , definito da Roberto Saviano uno dei libri migliori del 2015 e vincitore di numerosi premi tra i quali Bagutta Opera Prima, Brancati e Fiesole. Prima di allora si era dedicata con successo alla scrittura di libri per ragazzi. Collabora con diverse riviste ed è tradotta in Francia, Spagna, Messico, Polonia e Lituania.
Gli anni al contrario di Aurora e Giovanni passano attraverso sentimenti e passioni, eventi umani potenti e delicati sullo sfondo di anni belli e terribili come gli anni Settanta, vissuti però a Messina, dove è difficile essere e sentirsi protagonisti. Di Lei Elena Stancanelli dice:” Nadia Terranova scrive un romanzo capace di nascondere, sotto una prosa leggera, un’anima robusta, una precisa idea del mondo. (…) Per fortuna che ci sono romanzi come Gli anni al contrario che ci fanno sentire meno soli”.
Alle 17 nell’aula 11 dell’Università di Macerata, introdotto da Maurizio Verdenelli e Matteo Zallocco verrà presentato il libro “Pamela Dall’omicidio al “lupo” Traini: i fatti di Macerata che hanno sconvolto l’Italia” con Giuseppe Bommarito, Gianluca Ginella, Marco Ribechi e Giovanni De Franceschi.  Alle 17.30 alla Biblioteca Mozzi Borgetti , introdotto da Valerio Calzolaio, ci sarà Corrado Dottori con il suo La musica Vuota (Italic Pequod)
Edoardo Alessi, consulente finanziario di successo in crisi di identità, ritrova sette scatoloni pieni di diari, fotografie e lettere, conservati nella casa di montagna dei nonni paterni. I suoi scritti di gioventù si mescolano con le memorie del padre adolescente e rivoluzionario a formare una strana commistione di storie mai raccontate, sensi di colpa e recriminazioni. Il racconto di una storia familiare complessa. L’assenza dei genitori, militanti di estrema sinistra negli anni di piombo, tormenta Edoardo spingendolo a ricostruire il proprio passato e quello di un padre poco conosciuto, a cui lo lega una passione sfrenata per la musica rock.
Un album in particolare, “Exile On Main Street” dei Rolling Stones ritorna in maniera circolare a scandire i momenti salienti del romanzo, potentissimo catalizzatore in grado di innescare una continuità culturale e politica tra due mondi. Perché Edoardo, dopo un’adolescenza da militante nei movimenti studenteschi, spesa tra contestazione nei centri sociali, feste e concerti rock, è diventato ciò che non avrebbe mai voluto essere, un private banker? Tra viaggi in California, Marocco e Messico, tra affetti del presente (il vecchio amore mai dimenticato Maria e l’attuale bellissima compagna Raffaella, l’amico di infanzia Ceska) e di un passato che a volte incombe (il padre morto, la madre latitante, i nonni che lo hanno cresciuto e infine Joe, suo zio), “La Musica Vuota” è una sorta di memoir di un’intera generazione a cavallo e in bilico tra due secoli.
Protagonista dell’appuntamento alle 18 alla Galleria degli Antichi forni, introdotto da Renata Morresi, sarà invece Marco Benedettelli con il suo Chi brucia. Nel Mediterraneo sulle tracce degli harraga (Vydia editore).  Marco Benedettelli ha collaborato come giornalista freelance con Avvenire, Il manifesto, Sole24ore.it, D di Repubblica, Popoli e Missione, Vita no profit, Il Corriere della Sera e vari quotidiani locali, specializzandosi nel genere del reportage da zone di crisi. È tra i fondatori e coordinatori di Argo, rivista ventennale di letteratura. Ha scritto su Nazione Indiana ed è stato parte del collettivo 48ore.com (oggi off-line). Ha pubblicato la raccolta di racconti La regina non è blu (Gwynplaine edizioni, 2012).
Harraga. È il termine arabo che indica i migranti che bruciano i propri documenti d’identità per attraversare illegalmente la frontiera e tentare una via d’ingresso in Europa. Marco Benedettelli, testimone attento e sensibile, ne ha seguito nel 2011, anno infiammato dalla Primavera araba, gli spostamenti, le speranze, le paure, in un lungo itinerario che lo ha condotto nelle zone nevralgiche del fenomeno migratorio tuttora in atto nel Mediterraneo e in particolare in Italia, terra di approdo e di transito per quelli che cercano una nuova vita in fuga da povertà, guerre, dittature. Dalla Tunisia a Lampedusa, dalla Libia a Ventimiglia, da Malta a Roma e fino alla problematica realtà dell’Hotel House di Porto Recanati nelle Marche, Chi brucia è un diario di viaggio coinvolgente e appassionato in cui la verità scottante del reportage s’intreccia a brani di felice invenzione narrativa.
