Tumgik
#e non usciva mai nessun problema
emozionidinchiostro · 10 months
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Appena uscita dall’ultimo incontro di diagnosi con la mia psi perché sospetta che io abbia l’ADHD
Mezzo che non so se mi viene da ridere o da piangere
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erosioni · 3 years
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Non chiamarmi Andryusha.
Andrei si affacciò al balconcino rugginoso del suo micro-appartamento e si accese una sigaretta. Respirò l’aria ancora fredda dell’alba. Da lontano si sentivano i rumori del traffico sulla Casilina. - Ci vorrebbe una bella canna – pensò. Era stato un mese terribile fra lavoro, esami e rotture di coglioni infinite, ma ora cominciava a vedere la luce.
Prima di tutto in officina l’avevano pagato e quindi per un po’ con i soldi era a posto. Tra qualche ora avrebbe dato l’ultima parte di Meccanica dei materiali, roba durissima, ma era abbastanza sicuro di farcela. Erano tre giorni che si riempiva di pillole per stare sveglio. Adderall o qualcosa del genere, neppure quello che gliel’aveva venduto lo sapeva bene, ma faceva stare a mille. Ora però era stanco e sentiva il bisogno di un atterraggio morbido, a base di vodka e canne. Le cose si mettevano bene. Il coinquilino gli aveva annunciato che tornava nel suo paese per una settimana, quindi avrebbe avuto micro-casa libera, soldi in tasca e un po’ di riposo. Nel riposo sperava di includerci anche qualche bella scopata.
Tirò fuori il cellulare per controllare se c’erano messaggi di Tanya. Non stavano proprio insieme però a letto lei era una bomba. Certo forse lei avrebbe voluto qualcosa di più da Andrei. Il ragazzo respinse accuratamente il pensiero in un angolo buio del suo cinema mentale, mentre nella sala accanto si proiettavano le poppe generose della scopamica. Comunque niente messaggi. Solo spunta verde. Se la stava tirando. Andrei scrisse: - Casa libera tutto il weekend! – Rilesse. Cancellò il punto esclamativo. 
Ricominciò a fantasticare. Questa volta in mezzo alle tette di Tanya c’era il suo cazzo durissimo che pompava a un centimetro dalla bocca di lei. – Merda, ‘sta roba mi fa diventare veramente adrenalinico, meno male che dovrebbe favorire la concentrazione… - Immediatamente pensò che doveva darla di nascosto a Tanya. Si sarebbe scatenata come una bestia. Però che pensiero cattivo. Prese il tubetto dell’Aspirina dove nascondeva le pillole e ci guardò dentro. Ce n’erano ancora tre. Ne inghiottì una e, col cazzo in tiro, cominciò a ripassare per l’esame a tutta velocità.
La luce del pomeriggio lo investì all’improvviso mentre usciva dall’università. Faceva caldo e l’esame era andato! Aveva voglia di saltare di gioia, ma forse era solo la roba che ancora gli saliva al cervello. Sul cellulare intanto era arrivata la risposta di Tanya
– Finisco il turno alle nove. Ci vediamo stasera. –
-Uuuuuuuraaaaaaaaa! – Gridò Andrei, saltando col cellulare in mano. Poi si guardò attorno per essere sicuro che nessuno lo stesse fissando come un matto. Corse al supermarket per procurarsi qualcosa da mangiare e proprio in quel momento gli arrivò una telefonata fatidica. Sullo schermo  si impresse il nome di suo zio Boyko. Che cazzo voleva?
-          Andrei, ragazzo – la voce era quella delle grandi occasioni – ho un favore urgente da chiederti… -
Lo zio era quel tipo di parente che chiamava solo per rompere il cazzo. Infatti, anche se viveva pure lui a Roma con tutta la famiglia, Andrei se ne teneva ben lontano.
-          Zio per favore, guarda che sono molto impegnato in questi giorni…
-          Non mi interrompere che ho poco tempo. Siamo tutti all’aeroporto io la zia e i bambini. Ci dobbiamo imbarcare tra 10 minuti.
-          Bene, buon viaggio, zio, salutami la madrepatria…
-          Fanculo la madrepatria, Darina non si può imbarcare, c’è un problema col passaporto, dicono che se parte poi c’è il rischio che non possa rientrare.
-          Che cosa? No, cazzo, non voglio neanche sentirlo…
-          Ma che cazzo vuoi che faccia, eh? Dobbiamo stare via solo un weekend, non posso buttare cinque biglietti aerei, già perdo quello di Darina con queste merde di low cost. Ormai tua cugina è grande, ti chiedo solo di darle un’occhiata, cazzo! Un weekend!
-          Dio Cristo! Ho gli esami, ho il lavoro, sono malato!
-          Va bene! Va bene! Ho detto solo tienila d’occhio. Chiudila a casa tua così non va in giro a mettersi nei guai e dalle qualcosa da mangiare! Poi puoi fare quello che ti pare! Sono solo due giorni!
-          NO. Mandatela da qualche vostro amico!
-          Non va da nessun amico MIA FIGLIA, hai capito? Io mi fido solo della famiglia e qui la famiglia sei tu! Non mi costringere a chiamare tuo padre se no sono cazzi! E sbrigati a venire in aeroporto che Darina ti aspetta alle partenze.
-          No cazzo non può essere no cazzo non può essere cazzo no – se lo era ripetuto per un milione di volte in testa mentre prendeva il treno per Fiumicino.
Darina non la vedeva da almeno un paio d’anni. Ricordava una ragazzina saccente, occhialuta, con la testa tra le nuvole. Sempre occupata a leggere o a rompere le scatole parlando a manetta. Per di più con un’evidente cotta per lui, il che la rendeva appiccicosa e imbarazzante. Ripensava alle preoccupazioni dello zio – In che cazzo di guai si doveva cacciare quella secchiona? Una rissa in libreria?
Appena entrò nel Terminal 3 non fece in tempo a guardarsi attorno che sentì uno strillo: - Andryushaaaaa! Mi sei venuto a salvareee! – Darina gli si gettò al collo a peso morto che quasi finivano per terra.
– Umpf, staccati, Darina! Abbassa la voce che ci guarda tutto l’aeroporto… -
-          Uffa! Ma come sei! Avevo paura che non venissi. Non ti vedo da un sacco di tempo e mi saluti così?
Andrei la guardò, in effetti era cambiata un bel po’, non era più vestita come un maschiaccio, sembrava avesse il seno e non c’era più traccia di occhiali. Forse aveva persino un filo di trucco?
-          …E gli occhiali dove sono finiti? – fu l’unica cosa che gli venne da dire.
-          Gli occhiali? Ho le lentine, Andryusha, ma tu non mi vedi da un sacco di tempo! Anche tu sei cambiato tanto hai fatto palestra ti sei fatto crescere i capelli la barba stai bene ma la camicia ma lavori ma dove ma lo studio ma quando ma l’officina ma perché ma io ma tu ma noi ma bla bla bla bla bla bla…
Andrei perse traccia delle chiacchiere della cuginetta in un rumore di fondo. Afferrò il suo trolley e si rimise in marcia verso la stazione. Ogni tanto rispondeva – Mh-sì-no – senza ascoltare. Nel suo cervello si agitava solo un pensiero: come fare a sbarazzarsi di Darina in tempo per potersi scopare Tanya? Purtroppo non gli veniva in mente niente e per di più la roba continuava a risalirgli rendendolo sempre più agitato.
Arrivati a casa Darina stava ancora parlando di una graphic novel che aveva appena letto. – Cristo non smette un secondo – pensò Andrei. Fu attraversato da un flash in cui le metteva dei cerotti sulla bocca, la legava con una cinta e la buttava nello sgabuzzino delle scope. Scosse la testa. – Cazzo di anfe, mai più… -
Invece disse: - Allora Darina, tu dormirai nella stanza del mio coinquilino, tanto non c’è. Queste sono le lenzuola per il letto e gli asciugamani.
-          Andryusha, come sei gentile con me, in cambio ti darò una ripulita a tutto…
-          No… no… vediamo di spiegarci… non siamo in un cazzo di manga, non toccare niente, apri il trolley e sistemati in quello spazio. Attaccati al wi-fi. Siediti, stenditi, leggi, chatta, fai quello che vuoi, ma stai buona e zitta e soprattutto NON MI CHIAMARE ANDRYUSHA! – L’ultima parte gli venne fuori come un ruggito.
-          Andry… Andrei… - disse la cugina – non volevo offenderti è solo che sono contenta di stare qui… vedrai che non ti darò nessun fastidio. – tirò su col naso, offesa.
Andrei sperò che non si mettesse a piangere. Andò nella sua stanza e tirò fuori il cellulare. Erano le quattro, tra poche ore Tanya sarebbe uscita dal lavoro, si sarebbe messa in tiro e si sarebbe presentata con l’aspettativa di due giorni di sesso e sballo. – Pensa Andrei, pensa… non c’è niente che non si possa sistemare con un po’ di logica… 
(Continua più tardi o domani, mocciosi)
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gregor-samsung · 3 years
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“ Rimasi oltre due anni nella prigione interna della Lubjanka. Là si entrava da liberi e si usciva per andare nei lager, nei reparti di isolamento, alla fucilazione. Ma nella mia memoria è viva soprattutto la prima impressione, quando nella cella comune, dopo il lungo isolamento, alcune detenute mi parvero una folla intera, e tuffandomi nel mare della sofferenza umana mi distrassi brevemente dal mio dolore. Ricordo ancora la prima donna arrestata e condotta nella cella comune dopo il mio arrivo, un'ispettrice forestale del bosco di Brjansk. Colorita, fresca, era molto diversa da tutte noi che avevamo già trascorso mesi o anni nelle carceri e nei lager, pallide, smagrite, grigie. Sembrava una bacca appena colta. La soprannominai. Fragolina e così la chiamarono tutte, anche se la bacca appassì rapidamente. L'inquirente, invece, la chiamava «spia forestale». Era una donna spontanea e tutt'altro che sciocca, di famiglia contadina. Dopo l'arresto fu subito trasferita da Brjansk alla prigione della Lubjanka. L'inquirente la interrogò il giorno stesso e dopo l'interrogatorio fu condotta nella nostra cella. Entrò confusa e ci lanciò uno sguardo sospettoso. Poi ci chiese per quale motivo ci avevano arrestate. Qualcuna rimase in silenzio, le altre risposero: — Per nessun motivo. — E anche me per nessun motivo,— disse l'ispettrice e, con un sospiro di sollievo, aggiunse: — Evidentemente ora è di moda mandare in prigione la gente senza motivo. Ci parlò del suo interrogatorio, sottolineando il comportamento sciocco e volgare dell'inquirente. — Il problema è che per inquirente mi hanno dato uno scemo, bisognerebbe chiederne uno intelligente (come se questo avesse potuto cambiare la situazione). Mi ha detto: «Al posto della testa hai un baule pieno di cimici». Ma come si fa a inventare una cosa del genere! E ha sostenuto che sono una spia forestale. — Rideva fra le lacrime. — Ho fatto di tutto per spiegarglielo, allo scemo, che il nostro è un buco sperduto, che non vediamo mai nessuno e che non posso avere informazioni di nessun genere, a chi serve una spia come me? «Sapevi, — mi dice, — quanti alberi ci sono nel tuo tratto di bosco, ecco qua le informazioni, e tu sei una spia forestale!» Però l'inquirente non disse a quale paese aveva trasmesso queste preziosissime informazioni». Quando lei cercò di convincerlo che informazioni di questo tipo non potevano essere utili a nessun paese e dichiarò che erano tutte sciocchezze, l'inquirente cominciò a sbraitare: «Te le farò vedere io le sciocchezze! Ti costringerò a parlare! Conoscevi Bucharin?». «Come potevo conoscerlo? Non veniva nel bosco da noi.» «Perché fai la finta tonta, non hai mai sentito che Bucharin era un nemico del popolo?» «Sí, qualcosa ho sentito. Del nemico del popolo e di prima» («e di prima», disse proprio cosí). «Cosa significa "di prima"! Te la faccio vedere io "di prima"! Bisogna dimenticare com'era, bisogna dimenticare "di prima". Bucharin non ha voluto confessare per tre mesi, continuava a ripetere "Non so nulla, non ho visto nulla", se ne stava seduto come un dio! E solo quando lo spedirono in una cella speciale cominciò a deporre. Nessuno ha mai resistito a quella cella. Ci manderemo anche te e confesserai.» Il resoconto dell'interrogatorio abbondava di particolari incredibilmente volgari, offensivi. Del resto, erano questi i personaggi che allora potevano diventare inquirenti nella prigione principale dell'Nkvd [=Polizia politica]. Indubbiamente, non tutti erano cosí. Ce n'erano di raffinati. Ma, purtroppo, questo non incideva minimamente sui risultati dell'«inchiesta». Il materasso era soffice, ma si dormiva sempre scomodi. “
Anna Larina, Ho amato Bucharin, (traduzione di Giuseppina Cavallo e Lucetta Negarville, collana Albatros) Editori Riuniti, Roma, 1989¹; pp. 269-71.
[ Edizione originale: Незабываемое [Indimenticabile], memorie pubblicate per la prima volta nel 1988 sulla rivista letteraria sovietica Знамя (Vessillo) e subito dopo in volume ]
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gloriabourne · 4 years
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The one where Fabrizio feels old
Quando Ermal era entrato in casa di Fabrizio, quel pomeriggio, aveva trovato il compagno seduto sul divano, con le cuffiette nelle orecchie e lo sguardo perso nel vuoto.
Non si era stupito. Era una cosa che capitava piuttosto spesso, soprattutto quando Fabrizio era alle prese con un nuovo album.
Ascoltare musica lo rilassava e spesso gli portava l'ispirazione di cui aveva bisogno.
Quindi Ermal gli aveva semplicemente stretto una spalla per avvertirlo del suo arrivo, ma non aveva fatto domande.
E Fabrizio non aveva detto nulla.
Non gli aveva detto che canzone stesse ascoltando e quali pensieri gli passassero per la testa.
Aveva tolto le cuffie, si era avvicinato a Ermal e lo aveva baciato.
Niente di insolito, almeno fino a quel momento.
Ermal aveva iniziato a pensare che qualcosa non andasse - o che quanto meno ci fosse qualcosa di strano - solo in tarda serata.
Per tutto il giorno, Fabrizio non aveva fatto altro che isolarsi, ma considerato che stava lavorando a un nuovo album non era poi così strano. Lo faceva ogni volta: si chiudeva in sé stesso per tutto il giorno, restava a riflettere per ore, ma poi verso sera usciva dalla sua bolla e tornava a essere il solito Fabrizio.
Non quella sera, però.
Quella sera Fabrizio continuava a essere assente, ad avere lo sguardo perso nel vuoto, a non ascoltare minimamente ciò che Ermal stava dicendo.
E dopo ormai ore trascorse in quel modo, Ermal decise di agire.
"Va bene, cosa c'è che non va?" disse toccandogli il braccio per richiamare la sua attenzione.
Fabrizio si voltò verso di lui. "Eh? Cosa?"
“È tutto il giorno che sei strano. Sei completamente assente."
"Sono solo un po' stanco" rispose Fabrizio senza guardarlo negli occhi. Ma Ermal capì subito che la stanchezza non era il vero problema.
"Non penso sia solo quello" disse. "Qualunque cosa sia, sai che puoi parlamene."
Non voleva forzarlo a parlare di qualcosa che evidentemente lo preoccupava e lo rendeva inquieto, ma voleva che Fabrizio sapesse di poter fare affidamento su di lui.
Erano una squadra da molto tempo prima di stare insieme e con l'inizio della loro relazione quel rapporto si era fortificato. E nelle squadre i problemi si affrontano insieme.
Fabrizio scosse la testa, come se servisse a scacciare i pensieri. "Non è niente di grave. Solo qualche pensiero di troppo."
