Tumgik
#assomiglia alla tenerezza
lacabinaarmadio · 1 year
Text
RICETTA N*3
Tumblr media
Ho dovuto rapirti, così tu possa conoscermi a fondo. Sono sicuro allora che t'innamorerai di me, come io lo sono di te.
Il mio amore è nato insieme allo strutto, quello della piadina di Adele, colato a caldo, tipicamente in umido.
Grasso adiposo sottocutaneo e viscerale.
Unitemi in farina, sale e bicarbonato, impastatemi. Svegliatemi più e più volte ( almeno tre ) con acqua sul viso, rendetemi tonico.
Omogeneo.
Tirami, strappami, lasciami, riducimi, inumidiscimi, sbattimi, strozzami, spaccami, chiedimi se è questa la vita che sognavo da bambino, comprimimi, alzami e schiantami a terra, rovinami.
Sono rimasto un bozzo, avvolto in un sacchetto per alimenti, per così tanto tempo.
Nel vedermi cambiare così in fretta, mi viene da pensare che in realtà l'essere umano è un contenitore. Solo un contenitore, il cui contenuto può cambiare.
Anche in un'altra persona che cammina per strada. Seguendo il corso del destino, tu metti nel contenitore una cosa dopo l'altra, ma nella parte più profonda e segreta del tuo essere, in questo semplice contenitore c'è qualcosa che assomiglia a te. forse un'anima, non so, e solo quella per qualche ragione non cambia, è sempre lì, accoglie tutto e cerca di godere della vita. E se penso che sarà in me fino a quando morirò, provo una strana tenerezza, quasi un dolore, mi sconvolge completamente.
Passati trenta minuti già non ricordavo più chi fossi, eppure ero lì apposta per innamorarmi.
Dividimi, stravolgimi, lisciami, arrotolami e uniformami.
Da quanto tempo sarà che quando sono da solo dormo in questo modo?
Il sonno viene come l'avanzare della marea. Opporsi è impossibile. È un sonno così profondo che né lo squillo del telefono né il rumore delle auto che passano fuori mi arrivano all'orecchio. Nessun dolore, nessuna tristezza laggiù: solo il mondo del sonno dove precipito con un tonfo…
Quanto manca all’amore?
Altri trenta minuti, mi sento pronto.
Tirami con un matterello, rendimi bello, di uno spessore di qualche millimetro. Scaldami su una piastra rovente, cuocimi. Girami, così, due minuti a lato. Farciscimi.
La vita è fatta di piccole felicità insignificanti, simili a minuscoli fiori. Non è fatta solo di grandi cose, come lo studio, l'amore, i matrimoni, i funerali. Ogni giorno succedono piccole cose, tante da non riuscire a tenerle a mente né a contarle, e tra di esse si nascondono granelli di una felicità appena percepibile, che l'anima respira e grazie alla quale vive.
Il mio amore è nato da un insignificante felicità, fatta di strutto e.
Ti osservo mangiarmi, sei bellissimo.
0 notes
iannozzigiuseppe · 2 years
Text
Dio è nel tuo sorriso
Dio è nel tuo sorriso
Dio è nel tuo sorriso ANTOLOGIA VOL. 280 Iannozzi Giuseppememento mori LA TUA ALLEGRIA Sogno la tua allegria, quella naturale tua gioia E lo so che non m’appartiene Però se mi sorridi mi sorride il cielo di giorno e di notte Se un Dio c’è è soltanto nel tuo sorriso Soltanto nel tuo bacio non dato ASSOMIGLIA ALLA TENEREZZA Vedete, la cosa è semplice Ci crediate o no, impegno il tempo facendo…
Tumblr media
View On WordPress
2 notes · View notes
bluanice · 5 years
Photo
Tumblr media
Dice che l’amore assomiglia al gioco e che lei perde sempre che è una pessima abitudine che non si azzarda a curare. Dice di temere la luce nonostante abbia sacrificato molte notti che si accontenta della sua solitudine e non cura le amicizie. Ma cade dalla sua nube ogni volta che la pioggia la conduce alla sua terra. Dice che la sua gioventù è stata vana dolce suo malgrado ma poi crudele perché la tenerezza come l'amore è una pessima abitudine ed anche quel silenzio di cui non potrà mai fare a meno. Dice di essere una donna esaurita svuotata ogni giorno dai suoi vizi ma che non vuole guarire. Di essere lasciva inadatta al sonno ma dorme per ridiventare un embrione e sprofondare negli abissi Dice di essere perdente di natura perdente per meritare la vittoria. Dice infine che la vita è una pessima abitudine dalla quale non potrà guarire con un po' di determinazione e tanto oblio. Joumana Haddad - "Brutte abitudini" #photography https://www.instagram.com/marilenagentile/p/Bu4U4QfH--U/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=14g8wmnucutdo
3 notes · View notes
edsitalia · 3 years
Text
EDS6 VENTO D'ESTATE
RIMPATRIATA
Rimpatriata. Che parola triste. Contiene in sé un po’ troppo della parola rimpianto.
E io per ora ne sono piena. Trentotto anni e sentirli tutti. Perdere di vista amici a favore di colleghi, sostituire una moto con un SUV, cercare la voglia invece di spegnerla.
Poi un invito, su uno dei social che uso meno.
La comitiva delle estati in riviera, un falò. Notte di San Lorenzo.
Adesioni a cascata e la scelta del posto, non uno qualunque, proprio quello lì. Quello che vent’anni fa ha visto uno dei falò più belli di sempre, l’ultimo.
Ho sbirciato qualche foto del gruppo.
Come eravamo belli, magri, felici, spensierati.
Per me, già usare quel tempo imperfetto è un chiaro indice della mancata quadratura di un cerchio. Imperfetto come tutto, ora.
Come lui, al mio fianco, la mia fede all’anulare, che stasera mi osserva, mentre indosso un abito corto e svolazzante, spalline quasi inesistenti e bottoncini tirati su un seno ancora florido e abbondante.
Scarpe basse, mascara e un po’ di gloss.
Per uscire, sola.
“Ti divertirai.” Lo dice in tono convinto, senza ironia.
“Ancora non comprendo perché resti qui. Smettila di essere sempre un orso solitario. C’eri anche tu tra gli invitati. Eri uno del gruppo, vent’anni fa.”
“Non mi va.”
“La tua frase preferita, ormai.” Lo dico convinta anche io, senza ironia.
Non mi chino a salutarlo con un bacio, mi limito a fare un cenno con la mano. Esco.
Chiudo la porta, lasciando alle mie spalle l’entusiasmo sopito e  la difficoltà di condividere un’emozione. Manca così tanto.
Manca la risata che nasconde un segreto, manca un momento che non sia schematizzato in una routine che prevede casa, divano e TV.
Chiudo la porta e non ci penso più.
Rimpatriata sia.
Arrivo in spiaggia.
Vent’anni dopo è tutto uguale.
La chitarra, il falò, la griglia con gli hamburger e il ghiaccio nelle bacinelle ovali, per le birre. Chissà a chi le hanno rubate, stavolta, le bacinelle, di solito era mia nonna la vittima.
Pensiero stupido. Tutto per non tornare a quelle estati, ma è impossibile.
Forse è l’odore del fuoco, o il rumore del mare.
Ma ritorna tutto così prepotente, l’emozione, la gioventù, il calore. Saluti, abbracci, pacche e strette. Complimenti e prese in giro.
È l’aria che è diversa, qui, stasera. Non le vedi le rughe di tutti, l’arrotondamento dei fianchi di quello che era il bagnino figo, il sedere non più tonico della Miss Riviera che ora ha tre figli.