Franco Lorenzoni, invece, maestro elementare a Giove, in Umbria sarà alle 18.30 al Teatro della Filarmonica  con il suo Orfeo, la ninfa Siringa e le percussioni pazze dei Coribanti (Rrose Sèlavy) in compagnia di Lucia Tancredi. Lorenzoni ha fondato e coordina dal 1980 ad Amelia la Casa-laboratorio di Cenci, un centro di sperimentazione educativa che ricerca intorno a temi ecologici, scientifici, interculturali e di inclusione. Per questa attività ha ricevuto nel 2011, insieme a Roberta Passoni, il Premio Lo Straniero.  C’è un bambino straordinario, Orfeo, che non piange appena nato ma si mette a cantare in modo così dolce da incantare gli uccelli che volano lì intorno.
C’è la ninfa Siringa, che si trasforma in canne mosse dal vento per sfuggire a Pan, il dio dei boschi innamorato di lei, che costruirà con quelle canne il primo flauto per ricordare il suo amore. C’è un gruppo di ragazzi scatenati, chiamati Coribanti, che battendo bastoni, pietre e metalli, coprono il pianto del piccolo Zeus e gli salvano la vita.All’origine della musica c’è una relazione intima e totale con la natura e gli spiriti che la abitano. Paura, amore, solitudine, struggente nostalgia e ricerca di armonia trovano nel canto e nel suono il loro primo linguaggio e, forse, la loro origine remota.
A conclusione della ricchissima giornata di Macerata Racconta, alle 19.30 alla galleria degli Antichi forni, torna Valerio Calzolaio con Enonoir: La camera chiusa.
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ilpeneblog · 7 years
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Storia e Geografia del Pene che Allunga
Storia & Sfondo
Considerato come il più naturale di tutti i metodi di pene, attraverso l’allungamento o la trazione a base di dispositivi come estensori non è in realtà così nuovo. Mentre l’invenzione del moderno estensore Hi-Tech è abbastanza nuovo, il concetto non lo è. Infatti, il principio di allungamento o trazione è stato utilizzato con successo per migliaia di anni in diverse regioni del mondo per ingrandire varie parti del corpo tra cui il collo, braccia, gambe e, naturalmente, il pene.
Storicamente, diverse tribù hanno usato i pesi e altri strumenti per allungare le parti del corpo, sia che si tratti di labbra, orecchie e anche il pene.
Molte cultura e società tribali hanno perseguito il pene in una forma o nell’altra nel corso dei secoli. L’antropologo Margaret Mead ha riferito i maschi polinesiani che allungano i loro peni usando un manicotto tessuto fatto della fibra della pianta simile ad una presa cinese della barretta.
Il pene è stato inserito in un’estremità e una roccia o l’altro oggetto pesante è stato appeso dall’altra estremità. Le indagini archeologiche hanno anche rivelato disegni rupestri che datano tutta la strada fino al 440 a.c. Molti di questi disegni della caverna mostrano gli uomini (normalmente re) con i grandi peni.
Arabia
Come in molte altre culture, il pene e la potenza sessuale è sempre stato usato come simbolo della virilità maschile e della mascolinità negli antichi Arabi. Narrativa antica arabo racconti di descrivere esplicitamente vari incontri sessuali e la conseguente dominante maschile sessuale a causa della loro dimensione dei genitali e la potenza.
Il famoso ben noto pene-tecnica di “Jelqing” è pensato per essere originato dalla cultura araba. Alla fine degli anni ’70, il Dr. Brian Richards, trasportava alcuni studi dettagliati sull’efficacia della jelq araba e la sua ricerca fu pubblicata anche dal British Journal di medicina sessuale e mostrò risultati estremamente positivi per il 87% del gruppo di prova.
Tuttavia, la crescita complessiva del pene non era molto significativo e anche preso un sacco di tempo. Molti sexperts oggi, quindi, sostengono l’uso “combinato” di esercizi di allungamento del pene insieme con gli estensori del pene per ottenere il massimo dei risultati nel minor tempo possibile.
Africa
La pratica del pene attraverso l’estensione/trazione è stato ampiamente utilizzato in Africa e Sud America da membri della tribù che hanno fatto il labbro e l’orecchio che si estende per puramente la propria cultura. Questa pratica è stata ancora in corso nel corso dei secoli.