"E quindi? Mica ci raccontiamo solo le cose gravi."
"Lo so, ma non voglio annoiarti con qualcosa che so benissimo che non è un problema" disse Fabrizio. Poi si sporse verso Ermal stampandogli un bacio sulle labbra.
“È tutto ok, davvero" disse ancora, prima di uscire dalla cucina e dirigersi verso la camera da letto.
Ma Ermal non credeva a una sola parola.
  Nei giorni seguenti, le cose sembravano essere tornate alla normalità, ma Ermal continuava a essere convinto che ci fosse qualcosa che Fabrizio gli aveva tenuto nascosto.
Non poteva essere solo la stanchezza o qualche pensiero di troppo a renderlo così taciturno, così triste quasi.
Affrontare di nuovo il discorso, però, era fuori discussione.
Fabrizio non voleva saperne di parlarne ed Ermal non lo avrebbe costretto a farlo.
Erano passate un paio di settimane quando fu Fabrizio a decidere di parlare finalmente di ciò che aveva per la testa.
Ermal era nella camera dei bambini, seduto accanto a Libero per aiutarlo con i compiti di inglese.
Per un attimo, Fabrizio si immobilizzò sulla porta godendosi quella scena.
Ermal era entrato in sintonia con i suoi figli fin da subito, soprattutto con Libero. Ed era strano perché Libero era un bambino piuttosto chiuso, che non dava troppa confidenza quando una persona nuova entrava nella sua vita.
Ma con Ermal era stato diverso.
In effetti Fabrizio avrebbe dovuto aspettarselo.
Lui stesso non dava confidenza quasi a nessuno, ma con Ermal era successo e basta.
Si erano trovati e si erano piaciuti all'istante.
Era stato un colpo di fulmine, ma che almeno in quel momento non aveva nulla a che vedere con l'amore.
Si erano semplicemente guardati negli occhi e avevano capito che sarebbero andati d'accordo e che avrebbero potuto contare l'uno sull'altro.
E proprio per quello, doveva permettere ad Ermal di capire i pensieri che da giorni lo tormentavano.
"Ehi" disse richiamando la sua attenzione.
Ermal sollevò lo sguardo e sorrise. "Ciao. Sai che Libero è davvero bravo in inglese? Mi domando da chi abbia preso."
"Sicuramente non da papà" disse Libero facendosi sfuggire una risata.
Fabrizio si finse offeso, anche se non riuscì a evitare di nascondere un sorriso, e disse: "Bravi, coalizzatevi e prendetemi in giro. Vorrei ricordarvi però chi è che cucina in questa casa!"
Di fronte alla prospettiva di rimanere senza cena, Libero tornò con la testa china sul libro.
"Posso parlarti un attimo?" chiese Fabrizio rivolto a Ermal.
Il compagno annuì e si alzò, seguendo Fabrizio fuori dalla stanza.
"È successo qualcosa?" chiese Ermal appoggiandosi alla parete del corridoio.
"No, non è successo niente. È che... ti ricordi qualche settimana fa, quando hai detto che ti sembravo strano?"
Ermal annuì ma rimase in silenzio, permettendogli di continuare.
"Ti ho detto che avevo dei pensieri per la testa. Non era del tutto una bugia, i pensieri c'erano davvero. Ci sono ancora" disse Fabrizio.
"Vuoi parlarmene?" chiese Ermal allungando una mano verso di lui.
Fabrizio intrecciò le dita con le sue sorridendo. Ermal era sempre pronto a tenerlo a galla quando si sentiva affondare e non avrebbe mai potuto ringraziarlo abbastanza.
"Mi sono ritrovato quasi per caso a sentire dei miei pezzi. Sai com'è, pensavo a cosa mettere nella scaletta del prossimo tour, cosa lasciare fuori... E mi è tornata in mente una canzone."
"Quale?"
"Il vecchio."
Ermal sospirò.
Conosceva il testo di quella canzone - in realtà conosceva a memoria ogni canzone di Fabrizio - e ormai aveva capito quali pensieri potesse aver scatenato quel brano. Fabrizio, per quanto cercasse di prendere sempre quella questione con ironia, era terribilmente preoccupato dallo scorrere del tempo, dall'avanzare dell'età.
Durante i primi mesi della loro collaborazione, Ermal si era divertito parecchio a prenderlo in giro calcando su quella misera differenza di età che intercorreva tra loro, ma ben presto si era accorto che Fabrizio era infastidito da quella situazione. Davanti alle telecamere stava allo scherzo, rideva e prendeva in giro Ermal dicendo che non era poi così tanto più giovane di lui, ma appena rimanevano soli si incupiva e iniziava a dire che in effetti era vecchio davvero.
Il disagio di Fabrizio era diventato ancora più evidente nel periodo dell'Eurovision. Ermal aveva scherzato spesso sul fatto che fosse tra i concorrenti più vecchi, ma Fabrizio non lo aveva preso affatto come uno scherzo. Certo, aveva risposto sorridendo a quella battuta, ma poi ci aveva riflettuto e si era reso conto che effettivamente era circondato da persone molto più giovani di lui, alcuni di loro avrebbero addirittura potuto essere suoi figli.
Ermal aveva passato un'intera serata a cercare di fargli capire che essere più vecchio degli altri concorrenti non era necessariamente una cosa negativa. Anzi, significava avere più esperienza, saper gestire meglio la pressione, saper padroneggiare meglio il palcoscenico.
E poi non aveva potuto fare a meno di fargli una pessima battuta paragonandolo a un buon vino che migliora invecchiando.
Da quel momento, almeno con Ermal, Fabrizio era stato molto più rilassato nei confronti della sua età e del tempo che trascorreva inesorabilmente.
Ma forse era stata solo un'impressione, se ora Fabrizio era di nuovo vittima di quei pensieri. Forse Ermal aveva solo creduto che quelle paranoie fossero passate, ma in realtà non erano passate affatto.
"So che tu ora mi dirai che mi sto facendo problemi inutili" disse Fabrizio. "Però mi sono accorto che tutto ciò  che ho detto in quella canzone, ora è più vero che mai. Non ho più l'età! Non ho più l'età per fare un sacco di cose."
"Non voglio dirti che sono problemi inutili. Però ti rendi conto che la maggior parte delle cose che hai scritto in quella canzone, la maggior parte delle cose per cui tu dici di non avere l'età, le fai comunque? Ti sei accorto di questa cosa, vero?" disse Ermal con un sorriso.
Fabrizio inclinò la testa di lato e lo guardò dubbioso.
"Ok, ti spiego" disse Ermal. "Correggimi se sbaglio, ma mi pare di ricordare che in quella canzone parli di amplessi veloci, di usare l’iPhone, di alzare la voce... Giusto per fare qualche esempio."
Fabrizio annuì ma continuò a guardarlo indeciso, senza capire dove volesse arrivare.
"Partiamo dalle cose semplici: il tuo cellulare."
"Che c'entra il mio cellulare?" chiese Fabrizio.
"È un iPhone. E lo sai usare. Non benissimo forse, ma lo sai usare. Quindi non è vero che non hai l'età per usare un iPhone" spiegò Ermal.
Fabrizio fece una smorfia, quasi scocciato all'idea di dovergli dare ragione. "Va bene. Poi?"
"Poi ricordo perfettamente il modo in cui hai sgridato Libero e Anita per aver rotto la cornice che stava sopra il pianoforte. Hai alzato parecchio la voce, quella sera."
Fabrizio si grattò la nuca imbarazzato. Non gli piaceva perdere la pazienza, soprattutto con i suoi figli e soprattutto davanti a Ermal.
"Era un tuo regalo, ho perso un po' le staffe quando ho visto la foto di Sanremo a terra e la cornice a pezzi."
"Lo so. E hai fatto bene a sgridarli, in fondo avevano fatto qualcosa che non avrebbero dovuto fare. Però la voce l'hai alzata."
"Ok, hai ragione anche su questo. Ma sul resto no! Gli amplessi veloci e senza intimità, ad esempio, non fanno più per me da tempo."
"E meno male!" esclamò Ermal con un pizzico di indignazione.
Fabrizio sorrise e gli accarezzò una guancia. "Non ho detto che vorrei fare sveltine con chiunque. Sai che non c'è nessun altro con cui vorrei fare l'amore. Però, se non fossi impegnato, non lo farei ugualmente perché non ho più l'età per certe cose."
"Devo ricordarti come sono iniziate le cose tra noi?" disse Ermal.
Fabrizio lo fissò per un attimo, sforzandosi di ricordare quando di preciso fosse iniziato tutto tra lui ed Ermal.
Era stato un susseguirsi di cose, un crescendo di sentimenti talmente rapido che Fabrizio faticava a focalizzare il momento esatto in cui era iniziato tutto.
Anche perché, a dire la verità, per lui era iniziato tutto nel momento in cui aveva cominciato a lavorare con Ermal. Forse addirittura da prima.
Ma pensandoci bene, non era poi difficile capire a cosa si riferisse Ermal.
In fondo anche Fabrizio ricordava bene la sera della vittoria a Sanremo. Ricordava bene la voce di Baglioni che li proclama vincitori, l'abbraccio, i coriandoli. E ricordava bene il momento in cui erano tornati nel loro camerino e Fabrizio aveva spinto Ermal contro il muro e lo aveva baciato.
Ricordava altrettanto bene il momento in cui si erano tolti i vestiti e avevano fatto sesso contro il muro del camerino.
E poi era finito tutto lì.
All'inizio, tra loro, era stato effettivamente un amplesso veloce e senza intimità. Le cose erano cambiate solo durante il periodo trascorso a Lisbona.
"Va bene, forse hai ragione" dovette ammettere Fabrizio.
Ermal sorrise e si avvicinò a lui, allacciandogli le braccia intorno al collo e stringendolo a sé. "Sei l'uomo più bello che io abbia mai visto. Anche con le rughe intorno agli occhi e qualche capello grigio."
Fabrizio accennò un sorriso.
"E ricordati che ho solo sei anni in meno. Quindi se sei vecchio tu, lo sono anch'io. Siamo vecchi insieme, sembra quasi romantico" disse Ermal.
Già, era romantico.
Fabrizio non aveva mai avuto voglia di invecchiare insieme a qualcuno.
Certo, quando stava con Giada aveva pensato che sarebbe stata lei la persona con cui avrebbe condiviso la sua vecchiaia, ma in realtà quando aveva pensato al futuro non era mai riuscito a immaginarsi vicino a lei per sempre.
Con Ermal, sì. Con Ermal riusciva a immaginarsi.
Vedeva chiaramente le sue mani - un po' più raggrinzite - intrecciarsi tra i capelli del compagno ormai grigi.
Riusciva a immaginarsi seduto accanto a lui sul divano a guardare un vecchio film.
Riusciva addirittura a vederselo accanto il giorno in cui i suoi figli si sarebbero sposati, il giorno in cui sarebbe diventato nonno.
Con Ermal riusciva per la prima volta a immaginarsi una vecchiaia che non era poi così male.
E gli anni, accanto a lui, non sembravano più così pesanti.
Così sorrise e, finalmente più sereno, disse: "Saremo vecchi insieme."
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giancarlonicoli · 4 years
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17 ago 2020 15:31
MATTI DA SLEGARE – COSA È RIMASTO DI FRANCO BASAGLIA, A QUARANT’ANNI DALLA MORTE DELLO PSICHIATRA CHE LOTTÒ PER LA CHIUSURA DEI MANICOMI, QUEI GIRONI INFERNALI DOVE BIMBI E ADULTI ASPETTAVANO DI MORIRE TRA PUZZA DI FECI, PISCIO E SPORCIZIA? - NEL MOMENTO CHIAVE IN CUI LA RIFORMA AVREBBE DOVUTO ESSER MESSA IN PRATICA, IL DOTTORE MORÌ. COSA AVREBBE FATTO? LA PROSPETTIVA PER CHI USCIVA DA UN OSPEDALE PSICHIATRICO ERA IL NULLA O IL MANICOMIO CRIMINALE E DI LÌ A POCO...
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Antonio Stella per il Corriere della Sera"
Che cos' è rimasto, del «Dottore dei matti»? Sono passati quarant' anni dal calvario dell'agosto 1980 in cui Franco Basaglia si spense fiato dopo fiato, incurabile, nella sua casa nel sestiere di San Marco il giorno 29. «Tantissimi lo hanno letto, tanti lo hanno conosciuto, tanti lo hanno amato e tanti lo hanno anche odiato, perché in maniera semplice, bonaria, ironica questo veneziano aveva ribaltato un mondo», scrisse «Lotta Continua». Ribaltato come? Nel modo giusto o sbagliato? Polemiche roventi. Nel mondo intero. Per decenni. Con diffusi rimpianti per come era «prima».
Uno solo, però, può essere il punto di partenza per cercare di capire: che cos' erano i manicomi. «Colà stavansi rinchiusi, ed indistintamente ammucchiati, i maniaci i dementi i furiosi i melanconici. Alcuni di loro sopra poca paglia e sudicia distesi, i più sulla nuda terra. Molti eran del tutto ignudi, varj coperti di cenci, altri in ischifosi stracci avvolti; e tutti a modo di bestie catenati, e di fastidiosi insetti ricolmi, e fame, e sete, e freddo, e caldo, e scherni, e strazj, e battiture pativano», scriveva nel 1824 (come ricorderà Leonardo Sciascia sul «Corriere») l'illuminato palermitano Pietro Pisani.
Solo residui medievali? No. Un secolo e mezzo dopo, nel 1971, il verbale dell'ispezione della Commissione d'inchiesta al Santa Maria della Pietà di Roma spiega: «Ci sono bambini legati con i piedi ai termosifoni o ai tubi dell'acqua, scalzi, seminudi, sdraiati per terra come bestioline incapaci di difendersi, sporchi di feci, dovunque un lezzo insopportabile». «Non esistevano limiti d'età per il ricovero in manicomio: era sufficiente un certificato medico in cui si dichiarava che il bambino era pericoloso per sé o per gli altri», si legge nel web-doc Matti per sempre di Maria Gabriella Lanza e Daniela Sala.
«Dal 1913 al 1974 nel manicomio di Roma sono stati internati 293 bambini con meno di 4 anni e 2.468 minori tra i 5 e i 14 anni. In tutto 2.761 piccoli». Tre lustri ancora e il «Corriere» pubblica un reportage di Felice Cavallaro sull'Ospedale psichiatrico di Reggio Calabria: «Dormono con la schiena che sfiora il pavimento. Sprofondano giù perché le reti sono bucate al centro, corrose dalla pipì che con gli anni ha sciolto la maglia metallica. I materassi sono ormai sfoglie di gommapiuma sudicia. Di lenzuola nemmeno a parlarne. Puzzano anche le coperte. Tutto emana il fetore della morte in queste camerate dove quattrocento persone aspettano la fine come fossero animali».
È il 1987. La chiusura di quei gironi d'inferno è già stata decisa, sulla carta, da una decina di anni. Eppure troppe infamie, insopportabilmente troppe, sono rimaste come prima. Nel plumbeo mutismo sociale denunciato quasi un secolo prima da Anton Cechov ne L'uva spina : «Evidentemente l'uomo felice si sente bene solo perché i disgraziati portano il loro fardello in silenzio, e senza questo silenzio la felicità sarebbe impossibile. È un'ipnosi generale». Occhio non vede, cuore non duole, scandalo non urla.
È questo silenzio assordante a venire fracassato da Franco Basaglia. Nato a Venezia nel 1924, laureato nel 1949, specializzato in malattie mentali nel '52, l'anno dopo sposa Franca Ongaro, che gli darà due figli e sarà la compagna di mille battaglie. Frustrato dall'accademia («Direi che tutto l'apprendimento reale avviene fuori dall'università. (...). Io sono entrato nell'università tre volte e per tre volte sono stato cacciato», racconterà in una delle Conferenze brasiliane ), si immerge nel primo manicomio a Gorizia nel 1962: «C'erano cinquecento internati, ma nessuna persona». Ovunque «vi era un odore simbolico di merda».
