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Attore, ma d'istinto.
Nella sua testa era ben chiaro che essere attore era un privilegio assoluto, vivere mille volte, raccontando la propria storia, senza la pretesa di imporre, ma di poter guardare un nuovo punto di vista, una prospettiva focalizzate da arricchire, da adoperare. Nel suo cuore, conosceva l'amore consolidato per questo mestiere, la fedeltà da riservare, il sacrificio a cui non poter dare questo nome, perché chi fa il mestiere d'attore, del resto, non ha il "privilegio" di aver qualcosa da sacrificare veramente, e tuttavia non è proprio così, nonostante si continui a "giocare". Marcello attore instancabile, lasciava spazio alla più profonda intelligibilità emotiva, accoglieva il suo personaggio come si accoglierebbe un nuovo amico a cui raccontare una storia da vivere insieme. Portava vita, inevitabilmente. Ogni parola, ogni gesto in scena raccontavano il suo istinto, la sua emotività, elementi fragili e potentissimi. Ogni vita narrata, su pellicola, attraverso i suoi occhi, celava qualcosa di sé e vibrava di un sentire, vitale, reale, empatizzante, vissuto, compreso, così vicino da essere percepito. La sua istintività recitativa si manifestava in modo naturale e autentico, ogni parola pronunciata e ogni movimento erano sostenuti, guidati, dall'essenza stessa del personaggio che interpretava, a cui lui dava un nome, una nuova casa da abitare. Lui, attore volitivo, uomo dalla sensibilità acuta e intelligente, era capace di entrare con naturalezza, nelle profondità psicologiche dei suoi personaggi, ne abbracciava gioie, paure e desideri, portando in vita sfumature emotive e complessità umane. Senza artificiosi tecnicismi, incarnava il concetto stesso di versatilità, raccontando ogni colore di quelle vite vissute, attraverso la sua innata elasticità emotiva e coscienza attoriale permeate da una predominante d'istinto che non si imponeva, ma che lasciava solo vita a quel darsi, al concedersi, per meglio raccontarsi.
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telefonamitra20anni · 15 days
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Esistenzialismo, alienazione, incongruenza.
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Lo straniero.
Meursault è un uomo apatico e distaccato, un antieroe sociale, incapace di provare emozioni genuinamente profonde o di conformarsi a schemi dogmatici e labili consuetudini sociali. La sua indifferenza nei confronti degli eventi più cruciali della sua vita lo lascia inerme, inetto, conducendolo a compiere scelte del tutto discutibili, culminando nella sua condanna a morte per omicidio.
Marcello cattura in modo straordinario e fervente l'essenza di questo personaggio così complesso e controverso trasmettendo al pubblico la sua apatica freddezza, adornata da un' inquietante calma, anche dinnanzi alla tragedia e all'ingiustizia, contribuisce al dono di un contrasto acceso, sottolineando un tratto di fatua e delicata sensibilità.
Lo straniero è un excursus esplorativo attraverso temi profondi come l'alienazione, l'assurdità distopica della vita e la mancanza di senso nell'esistenza umana e delle sue discutibili convenzioni sociali, nei suoi confini emarginati in regole da perseguire, per porsi il "dovere di essere" perfino quello che non si sente di essere. Mersault, resta ben lontano da tutto questo, scegliendo distintamente di camminare controcorrente, trascinato, emarginato, inetto, a suo modo elucubrante di un concetto ben più semplice, più asciutto, avulso da ogni sovrastruttura esistenziale, del tutto conscio di non essere l'unico a permeare il ruolo di un uomo alienato in una convenzione sociale e morale.
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telefonamitra20anni · 23 days
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Italian lover, italian Power.