In alcune tribù dell’Africa, le donne hanno usato questa pratica spesso. Si possono ancora vedere le immagini di donne aferican cui colli sono stati allungati, allargata e allungata e portano gli anelli d’oro intorno al collo. Questa pratica e la tradizione inizia quando le ragazze sono solo 6 anni e il processo richiede molto tempo. La maggior parte delle donne arrestare il processo per il momento in cui raggiungono 20 anni.
Similmente, le donne dalla tribù di Mursi che risiede nella valle di Omo in Etiopia del sud portano determinati dischi tradizionali del labbro. I dischi sono indossati come un ricordo della condizione di una donna. Se il disco è abbastanza grande, Mostra la maturità sessuale e lo status sociale.
A volte, questo disco labbro è anche indossato per aumentare la dimensione del labbro inferiore come simbolo di bellezza femminile. Gradualmente, nel periodo di tempo, alcune delle donne Mursi tribù può anche tirare le labbra fino alla testa.
Sud America
Allo stesso modo, le tribù Suya dell’Amazzonia hanno usato l’estensione come tradizione quando si tratta di ragioni spirituali e culturali. Gli uomini della tribù utilizzato per forare le loro orecchie e le labbra quando erano giovani e come hanno ottenuto più anziani il prolungamento continuato e le labbra e le orecchie sono state effettivamente estese oltre il 300 per cento in più.
Roma
Circa l’antica Roma e la Grecia, ci sono diversi antichi riferimenti allà preparazione del membro mettendo un onere pesanté e per mezzo di un’massaggio riscaldatò. Anche i ragazzi più giovani sono stati insegnati come completare alcuni esercizi del pene che li ha aiutati ad aggiungere lunghezza e circonferenza.
Egitto
La storia di allungamento del pene e risale anche ai giorni della dinastia pre-egiziana, quando manoscritti antichi in dettaglio la sperimentazione grezza su schiavi e pene sono stati scritti. È stato dimostrato che i faraoni dell’antico Egitto praticato il “peso impiccagione” metodo del pene.
Tuttavia, molti scienziati ora credono che l’impiccagione di peso non è un metodo sicuro e pienamente efficace del pene. È stato dimostrato che mentre anche se la lunghezza del pene può aumentare per un lungo periodo di tempo; il suo spessore è in realtà diminuito.
Dipendendo dal dispositivo d’attaccatura, la circolazione di anima inoltre diminuisce, che può, a sua volta, causare la necrosi (morte) del tessuto.
India (Asia Sudorientale)
Le tribù Sadkhus indiano raggiunto risultati tremendi da appendere le pietre su peni con liane o erba. Le pietre pesanti hanno esteso i tessuti del pene con la forza uguale durante tutto il periodo mentre sono stati fissati su esso. Similmente, le signore famose del collo africano, che potevano aumentare il formato del loro collo da quasi 50% applicando le piccole quantità di pressione al loro corpo.
In breve, le evidenze geografiche e storiche di cui sopra confermano l’efficacia ed il successo di vari allungamento del pene e tecniche, metodi e dispositivi.
Per quanto riguarda i diversi tipi di estensori del pene tecnologia, il concetto di un dispositivo di trazione persistente come con un estensore (essendo auto-contenute dal corpo) potrebbe non tornare indietro che lontano, stretching manuale e jelqing sicuramente tariffa.
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gregor-samsung · 2 years
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“ Samar continuava a parlare con quel suo strano fervore: - Ascolta, tu non ascolti, dobbiamo spiegare che la nostra causa è giusta, bisogna che rendiamo pubbliche le pratiche dei fascisti, gli omicidi, gli stupri, le ruberie, i transfert, le case distrutte. Il cinema di denuncia, è questo il suo ruolo. Rendere di pubblico dominio. Bisogna... - Ma anche noi... Le ho detto che anche noi commettiamo degli errori, che anche noi ammazziamo, anche noi... - Non è vero, quel che dici non è vero. - Giuro che è vero! Damour. Noi a Damour... - Non parlare di Damour! Ti sei dimenticato del quartiere dei mattatoi, di Karantina, di Na'aba, di Tell al-Za'atar? - Compagna, non parlarmi con questo tono! Sta' calma, sto solo dicendo la verità! - No, non è la verità, la verità dev'essere al servizio della rivoluzione, questi sono discorsi che turbano i nostri militanti. - La verità è al servizio della verità. Ascolta. - Ascolta tu. La guerra è guerra. - Lo so, giuro che lo so, si fanno errori in tutte le guerre, la cosa fondamentale è la questione politica, però commettiamo anche noi degli errori. - No, tu la fai troppo grossa, come fa un combattente come te a parlare in questo modo? - Giuro, sorella, io queste cose le, so. Eppure combatto e continuerò a combattere. Sí insomma, tutto questo non c'entra. Però è la verità. Io rimango, dove vuoi che vada? Alla fine di quella conversazione, Samar mi ha consigliato di tornare all'università. Ma che università e università, come faccio a studiare? L'occhio sano non è mica sano, quando leggo per un po' mi diventa rosso e mi piglia un dolore insopportabile, all'università non posso tornare e un altro mestiere non lo so fare. E poi non voglio. Come posso dimenticare? Metà dei miei amici sono morti martiri, come faccio? Li lascio nella tomba e scappo via, come ho fatto con Samíh? No. Si è alzata, il cameriere ha portato il conto. Voleva pagare lei, non gliel'ho permesso. “
Elias Khuri, Facce bianche, traduzione dall'arabo di Elisabetta Bartuli, Einaudi (collana L'Arcipelago n° 126), 2007¹; pp. 185-186.