Uno spazio nero dal quale trasse l'«intenzione ferma di distruggere quella istituzione. Non era un problema personale, era la certezza che l'istituzione era completamente assurda, che serviva solamente allo psichiatra che lì lavorava per percepire lo stipendio alla fine del mese». Guerra totale: «L'università, da quando io mi sono laureato, ha protetto in maniera reazionaria e fascista gli ospedali psichiatrici.
Non si è mai levata una voce, se non nei congressi, a dire che bisogna cambiare questa legge, ma nessun professore universitario si è sporcato una mano all'interno dei manicomi. Il professore universitario ha sempre avuto le mani pulite, amministrando l'insegnamento davanti ai letti d'ospedale, dicendo: questo è schizofrenico, questo è maniaco, questo è isterico».
Era insopportabile, agli occhi di chi veniva ferito da quei giudizi. Ribelle. Martellante. Cocciuto. Eppure, lavorando ventre a terra a Gorizia, Colorno, Trieste e Roma, scrivendo uno dopo l'altro, da solo o con Franca, libri ovunque amatissimi o contestatissimi, tenendo conferenze da Berlino a São Paulo, sfondando in tv con una celebre intervista di Sergio Zavoli («Le interessa più il malato o la malattia?», «Decisamente il malato»), riuscì in pochi anni febbrili a mettere in crisi l'idea del manicomio in mezzo mondo e a spingere il Parlamento italiano a cancellare le norme stravecchie del 1903 e votare il 13 maggio 1978 (cinque giorni dopo l'uccisione di Aldo Moro...) la «sua» legge 180.
Stesa materialmente dallo psichiatra e deputato democristiano, Bruno Orsini, e incardinata sulla chiusura (progressiva) dei manicomi e la cura dei pazienti non più «detenuti» in realtà il più possibile piccole e aperte.
Il tutto nel nome di un'idea: «Io non so cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia». Un'utopia. Generosa ma irrealizzabile, quindi pericolosa, saltarono su gli avversari. Su tutti lo psichiatra e scrittore Mario Tobino: «Giunge voce, si viene a sapere che diversi malati, dimessi dai manicomi, spinti fuori nel mondo, nella società, per guarire, come proclamano i novatori, per inserirsi sono già in galera, in prigione, arrestati per atti che hanno commesso. Nessuno più li proteggeva, li consigliava, gli impediva. Nessuno li manteneva con amorevolezza e fermezza, li conduceva per mano lungo la loro possibile strada. Ed ora precipitano, si apre per loro il manicomio criminale. La follia non c'è, non esiste, deriva dalla società. Evviva!».
E il dubbio su quella legge inquietò via via perfino molti che l'avevano definita «sacrosanta». Come il deputato e poeta comunista Antonello Trombadori. Che in una sofferta intervista a Giampiero Mughini raccontò la sua tragedia personale: «Non sono in grado di soccorrere la persona che più amo al mondo». La figlia disabile: «La 180 prevede due soluzioni per chi soffre di mente: o il nulla o il manicomio criminale, riservato a quelli che ammazzano».
Era disperato, Trombadori. E furente coi «fanatici khomeinisti» che secondo lui difendevano l'«intangibilità» della legge: «Io dubito che Franco Basaglia, se fosse ancora vivo, approverebbe il loro operato. Forse direbbe, come già aveva fatto Marx, " Je ne suis pas basaglien "». Questo è il nodo. Nel momento chiave in cui la riforma avrebbe dovuto esser messa in pratica, il «Dottore dei matti» (titolo della biografia di Oreste Pivetta), non c'era più.
Cosa avrebbe detto? Cosa avrebbe fatto? «Certo non avrebbe accettato che quella svolta fosse tradita», mastica amaro Peppe Dell'Acqua, discepolo e amico: «Lui aveva fatto proposte precise, suggerito soluzioni, indicato percorsi pratici. La stessa chiusura dei manicomi non fu affatto immediata. Di rinvio in rinvio arrivò vent' anni dopo. C'era tutto il tempo per fare le cose per bene. E qua e là sono state anche fatte. Ma dov' era lo Stato? Dov' erano le Regioni?
Dov' erano le aziende sanitarie?» La risposta è nel dossier della Commissione parlamentare d'inchiesta sul Servizio sanitario nazionale del 2010. Spiegava il presidente, Ignazio Marino: «Se chi è internato in un ospedale psichiatrico giudiziario è lì per essere curato, abbiamo trovato un fallimento totale. In media possiamo calcolare che ciascun paziente abbia contatti con uno psichiatra per meno di un'ora al mese...». Dalla svolta erano già passati trent' anni.
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meozade · 7 years
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COME È ANDATA CON FEDERICA? RACCONTAAA.
Ehm, è andata UNA MERDA.Allora, l’instore era a Bassano (provincia di Vicenza) quindi dicevo “ah vabbè dai è vicino, non sarà difficile arrivarci”, beh, ti dico solo che ho dovuto prendere 3 treni: Vicenza, cittadella, Bassano e poi un pullman fino al centro commerciale. E vabbè fin qui ok, nessun problema. Ci mettiamo in fila per una cosa come 6 ore perchè Federica è arrivata un sacco in ritardo, e le ragazzine (età media tipo 10 anni) continuavano a urlare per ogni cosa, da prenderle a sprangate sui denti guarda. Poi dicono che le ragazzine ce le ha solo Riki, ma non è vero niente, le ragazzine sono OVUNQUE, sia che vai da Riki, Federica, ma anche i big tipo Tiziano Ferro, Emma, Fedez, Elisa, Giorgia ecc. Questa ne è la prova. IO ALLA VOSTRA ETA’ STAVO A CASA A GIOCARE A POKEMON DIO SANTO.Comunque chiusa parentesi, stavo morendo di caldo in mezzo a quella massa di gente, sono arrivato sul palco da Federica che ero distrutto con una faccia orrenda, chissà che foto schifosa sarà venuta fuori🙈Lei bellissima e gentile, con quelle fossette che uccidono 💛Però hanno messo il cd a ripetizione per 6 ore e tipo ho iniziato a odiarlo, ti giuro mi usciva fuori dalle orecchie ormai 😂Vabbè comunque il vero problema è stato il ritorno, perchè praticamente dopo il pullman per arrivare in stazione, il treno da Bassano era in ritardo di ben 45 minuti, quindi abbiamo perso TUTTE le coincidenze per tornare a casa, rimanendo bloccati a Castelfranco Veneto (MA CHE CAZZO DI CITTA’ E’) con una stazione piena di scarafaggi che saltavano, non c’era un bagno e non avevamo nè cibo nè acqua. Non c’erano più treni fino alle 5 e 50 di mattina. CI SARA’ MAI UNA GIOIA NELLA MIA VITA? FIGURATI😂Ecco, storia finita ahahahah rido per non piangere. 
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Ciao Valentina. Perché secondo te, dopo mesi di rottura di una relazione, c'è ancora un pizzico di gelosia nei confronti del proprio ex ragazzo? Mi spiego meglio: quando io stavo con lui non uscivamo mai perché mi diceva che aveva problemi in famiglia ed era impegnato, ci vedevamo pochissimo. Adesso invece vedo che posta foto sui profili social delle sue uscite. Sento un po' di gelosia perché so che esce con delle ragazze che io non sopportavo (amiche sue, belle e intelligenti..).
Perdonami per il ritardodi questo post.Ad ogni modo, ti meriti comunque una mia risposta, anche se magari avrai giàmesso un punto da te.Nella tua situazione, credo sia normalissimo.Il tuo ex con te non usciva, ponendo davanti il problema familiare che tu haiaccettato, per amore, mentre ora sui suoi profili social noti che va in giro,credo che, anche io, al posto tuo, mi sarei sentita presa abbastanza in giro.Inoltre esce con amiche che tu non sopportavi, un po’ di senso di angosciainterno ci sta.Però c'è un però.Un ragazzo può uscire con delle amiche anche da fidanzato, vale lo stesso peruna ragazza.Descrivi queste ragazze come “belle” e “intelligenti”:fossero state brutte e stupide cosa sarebbe cambiato?E, soprattutto, perché hai sentito l'esigenza di dirmi che sono belle eintelligenti?Tu credi di non avere nessun tipo di qualità?In tal caso, non potrai che perdere ogni confronto, anche con un comodinorotto.Per mia natura, trovo i confronti stupidi: non siamo gli altri, con gli altripossiamo solo perdere, perché non c'è niente in palio che ci permetterà divincere.Tu non sei nella testa di quelle ragazze, non sai da dove arrivi la lorointelligenza (e poi ci sono varie forme di intelligenza, devi solo trovarequella in cui tu spicchi e che sia in grado di valorizzarti), non conosci iloro problemi, né i loro sacrifici: non c'è da provare invidia, solo rispettoper storie personali lontane dalla tua.Dal tuo canto, non puoi che migliorare.C'è qualcosa che non ti soddisfa della tua vita?Puoi migliorare.Puoi studiare.Puoi allenarti fisicamente.Puoi usare la tua curiosità per informarti.Puoi reinventarti ogni giorno.Tutto costa dolore e fatica, ma il dolore è l'essenza della felicità: non contala meta, ma il percorso che si fa per raggiungere i proprio ideale, perché isogni stanno nel nostro cammino, si smontano e si ingigantiscono con i nostripassi e stare fermi e puntare il dito sugli altri non serve assolutamente anulla.Perciò, ringrazia pure il tuo ex per il tempo trascorso insieme, che qualcosadi buono ti avrà pure lasciato: ogni persona ci dona un pezzo di sé anchequando va via, tutto serve a crescere.Dicevo, ringrazialo, smettila di spiare virtualmente ciò che sta facendo,raccogli i tuoi pezzi e riprendi a camminare, per dar loro la forma che più tirappresenta.Soltanto crescendo e cercando troverai te stessa e la tua via per la felicità:non smettere mai di lottare. 
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itsafailedginger · 7 years
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Avete mai come la sensazione, parlo a voi che almeno una volta nella vita vi siete traferiti, di voler tornare indietro e vedere in che condizioni è essa ora? Se ci sono dei lavori in corso, se l'hanno demolita, se l'hanno smantellata del tutto, se ha dei nuovi proprietari e assicurarsi che siano delle brave persone, giusto per sapere se la trattano bene, con rispetto. È pur sempre stata casa vostra, la prima, la più importante, quella in cui tutto è iniziato e non è potuto finire. Dove sei cresciuto, dove hai creato ricordi, dove hai sorriso. Ci pensate mai a cose come queste?
Io ci penso ancora, sembrerà strano, distorto, ma ha una grande importanza quella casa e non mi sembra affatto ridicolo dire che ‘mi manca’. Forse ci ho passato poco tempo ma abbastanza da affezzionarmi. Per nessun bambino è facile trasferirsi, non lo è stato per me, bambina di otto anni ancora legata alla propria abitazione. Era bella, era davvero bella. Sembrava quasi una villetta, con casa mia, quella degli zii e dei nonni. Andavo matta per quella disposizione, ero circondata dalla mia famiglia, era una bella sensazione che non potrò più rivivere. Svegliarsi la mattina e scendere a fare colazione con i nonni e poi il pomeriggio a giocare con gli zii. Non mi sembrava vero, quasi surreale. Erano sempre tutti disponibili, tutti gentili. Mi manca tutto questo. Avere una bella casa, con tutti gli ambienti necessari, svegliarsi in una camera tutta tua, in cui l'umore era sempre alle stelle, mai un giorno triste. Mi piaceva scendere dal letto e non toccare il pavimento freddo ma quel dannato tappetino a forma di Winnie The Pooh. Non era molto decorata la camera ma a me piaceva, per me l'arredamento era già abbastanza, era persino collegata alla veranda. A quei tempi non ci ho mai fatto caso ma ora ci ho dedicato un po’ di tempo. Avrei potuto passare le notti insonni sotto a quel manto stellato, leggere sotto le stelle, mi sarebbe bastato anche solo sentire la brezza estiva in faccia, che porta con se l'odore del mare. Rimpiango cose che non potrò più fare. Mi manca correre per il corridoio e lanciarmi sul lettone di mamma per farmi coccolare, farsi dire ‘buongiorno’ tra un bacio e l'altro. Aveva una scrivania piena di floppy e di CD, ne mettevo sempre uno, mi piacevano quelle canzoni, mamma ha sempre avuto buon gusto in musica. Mi manca quando i capelli me li lavava ancora mamma, addormentarmi in una vasca di acqua calda con la compagnia dei giocattoli di mio fratello. Oh cavalo, la sua stanza, i ricordi. Mi piaceva il fatto che avesse il letto a castello, facevo sempre su e giù su quella scaletta. E l'armadio? Non tutti lo sanno ma da piccola il sonnambulismo si presentava molto più spesso che negli ultimi anni. Sovente mi alzavo, camminavo e tornavo a letto ma quella volta non andò proprio così. La mattina non mi trovarono a letto, ero finita nell'armadio, non so come, però là mi svegliai. Storia buffa, fa sempre ridere. Una volta mi fratello mi stava strozzando contro la finestra, non ricordo nemmeno il perché ma sembrava riuscire nel suo intento finché mia madre entrò in camera e ci divise. Un'altra vicenda che viene spesso ricordata è di quando creai un'asta di circa 8-10 pennarelli, l'altezza non era il mio forte, per colorare il soffitto. Riuscii nella mia impresa, ero divertita e molto fiera di me. Non ricordo con esattezza quale fu la reazione di mamma ma di certo non fu positiva. Quando combinavi qualcosa di sbagliato se ne usciva con la frase “vieni in questa mattonella, subito. Non ti faccio del male”. Quasi ti convinceva ma quando giungevi a destinazione la botta con la ciabatta te la dava lo stesso, il mio sedere ne ha risentito. Mi manca il tavolo da pranzo piazzato in mezzo alla cucina, il salotto con quel maledetto divano blu a penisola. Delle volte prendevamoi vassoi e ci sedevamo a mangiare sul divano. Non ci ha fatto mai mancare niente mamma, e non potrò mai ringraziarla abbastanza per tutto quello che ha fatto e che ancora farà.
D'estate torno sempre in quel paesino, ci fermiamo da nonna per un po’. Lei si era trasferita in periferia qualche anno prima che noi ce ne andassimo del tutto. Conosco chi abita la sua vecchia casa, mi sembrano simpatici: coppia sposata e figlio unico, un anno più di me. Una volta ci ho parlato per un po’, era bello avere un vicino che avesse più o meno la stessa età, ma come già detto poco dopo toccò a noi trasferirci.
Ultimamente ci penso molto spesso, vorrei tornare veramente a vedere lo stato della casa, della MIA casa. Ricordo la via, il numero civico. So come arrivarci e non sarebbe affatto un problema. Vorrei conoscere chi la abita adesso, solo per sapere se sono brave persone, se le conosco oppure no, per dare un'occhiata.
Non ci sarà mai un vero ‘addio’.