Vedi i sorrisi.
Guardo la vera al mio dito. Sono contenta che lui abbia insistito a farmi venire. Un po’ meno che mi abbia lasciato sola, perché se c’è una cosa davvero pericolosa è il rimpianto. E qui li abbiamo un po’ tutti, negli sguardi.
Devi abbassarli gli occhi o rischi che tutti si accorgano che stai tornando lì, esattamente dove eri vent’anni prima. Perché quanto è vero che non tutti gli sguardi rimangano fermi, senza dare le vertigini. Ce ne sono alcuni in grado di sbilanciarti. E poi, dopo, tornare in equilibrio diventa impossibile.
Mi avvicino alla ghiacciaia, mi chino, afferro la mia bionda preferita, la stessa marca di venti anni fa.
“Era questo il tuo posto … sempre. O no? Ti piaceva stare qui a fare la sexy barista.”
Lui. La sua voce. Il motivo per cui non volevo esserci. Il motivo per cui ho sempre pensato nella mia vita “e se?” Mi volto. E so che avrò davanti quello sguardo.
Indugio perché il ricordo che conservo di lui dovrebbe rimanere per sempre cristallizzato a una faccia da schiaffi, il capello nero spettinato e gli occhi più verdi che siano mai stati pensati.
“Sono io.” L’emozione, la gioventù, il calore.
“Ciao.” Vertigine, sto per sbilanciarmi. Già, ed è solo un ciao.
“Speravo venissi. Vent’anni … Mi sono fatto da parte. Come mi hai chiesto.”
La precisazione è inutile, ricordo tutto.
Tutto, compreso come mi baciava su questa spiaggia, tra le cabine, nel parcheggio o davanti al falò.
Un’altra vertigine, che sbilancia. E sento la mia voce che gli propone di sederci più distanti. Parlare.
Recuperare vent’anni. Tutti in un’ora. Assecondare un istinto.
Le birre diventano tre. Finisce il repertorio di Battisti e di Liga.
Lui non si è mosso dal mio fianco destro, io dal suo sinistro.
In niente le chiacchiere diventano domande.
“Hai mai pensato a me? In questi anni.”
“Certo che sì.” Non aggiungo altro. Ad esempio che sarebbe stato impossibile il contrario. A ogni richiesta inopportuna come la tua prima volta? Il tuo primo bacio? Il tuo primo amore? Quelle domande che dovresti abolire dalle normali conversazioni e che invece la pettegola di turno ti farà sempre, anche solo per il piacere di metterti in imbarazzo davanti a tuo marito.
“Non ti stai domandando come sarebbe ora?”
“Entrare un’altra volta in me, dici?”
Chiude gli occhi, come se assaporasse ogni parola.
“Anche solo partire da questo.” Mi bacia. Schiudo le labbra e, come andare in bicicletta o nuotare, non lo dimentichi mai come si bacia una persona che hai già baciato. Possono passare pochi mesi o vent’anni. Le labbra piene, la lingua tutta dentro, il suo bacio ha sempre avuto un che di famelico. Mi viene fame davvero. Ancora. È così facile.
Mi apre i bottoni del vestito, scosta i lembi.
“Oddio, sei ancora bella come allora. Il seno che è ancora il più bello di tutte, ma non andare a dirlo in giro.”
Sorrido, mentre il dito scende, scosta definitivamente la stoffa e scopre il mio capezzolo inturgidito. Lui lo conosce a memoria. Ci gioca, ci sfrega il pollice, e il mio seno resta su dritto. Impertinente e selvaggio, come se non desiderasse altro che essere succhiato. Immagino quel pollice altrove. Lo stesso movimento. Violata la prima volta con delicatezza, chissà se userebbe ancora la stessa dolcezza e cautela, oggi.
“Ti piacevano queste dita.” Il respiro rotto.
Ecco. Ora legge anche nel pensiero.
“Sono diventato più bravo.”
“Anche io.” E rido.
La complicità è il peggiore dei mali, se sei indecisa. Perché ti fa prendere decisioni di impulso.
Non hai vent’anni, provo a ripetermi. E non ci volevi venire, provando a ricordare il perché. Sei sposata. Quel pollice diventa una mano, lo contiene tutto il mio seno, ora completamente esposto. Non lo fermo. Immagino il mio sguardo alla luce di queste fiamme. Se assomiglia al suo, è infuocato e non solo per il riflesso del falò. Dalla voglia e dal desiderio di avere ancora vent’anni. Dovrei solo ricambiare quella mano sicura che continua a stare sul mio seno e a saggiare quella pienezza. Dovrei scostargli l’elastico dei boxer ed entrare. Lo troverei pronto, dopo un bacio così. Forse era già pronto quando mi ha detto sono qui, come faceva prima.
Sono bagnata, serro le gambe, quando il bacio diventa ingombrante.
Continuo e finiamo come vent’anni fa? A lasciarci perché abbiamo due vite diverse e incompatibili?
Continuo e vado a casa senza fede, solo con un - é finita? –
Torno indietro nel tempo? Come un rewind su una vecchia cassetta a nastro.
Mugola nella mia bocca e sussurra Lilli, il nomignolo che avevo da piccola, è il nome con cui mi chiamava sempre mio marito e mi chiama ancora adesso, quando ha voglia di tenerezza. Mi scuoto, peggio di uno schiaffo. “Non posso.” “Vent’anni fa, dopo un falò, mi hai detto la stessa cosa e poi hai sposato lui.”
Sono ancora la donna che ha detto sì a un altro, convinta, vent’anni fa.
Non ce la faccio a continuare.
Lui mi guarda e capisce che me ne sono già andata, si stacca. Gli do un ultimo bacio sulla guancia, mi sollevo, scuoto via un po’ di sabbia dal vestito e guardo verso il falò. Coppie che si sono riformate dopo anni, amici che ridono insieme. Una serata in cui tutti stiamo facendo finta di essere la migliore versione di noi stessi, ma chi lo dice che è quella dei venti la migliore versione in assoluto?
Io sono ora la migliore versione di me. Mentre chiudo una possibilità. Mentre torno a casa mia.
Arrivo subito, le strade deserte, la casa addormentata.
Mi spoglio sul balcone interno, cade sabbia ovunque. Come vent’anni fa, quando mi nascondevo agli occhi di una madre che avrebbe capito tutto, subito.
Vado a letto, al mio posto. Sembra che lui dorma, ma mi abbraccia da dietro, invece, non appena sono stesa.
“Ti sei divertita?” “Sì…” “Lo sapevo! Te lo avevo detto che dovevi andarci senza di me. Mai che tu mi dia ragione.” Abbassa il tono della voce, è un sussurro. “Sei stata con lui? Dimmi che ne è valsa la pena averti persa solo per una notte. Che sei tornata più convinta che mai, che hai scelto bene, tanti anni fa.”
Lo stupore si disegna sul mio viso, nel buio che lui non può vedere. Ma sente più di quanto io pensassi.
Mi stringe, aderisce alla mia schiena.
“Non sono arrivata fino in fondo. Ti appartengo ancora, nonostante tutti i silenzi.”
“È che ormai vedevi solo il peggio di noi. Tu dovevi andarci. Perché, secondo me, sei tu che oggi hai bisogno di scegliermi, ancora una volta.”
L’ultimo falò era finito così, con lui che era corso sotto casa e aveva detto - scegli me -.
E mille baci. E decine di ti prometto. E centinaia di brividi.