#nonsonounlatinlover
Indossare la divisa di maschio latino, equipararsi ad un'etichetta per Marcello, sfiorava una latente intollerabilità. Italian lover, cadenzava una eco di convenzioni, in una misoginia contraria, canonica, una collocazione in un' etichetta, in un confine volgare dai tratti disturbanti e pruriginosi. Gli attribuiva meriti velleitari e demeriti, a cui Marcello non sentiva appartenenza. Tutto nasce per gioco, in America in un tempo scandito dagli anni sessanta, dopo la dolce vita, l'immagine in anima di quel personaggio, permane negli occhi dello spettatore e Marcello suo malgrado, complice di una straordinaria e fascinosa bellezza tutta italiana, permette a quegli stessi occhi di sognare, e li convince al punto tale di conquistarli. È nato il latin lover. Ma questa probabile conquista , lo inizia ad una "lotta eterna" all'etichetta, fatta di ironica intelligenza e incisività garbata. Durante tutta la sua carriera, nelle interviste, tra le domande a lui poste, c'era sempre spazio per quella, più inospitale: << "Marcello parliamo di donne" , "tu che sei un latin lover".. >> ma per lui, notoriamente uomo semplice, la semplificazione d'un esito di uomo, non poteva essere riducibile solo a questo. L'interesse dello spettatore però, era solleticato indiscretamente da un immagine, la sua, ridotta, ridimensionata, a ciò che avrebbe fatto tra le braccia di una donna. La convenzione di quell' etichetta, anche per sua ammissione, per quanto pruriginosa, talvolta in paradosso, ha calzato comodamente, meglio dire che Marcello abbia "riconosciuto rassegnatamente" che lo facesse, senza però non mancare di restarne distante, smentirla, indebolirla. Lo fa, e ancora una volta, si concede il "lusso di giocare", normalizzare, rendere leggero, guardare altrove.
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telefonamitra20anni · 26 days
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Linguaggio Mastrojanni.
Linguaggio : comunicazione, estensione in espansione di uno stato emotivo, di un pensiero.
Ma la questione è ben più semplice, Marcello, senza tecnicismi è stato inconsapevole comunicatore di espressività eterogenea. Il suo linguaggio era fruitore emotivo universale, senza distinzione di genere. Lui si adoperava nella vita come nel cinema a comunicare. Lo faceva legato ad un filo di un telefono, tra le strade stanche di un quotidiano, spinto, da quell'urgenza gentile e dalla sua stessa vena di sola malinconia. Quel linguaggio, Il suo mestiere lo ha estremizzato, adoperato, spiegato. La sua espressività non canonica, così realistica ha svelato ogni colore possibile, celato nelle parole pronunciate durante le interviste, o in mezzo un tempo attoriale in una scena da "ciack azione". Un linguaggio complice, misurato, diretto, fisico, gesticolato, controllato, ma spontaneo. Un linguaggio coscienza, democratico, proiettato, congruo con il suo modo di essere e di voler dire, e poter avere quell' estensione spontanea e coinvolgente. Marcello era fruitore di un linguaggio che aveva il suo modo di fare linguaggio: indolente, gentile, attrattivo, seducente, eroticamente involontario, capace di sostenere un conscio pensiero che non fosse banalmente lasciato al caso. Tutto questo accadeva in semplicità, naturalezza in afferenza.
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telefonamitra20anni · 1 month
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Cinema, da fast food.
Hollywood lo ha corteggiato, gli imponeva un linguaggio, ma Marcello non voleva snaturarsi. C'era in lui un'integrità, una natura semplice e semplificante di fare il mestiere d'attore, che lo guidava a condurre scelte tutte personali. L'uomo, invece, faticava alla comprensione di quel linguaggio, nella sua imposizione, seppur dotato di estrema sensibilità e riconosciuto come tale, celava in sé una certa diffidenza a prendere parte ad un meccanismo cinematografico da fast food. Lui, detestava sentirsi come un impiegato che necessariamente doveva "timbrare il cartellino", la sua creatività spontanea e delicatezza attoriale, erano soffocate da tutto questo. Ma il suo mestiere, in qualche modo, lo destinava sempre alla caparbia richiesta di prendere una decisione, di capire quanto "giocare" in un sistema cinematografico di cui non sentiva totale appartenenza, potesse essere necessario. Marcello, attore italiano instancabile, non voleva tramutarsi in eremita artistico, votato ad un confine, ma bensì gli era più congeniale vivere liberamente quel confine, come un turista di lusso, con il più autentico gusto della scoperta, alimento vitale e opportuno per chi, come lui, ha voglia di riempirsi gli occhi e la testa. Ma la sua propensione alla curiosità spontanea, lo spinge a sperimentare e a non rimanere mai statico, fermo in un ruolo solo, in un qualunque posto del mondo. Alimenta nella sua testa e nei suoi occhi, mondi appartenenti ai suoi personaggi, e riesce a farlo senza troppa ricerca, solo istinto, raccolto, racchiuso, in appartenenza. Lo fa di tanto in tanto, concedendosi uno sguardo al di fuori da sé, dal suo confine, in prima linea, rendendo esterofilo il suo sguardo attoriale, senza dimenticarne l'integrità. Solo istinto analitico e sensibilità bastante a tirare su un carattere, un personaggio che necessariamente non difendesse il ruolo dell'italiano medio ma che, integrandosi, ne ricordasse le radici, anche fuori dal suo confine natio. Marcello era fruitore del suo linguaggio, opportunamente aderente a lui, familiare, congeniale, caustico di un cinema che potesse comunicare e non consumare.