Cat
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pangeanews · 4 years
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“Doveva scrivere la storia del mondo in poesia, cambiare il mondo, cosa gliene importava della cold cream pubblicata da Poetry e dal New Yorker?”. Su Pound, ancora. Dialogo con Massimo Bacigalupo
Sessant’anni fa Mondadori usciva con una edizione delle Poesie scelte di Ezra Pound introdotte da Thomas S. Eliot che, con scaltra prudenza, esaltava l’uomo di cultura, l’animatore & l’agitatore (“Se non fosse stato per l’opera che Pound svolse negli anni di cui ho parlato, l’isolamento della poesia americana, e quella dei singoli poeti, avrebbe potuto continuare a lungo”), tacendo il genio del poeta (“Ho espresso prima d’ora l’opinione che la grandezza di un poeta non è problema da sollevarsi da parte dei critici del suo tempo: è soltanto dopo che egli è morto…” e bla bla bla). Soprattutto, il bravo Alfredo Rizzardi – nel pasticcio antologico c’erano brandelli da Personae, da Lustra, Cathay, “Mauberley” e dai Cantos – sanciva l’impossibilità di discernere il grano autobiografico da quello lirico, la poesia dal mito del poeta, il fatto dalla chiacchiera. “Il lettore che si volga alla vita di Ezra Pound con la speranza di trovare la chiave di tanti versi impenetrabili dei Cantos, si perderà in una selva di mezze-verità, quasi-leggende, di episodi passati di bocca in bocca e di orecchio in orecchio prima di venir fissati sulla carta. E ancor più confuso sarà da quei fatti obbiettivi, che, riferiti a Ezra Pound, acquistano tutto il sapore di una leggenda”. Con gioia da astronauta e sapienza da entomologo, piuttosto, Massimo Bacigalupo, da anni, rintraccia negli anfratti dei testi di Pound – basti pensare ai XXX Cantos editi da Guanda e ai Canti postumi per Mondadori – le fonti, i nodi biografici, le svagate nudità, l’autentico della vita. Per la Clemson University Press, negli States, ha da poco pubblicato Ezra Pound, Italy, and The Cantos, in cui, appunto, si allinea il repertorio di “materiali italiani impiegati nella costruzione della sua opera epica più ambiziosa, I Cantos: paesaggi, opere d’arte, storia, persone, eventi politici”. Il libro – un sunto del lavoro molteplice di Bacigalupo nell’opera di Pound – attraversa le città ‘poundiane’, Rapallo, Venezia, Roma, gli incontri con Dante, Eugenio Montale, Carlo Izzo, l’evidenza delle muse, H.D., ‘La Martinelli’. Ezra amava l’Italia, atterrò a Venezia nel 1908, dove pubblica A lume spento, e a Venezia, il destino ha forma di anello e di collare, è sepolto. Ha scritto in italiano. Ha tradotto i poeti italiani, da Francesco d’Assisi a Metastasio, Michelangelo e Leopardi. Gli piaceva l’ormai dimenticato Saturno Montanari, rendendolo, in inglese, più cool (“When the light/ goes, men shut behind blinds/ their life, to die for a night”); si congratulò con Ungaretti “per aver sopravvissuto alle vicissitudini di una difficile epoca”. (d.b.)
Massimo Bacigalupo & Ezra Pound (photo Juan Leyvac)
La storia poetica di Pound comincia a finisce a Venezia, dove muore e pubblica la prima placca. Eppure, nonostante la permanenza e le vicissitudini italiane, Ezra resta un poeta ‘americano’, dell’altro mondo. Chiedo a lei, allora, quanto l’Italia abbia influenzato Pound e quanto lui resti ermeticamente statunitense.
Credo che Pound fosse molto dipendente dall’ambiente che lo circondava, lo introiettava come parte della sua biografia sovranazionale. Aveva avuto una formazione storica e filologica rivolta al mondo romanzo, da ciò il suo frequentare vecchie carte italiane per trovarvi miti e storie, come aveva fatto il vittoriano Browning. C’è l’innamoramento di Sigismondo Malatesta, amante, guerriero, mecenate, edificatore di templi, che porta alla composizione di quattro intricatissimi canti (VIII-XI) intorno al 1922, proprio quando Eliot scrive e pubblica The Waste Land. Io ho tradotto per Guanda i XXX Cantos (cioè Canti I-XXX, 1930) e ho dovuto consultare i documenti quattrocenteschi compulsati ed eccentricamente rielaborati da Pound, pubblicando a fronte del testo inglese quando possibile gli originali. Il Bandello, che so. I versi dedicati da Sigismondo all’amata. Una lettera attribuita al Pisanello. È affascinante ritrovare queste voci in un italiano che non è più il nostro, saporito, ed è questo tratto pittoresco e gagliardo che piaceva all’esuberante Ezra: “I palafreni bianchi, / con dodici donzelle tutte a cavallo / vestite di verde a una livrea; / sotto un baldacchino, argentato a punti grossi”. Questo è il mio italiano ricomposto da qualche cronaca riminese. L’inglese: “The small white horses, the / Twelve girls riding in order, green satin in pannier’s habits, / Under the baldachino, silver’d with heavy stitches…”. Non è curioso seguire queste interferenze di testi? Gianfranco Contini scrisse con sconcerto dei Canti senesi (XLII-XLIV), trascritti in parte da documenti relativi alla fondazione del Monte dei Paschi. Pound è un poeta didattico, come del resto quasi sempre gli americani (anche Stevens!), e Malatesta sta per la fecondità ritrovata nel passato che si oppone alla terra guasta del presente. Idem il Monte dei Paschi, che sarebbe fondato sui pascoli (la natura produttiva, l’ambiente) e non sulla finanza usuraia (siamo ormai a metà anni ’30). Italiano o americano? I suoi occhi sono sempre quelli di un forestiero che però come l’amico Hemingway è convinto di conoscere tutti i segreti comportamentali dei nativi, i ristoranti e monumenti da non mancare, le battute, le parole chiave. Beata ingenuità. Per questi visitatori il cattolicesimo era una religione paganeggiante e tollerante, molto meglio dell’odiato episcopalismo protestante in cui erano stati battezzati. Insomma Pound presumeva di capire l’Italia meglio degli italiani, anche il fascismo, che trattava alla stregua di una delle sue tante vantate scoperte. Ma per questa passione storica e archivistica i Canti rinascimentali sono destinati a rimanere scarsamente compresi dai lettori di lingua inglese cui sono destinati, mentre gli storici e critici italiani che possiedono le due lingue non si sono mai avventurati sulle tracce di Pound negli archivi. Lo può fare però il lettore sfegatato dei XXX Cantos, con esiti suggestivi: una poesia di parole e frammenti fra lingue diverse e strane. Ma come dicevo, se c’è oscurità è solo nei dettagli. L’intenzione di Pound, la sua impetuosa convinzione da comunicare, è sempre chiara. Prima della battaglia Sigismondo è un capitano spiccio e deciso: “Loro sono più giente assai che noi semo, / ma noi semo più homini” (“They’ve got a bigger army, / but there are more men in our camp”, Canto X). (Sono fiero di aver reperito la battuta originale.) È la stessa retorica dell’Enrico V di Shakespeare ad Agincourt, nella sua guerra di conquista. E addirittura nei Canti LXXII-LXXIII scritti in italiano nel 1944-45 il poeta attraverso uno dei suoi fantasmi medievali promette la rivincita alle armate di Salò: “Dove il teschio canta / Torneranno i fanti, torneranno le bandiere”. Nessun dubbio che Pound abbia scritto anche centinaia di pagine nel suo italiano. Il torrente era sempre in piena, e trascinava i materiali, a volte raccapriccianti, offerti dai tempi. Un vero fenomeno.
Non mi pare avesse le idee chiare sui contemporanei, il grande Ezra: elogia Enrico Pea (e ci sta), traduce Saturno Montanari e Ugo Fasolo, ma pare ignorare il resto. Come ‘legge’ gli italiani Pound?
Era anche interessato a Federico Tozzi, forse a quanto gli sembrava più vigoroso e dialettale. Montanari era un giovane morto in guerra i cui versi gli furono mandati dal padre. Le versioni di Montanari hanno poco in comune con i malinconici e convenzionali originali, ricordano le coeve versioni dello Shijing. Diffidava dell’intellettualismo, del crepuscolarismo, e aveva le sue bestie nere nei francesi cari a Solaria, Proust e compagnia bella. Preferiva ovviamente il poeta guerriero D’Annunzio, e in Francia Jean Cocteau. Sicché non credo abbia mai sfogliato gli Ossi di seppia e se l’avesse fatto non li avrebbe capiti per l’italiano involuto e non li avrebbe amati per il sapore di eliotiana sterilità. (Montale invece lesse con attenzione e apprezzò Personae e i Canti pisani). Anche Ungaretti non sembra essere entrato nel suo orizzonte, per quanto sia stato ospite a Siena dei Vivante, che erano amici di Montale, Ungaretti, Sbarbaro, Irma Brandeis (e dei miei genitori, che proprio a Siena si conobbero). Del resto Pound era egualmente disinteressato ai poeti americani delle generazioni successive, con poche eccezioni. Doveva scrivere la storia del mondo in poesia, addirittura cambiare il mondo, cosa gliene importava della “cold cream” pubblicata da “Poetry” e dal “New Yorker”? Faceva parziale eccezione per Robert Lowell, che lo venerava e trattava alla pari, da pazzo a pazzo.
Qual è il luogo, il panorama italiano che più s’imprime nella mente poetica di Pound?
I Cantos sono un vero e proprio viaggio in Italia, un rosario di nomi fascinosi, collegati a chissà quali ricordi. “Venne Madame Lucrezia / e sul retro della porta a Cesena / sono, o erano, ancora le iniziali / joli quart d’heure (nella Malatestiana) / Torquato dove sei?” (LXXIV). Chissà se qualcuno ha mai trovato queste iniziali nella splendida Biblioteca Malatestiana di Cesena (che senz’altro vale la visita) e a chi si riferiscono (a Lucrezia Borgia?), e se il “joli quart d’heure” sia stato vissuto da quella dama o dallo stresso poeta, e con chi. Comunque avremmo voluto esserci. Pound non si stanca di registrare i suoi “jolis quarts d’heure” di uomo onnivoro fra libri, persone, paesaggi. È questa sua gioia e convinzione che essa sia esemplare e raccontabile a rendercelo caro. E la curiosità di seguire questi cenni, di entrare con lui nel labirinto, spesso piacevole. “Sicché sognando di Bracelonde e di Perugia / e della grande fontana nella Piazza / e del gatto del vecchio Bulagaio che con un salto tempestivo / poteva girare la leva della maniglia…” (LXXXIII). Non è bellissimo? Una volta che ero a Perugia con due simpatiche amiche scoprii (forse l’aveva già detto Contini) che Bulagaio è (o era) un quartiere povero con una mensa per studenti e una splendida vista sulle colline. Il gatto non c’era più, ma ormai sarà celebrato per sempre (se qualcuno ancora leggerà poesia e i Canti pisani e si dirà “ah sì, Perugia, ah sì è la fontana, ah sì il gatto…”). Il lettore è chiamato a condividere. Fin quando avverrà? I Cantos raccolgono tutto questo a futura memoria. Come Hemingway nelle sue memorie spagnole. Jolis quarts d’heure. Chiaro che poi Venezia appare con maggiore rilievo di altri luoghi. I Canti XXIV-XXVI (pesantini da tradurre in quanto lungagni) ne fanno la storia scorciata, poi nei Pisani ci sono le memorie personali. Ma già nel Canto XXVI lui interrompe le trascrizioni per dirci tutto trepido: “Ed io venni qui / nella mia gioventù / e mi stesi là sotto il coccodrillo / presso la colonna, guardando a Est il venerdì, / e dissi: Domani mi coricherò sul lato sud / e dopodomani a sudovest / e di notte cantavano nelle gondole…”. Non è troppo lontano da Byron, forse meno spiritoso. Altri quarti d’ora. Già Whitman apriva Foglie d’erba proponendosi di oziare: “I loafe and invite my soul”. È la polemica coll’etica mercantile protestante, tutta lavoro e utile. Io me la prendo comoda a Venezia, sotto il “coccodrillo”, che in realtà è il drago sulla colonna di San Todaro, agli Schiavoni. Sicché passando ai Pisani troviamo: “and by the column of Todero / shd I shift to the other side / or wait 24 hours” (“e presso la colonna di Todero / dovrei passare dall’altra parte / o aspettare 24 ore?”). E continua il diario del prigioniero: “libero allora, questa la differenza / nel grande ghetto, integro / e il nuovo ponte dell’era dove stava il vecchio orrore…” (LXXVI). Dunque passeggiamo per Venezia, dagli Schiavoni al Ponte dell’Accademia che durante l’“era” (E.F.) sostituì quello metallico precedente e tuttora fa la sua figura. Ho dovuto apprendere dai veneziani che Todero (Teodoro) lo pronunciano Tòdero. Si imparano tante cose seguendo i consigli dell’esperto viaggiatore Pound. Paesaggio e storia, nomi dalla pronuncia ignota (per non parlare del cinese). Come fa il lettore americano a districarsi, a leggere ad alta voce? Per questo il contributo più importante alla comprensione dei Cantos sarebbe registrarne una lettura fatta da persona informata. In questi giorni la figlia Mary compie 95 anni.  Chiederle se vuole registrare almeno qualche pagina sistematicamente? All’Università di Edimburgo c’è una ricerca finanziata (diretta da Roxana Preda), The Cantos Project, arrivata per ora alla Quinta decade (XLII-LI) e accessibile on line, che commenta il poema riga per riga e affianca letture registrate del testo. Non ho verificato l’attendibilità di queste, ma nel complesso il materiale offerto è interessantissimo, specie la corrispondenza relativa alla composizione. Pound specie agli inizi è alla ricerca di temi e scrive agli amici che se hanno qualche idea gliela comunichino. È solo allo scoccare del 1930 che perde la testa per l’economia e vede chiara la sua fallimentare missione. Il Canto XLV dell’Usura, che segue quelli sul Monte dei Paschi. Prima la ricerca, poi la conclusione, l’invettiva. Per tornare ai paesaggi, nel mio libro dedico quattro capitoli ai luoghi: Rapallo, Venezia, Roma, il “mondo verde” (“Apprendi dal mondo verde qual è il tuo posto / nella scala dell’invenzione e l’arte vera”, LXXXI). Non c’è dubbio che la Liguria abbia un ruolo prominente, Pound vi viveva e scriveva, innamorandosi del paesaggio marino e collinare e osservando i riti di pescatori e contadini, il loro (ai suoi occhi) paganesimo erotico. Altri bei momenti raccontati con parole sparpagliate sulla pagina: “Amata, / amate le ore brododaktulos / contro la mezza luce della finestra / con il mare di là che segna l’orizzonte / le contre-jour la linea del cammeo…”. Un momento condiviso con l’amata, le ore che contano in tutta una vita. Nel finale del Gattopardo il Principe morente ricorda i pochi momenti importanti della sua lunga esistenza, la giovane amante, la caccia, il nipote vivace, poco altro. E magari basta.
Pound e le donne. Da ‘La Martinelli’, fascinosa e fragile, a H.D. Come entra la donna nei Cantos, cosa ha scoperto rispetto a queste frequentazioni poundiane?
Il Canto I celebra in conclusione Afrodite con i monili d’oro e cita anche Circe dai bei capelli. Il Canto CXVI che è l’ultimo si chiude con un segno di Venere, “il filo d’oro nell’ordito / al Vicolo d’Oro, Tigullio”. Se venite a Rapallo troverete nel vecchio centro un tempo degradato il Vico dell’oro, che non ha nulla di speciale ma è come uno dei segnali dell’amata, del senso (il filo d’Arianna), che Montale registra nei Mottetti. Pound godé della devozione della moglie inglese, pittrice, e della compagna americana, violinista e madre di sua figlia. Un po’ furbescamenrte scrisse in un frammento pisano: “Se sai mantenere la pace fra quelle due gattacce / non avrai problemi a governare un impero”. In realtà furono un po’ loro a governare lui, certo a dargli ascolto e agio di scrivere, con fede incrollabile e anche spirito di sacrificio. La Martinelli fu un amoretto irlandese del periodo del manicomio di Washington. Servì a Pound per comporre le pagine più belle degli anni ’50. “Da sotto il mucchio di macerie / mi elevasti, / dalla lama ottusa oltre il dolore / mi elevasti…” (XC). “È una delle più belle poesie d’amore in lingua inglese” disse Pound alla Martinelli quando gliela lesse con le lacrime agli occhi. Non peccava di umiltà, anche se “Pull down thy vanity” (strappa da te la vanità, Canto LXXXI) è un bel principio da mandare a mente, che uno si sforza di sottoscrivere. Come in ogni cosa, Pound amava a modo suo, in realtà trattava le compagne come collaboratrici. Nelle lettere niente effusioni, solo indicazioni di cose che devono fare per sé stesse e per lui. Ma nella poesia si sente quanto esse gli abbiano dato: “La generosità, infinita, delle sue mani” (CXIV). La poesia non ci sarebbe senza queste presenze.