E io ho scelto un’altra volta lui, in quest’estate, in questo strano ventennale.
Forse i salti nel passato aiutano solamente chi ti sta aspettando dall’altra parte per prenderti,
ma non chi salta. Perché è chi salta che può cadere.
E io rimango qui ancora. A cambiare qualcosa, a ritrovare una scelta.
E io rimango qui al buio, a godermi un abbraccio che non è vertigine, ma che ha il vero sapore della rimpatriata.
0 notes
Photo
Tumblr media
Il cristianesimo, fin dall’inizio, assomiglia a un passa parola fatto tra amici. È la contaminazione per relazione l’argomento più efficace dell’evangelizzazione. Non è la propaganda la cosa che funziona di più, ma la credibilità degli amici: “Filippo incontrò Natanaèle e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret». Natanaèle esclamò: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi»”. La festa di San Bartolomeo (Natanaèle) ci fa ascoltare questo brano del vangelo tutto speciale. In un solo annuncio troviamo non solo le resistenze dei pregiudizi di Natanaèle ma anche l’unica risposta plausibile a ogni critica: “Vieni e vedi”. Infatti il cristianesimo è un’esperienza, e se lo si vuole scartare o prendere sul serio non lo si potrà fare a tavolino, o semplicemente in lunghissimi discorsi, ma solo mettendosi in gioco nell’esperienza. Natanaèle è diffidente ma si mette in gioco seguendo Filippo. “Gesù intanto, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c'è falsità». Natanaèle gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico». Gli replicò Natanaèle: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele!»”. Gesù smonta subito il pregiudizio di Natanaele che così passa dalla diffidenza alla professione di fede, diventando di fatto il protettore di tutti quelli che iniziano con il piede sbagliato e finiscono con il piede giusto. La storia della Chiesa è piena di santi che avevano un atteggiamento polemico nei confronti di Cristo o della Chiesa, ma hanno avuto l’umiltà di mettersi in gioco, e Gesù ha tirato fuori da loro, capolavori immensi. Non avere paura, allora, se sei polemico, c’è speranza anche per te. E non rispondete con durezza ai polemici, Gesù ricambia la polemica con un gesto di tenerezza, e d’un tratto le cose si capovolgono. Giovanni 1,45-51 #dalvangelodioggi Don Luigi Maria Epicoco #vangelodelgiorno https://www.instagram.com/p/CEQrv35jL6X/?igshid=g0ds40zwtqog
0 notes
latinabiz · 4 years
Text
La santa messa di papa Francesco nella cappella Santa Marta del 3 maggio 2020
Tumblr media
Papa Francesco https://youtu.be/xua7HDDZ4H4 Santa Messa di papa Francesco E' la quarta domenica di Pasqua, la domenica del "Buon Pastore", di colui che dà la vita per il suo gregge, e papa Francesco ha ricordato il sacrificio di tanti medici e di tanti pastori in questo tempo di pandemia nell'intenzione di preghiera: "Dopo tre settimane dalla Risurrezione del Signore, la Chiesa oggi nella quarta domenica di Pasqua celebra la domenica del Buon Pastore, Gesù Buon Pastore. Questo mi fa pensare a tanti pastori che nel mondo danno la vita per i fedeli, anche in questa pandemia, tanti, più di 100 qui in Italia sono venuti a mancare. E penso anche ad altri pastori che curano il bene della gente: i medici. Si parla dei medici, di quello che fanno, ma dobbiamo renderci conto che, soltanto in Italia, 154 medici sono venuti a mancare, in atto di servizio. Che l’esempio di questi pastori preti e “pastori medici”, ci aiuti a prendere cura del santo popolo fedele di Dio." E lodare la bontà del Signore è stato il tema della antifona di ingresso:"Della bontà del Signore è piena la terra, la sua parola  ha creato i cieli. Alelluia." E il tema del buon pastore è stato ripreso nella omelia, come ha riportato l'Editrice Vaticana: "La Prima Lettera dell’apostolo Pietro, che abbiamo sentito, è un passo di serenità . Parla di Gesù. Dice: "Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime".  Gesù è il pastore - così lo vede Pietro - che viene a salvare, a salvare le pecore erranti: eravamo noi. E nel salmo 22 che abbiamo letto dopo questa lettura, abbiamo ripetuto: "Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla" . La presenza del Signore come pastore, come pastore del gregge. E Gesù, nel capitolo 10 di Giovanni, che abbiamo letto, si presenta come il pastore. Anzi, non solo il pastore, ma la “porta” per la quale si entra nel gregge. Tutti coloro che sono venuti e non sono entrati per quella porta erano ladri e briganti o volevano approfittarsi del gregge: i finti pastori. E nella storia della Chiesa ci sono stati tanti di questi che sfruttavano il gregge. Non interessava loro il gregge, ma soltanto far carriera o la politica o i soldi. Ma il gregge li conosce, sempre li ha conosciuti e andava cercando Dio per le sue strade. Ma quando c’è un buon pastore che porta avanti, c’è proprio il gregge che va avanti. Il pastore buono ascolta il gregge, guida il gregge, cura il gregge. E il gregge sa distinguere fra i pastori, non si sbaglia: il gregge si fida del buon Pastore, si fida di Gesù. Soltanto il pastore che assomiglia a Gesù dà fiducia al gregge, perché Lui è la porta. Lo stile di Gesù deve essere lo stile del pastore, non ce n’è un altro. Ma anche Gesù buon pastore, come dice Pietro nella prima lettura, "patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta." Era mite. Uno dei segni del buon Pastore è la mitezza. Il buon pastore è mite. Un pastore che non è mite non è un buon pastore. Ha qualcosa di nascosto, perché la mitezza si fa vedere come è, senza difendersi. Anzi, il pastore è tenero, ha quella tenerezza della vicinanza, conosce le pecore ad una ad una per nome e si prende cura di ognuna come se fosse l’unica, al punto che quando torna a casa dopo una giornata di lavoro, stanco, si accorge che gliene manca una, esce a lavorare un’altra volta per cercarla e la porta con sé, la porta sulle spalle. Questo è il buon pastore, questo è Gesù, questo è chi ci accompagna tutti nel cammino della vita. E quest’idea del pastore, quest’idea del gregge e delle pecore, è una idea pasquale. La Chiesa nella prima settimana di Pasqua canta quel bell’inno per i nuovi battezzati: “Questi sono gli agnelli novelli”, l’inno che abbiamo sentito all’inizio della Messa. È un’idea di comunità, di tenerezza, di bontà, di mitezza. È la Chiesa che vuole Gesù, e Lui custodisce questa Chiesa. Questa domenica è una domenica bella, è una domenica di pace, è una domenica di tenerezza, di mitezza, perché il nostro Pastore si prende cura di noi. “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”. Alla fine della messa il Santo Padre ha fatto un ringraziamento importante: " Vorrei ringraziare l'associazione ACLI che ci ha facilitato per questi giorni questa bella statua di San Giuseppe perché ci accompagnasse nella festività di San Giuseppe lavoratore." Read the full article
0 notes
astrellamagazine · 5 years
Text
Oroscopo settimanale dal 27 Giugno al 3 Luglio
Oroscopo settimanale dal 27 Giugno al 3 Luglio
In esclusiva per i lettori di Astrella, l’oroscopo settimanale a cura della Redazione
La settimana
Il 2 la Luna Nuova in Cancro segna un picco di tenerezza per tutti, intendendo per tenerezza quella qualità tipicamente cancerina che arriva dopo aver molto visto e vissuto e assomiglia alla tolleranza serena. Ma è anche è il momento ideale per andare alla riscoperta del bambino interiore, che ci…
View On WordPress
0 notes
s-memorando · 6 years
Text
Un amore quasi impossibile
Tumblr media
Il suo nome era Leo, agente Leo Cam. La sua organizzazione gli aveva affidato un nuovo incarico come agente segreto con licenza di uccidere.La sua specialità era quella di mimetizzarsi.