[1ª Edizione originale: الوجوه البيضاء, (Wujuh al-bayda), editore Dar Al Adab, Beirut, 1981]
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gregor-samsung · 4 years
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“ Le festività dei morti sono i giorni più felici della mia esistenza. La preparazione per la festa inizia alla vigilia con la confezione dei dolci e dei datteri. Di mattina presto, mi reco con mio padre e mia madre al cimitero, portando le foglie di palma e il basilico. La domestica ci precede con il cestino della misericordia. Mi piace molto osservare l’affluire di gente e di carri verso quel luogo, la cui porta d’ingresso rappresenta per me una vecchia amica. Non appena entrati ci dirigiamo verso la tomba che mi attrae per la sua struttura maestosa e isolata, per le due alte stele che la fiancheggiano, per il mistero che la avvolge e per il rispetto che le porta mio padre. Mi avvince come la visione di un cactus. Sotto la volta celeste faccio salti di gioia, e niente può più fermare la mia curiosità. La piena contentezza per me si realizza quando ascolto il recitatore cieco del Corano e osservo le schiere dei mendicanti che si contendono l’obolo della misericordia. L’arrivo di Hammam modifica la situazione. Mia sorella e suo figlio sono venuti a stare con noi per qualche tempo. Hammam ha quattro anni o poco più. è un compagno di giochi che sprizza vitalità e simpatia, e con la sua presenza riempie le mie giornate. è educato, sempre sereno, gioca con me senza stancarsi mai e crede ciecamente alle bugie che gli racconto e alle mie fantasie. Un giorno, lo trovo sdraiato per terra, silenzioso; lo chiamo per giocare, ma non risponde. In seguito, vengo a sapere che si è ammalato… La nostra casa è oppressa da un’atmosfera di timore e d’apprensione, alla quale si aggiungono l’angoscia, la preoccupazione e il mio presentimento di qualcosa di oscuro e triste. Il mio dolore è condiviso da mia madre, da mia sorella e, ben presto, al suo arrivo, da mio cognato… Vorrei avere notizie più precise riguardo alla salute di Hammam, ma mi allontanano dicendomi: «Queste non sono cose per te… Va’ fuori a giocare.» Ho la netta sensazione che stia per compiersi qualcosa e, senza dubbio, qualcosa di grave. Mia madre piange, mia sorella si dispera. Osservo da lontano il mio amico sul letto, avvolto nelle lenzuola come un cuscino nella sua federa. Non gli hanno lasciato nemmeno un’apertura per respirare! Alla fine, riecheggia per la casa la parola “morte”. Mi rendo conto che se ne è andato per sempre e scoppio a piangere. Da quel momento, la visita al cimitero non è più un giorno lieto, così come la vista della tomba non mi dà più felicità. Mi piacerebbe scoprirne i misteri e penetrare nel suo silenzio di morte. Il dolore della separazione aumenta con il passare dei giorni. La tristezza, l’affetto perduto, la paura, il ricordo costante e l’oppressione diventano i segreti dell’aldilà. “
Naghib Mahfuz, Il nostro quartiere, Feltrinelli (traduzione di Valentina Colombo, collana Universale Economica n° 1180), 1991; pp. 20-21.
[ 1ᵃ edizione originale: حكايات حارتنا (Ḥikāyat ḥāritnā - Racconti del nostro quartiere), American University Press, Il Cairo, 1975 ]
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