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telefonamitra20anni · 1 month
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From Rome to Paris (andata e ritorno).
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Marcello, per le strade romane in un febbraio del 1958.
Una stretta linea di fluido confine con la quale Marcello ha tessuto una storia di vita e arte, che ha attraversato i confini geografici e culturali, era la sua vita divisa tra Roma e Parigi. Non si trattava di una spontanea collocazione geografica, ma piuttosto di un percorso emotivo, che ha plasmato in qualche modo la sua identità, come uomo e come artista.
ROMA, cap 1.
Roma lo ha cullato. Ha assecondato tutti i sogni che portavano verso Cinecittà, è sempre stata la "casa madre" dove far ritorno non appena fosse stato possibile, permeando così, tra consuete abitudini e legami profondissimi, la sua esistenza. Sebbene fosse di origini ciociare, Marcello era riconosciuto come "il romano tranquillo", con ogni vizio e virtù del vero romano. A Roma respirava aria impregnata di bellezza, glamour, storia, arte, passione e tra le strade che celano i suoi ricordi e i vicoli pittoreschi, la sua predilezione per il cinema e per il teatro crescevano, e con lui, diventavano grandi. Qui Marcello, consolida le più importanti collaborazioni con i più rilevanti maestri del cinema italiano, pianta radici profondissime, legami inossidabili, costruisce quel rifugio sicuro, condiviso, chiamato casa.
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Ma il suo mestiere lo porta lontano e lo fa sentire appartenente, europeo, cittadino, turista, uomo libero.
PARIGI, cap 1.
Per un "romano tranquillo" la fervente Metropolis creativa, la "ville de l' elegance", era fortemente attrattiva. Se Roma lo ha cullato e reso celebre, Parigi lo ha accolto, lo ha fatto innamorare, in tutti i sensi, dandogli opportuno spazio artistico, stimolando la sua sete di curiosità spontanea. Era per lui, la giusta collocazione dove cominciare, rimettersi in gioco, dove la sua immagine divistica era in qualche modo più ridimensionata ma non sottovalutata, dove nuove abitudini e meraviglie si fanno concrete. Parigi era un orizzonte allargato, che dilatava nel suo cuore quel confine di appartenenza. A Parigi Marcello, era il "docile ragazzo" con tutti i vizi e virtù di un comune italiano, che amava mescolarsi tra le strade del suo quartiere in rue de la Seine, e da buon italiano, prendere un caffè al mattino, nel suo solito bar, al suo solito tavolino, riservato amorevolmente per lui, dove ci sarebbe stato sempre spazio. Come Roma, Parigi ha custodito i suoi riti, le sue consuetudini, segreti, affetti, partenze e ritorni, arte e bellezza dal primo ciao, all'ultimo arrivederci.
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telefonamitra20anni · 1 month
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Appuntamento con il destino all'ora del tè.
È una giornata qualunque della sua vita da impiegato, Marcello riceve una telefonata:
Pronto, Marcello? Vieni in Piazza di Spagna, c'è il Rugantino, una sala da tè, ci vediamo lì, devo presentarti una persona.