Portava a compimento le sue indagini, catturava i colpevoli senza che nessuno si accorgesse mai della sua presenza ed in questo era molto abile.
La sua ultima indagine era in Cina. Doveva entrare in incognito in un gruppo di Panda dedito allo spaccio di cocaina. Il loro racket taglieggiava i negozianti e per quelli che non pagavano arrivava la punizione. Erano tutti esperti di KungFu ed in poche mosse distruggevano i locali. Leo, esperto in tutte le arti, si infiltrò rapidamente nella gang.
Nessuno sospettava di lui, si era mimetizzato talmente bene che quando passava davanti ad uno specchio, non riconoscendosi, sobbalzava.
Un bel giorno il Capo, tale Pandù, arrivò alla base insieme alla compagna Panlì.
Quando Leo la vide il cuore gli balzò nel petto. Era bellissima, tonda, morbida, avvolta in  una pelliccia bianca che le segnava le forme, forse un po' abbondanti, ma assolutamente fantastiche. Si truccava gli occhi in modo esagerato, ma Leo vi colse in fondo tenerezza e bisogno di protezione.
Si guardarono.
Fra loro corse una scintilla e fu colpo di fulmine. Si resero conto subito che il loro amore sarebbe stato impossibile, se Pandù li avesse scoperti li avrebbe fatti uccidere.
Leo passò due giorni e due notti a studiare un piano per fuggire con Panlì. Si erano parlati attraverso i cellulari ed si erano confessati il loro amore così come la necessità di scappare.
Con l'aiuto dei suoi superiori Leo Cam fece inserire Panlì nel “Programma protezione testimoni” perché lei essendo al corrente dei traffici della gang era un aiuto prezioso all’indagine.
Un elicottero passò a prelevarli a mezzanotte. La fuga fu rocambolesca, Leo salì per primo per poi aiutarla ad entrare nell'elicottero. Al primo tentativo la corda non resse il peso di Panlì, ma Leo prvidente, aveva una corda di acciaio di riserva, si calò nuovamente, la prese fra le sue braccia possenti e la portò in salvo.
Ancora oggi la storia viene raccontata ai loro bambini, sembra quattro, ma nessuno lo sa con certezza perché uno, che assomiglia del tutto al padre, a volte si vede ed a volte no.
Anna Paola Pilloni 21 febbraio 2018
0 notes
jucks72 · 7 years
Text
Carciofi alla giudia: la ricetta perfetta
New Post has been published on http://patrittilighting.com/calabriawebtv/2017/05/15/carciofi-alla-giudia-la-ricetta-perfetta/
Carciofi alla giudia: la ricetta perfetta
Sora Lella, Ada Boni, l’autrice del Talismano della felicità, e il poeta Gioacchino Belli: che cosa possono avere in comune se non i carciofi alla giudia?
Sora Lella, celebre attrice e cuoca romana, la fa facile. Mark Zuckerberg se li concede quando capita a Roma. E Umberto Pavoncello viene immancabilmente associato a loro, col placet di Nonna Betta, il ristorante, di cui è titolare.
Non mancano le foodblogger che, alla ricerca della ricetta perfetta, dichiarano spavalde di ispirarsi a quella che Ada Boni riporta nel 1930 ne La Cucina Romana. The Oxford Companion to Italian Food afferma che Ada Boni svela con “meticolosa autorità” come fare i carciofi alla giudia.
Ma cosa succede nella cucina quando giunge una mammola?
In nome dei carciofi
« Nun c’è principe o re, cristiano che sia, che nun magni carciofi alla giudia »
Ai principi o re di Gioacchino Belli servono dei carciofi mammola o cimarolo, questo è importante. Eppure non ti devi fermare davanti a nessun carciofo. La perfezione d’oggi vuole questo tipo di carciofo romanesco, ma affinando le abilità di “capatura” non c’è varietà di carciofo che non possa essere preparato alla giudia.
Questa affermazione, pure quasi sfacciata, la sostengo a spada tratta.
I carciofi alla giudia sono un piatto storico, nato in epoche in cui il carciofo non era addomesticato. Nel Cinquecento il carciofo era selvatico, Mendel, il precursore della genetica moderna, doveva ancora arrivare. Gli esperti affermano che quello che al mercato si trovava era un carciofo simile al moretto di Brisighella, quindi spinoso.
Senza vagare nella storia o nella geografia odierna dei carciofi (dato che con il risotto agli asparagi abbiamo già dato), concentriamoci sull’IGP perfetto per i carciofi alla giudia degli Anni Duemila.
Cimarolo e mammola non sono in realtà sinonimi.
Il nome cimarolo deriva dal fatto che è (o dovrebbe essere) il carciofo che cresce al centro della pianta. Per questo è il più ricercato. Perché, sai, essendo in cima, è più tenero. Ma la grossa mammola si difende, perché non richiede di essere troppo capata.
Per non fare distinzione, l’IGP (Indicazione Geografica Protetta) difende il carciofo romanesco, mammola o cimarolo che sia.
Sferico, compatto, leggermente schiacciato, l’apice è arrotondato e presenta un foro. Niente peluria interna. Le foglie esterne hanno sfumature violette. Niente spine.
La grossezza del gambo è un indice di vigore della pianta e tenerezza delle foglie, afferma Lazio Gourmand. Hamos Guetta, ebreo tripolino e cuoco, insegna come un gambo più grosso lo abbiano i primi fiori della pianta.
Attenzione! Non esiste un solo carciofo romanesco. Esistono due cultivar. Uno precoce che si trova a inizio gennaio, detto Castellamare, e uno tardivo, tal Campagnano, che compare a marzo. Ma a chi appartiene il Castellamare?
Non è un domanda peregrina. Infatti, un competitor che molto assomiglia al romanesco non cresce nel Lazio. Eppure non va scartato per i carciofi alla giudia. Si tratta del carciofo Paestum, sempre IGP. Puoi intuire che è campano e puoi intuire quanto i romani potrebbero aversene per questa affermazione.
Eppure si tratta del Tondo Paestum che appartiene allo stesso gruppo genetico del carciofo romanesco. Sarà, anche, che la coltivazione nella Piana del Sele gli garantisce una precocità che il cimarolo non ha. Ribadisco, tutto sta nel chiarire a chi appartiene, in origine, il carciofo di Castellammare: al Pasteum o al romanesco?
Quel che è certo è che i carciofi romaneschi si possono trovare in vendita da gennaio a maggio dopo che sono stati raccolti manualmente.
Le zone di produzione sono ben delimitate e comprendono (un bel respiro) le province di Viterbo, Roma e Latina, con i comuni di Montalto di Castro, Canino, Tarquinia, Allumiere, Tolfa, Civitavecchia, Santa Marinella, Campagnano, Cerveteri, Ladispoli, Fiumicino, Lariano, Sezze, Priverno, Sermoneta, Pontinia.
Nelle fotografie vedi diverse categorie commerciali di carciofo romanesco acquistate ad aprile. C’è anche qualche carciofo di prima categoria per la quale sono ammesse lievi alterazioni da gelo e lievissime lesioni. Mentre la categoria extra è riconosciuta a carciofi di qualità superiore.