In ogni senso, poetico, storico, umano, il percorso di Pound sembra quello di un uomo trafitto e infine sconfitto dalla Storia, anche letteraria (lo si studia, ma come inscatolandolo, per impossibilità di replica, nel secolo che fu). Che cosa ci dice, oggi, il grande poeta?
La ricerca pervicace del senso e dell’espressione, il tentativo di comprendere la storia, la capacità di appassionarsi, di buttarsi in nuove avventure, il cinese… “Ho fatto forse un po’ di poesia rozza, di terz’ordine. Qualche volta ho trovato forse un po’ di sentimento di malinconia popolare”. Così Pound in italiano nel 1964 presentando a Venezia la traduzione italiana delle sue Confucian Odes. Che aveva appunto tentato di tradurre con movenze popolareggianti. Aveva perso la capacità di credere nel grande progetto poematico che l’aveva sempre retto. Di credere in sé stesso. Però diceva anche ciò che aveva sempre sostenuto: “Nulla conta se non la qualità dell’affetto / che ha scavato la traccia nella mente” (LXXVI). Un poeta poi vale per i cinque o cinquanta versi memorabili che ci ha lasciato. E in Pound se ne trovano non pochi, come si è visto dalle precedenti citazioni. La lingua ha assunto quella forma una volta per tutte, quella voce ha parlato, pronunciato, fra sbalzi ed errori, ha saputo trovare la nota giusta. Non “una delle più belle poesia d’amore in lingua inglese” ma “un po’ di sentimento di malinconia popolare”. E poi Pound sa giocare. Sono tanti i suoi toni, quelli che ha saputo registrare. “E tre ragazzini su tre biciclette / le diedero dei buffetti sul sedere giovane nel passare / prima che si rimettesse dalla prima botta / ce sont les moeurs de Lutèce” (LXXX). Nella prima coraggiosa traduzione dei Pisani di Afredo Rizzardi, “young fanny” era reso “giovane pube”, e ancora è così nella ristampa corrente (Garzanti, con premessa di Raboni). Buffetti sul giovane pube?! Difficoltà che si aggiunge a difficoltà. E la battuta in francese? Ma già questa scenetta potrà riconciliarci con Pound. Non ci sono molti classici del Novecento con pagine così sbarazzine. C’è l’Ulisse.
Soprattutto, che cosa resta da studiare (o cosa lei sta studiando) di Pound?
Progetti? Una nuova traduzione dei Canti pisani potrebbe valere la pena. Ma intanto quando mi capita do un’occhiata al microfilm del testo manoscritto composto nell’estate 1945 presso Pisa. Non a Coltano, come dicono molti, sbagliando a volte interessatamente, ma ad Arena Metato dove erano reclusi e “rieducati”, talvolta giustiziati, i militari statunitensi rei. Lui scriveva in quel suo elegante corsivo e poi quando ricopiò a macchina il testo che oggi leggiamo non di rado saltava qualche riga creando nuove combinazioni impensate, che in fondo nell’autografo non c’erano. Così si ha l’emozione di seguire quel pensiero-scrittura. Ecco in traduzione qualche verso espunto che cito nel mio libro, legato al paesaggio ligure in cui ho conosciuto e amato Pound, e che con lui condivido: “e l’eucalipto sta per la memoria / finché una bacca di esso rimanga / salendo da Rapallo / dove Pirra abbraccia Deucalione / Bauci / Filemone / e il sentiero porta all’orlo del crinale – / sotto gli ulivi / presso cipressi – /mare Tirreno, / e il Manico del Lume / a quando? – / l’erba intorno al palo della tenda / si muove nel vento tirreno – / aspetto la diana – / Oltre Malmaison il campo presso il fiume con i tavoli”. Ho indicato in grassetto i versi che non si leggono nel testo a stampa del Canto LXXIV, in corsivo le parole italiane nell’originale. Il Manico del Lume è un monte alle spalle di Rapallo piuttosto impervio. La bacca di eucalipto è spesso ricordata nei Pisani come un talismano che il poeta portò con sé quando fu arrestato. È tutto quello, ci dice nel Canto LXXXX, che porterà con sé quando lascerà l’Italia (“se la lascerò”). Ma quando partì nella sua valigetta c’erano anche i quaderni con questi versi.
L'articolo “Doveva scrivere la storia del mondo in poesia, cambiare il mondo, cosa gliene importava della cold cream pubblicata da Poetry e dal New Yorker?”. Su Pound, ancora. Dialogo con Massimo Bacigalupo proviene da Pangea.
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antonio-giangrande · 4 years
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A proposito di Conoravirus.
A proposito di Conoravirus.
Il parere del sociologo storico e scrittore, dr Antonio Giangrande.
Sul Coronavirus ho scritto “Coglionavirus”, un saggio in più parti di centinaia di pagine con fonti autorevoli ed attendibili.
Il saggio scritto a futura memoria e inteso a dimostrare come l’incapacità ed inaffidabilità del passato possa affrontare un problema nel presente, e l’incompetenza, poi, ritrovarcela nel futuro.
Perché in Italia nemmeno i disastri o le rivoluzioni cambiano le cose.
Il sunto del mio saggio sono verità che dai media prezzolati e politicizzati non sentirete mai.
Il Virus italiano non è cinese: nessun cinese o comunità razziale o etnica diversa da quella italiana, stanziata nel Bel paese, è stata origine di focolaio o di paziente zero.
Il Virus italiano non è tedesco, come qualcuno a ripicca del diniego degli euro aiuti vuole far credere. Nessun focolaio tedesco è stato acceso in Germania, così come in Italia.
Il Virus italiano è padano, per la precisione è lombardo: perché lì vi è stato il paziente uno. Lì vi è stato il focolaio principale che ha causato decine di migliaia di morti. Tanti contati, altri non conosciuti. Quel Focolaio ha dato vita alla pandemia in Italia ed all’estero. Perché gli italiani dove vai vai, lì ne trovi sempre qualcuno, chi per vacanza, chi per lavoro.
Il Virus italiano è simile, non uguale, a quello cinese ed ama umidità ed inquinamento. Attraverso le particelle dello smog o le goccioline della nebbia si trasporta per vari metri e per lungo tempo.
Il fattore principale di propagazione in tutta Italia è stata la partita a Milano tra l’Atalanta ed il Valencia, con quarantamila bergamaschi in trasferta, originari del focolaio principale. Così come è stato strumento di propagazione ogni partita che l’Atalanta ha giocato a porte aperte fuori casa, compresa quella col Lecce, in Puglia.
Per il resto si è permesso di infettare il Sud Italia, al momento immune, per alleggerire il carico sulla sanità padana. Qualche coglione padano, cosiddetto giornalista, si rallegrava del fatto che ora sì, siam diventati tutti “Fratelli d’Italia”!
La Sanità Lombarda, prima, e quella nazionale, poi, ha mostrato tutti i suoi limiti, essendo gli operatori sanitari i principali untori della pandemia. Si andava per cure e si usciva infettati.
Gli operatori sanitari, qualcuno vero eroe, altri meno, tra cui coloro che hanno preso decisioni scellerate o i disertori dalla malattia facile, hanno pensato bene di proporre la loro immunità penale, facendo leva sull’indignazione e cavalcando l’onda del momento a loro favore.
Il sistema lombardo centrico non ha avuto remore, in tempo di crisi, a privare la sanità meridionale dei macchinari salva vita per devolverli agli ospedali del nord, requisendo i respiratori già consegnati in Calabria ed in Puglia.
L’eccellenza riconosciuta all’estero, ma come al solito denigrata in Italia, è stata quella dell’ospedale napoletano: il Cutugno per mezzo del prof. Ascierto, che ha scoperto la cura testata su tanti pazienti già guariti.
I media prezzolati e politicizzati, poi, con i soliti ciarlatani, hanno allarmato il popolo per prepararlo al peggio, con decisioni risibili.
Il popolo italiano, inoltre, ha combattuto la guerra come è usuale farlo: fuggendo.
Chi di dovere, anziché relegare pochi migliaia di malati ed il proprio nucleo familiare in strutture protette, ha rinchiuso 60 milioni di sani, privandoli di libertà e ricchezza, senza soluzione di continuità e senza barlume di speranza. Non li ha rinchiusi tutti, però. Nel contempo hanno permesso a chi, infettato, era autorizzato a girare per le città su autobus e metrò, e così a continuare a contagiare ed a diffondere l’epidemia.
Bastava poco ad arginare l’emergenza. Tamponare o analizzare il sangue a tutti, o perlomeno, uno per nucleo familiare, considerato che dove lo è uno lo sono tutti quelli a lui vicino. Di conseguenza monitorare i suoi spostamenti, passati, presenti e futuri, con gli strumenti tecnologici.
Invece se coglioni eravamo prima del disastro, lo siamo durante o lo resteremo in futuro.
Per provare quello che dico, basta fare mente locale su quello che si è detto e fatto durante tutto questo periodo: il tutto ed il contrario di tutto. E nulla si sa del futuro.
Antonio Socci cinguetta: "Siccome non erano capaci di procurare le mascherine, ci dicevano che non servivano alla gente comune. Di questa splendida informazione sanitaria firmata dal governo chi risponde?"
Maria Giovanna Maglie  punta il dito contro il secondo presunto fronte della menzogna, quello relativo ai tamponi. "E siccome non hanno tamponi ci dicono che i test agli asintomatici non servono. Quante bugie di Stato! Qualcuno pagherà?”
Qualcuno dice che tutto questo ci cambierà: sì, in peggio.
Dr Antonio Giangrande
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Difetti del mio ex così per ridere
Mentiva
Non ha mai fatto un regalo
Mi dava per scontata
Usciva con le "amiche" che però potevano essere future ragazze se ci fossimo lasciati ( sono due anni che l'ho lasciato ed è ancora single)
Era brutto
Sensibilità zero
Stupido
Immaturo
Pieno di sé
Narcisista
Le amiche sono più importanti della fidanzata
Ero sempre io la pazza
Nelle litigate non teneva in considerazione i miei sentimenti
Non gli andava di venire a casa mia con l'auto spesso perché se no spendeva troppo di benzina
Non ha mai pagato una cena.
Mi ha imbarazzato spesso in pubblico per i suoi modi di fare
Beveva troppo
Era oggettivamente brutto ( ora è peggiorato)
Non mi ha mai detto ti amo in quasi 3 anni di relazione
Al mio 18esimo non mi ha fatto nessuna sorpresa, né regali né nulla.
Aveva degli amici di merda
Preferiva uscire con amici che con me
Prendeva per culo i miei amici
Era un tirchio (si dice che chi è tirchio lo sia anche di sentimenti e così è stato)
Non mi faceva mai complimenti
Dopo ogni litigata aspettava che fossi io a chiarire però quando andava a lui
Ha sparlato di me anche dopo che ci siamo lasciati in modo spregevole. Viscido. Verme.
Non voleva mai fare foto con me
Non voleva mai pubblicare foto insieme sui social
Mi ha reso una ragazza insicura nonostante fossi migliore di lui e ad oggi lo sono ancora di più
Fa la Vittima de sto cazzo
Ignorante
Bugiardo con se stesso e i suoi amici
Non così tanto bravo a scuola come voleva credersi
Finto eterosessuale. (Senza offesa per nessuno)
Nell'ultimo periodo e dopo la fine della nostra relazione grasso, però mi ha fatto perdere 10 kg per lo stress e la sofferenza
È diventato un pelato a 24 anni. E neanche uno di quelli che ci sta bene
Non vede un cazzo senza occhiali. Una talpa
Ha dei tatuaggi di merda fatti da uno che lavora in casa e non è capace nemmeno a fare una linea dritta o disegnare
Pagliaccio esibizionista
Manipolatore
Si accontenta di un lavoro del cazzo perché non ha ambizioni nella vita
Non condivideva alcune cose con me
Si faceva di canne
Mai scritto niente di carino per me
Quando scrivevo un messaggio perché facevamo un mese in più insieme o un anno ecc o ignorava il mio messaggio o si incazzava perché rompevo i coglioni
Da quando aveva iniziato a lavorare a Roma smetteva di chiamarmi, scrivermi un messaggio o simili e non ci sentivamo anche per una settimana intera. Però era sempre online però per me non aveva tempo.
In generale non aveva attenzioni per me di nessun tipo. Non mi ha mai chiesto com'è andata la giornata.
Si vestiva di merda.
Non aveva la barba. Come un ragazzino proprio, come il suo cervello. Bloccato a 13 anni.
Ai suoi genitori non fregava un cazzo di me. Non ho mai ricevuto regali da loro o messaggio di alcun genere neanche dopo la rottura
Non ha saputo tenere neanche cose private private
Quando ci siamo lasciati mi ha chiesto di rimanere scopamici. Che schifo.
Non ha mai fatto sesso con me (incoerente sopra)
Voleva sempre aver ragione lui
Non ha mai voluto scendere a compromessi
Dopo la rottura mi ha detto ti amo, come se io fossi una stupida.
Questi sono alcuni dei mille difetti ed è stato liberatorio scriverli. Qualcuno potrà dire che sono rancorosa, ma quando una donna ti dà tutto senza ricevere nulla per puro amore e dopo si sente anche sputtanata su fatti intimi solo perché sei stato mollato, allora altro che rancore. Non gli auguro nulla di male, ma la realtà è che non gli auguro proprio nulla perché è il nulla quello che si merita. La sofferenza che ha provato dopo la rottura è tanta perché io ho dato tanto, la sofferenza che invece io non ho provato è dovuta alla liberazione e al sollievo di essermi finalmente resa cosciente e più forte per togliermi di mezzo un uomo (se così si può definire) che non mi meritava, che è inferiore a me per dignità, valori, bellezza, lavoro, intelligenza e vita intera. L'unico modo per ferire una donna che è molto più grande di te in tutto è attaccarti, lurido verme, all'intimità e rivelare dettagli sessuali che devono restare privati. Questo non ti rende un uomo, non ti dà vendetta, ma ti rende solo un coglione che ad oggi non ha realizzato nulla della sua vita, con lo stesso lavoro del cazzo di sempre, un aspetto fisico peggiore che mai, per non parlare del carattere (spero di averti fatto maturare) e delle relazioni che non ha più avuto dopo me. Ti ho sempre detto che ti serviva andare da uno psicologo e prima lo dicevo per il tuo bene ora lo dico proprio perché ho avuto le prove che sei fuori di testa (seguirmi, aspettarmi sotto casa, Stalkerarmi sui social, seguire il mio attuale ragazzo, andare sotto casa sua). Hai più di qualche problema serio. Fatti curare però stavolta te lo dico con tutto l'odio del mondo. Ho cancellato le nostre foto insieme perché mi fa schifo vederti e crede di essere stata per così tanto tempo insieme a te. Ma la verità è che ero una ragazzina fragile, che hai reso durante la relazione ancora più insicura per fare i porci comodi tuoi, fino a che non ce l'ho fatta più e ho ritrovato me stessa, sono cresciuta e mi pento amaramente di averti incontrato. È brutto da dire, perché significa che in tre anni non hai saputo lasciarmi nulla. Ormai dalla nostra rottura (da cui non ti sei mai ripreso) sono passati due anni e si dice che col tempo passa l'odio e riaffiorano le cose belle di quel che è stato, purtroppo per me è stato tutto inutile, quello che riaffiora ancora oggi è lo schifo sopra descritto. Sei stato utile però per una cosa, ad imparare a riconoscerli subito i coglioni come te ed evitarli.