Quella persona era Visconti. Con lui Marcello, ha aperto le porte al proprio destino, varcando la porta d'oro del teatro, ma questo ancora non lo sapeva. Luchino lo ha allenato con le dovute durezze, riservate a un purosangue, alimentando in Marcello la chiara e sicura voglia di potercela fare. Gli ha insegnato la sacralità di quel palcoscenico, e del peso che le parole hanno. Lo ha forgiato, stancato, esortato, stimolato, esaltato, rivendicato e messo in discussione. Visconti ha sfidato il suo istinto, con un occhio attento al futuro e Marcello si è lasciato sfidare, così, semplicemente, in un giorno qualunque. Il mestiere dell' attore, è cominciato così, davanti ad un tè, mentre la vita si rimetteva in gioco con un banale "si", detto con la incosciente e ostinata voglia di giocare.
«Visconti mi ha messo in teatro e mi ha insegnato buona parte di quello che so, non solo il mestiere ma il gusto del mestiere, da uomo moderno, il non essere guitto, una cosa che tanti attori bravi non capiscono, pur essendo dotati di grandi possibilità. A parte naturalmente, insegnarmi a recitare, a capire certi testi, a capire come valorizzarsi […]. Questa partenza mi ha fatto capire le mete da perseguire, anche nel cinema».
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telefonamitra20anni · 1 month
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Turista di lusso:
I'm a traveller or a free man?
Il mestiere dell'attore lo ha preso per mano e portato in giro per il mondo, e per questo, si definiva un turista di lusso. Viaggiare era una cosa che amava, meno gli aerei, ma poi, inevitabilmente, ha imparato. Marcello era sempre stato curioso, e viaggiare alimentava quella sua "fame di curiosità". Mescolarsi con altre lingue, luoghi e culture dava un concreto e stimolante spazio, al diverso da lui. Nel viaggio non c'erano confini o solitudini, c'era quella nutriente, libera e intelligente voglia di conoscere e comprendere, cercare e scoprire, legare ad un filo di un telefono e raccontare. C'era la giusta distanza tra il distacco e la mancanza, quando tutto si faceva meno leggero, opprimente, Marcello partiva. Inseguiva un lieve spazio di libertà per lasciare andare, accadere, vigliaccamente rifuggire, riservarsi il dolce gusto di un'evasione, anche con il furbo alibi di lavorare, perché quando la tolleranza si faceva lieve la soluzione era distaccarsi, vedere con altri occhi seppur in necessità di intenti. Il viaggio era un aspetto del suo lavoro, una parentesi messa tra vita che accadeva e voglia di fuga e ritorno. Nel viaggio per lui c'era quell' allenamento emotivo, atletico, che poi, riporta sempre a casa.
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telefonamitra20anni · 2 months
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Insisti, raggiungi, conquisti.
Riconoscere nella sua biografia, il momento esatto in cui ha deciso di diventare attore è come delineare un ovvio punto di partenza. Marcello, in qualche modo ha nutrito inconsapevolmente questa scintilla, da sempre. Sosteneva che i bambini sono attori prodigiosi perché, forgiati dall'istinto e dalla fantasia, sono capaci di interpretare ruoli e mondi straordinari. Per lui, tutto comincia a teatro, amatorialmente, in sordina, per gioco. Un gioco, che lo attraeva, che lo ha portato a varcare la soglia di Cinecittà, entrare nella porta d'oro del teatro con Visconti e interpretare poi, al cinema, 160 vite con la stessa fantasia e istintività di quell' "anima bambina" da non dover mai dimenticare. Con tenacia ha segnato la sua strada, in propensione, caparbietà. La fortuna era quel valore aggiunto al tutto, ha sempre creduto che lo fosse. Ha dato vento ai suoi sogni, li ha fatti respirare, lui complice inconsapevole, e fautore decisivo del suo destino, ha insistito, raggiunto e conquistato, preteso bellezza, affamato e carismatico. Ha vissuto tutte le vite possibili, per nascondersi dentro, per esplorare quei mondi lontani e distanti da lui. Ha amato visceralmente il suo lavoro e detestato le sue conformità così separate e distanti dal suo essere solo un uomo. Ha lasciato crescersi addosso una coscienza critica severa, cinica e dolcissima che ha impattato nel suo essere uomo e attore, mettendosi in prima linea, in discussione, in evoluzione, scegliendo un percorso mai uguale, discutibile, e talvolta sbagliando perfino, perché i film brutti, a loro modo, servivano a modellare qualcosa di imperfetto o al massimo a pagarci qualche capriccio veniale, come dargli torto del resto? Infondo, ideali, virtù, sono un corollario di concetti apprezzabili ma Marcello, aveva una propensione alla semplificazione e non all'ipocrisia. Il mestiere d'attore era il giusto compromesso tra istinto passione e raziocinio, quell' esigente desiderio di essere nel posto giusto nel giusto momento.