L’importanza del capare
In giudaico-romanesco “capare” sta per pulire. Ci sono ricette e varietà di carciofo più esigenti di altre. Con i carciofi alla giudia lo scarto è risicato, merito del carciofo e di una tecnica elaborata nei secoli.
L’obiettivo è ottenere una rosa che sboccia col calore dell’olio. Questo non accade per magia. Non è neppure una questione di trigonometria. E’ questione di tecnica.
Sì, nelle foto l’effetto rosa è esagerato per convincerti di quanto un carciofo sia un fiore. Mentre il video ti propone la capatura di chi ha teme la capatura foglia per foglia. Su, su, prova con la capatura a rosa (o a crisantemo, secondo alcuni) almeno una volta.
Conoscenza e non tecnica, invece ci vuole, per distinguere tra carciofi alla romana e carciofi alla giudia. A saperlo si evitano zuffe come quella che avvenne nel 1604 all’Osteria del Moro. Le cronache la riportano, perché coinvolse Caravaggio.
L’artista non sapeva distinguere quali degli otto carciofi che gli furono serviti erano cotti nell’olio e quali nel burro. Non seppe neppure reggere l’ironia del cameriere che si azzardò a dire “Annusali e li riconoscerai”. Sì, Michelangelo Merisi si era fermato davanti ai carciofi alla romana con mentuccia.
Quel che giudia dice
La storia non è una bazzecola e giudia vorrà dire pur qualcosa. Spesso si associano i carciofi alla giudia con la festa dell’espiazione, almeno leggendo Internet. Ahimè è un errore che il calendario gregoriano subito svela.
L’associare i carciofi alla giudia con la festa dello Yom Kippur, alias festa dell’espiazione, sembra nasca per l’abitudine di mangiare carciofi dopo l’Havdal, al termine del digiuno.
Peccato che tale festa cada tra settembre ed ottobre, corrispondendo al decimo giorno del mese ebraico di Tishri. Quindi, niente mammole e cimaroli in vista. Neanche a Roma. La quadratura del carciofo si crea non appena si nota come i carciofi alla giudia sono contorno diffuso anche per il Pesach, la pasqua ebraica.
Dopotutto già in un manoscritto del Cinquecento si scrive che “i carciofani sono boni pigliandoli nella loro stagione, la qual comincia a Roma a mezzo febraro e dura per tutto giugno. Per farli alla giudea se devono mondare e poi tagliare le cime delle foglie pungenti e dure in foggia de spirale ….E poi frigendole in oglio bogliente ….”.
E occhio, quel oglio bogliente è meglio se sia d’oliva, data la sua diffusione nella cucina ebraica.
Abbinamenti azzardati?
Qui oso perché mi fido di chi mi fa osare. E se nel calice accanto al carciofo alla giudia ci finisse un sauvignon blanc come Jacaranda di Antonella Cassarà? O meglio osare con un Lugana DOC?
La ricetta perfetta
4 carciofi romaneschi (mammola o cimarolo) 1 limone acqua 1,5 litri di olio extra vergine d’oliva sale pepe nero macinato sul momento facoltativo: acqua o vino bianco
Predisporre un’ampia ciotola e riempirla con il succo di limone e abbondante acqua tiepida. Nell’acqua può essere lasciato anche ciò che resta del limone una volta schiacciato.
Capatura dei carciofi Munirsi di un coltello affilato e non seghettato. C’è chi individua nello spilucchino il coltello perfetto. Può essere con lama dritta o a “becco di gallo”.
Prendere un carciofo alla volta. Togliere le foglie esterne verdi e più dure. Fermarsi quando le foglie si schiariscono e si comincia a vedere la parte bianca. Non serve arrivare ad avere foglie così chiare come quelle della fotografia qui sopra. Ci si può fermare anche prima.
Tenendo il carciofo nella mano sinistra, cominciare ad incidere foglia per foglia sopra la parte chiara. Infatti, la parte morbida deve salvarsi. Fare questa operazione in senso anti-orario, ruotando il carciofo. Pian piano si giunge fino alla cima del carciofo, dove basterà eliminare la punta delle ultime foglie più interne. Se il carciofo è mammola, non avrà neppure la peluria interna. Alla fine il carciofo capato deve sembrare quasi una rosa, grazie a questa capatura a spirale.
Poi procedere a togliere la corteccia (la parte verde) del gambo. Il gambo può essere in parte tagliato, ma almeno 5 cm. vanno salvati.
Il carciofo è ricco di ferro e tende ad ossidarsi, quindi immergere il carciofo nell’acqua limonata. Per essere ancora più sicuri, prima di immergerlo, si può passare il limone sulla parte esterna del carciofo.
Cottura dei carciofi Fase 1 Togliere i carciofi dall’acqua acidulata. Scolarli ed asciugarli. Battere due carciofi alla volta l’uno contro l’altro. Poi battere delicatamente ciascun carciofo sul piano di lavoro. Queste operazioni sono necessarie per togliere l’acqua e per favorire, poi, l’apertura a fiore durante la cottura. Infatti, così si allargano le brattee (le foglie del carciofo).
Scaldare l’olio extra vergine d’oliva in un capiente tegame. L’olio deve raggiungere la temperatura di circa 130-150°C. In sostanza, l’olio deve essere caldo, ma non bollente. Porre i carciofi nell’olio caldo e farli cuocere tutti (gambo incluso) per 10-15 minuti. I carciofi possono essere messi in piedi nel tegame e ricoperti completamente d’olio o possono essere poggiati distesi e poi sarà cura del cuoco girarli durante la cottura. I gambi si cuoceranno più rapidamente.
I carciofi sono cotti quando sarà agevole infilzare la base con i rebbi di una forchetta. In questa fase i carciofi saranno già esternamente ben fritti e si saranno scuriti.
Fase 2 Togliere i carciofi dal fuoco e poggiarli sulla carta assorbente. Devono perdere l’olio di cottura e raffreddarsi. 15 minuti sono più che sufficienti.
Poi, aprire le foglie interne del carciofo delicatamente con una forchetta. Si deve aprirlo come fosse una rosa che sboccia. Ci sono capatrici esperte che questa fase di apertura la saltano addirittura, avendo fiducia del lavoro di pulitura fatto all’inizio. Di sicuro, il carciofo va condito all’interno con un po’ di sale e pepe.
Conditi tutti i carciofi, c’è chi li spruzza con un po’ di acqua fredda o vino bianco per creare una sorta di shock termico. Ma c’è anche chi salta questa fase, perché ritenuta o inutile o pericolosa.
Porre nuovamente i carciofi nell’olio caldo, che ora può raggiungere i 180°C. Di sicuro vanno cotti ad una temperatura superiore a quella della prima frittura. Cuocerli pochi minuti. Non devono bruciarsi.
Toglierli dall’olio e farli sgocciolare sulla carta assorbente.