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shoesggdb-blog · 5 years
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Golden Goose Saldi Un reddito non aggressivo tattico
Per trovare i tuoi intermediari è possibile utilizzare le pagine verdi e cercare di collaborare con i grossisti di parti o si può esaminare sui motori di Golden Goose Saldi icerca come google e si potrebbe dare un'occhiata ai 'fornitori all'ingrosso di parti'. Quando la persona si è imbattuta in alcuni posti scrivi, invia un'email o apple iphone 4 e prova a scoprirli tornando a mandarti un catalogo di settore per non parlare della lista dei prezzi all'ingrosso. Questi guru avevano qualcosa che il pubblico voleva, semplicemente dovevano essere informazioni insieme a un prodotto complessivo, le aziende dovevano darle di esplodere gratis, ei clienti lo prendevano per i loro prodotti. C'è una specie di scandalo: questa è la maggior parte delle probabilità, per dare esattamente quale incredibile scena nazionale tu abbia fatto sicuramente tra te, questo specifico finirà per essere una grande novità, reso GRANDE, non diminuito dal fatto che ti sei riconciliato come governatore. Dovresti pagare, direi il pifferaio in un certo senso e puoi davvero aspettarti che il peso totale dei media di relazioni nazionali 3) sia lasciato, precisamente e con il sistema cardiovascolare - di essere la maggior parte di qualcuno su ogni movimento del modo di una persona. Non si può sinceramente ritenere il fatto perché il tuo sito non è il governatore principale e nessun altro distinto presterà attenzione e cura. Inoltre, è terrificante fare causa alle persone perché registrano i pettegolezzi sul maltrattamento, ma le renderanno sostanzialmente più sconvolgenti per te. Ci sono tipicamente alcuni inconvenienti nell'usare i Chargers, principalmente Golden Goose Scarpe Outlet utto la distanza dalla facilità della nostra lega (per lo più centrata nel Michigan oltre che nell'Ohio) insieme all'aggiunta di UAH che di nuovo usciva di nuovo dall'NF con un nuovo buon odd ampia varietà di tipi. La risposta al tipo di primo problema è che l'anno scorso, UAH doveva essere disposta ad aiutare i viaggi off-set a prezzi ragionevoli e generalmente il fluido possibile verso il problema due è probabilmente quello di aggiungere una scuola all'Estremo Oriente Costa (preferibilmente Unione, Connecticut o Robert Morris). Le frasi e le frasi chiave di Meta - offerte nella sezione 'Testa' di una pagina Web di una parola web importante - saranno considerate come un metro di valutazione del sito web quando molte applicazioni di ricerca diminuiscono. Come sono sicuro che tu sia a conoscenza, non è davvero in pratica non più di sapere che possono contare sul corpo 'golden goose'. Anche se un motore di ricerca (che è sempre utilizzato da circa il 50% di tutte le ricerche web) sembra non solo continuamente contando le Meta Parole nella pertinenza della pagina al momento, tende a modificare l'algoritmo del loro particolare programma di ricerca ogni pochi mesi . Hai mai sentito parlare di una tattica finanziaria composta da una vacanza che ti aiuterà a far saltare i soldi extra di 'GIOCO' prima? Assolutamente certo che abbiamo in effetti tutte le recensioni sulle console di gestione del guadagno monetario che riducono la spesa, aumentano i risparmi e escogitano obiettivi durante l'investimento. Ma quale tipo di piano significativo implica la spesa per ottenere la libertà finanziaria? Ora aiutaci come gli acquirenti semplicemente godono i migliori prodotti. Guarda, quando si tratta della tua causa del mio post, il sito è senza dubbio un paio di scarpe d'oro che creano le uova d'oro. Probabilmente non dovresti davvero dire la grande merce? Qualcosa che, senza dubbio, fa appello affinché tu possa assolutamente le persone! E tuttavia, non si ottiene alcun accordo a causa delle scorte di oche Golden Retriever. Probabilmente ti diverti ad offrire ogni persona durante i 12 mesi supremi, e quelli erano sulla tua mamma. Cosa ti porta ad esibirti ora? E quel particolare significa che l'individuo vorrebbe essere accettato nel marketing di affiliazione? Aka anche uno è in precedenza in esso, e oltre a cercare le opzioni per aumentare il margine di cassa? Qualunque sia la tua fonte, che spesso includi la lettura di questo valore e ciò significa che dovrai essere d'aiuto con te con la tua iniziativa personale sulle promozioni di marketing su Internet.
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ourvaticancity-blog · 6 years
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C’è un golpe nella Chiesa
Qualcuno dice che l’esortazione bergogliana è in realtà un “elogio della gioia eretica” (non erotica). Qui sta il problema. di Antonio Socci (10-09-2016) L’ideologo del cattoprogressismo Alberto Melloni, su Repubblica di ieri, c’informa che l’esortazione bergogliana (ribattezzata da taluni “Familiaris divorzio”) è un “elogio della gioia erotica”. Così la fa sembrare quasi un giocoso trattato sul porno da pubblicare su Dagospia col titolo “Coito ergo sum”. Ma non è patetico un Vaticano a luci rosse (per sedurre)? In effetti il “modernismo” bergogliano di oggi fa pensare alla signora ottantenne che indossa minigonna e tacco 12 lanciando le tette al vento: anche sulle questioni sociali Bergoglio recupera gli slogan ammuffiti di quelle esecrabili “luci rosse” (profondo rosso) anni Sessanta che oggi sono in età da Alzheimer o da catetere. E poi le pagine bergogliane sull’eros sono una goffa e dilettantesca scopiazzatura (con errori) del capolavoro teologico e pastorale di Giovanni Paolo II che (lui sì!), nelle sue catechesi sulla Genesi e sul corpo, legò splendidamente “eros” e “agape” nel matrimonio cristiano. A Genesi e Cantico dei cantici, Wojtyla aggiunse l’esperienza umana del suo passato di poeta-minatore-teologo che in gioventù partecipò alla resistenza contro il nazismo e il comunismo leggendo Giovanni della Croce e il Monfort. Qualcuno, parafrasando Melloni, dice che l’esortazione bergogliana è in realtà un “elogio della gioia eretica” (non erotica). Qui sta il problema. Gioia erotica o eretica? Entrambe. Per anni la Chiesa si è difesa dall’assalto della “dittatura del relativismo”. Si è difesa anche mettendo in minoranza Bergoglio al Concistoro del 2014 e ai due sinodi, ma il papa argentino ha imposto lo stesso alla Chiesa, d’imperio, la sua “rivoluzione” (alla faccia della “sinodalità”). Oggi è lo stesso giornale dei vescovi, Avvenire, che rapidamente ha buttato alle ortiche Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, a informarci che nella Chiesa è davvero in atto una rivoluzione. L’organo ufficiale della Cei ha lanciato così l’Esortazione: “Quando, una decina di giorni fa, il cardinale Kasper, preannunciando l’uscita dell’Esortazione post-sinodale sulla famiglia, aveva parlato ‘del più importante documento nella storia della Chiesa dell’ultimo millennio’, non pochi l’avevano guardato con quella finta accondiscendenza che si riserva alle dichiarazioni un po’ esagerate… Adesso che Amoris laetitia è sotto gli occhi di tutti, sembra davvero difficile contraddire il cardinale tedesco. Il testo di Francesco ha il sapore di un testo saldo e rivoluzionario”. Dunque Bergoglio sta “rivoluzionando” cioè ribaltando la Chiesa Cattolica come aveva scritto a novembre Ross Douthat, sul New York Times, indicando l’esistenza di un “complotto per cambiare il cattolicesimo” e aggiungendo che “in questo momento il primo cospiratore è il papa stesso”. Adesso è ufficiale. E oggi, dopo l’uscita di questo testo rivoluzionario, per la Chiesa è il “day after”. Quello che si riteneva impossibile è accaduto. L’esortazione apostolica è un aperto gesto di sfida a duemila anni di magistero cattolico. E, negli ambienti cattolici (scioccati), domina un ammutolito sconcerto. Anche se all’estero le voci cattoliche cominciano a far sentire sonore proteste, che monteranno sempre più, specie negli Stati Uniti (ma anche in Polonia, in Africa, in Messico e altrove). Ieri su un sito cattolico canadese usciva un titolo decisamente pesante che però fa capire quanta indignazione covi sotto la cenere: “Chi denuncerà l’Amoris Laetitia come eretica? Chi chiamerà in causa Jorge Bergoglio per ciò che ha commesso? La storia definirà questa come l’eresia bergogliana?” Naturalmente – in tutto questo – la comunione ai divorziati risposati è solo un pretesto, è una questione che non appassiona nessuno, nemmeno i divorziati: i “rivoluzionari” hanno semplicemente usato come forza d’urto le “coppie irregolari” per demolire i fondamenti di duemila anni di cattolicesimo. Ed ora c’è un panorama di rovine davanti agli occhi dei pastori ancora cattolici, perché – come birilli – a cascata, dopo l’indissolubilità del matrimonio, verrà giù tutto: la confessione, i comandamenti, la legge naturale. Soprattutto ne esce demolito il magistero costante della Chiesa. Bisogna pensare ai tanti che hanno vissuto spaccature familiari o situazioni di prova e – per amore a Cristo – sono rimasti fedeli ai comandamenti e ai precetti della Chiesa. Mi diceva una di queste persone: “L’Amoris laetitia è per me terribile perché ci dice: siete stati dei fessi a fidarvi di Gesù Cristo e della Chiesa, sopportando quelle prove. Avete buttato via la vita stupidamente, quando potevate spassarvela e oggi avreste il timbro del papa”. E di un Vaticano che elogia le “gioie erotiche”, come dice Melloni. Ma per i cattolici è evidente che si tratterebbe di (false) gioie eretiche dal momento che è stato Gesù stesso a comandare “non osi l’uomo separare ciò che Dio ha unito” (Mt 19,6). Le sue parole “non passeranno mai”. E il magistero della Chiesa si fonda proprio sulla sua Parola e sulla Legge di Dio. Non può mai essere smentito o cambiato da nessun papa. Il caso Bergoglio Del resto c’è poco da sorprendersi di ciò che sta accadendo. In questi tre anni ne abbiamo viste di cotte e di crude. Prima il grande papa Benedetto che, alla sua messa d’insediamento, implora “pregate per me perché io non fugga per paura davanti ai lupi”. Poi quella sua misteriosa e immotivata “rinuncia” dopo la quale ha voluto farci sapere che “la mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero non revoca questo”, restando infatti papa emerito, quindi Francesco eletto un po’ così (e nonostante il voto dei gesuiti che avrebbe dovuto proibirlo) e poi due papi (mai visti in duemila anni). Infine la variopinta rappresentazione sudamericana, dal “chi sono io per giudicare” al Dio che “non è cattolico”, dalle croci su falce e martello all’omaggio a Fidel Castro, dalla lettera per i tiranni cinesi all’elogio dell’”invasione” degli immigrati, dallo schiaffo a Trump al silenzio sulla Cirinnà, dalla gelida distanza col Family day alle scimmie su San Pietro, dalla comunione ai divorziati-risposati all’eucarestia ridotta a opinione pressoché equivalente a quella luterana, dal Giubileo senza indulgenza e Purgatorio all’enciclica sulla “raccolta differenziata”, dai fraterni incontri con Scalfari al gelido e ostinato silenzio su Asia Bibi. Tutto strano, surreale, inquietante e doloroso per i cattolici che intanto vengono perseguitati e massacrati nel mondo. Alla stranezza degli osanna dei media laicisti (da sempre nemici della Chiesa) si è aggiunta una nuova papolatria del mondo clericale. Ieri su Avvenire – giornale della Cei – l’articolo sull’esortazione iniziava così: “La famiglia ricomincia da Francesco”. Testuale. Ma la famiglia è stata istituita dal Creatore e resa sacramento da Gesù Cristo. Forse che oggi Bergoglio sta al posto di Dio? Sempre Avvenire di ieri ci ha informato che nell’esortazione “l’indissolubilità” del matrimonio non è la realtà, ma un riferimento ideale, “un punto di arrivo”. Fino ad oggi la Chiesa aveva insegnato che è il punto di partenza, stabilito da Gesù Cristo nel Vangelo. Dove sono i vescovi e i cardinali? Che cosa fanno? Possibile che vescovi e cardinali siano tutti ammutoliti da questa rivoluzione? Possibile che nessuno senta di dover rispondere a Dio e di accendere una luce per il popolo cristiano confuso e frastornato? Possibile che nessuno abbia la dignità di affermare quello che pensa, cioè che l’esortazione è pessima e devastante per la Chiesa? “In questo caso il tacere equivale alla connivenza”, diceva papa Celestino. Io continuo a sperare pure in un ripensamento del papa, perché prenda atto che questo tipo di “modernizzazione” ha già distrutto le comunità protestanti europee e nelle Chiese cattoliche progressiste (d’Europa o d’America Latina) ha avuto effetti devastanti. Ma il Papa va aiutato con la nostra sincerità, con la libertà della critica a viso aperto. Ne va del futuro della Chiesa (e non solo). In ogni caso da oggi essere cattolici sarà – per parafrasare Melloni – una “gioia eroica”. FONTE: antoniosocci.com
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gloriabourne · 5 years
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The one where Fabrizio goes to Milan
(le parti in corsivo che troverete nella storia sono pezzi di canzoni, nello specifico “Senza averti qui” degli 883 e “Finalmente tu” di Fiorello)
    Quattro amici che citofonano giù
Da mercoledì non ti si vede più
Hanno aperto un posto strano, un disco pub
Perché non si va? Perché non si va?
 Il rumore del campanello risuonò nell'appartamento per l'ennesima volta, costringendo Ermal ad alzarsi dal divano e trascinarsi fino alla porta.
Non aveva voglia di vedere nessuno, non aveva voglia di parlare con nessuno, ma sentiva le voci dei suoi amici bisbigliare sul pianerottolo da almeno un quarto d'ora e avevano già suonato il campanello almeno una decina di volte.
Se non avesse aperto la porta per fargli vedere che era ancora vivo, non se ne sarebbero mai andati.
Buttò un'occhiata attraverso lo spioncino, vedendo Andrea e Marco che parlottavano tra loro e Dino e Roberto che ogni tanto di scambiavano uno sguardo preoccupato.
Prese un respiro profondo e aprì la porta.
Andrea e Marco si zittirono all'improvviso, mentre Ermal li guardava scocciato e diceva: "Che volete?"
"Non rispondevi al telefono" disse Andrea, come se bastasse a giustificare la loro presenza davanti alla sua porta.
"Lo so. Non mi va di parlare" rispose Ermal.
"Ermal, che succede? È quasi una settimana che non ti fai sentire" disse Roberto.
Ermal sospirò.
In realtà, nemmeno lui sapeva bene cosa stesse succedendo.
Tutto ciò che sapeva, era che aveva litigato con Fabrizio e da quel momento non si erano più sentiti.
Ermal aveva provato a chiamarlo, a mandargli messaggi, ma Fabrizio non aveva mai risposto e a un certo punto Ermal si era chiuso in sé stesso, spaventato dal fatto che forse Fabrizio avesse intenzione di chiudere definitivamente la loro storia.
Ammesso che potesse essere considerata tale.
Non avevano mai stabilito dei confini nel loro rapporto, non si erano mai detti esplicitamente che erano una coppia.