Marcello 1941. Uno dei suoi primi provini cinematografici.
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telefonamitra20anni · 2 months
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Quando l'Oscar non parla inglese.
Quando c'è arte c'è linguaggio. La lingua parlata e scritta assumono indirettamente un ruolo marginale, ciò che importa è la comprensione, il saper dire e raccontare sono le radici fondamentali più efficaci in una narrazione. In questo Marcello era abilissimo. Il suo linguaggio era coinvolgente, familiare, appagante, attrattivo, efficace, sempre fruitore di veridicità. Nella sua lunga carriera non è stato mai sazio di comunicare, così come nella vita, sempre legata ad un filo di un telefono. La sua forza comunicativa attoriale, lo ha portato a raggiungere e conquistare ogni tipo di vetta, anche quelle internazionali. Corteggiatissimo da Hollywood, Marcello ha preferito, perlopiù, restare in Italia, a casa, nella sua Europa. Il jet set Hollywoodiano era qualcosa che non gli apparteneva, un modo di fare cinema che aveva un linguaggio a lui poco comprensibile, e per questo preferiva alimentare bellezza e arte da dove le sue radici, il suo linguaggio, gli somigliavano. Fu candidato agli oscar per ben tre volte ma non vinse mai. Una probabile vetta che avrebbe meritato ma che forse, da buon fatalista, sentiva non appartenergli. I premi, i riconoscimenti, per Marcello, erano situazioni piacevoli ma marginali e poco importava avere questo o quel premio tra le mani, a lui importava solo fare il suo mestiere, restando fedele all'amore che provava, che alimentava. I premi, erano ideali a volte scomodi, da dover pudicamente nascondere. Anche se Marcello non parlava inglese, ha raccontato, messo in luce, intelligentemente criticato, descritto, con quel linguaggio universale che non ha dogmi grammaticali, pronunce corrette, ma che lui è riuscito a farci capire e non dimenticare.
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telefonamitra20anni · 2 months
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Te lo racconto (al telefono) io.
A Roma, dopo la guerra, facevo il contabile in una casa cinematografica: la Rank Film. Non ero riuscito a inserirmi nell’industria edilizia e una cugina m’aveva trovato quel posto alla Rank. Qui lavoravo, o fingevo di lavorare, con cinque donne: in una stanza tappezzata con i ritratti di attori come James Mason, Patricia Neal, Margaret Lockwood, Phyllis Calvert. Forse influenzato da ciò, lasciavo che le cinque donne sgobbassero per me e passavo le giornate leggendo ad alta voce libri di poesie. Leggevo bene. Un giorno, la signora della stanza accanto mi disse:
«Ho un cognato che recita all’università, vuole che gli parli di lei?». «Magari, risposi». Guadagnavo 28mila lire al mese che se ne andavano in medicine per mio padre ammalato. Mai un cinematografo, mai uno svago, tutt’al più un po’ di biliardo. Mi iscrissi all’università, facoltà di Economia e commercio, per frequentare l’Accademia d’arte drammatica. Mi piacque. Recitai due anni mentre gli amici del quartiere mi prendevano in giro: «Ecché, se’ diventato frocio?». Poi Luchino Visconti mi vide, per caso, e mi mandò a chiamare: gli serviva un giovane e pensava di scritturarmi. Dissi: «Quanto?». Rispose: «2.500 al giorno». «75mila al mese, Gesù!». Lasciai subito la Rank e per mesi non confessai nulla a mia madre: ogni mattina continuavo a uscire alle otto e a dire che andavo in ufficio. Mi ci volle coraggio per confessare la verità. Lei la prese bene ma sussurrò: «Figlio mio, durerà?». Lo ripete ancora: «Figlio mio, stacci attento. Con tutti i camerieri che hai, con quel che costa la vita. Un buon impiego sarebbe stato meglio». È convinta che, se fossi entrato alle Ferrovie dello Stato, ora sarei capostazione e avrei i biglietti gratis per la famiglia.