Servirli caldi e mangiarli. Sì, interi. Dei carciofi alla giudia non si butta via nulla, neppure il gambo tagliato o le foglie che si perdono durante la frittura. Tutto, una volta fritto, si mangia.
var ad_idzone = "2605211", ad_width = "728", ad_height = "90";
قالب وردپرس
0 notes
lacabinaarmadio · 7 years
Text
IL PESCEBANANA
Tumblr media
                                                 ph - Annalisa Patuelli 
I colpi battevano fin dentro le ossa, sulle scapole, per le costole, e poi giù per le braccia, sulle dita, per risalire alle tempie, agli zigomi ai muscoli della faccia ai denti che fremevano vicino alla lingua impotente. Una folle paura si diramava agli arti che avrebbero voluto fuggire, agguantare. Non sempre le azioni degli uomini hanno per solo scopo l'interesse. Andava per il sentiero. Gli avevano detto che bere faceva male, che era vergognoso. Tutti lo disprezzavano, anche sua madre. Era un fallito. Perché, si chiedeva, se uno non vuole nulla può lo stesso essere fallito? A lui bastava non pensare. Oppure pensare cose piccole, le parole di un dialogo sulla temperatura che oggi era buona. Si era d'autunno o in primavera? Quasi non lo sapeva. O era inverno, con quel cielo plumbeo, da neve? Queste cose erano facili, si potevano dire anche se gli altri ti giudicavano strano. Forse racchiudono un significato, sì, vengono da dentro, ma non devi scavare nella mente. Vengono come l'aria tiepida contro la mano che tiene il pomo del bastone. Durante la notte ebbe pensieri omicidi. Non riusciva a dormire benché per tutto il giorno avesse camminato sulla riva del mare, affondando i piedi nella sabbia bagnata e pesante lungo la battigia, dove le onde frangono, benché avesse incamerato tanta aria fresca che gli sarebbe dovuta bastare per anni e anni, per non parlare del porto che si era bevuto di sera, per cancellare le sue miserie e sentirsi stanco abbastanza da scacciare le immagini che lo tormentavano e, finalmente, prendere sonno. 
Nel vederti cambiare così in fretta, mi viene da pensare che in realtà l'essere umano è un contenitore. Solo un contenitore, il cui contenuto può cambiare. Anche in un'altra persona che cammina per strada. Seguendo il corso del destino, tu metti nel contenitore una cosa dopo l'altra, ma nella parte più profonda e segreta del tuo essere, in questo semplice contenitore c'è qualcosa che ti assomiglia, forse un'anima, non so, e solo quella per qualche ragione non cambia, è sempre lì, accoglie tutto e cerca di godere della vita. E se penso che sarà in te fino a quando morrai, provo una strana tenerezza, quasi un dolore, insomma mi sconvolge completamente.
1 note · View note
iannozzigiuseppe · 3 years
Text
Tromba d’oro e altre cose da un mondo perduto
Tromba d’oro e altre cose da un mondo perduto
Tromba d’oro e altre cose da un mondo perduto ANTOLOGIA VOL. 241 Iannozzi Giuseppe ALLEN GINSBERG Allen arriva in una busta gialla e imbottita Arriva da morto Non l’ho ancora sfogliato, ma lo riconosco dall’odore Lo immagino con la barba da Leone, con una mano pelosa sulla patta aperta Fuori pioviggina Il postino dice di firmare per avere la raccomandata Allen giace chiuso – ancora per poco…
Tumblr media
View On WordPress
0 notes
iannozzigiuseppe · 4 years
Text
L’uomo dei tuoi incubi migliori
L’uomo dei tuoi incubi migliori
L’uomo dei tuoi incubi migliori ANTOLOGIA VOL. 209
Iannozzi Giuseppe
Tumblr media
CON LA TUA BOCCA E I TUOI OCCHI LA MORTE
Avevi detto che mi amavi. Che ero per te l’uomo dei tuoi incubi, dei migliori e dei peggiori anche.
Sei adesso con un altro più bello e di me ricco. E sono io qui a leggere lo sfratto, a schiacciare scarafaggi con la residua impronta dell’anima mia che sotto alle piante dei piedi nuda m’è…
View On WordPress
0 notes
iannozzigiuseppe · 7 years
Text
ASSOMIGLIA ALLA TENEREZZA
ASSOMIGLIA ALLA TENEREZZA
Iannozzi Giuseppe
Tumblr media
Lo giuro (inedita)
Non si può scrivere, non si può come condannati legati alla catena
A chi dire, a chi dire una banalità, un “ti voglio bene”?
Non conduce la poesia sulle sponde della gioia; e manchi tu, manca il tuo sguardo d’amore e di accusa
Ho smesso il vizio, ho smesso il vizio d’illudere me, lo giuro; ma a tarda sera il muto abbraccio malato di…
View On WordPress
0 notes
Photo
Tumblr media
Il cristianesimo, fin dall’inizio, assomiglia a un passa parola fatto tra amici. È la contaminazione per relazione l’argomento più efficace dell’evangelizzazione. Non è la propaganda la cosa che funziona di più, ma la credibilità degli amici: “Filippo incontrò Natanaèle e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret». Natanaèle esclamò: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi»”. La festa di San Bartolomeo (Natanaèle) ci fa ascoltare questo brano del vangelo tutto speciale. In un solo annuncio troviamo non solo le resistenze dei pregiudizi di Natanaèle ma anche l’unica risposta plausibile a ogni critica: “Vieni e vedi”. Infatti il cristianesimo è un’esperienza, e se lo si vuole scartare o prendere sul serio non lo si potrà fare a tavolino, o semplicemente in lunghissimi discorsi, ma solo mettendosi in gioco nell’esperienza. Natanaèle è diffidente ma si mette in gioco seguendo Filippo. “Gesù intanto, visto Natanaèle che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c'è falsità». Natanaèle gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico». Gli replicò Natanaèle: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele!»”. Gesù smonta subito il pregiudizio di Natanaele che così passa dalla diffidenza alla professione di fede, diventando di fatto il protettore di tutti quelli che iniziano con il piede sbagliato e finiscono con il piede giusto. La storia della Chiesa è piena di santi che avevano un atteggiamento polemico nei confronti di Cristo o della Chiesa, ma hanno avuto l’umiltà di mettersi in gioco, e Gesù ha tirato fuori da loro, capolavori immensi. Non avere paura, allora, se sei polemico, c’è speranza anche per te. E non rispondete con durezza ai polemici, Gesù ricambia la polemica con un gesto di tenerezza, e d’un tratto le cose si capovolgono. Giovanni 1,45-51 #dalvangelodioggi Don Luigi Maria Epicoco #vangelodelgiorno https://www.instagram.com/p/CEQrCqSjQGM/?igshid=bo522luc0ul2
0 notes
pangeanews · 4 years
Text
“Perché sul punto di spegnersi il mistero parla…”. Maurice Chappaz, il poeta che ha trovato il Tibet sulle Alpi
Pensavo fosse possibile una vita tra i monti – ma solo nel sogno, in una camera da letto che pende sul fiume, stretto, evocato dall’inno delle pietre e dal loro rimpianto, ci si può mutare in lupi e apprendere la precisione del falco. Il lago, da lì, sembra una piastra in bronzo, un amuleto – chi è del lago va in barca, con sensuale avidità di mare; chi è qui, arma gli scarponi, rincorre a zodiaco inverso gli scorpioni, senza scopo. A volte scendevo al lago a piedi, mi abbeveravo alla Margaroli, mitica libreria di Intra, Verbania. Ora non c’è più – o meglio, è trasmutata in catena libraria. La Margaroli era il cervello di una casa editrice – sede: Verbania, piazza Ranzoni – si chiama Tararà. Al bordo del lago, una casa editrice “specializzata in letteratura di montagna”.