C'era semplicemente stato un momento in cui avevano smesso di essere amici, un momento in cui i baci sulla guancia si erano spostati un po' più in là ed erano finiti sulla bocca, un momento in cui avevano iniziato a sentire la voglia di togliersi i vestiti e di toccare la pelle dell'altro. Però, nessuno dei due ne aveva mai parlato. Avevano semplicemente abbracciato quel cambiamento senza dire nulla.
Quindi, a conti fatti, Ermal aveva paura che Fabrizio chiudesse qualcosa che forse nemmeno esisteva.
"Sono solo un po' stanco. Mi sa che sto covando qualcosa" mentì Ermal. Poi, vedendo che all'appello mancava il suo batterista, aggiunse: "Emiliano?"
"Ha l'influenza" rispose Dino.
"Ecco, mi sa che l'ho presa pure io. Quindi grazie per essere passati, non sto morendo ma credo sia meglio se ve ne andate. Non vorrei attaccarvi qualcosa" disse Ermal.
Marco appoggiò una mano sulla porta, per impedire a Ermal di chiuderla, e disse: "Senti, io non so che ti sia successo in questi giorni, ma è ovvio che il problema non è l'influenza. Quindi hai due possibilità: puoi stare a casa e piangerti addosso, oppure puoi uscire con noi a bere qualcosa. Non devi nemmeno parlare o dirci cosa succede, se non ti va. Ma magari uscire un po' ti aiuterà a non pensare a qualunque cosa sia la causa del tuo pessimo umore."
Ermal sbuffò.
Non aveva voglia di uscire, ma restare chiuso in casa non era sicuramente la soluzione ai suoi problemi. E, per quanto gli costasse ammetterlo, sapeva che Marco aveva ragione.
Stare con la sua band lo faceva sempre sentire meglio, anche quando andava tutto storto.
"D'accorto. Andiamo."
 Senza troppa voglia ordiniamo un drink.
Io che penso: "Che cos'è che faccio qui?"
Gli altri che mi guardano e si chiedono:
"Che cosa non va? Che cosa non va?"
 Senza averti qui
senza problemi, senza limiti
non è così bello come dicono.
 Il locale che gli altri avevano scelto, era a qualche isolato da casa di Ermal.
Era aperto da un paio di settimane e l'inaugurazione era stata pubblicizzata parecchio, con volantini e manifesti sparsi per tutta la città, al punto che più volte Marco aveva detto che avrebbero dovuto assolutamente andarci, giusto per vedere che posto fosse.
Ermal era stato d'accordo con quell'idea fin da subito, curioso di vedere nuovi posti, eppure quella sera - con l'umore sotto le scarpe e nessuna voglia di parlare con i suoi amici - Ermal non riusciva a vedere nessun lato positivo in quella serata. Nemmeno andare in un nuovo locale sembrava interessargli.
Si sedettero a un tavolo in fondo alla sala - il più lontano possibile dalla porta, per evitare che la gente riconoscesse Ermal e lo disturbassero per tutta la sera - e ordinarono da bere.
Ermal aveva ordinato svogliatamente la prima birra che aveva trovato sul menu, senza nemmeno preoccuparsi di leggere le pagine successive, mentre i suoi amici continuavano a fissarlo a metà tra il curioso e il preoccupato.
Nessuno di loro stava insistendo per sapere che problema avesse, ma Ermal riusciva a sentire tutte le domande che vorticavano nelle loro teste.
Cos'ha Ermal?
Perché non parla?
Perché è sparito per giorni, senza dare una spiegazione?
E una parte di Ermal avrebbe davvero voluto parlare con loro e spiegare quale fosse il problema, per quale motivo si fosse chiuso in sé stesso. Ma dall'altra parte, non sapeva come fare.
Non aveva idea di come spiegare ai suoi amici, quelli che lo conoscevano da una vita, che si era innamorato di qualcuno, che aveva vissuto per mesi una storia clandestina e che ora stava male perché non capiva se quella storia esisteva ancora o no.  
Non sapeva come fare a dirglielo, non tanto perché aveva paura di come avrebbero reagito - beh, un po' effettivamente aveva paura anche di quello - ma più che altro perché non voleva che pensassero che non si era fidato abbastanza di loro da confessare subito che si era innamorato di Fabrizio.
La fiducia non c'entrava. Ermal si fidava della sua band più di quanto si fidasse di sé stesso.
Non sapeva spiegarsi per quale motivo avesse tenuto nascosto quello che c'era tra lui e Fabrizio, ma l'aveva fatto e ora sembrava essere passato troppo tempo per iniziare a sfogarsi su quella faccenda.
Sospirò rendendosi conto che in quel momento, l'unica cosa che lo avrebbe fatto sentire meglio era Fabrizio.
Ma Fabrizio non c'era, e forse non ci sarebbe stato più.
Le immagini della discussione avvenuta qualche giorno prima - durante una delle solite visite a Roma, che Ermal mascherava come viaggi di lavoro ma che in realtà di lavoro avevano ben poco - occuparono improvvisamente la mente di Ermal, ricordandogli tutte le cose che si erano detti e soprattutto ricordandogli l'espressione delusa di Fabrizio mentre gli diceva di andarsene da casa sua.
Ermal non ricordava nemmeno come fosse iniziato tutto.
Ricordava solo di aver fatto una battuta sul fatto che con Silvia aveva sempre dovuto fare attenzione a cosa diceva e a cosa faceva, perché la loro era una relazione seria e stabile e ogni parola o azione rischiava di creare un effetto domino senza fine, mentre con Fabrizio era tutto più semplice perché tra loro non c'era quel tipo di rapporto. Ricordava che Fabrizio, seduto accanto a lui sul divano, si era irrigidito e aveva chiesto cosa intendesse dire e lui aveva detto che la loro non era una relazione fissa, che non avevano obblighi l'uno verso l'altro e che quindi non sentiva il bisogno di preoccuparsi per ogni singola cosa che usciva dalla sua bocca.
Col senno di poi, Ermal non poteva fare a meno di pensare che se si fosse preoccupato di più di ciò che usciva dalla sua bocca, non si sarebbe ritrovato in quella situazione.
Ricordava bene il volto di Fabrizio, lo sguardo scuro, la mascella contratta e la nota di delusione e rabbia mentre gli diceva che forse avevano una visione diversa di ciò che c'era tra loro e che forse era il caso che Ermal se ne andasse, perché lui voleva rimanere solo.
Quello era stato il momento in cui Ermal aveva capito che in realtà con Fabrizio avrebbe voluto tutto ciò che aveva sempre temuto della sua relazione con Silvia.
Con Fabrizio avrebbe voluto la relazione fissa, avrebbe voluto sentire la necessità di ponderare le parole, avrebbe voluto avere dei limiti.
Avrebbe voluto quel tipo di rapporto che aveva avuto con Silvia, ma con lei aveva sempre sentito troppo stretto, quasi soffocante.
Con Fabrizio, ne era certo, non sarebbe stato soffocante.
 Suoni e immagini dal video-jukebox
Questo posto non mi piace neanche un po'
Forse non è il posto, forse sono io
quello che non va, quello che non va.
 E voi perché fate quelle facce lì?
Lo so che non ci si comporta così,
che dovrei essere un po' di compagnia
non è colpa mia, non è colpa mia.
 Ermal tirò giù un altro sorso di birra, sperando che servisse a fargli sembrare quella serata più sopportabile.
Non riusciva a trovare niente che gli piacesse in quel locale.
La musica era troppo alta, le immagini che passavano nel televisore appeso sopra al bancone non erano sincronizzate alle canzoni che si sentivano provenire dalle casse, la sala non era abbastanza illuminata e il gruppo di studenti seduti nel tavolo accanto al loro faceva un gran casino.
Che poi, a pensarci bene, la colpa non era nemmeno del locale. Non era poi così diverso dai posti che frequentava di solito, dai posti che gli erano sempre piaciuti.
Era lui quello che aveva un problema, quella sera. Era lui quello che non sopportava niente di tutto ciò che gli stava intorno, non era colpa del posto.
Sollevò lo sguardo, incrociando quello di Andrea - seduto di fronte a lui - che lo fissava preoccupato.
"Che c'è?" chiese Ermal scocciato.
Andrea si strinse nelle spalle. "Niente. Sono solo preoccupato per te."
"Sto bene, non ho niente che non va" rispose Ermal, avvicinando di nuovo la bottiglia alla bocca e tirando giù un ultimo sorso.
"Sappiamo tutti e due che non è vero" disse Andrea.
Ermal sbuffò, attirando l'attenzione degli altri che fino a quel momento avevano parlottato tra loro, e disse: "So che non sono di compagnia stasera. Mi dispiace."
"Ermal, onestamente non ci interessa se sei di compagnia o no. Non ci interessa nemmeno sapere perché stai così, se non ce lo vuoi dire. Però siamo preoccupati" disse Dino, dandogli una pacca sulla spalla.
Ermal rimase in silenzio per un attimo, indeciso su come comportarsi.
Forse quello era il momento giusto per dire tutta la verità, per sfogarsi e per raccontare ai suoi amici per quale motivo stesse così male.
 Senza averti qui
senza problemi, senza limiti
non è così bello come dicono.
Senza averti qui
non è che ci si senta liberi.
Non ti passa, dura ore un attimo.
 "Ho litigato con Fabrizio, qualche giorno fa, e dopo lui ha smesso di rispondere alle mie chiamate e ai miei messaggi" disse Ermal.
Gli altri si scambiarono un'occhiata, poi Marco disse: "Probabilmente ce l'ha ancora con te. Chissà quale cazzata è uscita dalla tua bocca."
Marco l'aveva detto con ironia, cercando di far capire a Ermal che non era poi così grave se Fabrizio non voleva parlargli, che forse aveva semplicemente bisogno di tempo.
Ma Ermal non poté fare a meno di annuire e dire: "Già, magari è così. Magari non mi parlerà più."
"Non è solo quello il problema, vero?" disse Andrea.
Ermal lo guardò mentre un sorriso amaro gli incurvava le labbra. "È così palese?"
"Diciamo che abbiamo sempre sospettato che non foste solo amici" rispose Andrea.
"Non lo so nemmeno io cosa siamo. Non abbiamo mai dato un'etichetta a quello che c'era tra noi, pensavamo solo a goderci del tempo insieme. E io pensavo che a Fabrizio andasse bene, di solito è lui quello che non vuole definire le cose."
" È per questo che avete litigato?" chiese Roberto.
"Non lo so" rispose Ermal sbuffando. Poi aggiunse: "Mi sembrava che le cose tra noi andassero bene anche così, senza definizioni, senza etichette, con il nostro rapporto senza limitazioni. Forse per Fabrizio non era così e forse ormai non lo è più nemmeno per me. Non è poi così bello non avere dei limiti, non ti fa sentire libero come sembrerebbe."
In quel momento, Ermal i limiti li avrebbe voluti eccome.
Avrebbe voluto sentirsi in dovere di non sorridere troppo alla cameriera che aveva preso le loro ordinazioni.
Avrebbe voluto sentirsi obbligato a indossare una maglietta in particolare solo perché piaceva a Fabrizio, invece di mettere la prima cosa che aveva pescato dall'armadio.
Avrebbe voluto avere la certezza che non sarebbe tornato a casa da solo e che quella notte, anche se gli fosse venuta improvvisamente l'ispirazione per un nuovo pezzo, non avrebbe potuto mettersi a suonare perché avrebbe rischiato di svegliare l'uomo che dormiva nel suo letto.
Ermal li voleva quei limiti. Li voleva per il semplice fatto che averli avrebbe significato che Fabrizio era insieme a lui.
"Ok, ora senti che facciamo" iniziò Marco. "Ordiniamo un'altra birra, chiacchieriamo ancora un po' e poi ce ne andiamo a dormire. E tu domani chiami Fabrizio. E se non ti risponde, vai a Roma e ci parli di persona."
Ermal sorrise.
In fondo il piano di Marco non era poi tanto male ed Ermal non aveva alcun problema ad andare a Roma, se c'era anche solo una piccola possibilità che Fabrizio decidesse finalmente di parlargli di nuovo.
Quello che ancora non sapeva, era che non sarebbe stato necessario.
 ***
 Cadono dall'orologio i battiti
e non finiscono.
Mi dividono da quegli immensi attimi
rinchiusi nelle braccia tue.
 Corrono manovre incomprensibili
che poi si perdono
nel telefono quegli occhi tuoi invisibili
ancora più distante tu
 Fabrizio sbuffò controllando l'ora sul cellulare per l'ennesima volta.
Era arrivato a Milano da quasi un'ora e la prima cosa che aveva fatto era stata andare a casa di Ermal.
Doveva vederlo, doveva parlargli, doveva scusarsi per ciò che era successo tra loro e spiegargli perché aveva reagito in quel modo.
Ermal però non era in casa, e così Fabrizio aveva inviato immediatamente un messaggio a Marco per chiedergli se sapesse dove fosse.
E poi aveva aspettato.
Ma ora i minuti continuavano a passare e Marco continuava a non rispondere.
Fabrizio si sedette a terra, proprio accanto alla porta dell'appartamento di Ermal, e si prese la testa tra le mani.
Era stanco e sentiva la testa pulsare dolorosamente, ma non gli importava. L'unica cosa che contava in quel momento era vedere Ermal e vista la mancata risposta di Marco, rimanere lì era l'unica cosa che potesse fare.
Prima o poi sarebbe tornato a casa, no?
Sbloccò lo schermo del telefono, aprendo WhatsApp e controllando se Marco avesse almeno visualizzato il messaggio.
Risposta negativa, le lineette sul messaggio non erano ancora diventate blu.
Poco più in basso, c'era la chat di Ermal.
Fabrizio rimase a fissare per qualche minuto la sua foto profilo - una delle tante foto bellissime che gli venivano scattate durante i concerti - e poi spostò lo sguardo sull'ultimo messaggio della chat.
Ermal gli aveva scritto messaggi ogni giorno, da quando avevano litigato.
Nella maggior parte gli chiedeva semplicemente di rispondere alle sue chiamate, diceva che voleva parlargli, chiarire. Ma quell'ultimo messaggio - inviato quella mattina - era diverso da tutti i precedenti.
Suonava come un addio, come l'ultimo tentativo di salvare ciò che c'era tra loro, come se Ermal avesse perso definitivamente le speranze di salvare il loro rapporto e volesse farglielo sapere. Ed era stato quel messaggio a spingere Fabrizio a mettersi in viaggio per Milano.
Lui ed Ermal avevano litigato, questo era vero, e Fabrizio si sentiva ancora ferito per ciò che era successo, ma mai - nemmeno per un istante - aveva pensato di buttare via la loro storia.
Si era arrabbiato e aveva avuto bisogno di tempo per calmarsi, ecco perché non aveva risposto alle sue chiamate e ai suoi messaggi. Ma questo non significava che volesse lasciar perdere tutto.
 Ma tu dove sei?
Ogni giorno più difficile
il tempo senza te
Ma tu tornerai, io posso già distinguere
più vicini ormai, io sento i passi tuoi.
 Fabrizio sospirò rimettendosi il telefono in tasca.
Si sentiva un idiota per aver reagito in quel modo, per aver mandato via Ermal da casa sua, ma in quel momento era ferito e aveva agito di impulso.
Le cose tra lui ed Ermal erano cambiate così velocemente e in modo così naturale, che quasi non se ne erano accorti. Non c'era stato bisogno di parole, di discorsi su quanto ciò che provavano fosse diverso dall'affetto fraterno di cui parlavano davanti alle telecamere. Avevano semplicemente vissuto ogni attimo insieme senza pensare a cosa sarebbe successo dopo, senza pensare al fatto che forse prima o poi sarebbe stato il caso di parlare di ciò che stava succedendo tra loro.
E così alla fine, a forza di rimandare continuamente, non ne avevano mai parlato.
Razionalmente, Fabrizio capiva perché Ermal pensasse certe cose. Capiva perché Ermal vedesse ciò che c'era tra loro come una cosa senza impegno.