Io ho avuto tanta fortuna, solo fortuna. La fortuna che a Visconti servisse un giovanotto rozzo come me. La fortuna che la sua compagnia fosse la più importante e allineasse attori come Ruggero Ruggeri, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Vittorio Gassman. La fortuna che Gassman se ne andasse e io prendessi il suo posto. La fortuna che mi offrissero il cinema, infine, grazie a questo nasino che detesto. Ma il successo di un attore non è quasi mai legato a ragioni nobili e serie. A me si addice la battuta che c’è in un film di Federico Fellini: «Ho troppe qualità per essere un dilettante e non ne ho abbastanza per essere un professionista».
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telefonamitra20anni · 2 months
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La dolce vita: Il punto più alto il punto più fragile.
Oui, Je suis content! È il 1960, Marcello vive uno dei momenti più belli della sua vita di attore e di uomo, inizia cosi, la sua "dolce vita". Tutto scorre veloce, il successo gli piomba addosso e d'improvviso, si ritrova ad essere riconosciuto come il latin lover di fama mondiale, l'attore simbolo italiano da mettere in vetrina. In questo vortice di successo, l'uomo viveva il punto più alto e il punto più fragile della sua vita, Marcello riscopre le sue più tangibili inettitudini e debolezze, ritrovandosi per un momento smarrito, in uno status di felicità incosciente. Vive lo spericolato viaggio di una crisi personale che mette alla prova, la conoscenza il perdono e l'accettazione del suo essere uomo virtuoso, inetto, umano, fragile. Lui, fino ad allora, sentiva di essere in qualche modo sbagliato. Eppure, quella dolce vita la accoglie, complice in causa Federico, che riscopre amico, confidente, complice, anima affine. Fino a quel momento, Marcello non sapeva che nome dare alla filia, alla felice libertà di sentirsi se stesso, senza quel retrogusto amaro del senso di colpa. Federico lo guida, lo ascolta e lo comprende. Gli dice che guardarsi come dentro uno specchio può far certamente paura ma, può essere capace di raccontarti bellezza. Marcello lo ascolta, cresce, evolve, si conosce. È il 1960 e per lui, è un nuovo battesimo. Dal punto più alto lui, ha capito che tanto valeva essere, e che il giusto rifugio dal punto più fragile sarebbe stata la cura della comprensione. Da quel momento tutto ha avuto un sapore diverso, sebbene un uomo non possa conoscersi mai abbastanza, Marcello ha capito di essere solo un uomo libero alla ricerca di se stesso, con la giusta cinica comprensione, con il piu adeguato spirito critico che lo contraddistingueva.
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telefonamitra20anni · 2 months
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Mastrojanni uomo e attore. La "j" non è un caso.
C'è sempre stato confine sottile tra l'uomo e l'attore. Un filo invisibile che ha legato l'arte e la vita. I più conoscono Marcello come l'attore romano, talento e seduttività indolente, distintivo italiano di maschio latino, abile conquistatore e divo in divisa. Nella sua sconfinata carriera di attore, ha giocato a nascondino con l'uomo senza però tralasciare che, in qualche modo, ne fruisse della sua verità, che la svelasse e delineasse un profilo d'umanità. Mastrojanni attore era istintivo, propositivo, proattivo, poliedrico, instancabile, concentrato, adatto, misurato, minuziosamente attento alle indicazioni del regista, talentuosissimo, naturale, accomodante, abbastanza tollerante, quasi sindacale con un occhio ben attento alla spontaneità, ma soprattutto fruitore di verità. Un immagine amicale e familiare, Il baricentro perfetto tra neorealismo, commedia, cinema e teatro d'autore senza sopperirne in bravura. Marcello, suo modo, era la sintesi della sua professione, perché l'uomo non esclude l'attore e viceversa. Il mestiere d'attore lo ha allenato ad essere paziente, stimolato alla fantasia, ad avere una visione d'insieme di psicologie atte alla costruzione del personaggio ed alla sua più opportuna ricerca. Alla base di tutto questo, però c'era l'uomo, caratterista di se stesso, che alimentava il vissuto, ricercando in se il pregio e il difetto da raccontare, l'elemento perdente da rendere vincente. Un dualismo sinergico e sostanziale, che lo liberava, lo stimolava alla conoscenza di sé. Marcello era bellezza e assolutezza, l'uomo docile e schivo, il padre premuroso, il marito fallibile, il compagno da accogliere, l'amico fedele, e talvolta la sua stessa antitesi. Se l'attore era istinto, l'uomo era ambivalenza tra quest'ultimo e il raziocinio. Lui era pigrizia opportuna, fedeltà non convenzionale, carisma e convivialità. Tutto un mondo racchiuso e raccontato dentro il suo nome e cognome, ed una "j" messa lì, per fare quella distinzione tra l'uomo e l'attore, sebbene basti chiamarlo Marcello perché sia sufficiente per collocare un epoca, un uomo e la sua storia.