*
Scoprii più tardi che il libro più noto di Maurice Chappaz, Il Vangelo secondo Giuda, stampato da Gallimard nel 2001, era stato tradotto, per Tararà, da un amico, il poeta Flavio Santi. “Una dopo l’altra le poesie mi lasciano, si muovono, ma mi sembra ancora di decrittare ricordi con le parole di poeti diversi, inghiottiti, fuggiti verso la fine del mondo, di passaggio nella mia coscienza, quasi visibile. Non so da dove venga questa voce, la penetro, a tentoni tra cespugli neri, su sentieri alla fine dell’era”. Il libro, tradotto nel 2010, l’ho regalato a Domenico Quirico, l’inviato speciale, in memoria di un incontro, accaduto a Lima. Quasi condor stavano, all’altro lato del mondo, in cima ai cancelli – puntavano un al di là di me.
*
Nel 2000 Tararà pubblica un libro meraviglioso, s’intitola Vallese-Tibet. Icona dei contadini di montagna. La prefazione è di Mario Rigoni Stern: “Quanti ancora notano i semplici segni? Siamo pochi vecchi, ormai. L’erba cresce e nessuno più la taglia, il bosco avanza e copre i pascoli. Non c’è tempo per osservare; nemmeno di riflettere. Sono sempre meno quelli che vanno a piedi. Ancora di meno quelli che coltivano la montagna. Sono sempre molti, invece, quelli che fanno le file agli impianti di risalita”. Quando ho letto Chappaz mi ha sorpreso questo: è uno che scrive andando a piedi. Enumera le stelle, le valuta con lo scroscio del fiume, sa che la parola non è una pietra – ma può lapidare. C’è una calma limpida, lampante. “La mia epoca è stata spazzata via. I paesi scappano, le campagne si impigliano, si perdono l’una nell’altra. Non so più dov’è la mia casa”, dice Chappaz. Avere il privilegio di una infanzia tra i boschi – nel paese, singolare, sopra il Lago Maggiore, in cui ho abitato, non c’erano negozi ma una chiesa, che fungeva da agorà e da fuoco; il sabato, quando dalla porta semiaperta vedevi la pala, le candele, la tovaglia, il calice, l’ombra del prete, sentivi, con nitidezza meridiana, il ruggito del sacro. Avere il privilegio dei boschi, dico, quando infanzia e sogno sono nello stesso magma, è addestrarsi a perderlo.
*
Maurice Chappaz (1916-2009) è uno scrittore svizzero, cresciuto nel Vallese, un ‘classico’; ha sposato la poetessa S. Corinna Bille nel 1942, ha avuto tre figli. Nato da una famiglia di avvocati, sceglie la letteratura, Paul Eluard ne benedice il talento, viaggia, scrive sui giornali, si occupa di una vigna, si applica come geometra. Dagli anni Settanta scrive contro il turismo che dilania le montagne, che fa dell’ascesi una cartolina. Ha ottant’anni quando viene riconosciuto con il Prix Schiller; i suoi libri, memorie vetrificate di tenerezza e di vertiginosa ribellione, sono pubblicati da piccoli editori, molti, ora, sono stampati da Fata Morgana. “Tutto inizia, in Chappaz, da un infantile grido di gioia, a 22 anni”, scrive Philippe Jaccottet commentando questa terzina: “…vorrei dire soltanto/ meraviglia meraviglia/ ma allora chi dirà la notte? chi dirà l’estate?” (Verdures de la nuit).
*
Di Maurice Chappaz vorrei tradurre tutto. Le livre de C – edito da Fata Morgana, con uno scritto di Jean Starobinski – si concentra sulla morte di Corinna, accaduta nel 1979. “Un’isola al mondo come il dorso di una balena. Dicono che i marinai in viaggio evochino la terra; gli si approssimano, mangiano. Alimentano un piccolo fuoco e l’isola, che si è appena rivelata, affonda nell’oceano. Allo stesso modo, al momento della morte, la terra ci lascia, ci immergiamo in un’acqua illimitata, senza palazzi…”.
*
La mia copia di Vallese-Tibet è ingiallita; l’ho portata con me nei recessi e nei ricoveri della Val Grande, una delle aree più selvagge del paese. Qualcuno mi avvisava quali piante succhiare per un immediato conforto, un altro, dal dialogo in spirali nei cespugli, sapeva riconoscere la vipera. Non è difficile vedere il falco, ma parlargli. “La vita qui, intessuta di miseria (dominata collettivamente), splende di qualcosa di intatto o di vergine, un valore in sé che ci sfugge. L’infallibilità si sogna o si vive… La peggiore illusione si chiama progresso. Basandoci su questo fatto: c’è una perfezione del mondo piuttosto terribile, dato che tutti i mali sono possibili, allora o sono anche tutti i beni. I soli a non cascarci, con una speranza, piccoli villaggi tra due valanghe”. Torna la parola meraviglia, sbigottimento bianco, etimo in cui il verbo plana al silenzio: “Meravigliati, gli artisti hanno avuto naso e hanno fatto il loro mestiere. Perché sul punto di spegnersi il mistero parla, non ho avuto bisogno di impararlo… Solo gli gneiss, i larici e i loro fiumi sapevano andare fino in fondo… Verso una reincarnazione”.
*
Non asserisce e non assolve, la poesia – assomiglia. Coagula il sole, la sua eclissi – può essere una cittadinanza, la sua sconfitta. Nel 1987 Gallimard pubblica le Georgiche di Virgilio, “l’ex padre dell’Occidente”, secondo Chappaz; dall’apicoltura alla discesa agli inferi, come se i morti vivessero in un immenso alveare, liquefatti i ricordi.
*
“L’altitudine vista come gli oceani, nei romanzi di Joseph Conrad e di Herman Melville”, è scritto a proposito di La Haute Route (per Tararà, L’alta via). In Vallese-Tibet torna la metafora dell’alveare. “Forse le scritture, tendo i miei fogli ancora bianchi, servono per raccogliere gli ultimi sciami? Che lasciano gli alveari quando i proprietari dormono sotto terra. Qualche parola alata fugge via. Il Tibet fu l’ultimo alveare”. Da lontano, Oriente pare un triangolo di miele; le città europee sono convalidate dal corvo e dal randagio. Anche la fatica è una variante della poesia, le mani in preghiera, giunte, simulano una cima, gli occhi, poi, vanno spesi, svuotati perché qualcuno ne confermi il fiume, il fine. (d.b.)
In copertina: la fotografia di Maurice Chappaz è tratta da qui
L'articolo “Perché sul punto di spegnersi il mistero parla…”. Maurice Chappaz, il poeta che ha trovato il Tibet sulle Alpi proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2AVBzAs
0 notes
pangeanews · 6 years
Text
Sia ode a Denis Johnson, il ‘vaffa’ a caratteri cubitali sulla letteratura Usa. Nuovo libro!
Notoriamente, prima gli amici. Io non ho amici. Gli amici – forse cinque – li chiamo ‘parenti’. Il resto è carne che sorge&tramonta, tanto piacere, adieu. Comunque, notoriamente, prima gli amici. Uno degli scrittori di cui ho scritto di più è Denis Johnson. Notoriamente, di letteratura ci capisco un torsolo. Uno dei miei cinque amici, pardon, ‘parenti’, si è buttato dal settimo piano di casa sua, a Saronno, sono passati otto anni e lui, tra una manciata di settimane, di anni, ne farebbe 44, cifra mistica. Quanto a letteratura, io mi fidavo solo di lui. Simone Cattaneo. Poeta. Poeta dalla prepotenza multipla e dalla ferocia salutare. Lui mi fa. Leggiti Jesus’ Son, è uno dei libri più belli. Lui si chiama Denis Johnson. Un genio. Simone ha sempre ragione. Anche oggi, di notte, ogni tanto, mi sussurra all’orecchio i suoi improbabili consigli letterari. Per questo ho scritto così tanto di Denis Johnson. Perché vengono prima gli amici. Ho scritto su Albero di fumo, micidiale romanzo, catastrofico, della guerra in Vietnam; su Mostri che ridono, pazzesca spy story-farsa ambientata in un’Africa che ghigna visioni; perfino su Nessuno si muova, che invece è un libro di merda. L’anno scorso quelli de il Giornale m’han fatto l’onore di farmi scrivere il ‘coccodrillo’ di Denis Johnson, figlio dell’America alcova di incubi, classe 1949, tante donne, troppe sbronze, nastri di coca nelle narici, Raymond Carver come maestrina, un ‘vaffa’ a caratteri cubitali sul deretano della letteratura Usa, onorato a tratti – un National Book Award in teca – costantemente eccessivo, che muore a 67 anni per un cancro al fegato. Sorte puttana. Ho scritto il ‘coccodrillo’ di Denis Johnson. Ho scritto il ‘coccodrillo’ del mio amico unico, Simone, che mi chiamava ‘fratellino’, se n’è andato assiderandomi nel senso di colpa, e mi consigliava con ardore di leggere Johnson. Simone ha sempre ragione. Denis Johnson – che piaceva tanto a Philip Roth e a Don DeLillo – non si smanetta con la retorica del Grande Scrittore Americano, non gli interessa altro che andare a pesare quel grammo di dolore che è in ogni cosa. Pesa il dolore come il dio egizio della giustizia ti pesa il cuore. Come se nel dolore fosse incardinato il nostro carisma. Ora. Sepolto Denis, un mazzo di mesi dopo, esce il libro postumo. Racconti. Denis è un dio sinistro, un dio oscuro del racconto. Bravo romanziere, ma narratore eccelso, dicono i critici. Il libro s’intitola The Largesse of the Sea Maiden, è uscito questa settimana, per Random House (pp.224, $ 17.70; lo trovate qui) e visto che io non credo nei libri post mortem, sfilati sotto la chiglia della bara, mi sono fatto un giro. Tutti ne scrivono un gran bene. Forse perché dei morti sepolti di fresco non si può sparlare. Non lo so. Il pezzo più bello – e più articolato – comunque, l’ha scritto Christian Lorentzen, s’intitola Denis Johnson Left Us With One Final – and Terrific – Book. “Questi cinque racconti sono tra i lavori migliori di Johnson – ma quello che dà il titolo alla raccolta, un catalogo di singoli momenti vissuti da un uomo che ci dice di passare attraverso l’esistenza come se fosse una mascherata, è tra i migliori racconti in assoluto pubblicati da uno scrittore americano in questo squarcio di secolo”. Christian scrive questo. E vi spiega perché. Se non vi fidate, leggete il libro in inglese, altrimenti aspettate la traduzione Einaudi, che capiterà quando capiterà. Gli altri racconti s’intitolano The Starlight on Idaho, Strangler Bob, Triumph Over the Grave, Doppelgänger, Poltergeist. Il primo racconto – quello del titolo – parte con una sezione che si chiama Silences, così: “Dopo cena, nessuno se n’è andato a casa. Ci siamo goduti il pasto così tanto che speravamo che Elaine ci avrebbe servito il tutto ancora una volta. Sapevamo qualcosa del lavoro di volontariato di Elaine – nessuno sapeva del mio lavoro, dell’agenzia pubblicitaria. Ci siamo seduti nel soggiorno, per raccontarci i rumori più forti che avessimo mai udito. Uno disse: la voce di mia moglie quando mi ha detto che non mi amava e voleva divorziare. Un altro ricordò il tonfo del cuore quando gli partì la coronaria. Tia Jones era diventata nonna a 37 anni e si augurava di non udire più niente di così forte quanto il pianto della nipote tra le braccia della figlia sedicenne. Il marito, Ralph, diceva che ogni volta che suo fratello apriva bocca gli spaccava le orecchie, aveva la sindrome di Tourette e detonava in commenti del tipo, ‘Me lo meno! Il tuo cazzo odora di buono!’, davanti a perfetti sconosciuti, in autobus, al cinema, perfino in chiesa. Il giovane Chris Case ha cambiato rotta, ha preferito parlare del silenzio. La cosa più silenziosa che abbia mai sentito è stata la mina che gli ha strappato la gamba destra alla periferia di Kabul, Afghanistan”. Ascoltate il ritmo di Denis. Umanità marginale e smangiata in primo piano. Rettitudine di fronte al mastio del dolore. Tranquilli, dicevo. The Largesse of the Sea Maiden sbarcherà in Italia, griffato Einaudi, è probabile. Comunque, stampa un editore al top. Quello che non tradurranno mai sono le poesie di Denis. Peccato. ‘Cazzo, Johnson è anche un grande poeta’, mi diceva Simone. Rilancio. Denis Johnson è soprattutto poeta. Esordisce come poeta, specie di derelitto rimbambito da Rimbaud, nel 1969, a vent’anni, con The Man Among the Seals. Il primo premio importante lo ottiene, sotto la benedizione di Mark Strand, nel 1981, per The Incognito Lounge, e i primi soldi veri – la residenza al The Frost Place – li vede come poeta. La narrativa, con Angels, comincia dopo, nel 1983. Poi, è vero, la prosa ingoierà il talento lirico – che significa: saper fissare con occhi come cani il dolore, appunto – di Johnson, che comunque pubblica altre due raccolte, The Veil (1985) e The Throne of the Third Heaven of the Nations Millennium General Assembly (1995), a cui bisogna sommare un paio di testi teatrali in versi. Detto questo, vi spiego come funziona. Del libro postumo di racconti di Johnson – giurano che l’aveva rifinito per la pubblicazione poco prima di passare a miglior vita – parleranno tutti. Della sua poesia nessuno. Allora, io vi offro un paio di poesie come drink.
Davide Brullo
   Calura
Qui nel crepuscolo elettrico il tuo amante nudo eccita il vetro del bicchiere e cubi di ghiaccio cadono dai suoi denti. Meravigliosa Susan, i suoi capelli appiccicosi di gin Nostra Signora del Bicchiere Bagnato sulla copertina del disco oscilla incattivita nella calura mentre precipita un primato e accordi serpentini si spaccano come un notizia terribile sui Rolling Stones, come l’ultima luce – piena di sfere e di regioni. Agosto, tu sei solo una allucinazione erotica, solo la musica febbrile prodotta da un kazoo sei serio? – un forno gigantesco interpreta la notte questa follia mutilata assomiglia alla passione, la luna contraffatta di tenerezza e magia offrirà una tazza di luce ai prigionieri?
da The Incognito Lounge and Other Poems, 1982
  Vespro
Gli asciugamani marciscono e mi fanno schifo su questa umida penisola dove hanno inventato la nebbia e l’abuso di droga e insegnano che la luce svanisce, dove il mio cuore profondo e di prima qualità ha pianto perché non potrò baciare le tue famose ginocchia di nuovo in una stanza resa soffusa da una sciarpa gettata sulla lampada. Le cose sono radicali nell’oscurità: le barche partono dal golfo; le province dell’attualità gattonano sul mare; il crepuscolo ora teneramente domina sopra i parcheggi incustoditi – il tramonto è istantaneo sui parafanghi, memoria e pace… il morso del caos…
da The Throne of the Third Heaven of the Nations Millennium General Assembly, 1995
L'articolo Sia ode a Denis Johnson, il ‘vaffa’ a caratteri cubitali sulla letteratura Usa. Nuovo libro! proviene da Pangea.
from pangea.news http://ift.tt/2DKwGaa
0 notes