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telefonamitra20anni · 2 months
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L'allenamento alla pazienza
Quando gli domandano, cosa ha dovuto imparare dal suo lavoro, risponde sornione: "la pazienza, in questo mestiere si aspetta sempre, è un mestiere fatto di attese il resto non è difficile". La sua propensione alla semplificazione non è una nota a margine. Nella pazienza c'è quel confine di resa che Marcello doveva allenarsi ad adoperare, quella saggezza sottile, che che ha alimentato con l'instancabile perseveranza di chi ha sempre osservato, intrapreso, voluto e sentito di essere nel posto giusto, nel giusto momento. La pazienza, era quel laconico confine da dover imparare a tracciare, quell' estensione del tempo in cui la tolleranza doveva respirare, il giusto peso del tempo da sopportare, lo spazio per l'accoglienza alla lucida lotta alla noia, per lui, che fermo e paziente proprio non ci sapeva stare e per questo Marcello, paradossalmente era il suo stesso contrapposto della sua ben più nota pigrizia. Paziente non lo era affatto, con il tempo lo è diventato, ci si è piegato, ha accolto questa virtù nel bene e nel male allenandosi alla pazienza, imparando il gusto di un'attesa voluta, subita, distillata, mutata in un tempo scandito, certamente più opportuno che non avrebbe mai saputo cedere alla noia, solo per il semplice diletto di farlo. Nella pazienza, c'è la ricerca dell'attesa, la resa alla solitudine, così detestabile per lui, tanto quanto un saggio confine fatuo. Nell'allenamento alla pazienza, c'è la forza motrice morale che gli permette di fare pace con quella solitudine, con quel confine.
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telefonamitra20anni · 3 months
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La prigione della mascolinità
In una società la collocazione di un "ruolo" e l'identificazione dello stesso sono di rilevabile importanza, permettono di inquadrare un certo tipo di azioni, ingaggiano uno status, un'identità, perché le cose devono essere chiamate con il loro nome. Marcello si è ritrovato a fare i conti con un ruolo, a suo dire, poco rappresentativo del suo essere, ritrovandosi prigioniero dello stesso, e per questo, portando in essere una lotta eterna, contro quell' etichetta che la mascolinità latina ne consegue. Macho, vero uomo, maschio latino, tombeur de femmes, latin lover, tutti ruoli identificativi di una misoginia contraria, volgare e lontana. Ruoli che non collocano, ma che stabiliscono, arbitrariamente, vizi e improbabilmente probabili virtù. Nel suo, Marcello adorava i peccatori, i deboli, i "non conformi" perché nel perfezionismo ci trovava qualcosa di "diabolico", ma del macho aveva ben poco. Un macho nell'immaginario collettivo è una figura decisa, delineata, muscolosa, poco gentile, limitatamente galante, rude, egoista, un conquistatore seriale caratterista in virilità e ostentatore della stessa. Marcello al contrario, figura esile, bellezza gentile, delicata, non "aggressiva", anche nel suo erotismo necessario e più opportuno, lasciava spazio alla galanteria. Una figura amicale, rassicurante, elegante, democratica, non di genere, perché a suo modo, attrattiva e seducente ad occhi sia maschili che femminili. Lui, seduttore suo malgrado, cercava solo dignità in un ruolo, quello dell'attore abile nel saper fare, saper dire, lontano da un confine detestabile che l'etichetta di latin lover o un conquistatore, rappresentavano. Infondo quello che succedeva sotto le lenzuola era solo affar suo, perché l'attore è in vetrina, ma l'uomo no. La sua "lotta" non era fatta di muscoli, ma di ironica intelligenza, come nella scelta dei ruoli, una classifica di impotenti attivi nella distruzione di questa identità in convenzione sociale così superficiale e impersonale, ma questo è servito a ben poco, il ruolo di maschio latino, resta non spodestato e a Marcello, non rimane che giocarci pruriginosamente e ironicamente perché la chiave di questa prigione di mascolinità italiana era rimasta lì, dove tutto è iniziato, in America.
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telefonamitra20anni · 3 months
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Infondo cosa vuol dire divo? sono semplicemente Marcello.
Gli uomini della mia generazione sono cresciuti con miti di ogni natura, il divismo era un immagine mistica, onirica, negli occhi dello spettatore. Sognare rendeva leggeri, creativi, romanzieri. Lo ammetto a volte da ragazzo, da bambino, l'ho fatto anche io, ho usato i miei sogni, sceneggiato speranze e mi sono riscoperto a vivere molte vite ritrovandomi poi, con il successo, in una visione divistica negli occhi dello spettatore. Io, Divo! Infondo cosa vuol dire divo? sono semplicemente Marcello, la forma più concreta dell'uomo, nella sua bellissima e intera fallibilità. Sono il contrasto perfetto, più adeguato, più discutibile. Mi domando, come possa la gente trovare in me, un esempio di uomo da divizzare. Il divismo, forma-immagine così astratta in una realtà sostanziale da rifuggire. Ecco forse, cosa spinge a trovare in me il divo, una fuga che permetta leggerezza, quella sottile irraggiungibilità che alimenti la voglia e il desiderio, proprio come accade in amore. Ma divo io, non mi ci sento affatto. Privilegiato, fortunato, pubblicizzato sono aggettivazioni più opportune. I divi hanno temperamenti più spigolosi, definiti, a cui io sento di non appartenere, mi appartengono i mezzi toni, perché gioco in rimessa. Il divo è una figura eterea, e a me piace il concreto, prendere tutta la bellezza, io apprezzo il tangibile. Il divo elargisce sogni, io pezzi di cinica verità, mentre stai sognando. La differenza è sottile, intelligibile, dolcissima. Non sento di appartenere ad una immagine ma ad una riconoscibilità della stessa. Sento di essere entrato in un vortice, in una fenomenologia, ma ne rifuggo fortemente l'etichetta, la forma, il confine, il concetto, la sua volgarità sottile. È l'unico potere che ho, l'unico tratto più acuto, più spigoloso che mi concedo per difesa mentre tu, rimani a sognare.
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telefonamitra20anni · 3 months
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Dietro la luce fendente di un flash.
Dietro a quei flash ci sono io, con il mio contrapposto perché. Sono divenuto attore, come uno preso dalla strada, il successo me lo sono costruito, caparbiamente, ma senza nulla a pretendere, e così il successo, mi è piombato addosso. A me, Marcello, simbolo di maschio italiano, incarnazione del good man da ammirare, da divizzare. Certo, Il gioco si fa comodo e divertente, adulatore, per quella certa puttaneria che il mestiere ti richiede ma, faccio sempre i conti con quella parte di me che mette in discussione la mia bravura, la mia discrezione. Come tutti ho fatto i conti con la paura, la stessa che ha governato certe mie eterne insicurezze. Dietro la faccia del successo, alla luce fendente di un flash, resta l'uomo con la sua umanità più poveramente ricca di ogni vizio e virtù, resta l'anti-divo, l'essenzialità, l'indolente, il furbo, il languido vigliacco in cerca di protezione.
Assurdo pensare che un attore faccia di tutto per diventare famoso e poi, indossare un paio di occhiali da sole per nascondersi, con l'illusione di proteggersi.
Ma è proprio questo che mi accade, anche sotto la luce di un flash, capace di amplificare, adulare e trasgredire, mettere in mostra e tradire. Tutto questo è parte di un gioco che ho scelto, le cui regole a volte sono state pesanti da digerire, e allora gioco nel mio stile, in rimessa, in dolcezza, in difesa, in tolleranza, in bellezza.
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