Ma non poteva evitare di sentirsi ferito quando aveva capito che Ermal non sentiva obblighi verso di lui. Perché lui invece li sentiva.
Ed era felice di sentirli.
Ecco perché, quella sera, gli aveva detto di andarsene. Ecco perché non aveva risposto alle sue chiamate e ai suoi messaggi.
Era ferito.
Ora che però sentiva Ermal allontanarsi sempre di più, quello che sentiva passava in secondo piano. L'unica cosa che voleva era che Ermal capisse che senza di lui non poteva stare e che avrebbe accettato qualsiasi rapporto Ermal volesse, purché lui non se ne andasse dalla sua vita.
Chiuse gli occhi, mentre finalmente sentiva il dolore alla testa affievolirsi, e fu in quel momento che lo sentì.
Il portone del palazzo che si apriva, qualcuno che cercava di richiuderlo - con scarsi risultati, visto che era rotto dal almeno un mese e nessuno si era preso l'impegno di chiamare l'amministratore di condominio per avvisarlo - e poi dei passi sulle scale.
Non dei passi qualsiasi.
Fabrizio spalancò gli occhi di colpo, riconoscendo all'istante il rumore di quei passi e aspettando di vedere Ermal sbucare dalle scale da un momento all'altra.
 E poi finalmente tu
tirar tardi sotto casa
e di corsa sulle scale insieme a te
Un minuto ancora e poi uno sguardo tra di noi
Voglio guardare addormentarsi gli occhi tuoi.
 Quando Ermal arrivò sul pianerottolo e vide Fabrizio seduto accanto alla sua porta, il tempo sembrò fermarsi.
Fabrizio si alzò in piedi lentamente, come se avesse paura che un movimento brusco avrebbe fatto scappare via Ermal, e rimase a fissarlo per un tempo che a entrambi sembrò infinito.
"Ciao" trovò il coraggio di dire a un certo punto.
Ermal aveva gli occhi lucidi e lo sguardo fisso su di lui. Sembrava che volesse dire tantissime cose, ma che allo stesso tempo non riuscisse a pronunciare nemmeno una sillaba.
Si schiarì la voce e poi rispose: "Ciao."
Avrebbe voluto chiedergli perché era lì, perché non aveva risposto ai suoi messaggi, perché l'aveva mandato via da casa sua quella sera, ma ogni parola gli era rimasta incastrata in gola.
"Scusa se sono piombato qui all'improvviso, ma ho pensato che sarebbe stato meglio parlare di persona" disse Fabrizio.
Ermal annuì, mentre una sensazione di panico si diffondeva rapidamente in lui.
Parlare di persona? Parlare di cosa?
Forse Fabrizio voleva davvero dirgli che tra loro era finita e aveva preferito evitare di farlo al telefono.
Tirò fuori le chiavi dalla tasca e, cercando di non far notare a Fabrizio quanto gli stessero tremando le mani, aprì la porta e gli fece cenno di entrare in casa.
Chiuse la porta dietro di sé e sospirò.
In un modo o nell'altro, quella situazione si sarebbe risolta.
Il fatto era che Ermal temeva che non si sarebbe risolta nel migliore nei modi, o perlomeno non nel modo in cui avrebbe voluto lui.
 Corrono dell'orologio i battiti
che mi riportano
per un attimo a ricordare i fremiti
Irraggiungibile realtà.
 Ma tu dove sei?
Ogni giorno più difficile
il tempo senza te
Ma tu tornerai, io posso già distinguere
più vicini ormai, io sento i passi tuoi.
 Ermal rimase per un attimo a fissare Fabrizio che entrava nel salotto e si guardava intorno, incerto su come comportarsi.
Nella sua mente fecero capolino tutti i ricordi dei bei momenti passati insieme.
La vittoria a Sanremo, il Forum, l'Eurovision, il loro primo bacio, la prima volta che avevano fatto l'amore...
Ogni istante era marchiato a fuoco nella sua memoria e in quel momento lo stava tormentando, quasi a volergli dire che Fabrizio lo avrebbe lasciato e che non avrebbe più vissuto nessuno di quei momenti.
Tutti quei momenti a Ermal sembravano così lontani che quasi aveva l'impressione di non averli vissuti davvero, e allo stesso tempo li ricordava così vividamente da sentire ancora quelle emozioni sulla propria pelle.
E in quel momento, l'unica cosa che avrebbe voluto fare davvero era rivivere quei momenti, sentire di nuovo la pelle di Fabrizio sulla sua, le sue labbra e le sue mani addosso, la sua voce che gli sussurrava all'orecchio. Invece si ritrovava a fissare Fabrizio in trepidante attesa, spaventato di sentire per quale motivo si fosse presentato a casa sua.
"Ti posso offrire qualcosa?" chiese Ermal, cercando di comportarsi da bravo padrone di casa, mentre attraversava il salotto e andava verso la cucina.
Fabrizio lo fermò prendendolo delicatamente per un braccio. "Dobbiamo parlare."
Ermal annuì, tenendo lo sguardo basso, e attese che Fabrizio continuasse a parlare.
"Pensavi davvero le cose che hai scritto?"
"Quali cose?" chiese Ermal. Gli aveva scritto un sacco di messaggi negli ultimi giorni, nemmeno li ricordava tutti.
Fabrizio prese il cellulare e, dopo aver aperto la chat di Ermal, lesse l'ultimo messaggio: "Scusa se ti sto disturbando, prometto che non lo farò più. Mi sembra evidente che non mi vuoi parlare, quindi questo sarà l'ultimo messaggio che ti manderò. Voglio solo che tu sappia che mi dispiace per quello che è successo. Non so di preciso quale delle cose che ho detto ti abbia fatto scattare in quel modo e perché, ma mi dispiace. Sei una delle persone a cui tengo di più al mondo e sai che non farei mai nulla per farti del male. Proprio per questo, credo sia meglio per entrambi che io smetta di cercarti. Quindi ciao, Bizio. E scusami."
Ermal spostò lo sguardo, cercando di non far notare a Fabrizio gli occhi lucidi.
Ricordava ogni parola di quel messaggio, ma più di tutto ricordava come il suo cuore si era spezzato a ogni parola.
"Allora, le pensi davvero queste cose?" chiese Fabrizio con la voce leggermente incrinata.
Ermal annuì. Le pensava davvero, per quando facesse male.
Non avrebbe mai voluto che Fabrizio si allontanasse da lui, ma non voleva nemmeno che stesse male per colpa sua o che si sentisse ferito da qualcosa che lui aveva detto. Quindi forse era davvero meglio per entrambi restare separati.
Fabrizio si sfregò gli occhi, cercando di impedire a una lacrima di scorrergli sulla guancia, poi disse: "Sai perché ho reagito così, quel giorno? Perché ho pensato di esserci dentro più di te, in questa storia. E ho avuto paura. Ho avuto paura perché non sono abituato a queste cose, perché io di solito non mi faccio trascinare dai sentimenti così tanto e mi spaventava l'idea che tu non fossi sulla mia stessa lunghezza d'onda. Ecco perché ti ho mandato via, ecco perché non ho risposto alle tue chiamate e ai tuoi messaggi. Poi mi hai scritto questo e la paura che tu non provassi le stesse cose è sparita, è stata sostituita dalla paura che tu ti allontanassi per sempre."
Ermal continuava a tenere lo sguardo il più lontano possibile da Fabrizio, ma fu costretto a riportarlo su di lui quando si sentì sollevare il meno con due dita.
Fabrizio gli prese il viso tra le mani e sorrise dolcemente. "Non voglio che ti allontani da me."
Ermal, ormai incapace di dire qualsiasi cosa, si limitò ad avvicinarsi a lui e stringergli i fianchi, mentre appoggiava la fronte sulla sua spalla e permetteva finalmente alle lacrime di uscire dai suoi occhi.
Fabrizio lo strinse a sé, sussurrandogli all'orecchio che sarebbe andato tutto bene.
Quando Ermal risollevò la testa, fu automatico per entrambi cercare le labbra dell'altro e unirsi in un bacio disperato. Un bacio in cui era racchiusa tutta la sofferenza dei giorni passati, tutto ciò che provavano l'uno per l'altro.
 E poi finalmente tu
tirar tardi sotto casa
e di corsa sulle scale insieme a te.
Un minuto ancora e poi uno sguardo tra di noi
voglio guardare addormentarsi gli occhi tuoi
gli occhi tuoi, gli occhi tuoi.
 Non era passato molto tempo dall'ultima volta che avevano fatto l'amore, eppure per entrambi sembrava passata una vita.
Quella notte fecero le cose con calma, come se si stessero scoprendo per la prima volta.
Si presero tutto il tempo necessario di sfiorare il corpo dell'altro, di farlo gemere e sospirare sotto le proprie mani, di assaporare la loro pelle.
Si presero tutto il tempo necessario per amarsi, per dirsi senza bisogno di parole quando avessero bisogno l'uno dell'altro.
Quando si ritrovarono entrambi ansimanti, aggrovigliati nelle lenzuola e con gli ultimi strascichi dell'orgasmo a offuscare il loro cervello, Ermal si voltò verso Fabrizio e disse: "Ti amo."
Non aveva nemmeno avuto bisogno di pensarci.
Quelle due parole erano sempre state dentro di lui - anche quando lui aveva creduto che la loro fosse una storiella passeggera, senza importanza - ma non aveva mai avuto il coraggio di dirle, spaventato da un sentimento troppo grande.
Fabrizio ricambiò lo sguardo mordendosi il labbro inferiore, nel tentativo di nascondere un sorriso che premeva per illuminagli il volto.
"Davvero?" chiese incredulo.
Ermal annuì. "Ti amo praticamente da sempre, solo che non me ne ero mai reso conto davvero."
"Ti amo anch'io" rispose Fabrizio.
Poi attirò Ermal a sé, facendogli posare la testa sul suo petto, e lo fissò mentre le sue palpebre si chiudevano lentamente.
Lo guardò dormire per qualche minuto, poi chiuse gli occhi a sua volta, stremato dalla stanchezza accumulata nei giorni passati - in cui non aveva chiuso occhio - e dal viaggio in macchina di qualche ora prima.
L'ultima cosa a cui pensò, prima di abbandonarsi definitivamente a un sonno profondo, fu che avrebbe voluto guardare Ermal dormire accanto a lui per sempre. E per la prima volta, quel pensiero sembrava avvicinarsi alla realtà.
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Sfogo. 24-05-17
Sono qui, e vi sto per raccontare​ la mia storia. Una meravigliosa storia fatta di alti e bassi, fatta di amore e odio. Tutto iniziò il 12/07/14, mi fidanzai con un ragazzo che conoscevo da un bel po' di mesi Lui era alto, slanciato. Aveva gli occhi castani, i capelli neri e la pelle olivastra (per non parlare del sorriso, quello era mozzafiato). Comunque, io lo amavo (come tutt'ora) eccome se lo amavo, per me non esisteva nessun altro al di fuori di lui Non dirò che i migliori mesi di relazione furono i primi, perché non è così La verità è che tutta la relazione fu migliore, perfetta. Insieme andammo ovunque, era una di quelle relazioni dove la pesantezza dello stare insieme tutti i giorni non si sentiva, poiché ogni giorno andavamo in un posto diverso e facevamo cose diverse Facemmo anche l'amore, ovunque Abbiamo fatto mille modi di "amore" Abbiamo fatto l'amore con gli sguardi, con gli abbracci, con i baci, con le risate, con le lacrime Poi abbiamo fatto anche quel tipo di amore, quello che una volta fatto non si torna più indietro, quello che ti lascia senza fiato se fatto con la persona che si ama E non mi vergogno di questa mia scelta, perché lo amavo più di chiunque altro Lo facemmo ovunque, al lago, al cinema, in macchina, in ascensore, in piscina e in qualsiasi parte della casa. Il 12/07/2015 facemmo un anno, lui mi scrisse cose bellissime e io gli risposi con altrettante cose. Sinceramente non c'è molto da dire su quel giorno, fu uno spettacolo solo vederlo. La nostra relazione iniziò a cambiare quando lui tornò in Perù per l'estate Fece così male doverlo lasciar partire quell'estate, piansi come non mai Purtroppo non riuscimmo a sentirci spessissimo, a causa del fuso orario quando io mi svegliavo lui andava a dormire A settembre, quando tornò, mi fece una sorpresa con un telo a dir poco bellissimo, però la nostra relazione cambió. Più battibecchi, più incazzature, più gelosie. Ma nonostante questo, il nostro amore riuscì a vincere sempre, fino alla fine di novembre. Il 18 novembre mi lasciò. Senza un motivo. Dio quanto piansi, ci restai malissimo. Io pensavo che lui mi amasse ancora, dato che è quello che mi faceva capire lui Continuammo ad andare a letto insieme per un altro anno e mezzo, fino a Febbraio/Marzo 2017. Quello fu l'anno e mezzo peggiore della mia esistenza. A capodanno 2015/2016 lui era a casa di una sua amica con un'altra nel letto, poi uscì con altre ragazze fino a fidanzarsi a maggio 2016 (in tutto questo noi andavamo ancora a letto insieme) Non capì molto quel periodo, perché pensavo sia che lui amasse lei e gli piacessi io, che il contrario. Dopo mille sofferenze arrivammo a capodanno 2016/2017. A gennaio iniziò a sentirti con una ragazza, io pensavo che fossero solo amici da quel che mi diceva lui Poi scoprì che a lui lei piaceva, ma intanto mi usava. Allora dalla rabbia scrissi a lei dicendole che io andavo ancora a letto con lui, e lei mi rispose con "Ma non ti fa schifo andare a letto con un ragazzo che mi bacia e che mi tocca?" Ci restai di sasso. Oddio se piansi, per me la mia vita sarebbe potuta finire lì, su due piedi Lui dal vivo, mentre gli piangevo di fronte, mi disse che non mi aveva dimenticata e che questa ragazza non gli piaceva Poi, quando se ne andò mi scrisse "Puoi dire ad Alessia che quelle cose non erano vere?" Lì, capii che la nostra relazione fosse letteralmente finita a causa sua Poi, mentre lui continuava ad uscire con lei, io mi organizzai per uscire con un suo amico, che inizialmente mi interessava Quando glielo dissi lui si ubriacò, mi scrisse che mi amava e che non avrebbe mai smesso di farlo, che per lui esistevo solo io e che non se lo sarebbe mai perdonato. Io ero al settimo cielo, ma non potevo farmi notare, quindi uscii con il suo amico il giorno dopo Appena tornai a casa, verso le 18, lo chiamai subito, dovevo vederlo Parlammo e decidemmo di tornare insieme, però lui mi chiede un mese di tempo per lasciar perdere Alessia. Il problema è che lui non si allontanò, o per lo meno questo mi fece capire Lui ci usciva ancora tutti i giorni e io non sapevo Se se la facesse o no. Non ne potevo esser sicura. Quindi dopo quasi un mese, gli dissi con il cuore spezzato che lui avrebbe dovuto dimenticarmi. Gli dissi che io lo avevo dimenticato e che mi piaceva un altro, quando non era assolutamente vero Lo vidi piangere, lo vidi a pezzi. Non potevo dire o fare nulla, volevo che lui mi dimenticasse cosicché potesse andare avanti con la sua vita. Volevo che lui fosse felice. Fu la scelta peggiore della mia vita, ora lui si sta per fidanzare e io sono qui a chiedermi il perché mi abbia dimenticata così in fretta Perché l'ho lasciato andare? Perché mi son fatta dimenticare? Perché mi sono rovinata così? Ti prego, spero che tu sia leggendo perché io non so più cosa fare o come fare Ti amo Sembrerò egoista ma ti voglio più di qualsiasi altra persona, o te o la morte La mia vita ora oscilla tra "sperare nel tornare con lui" e "morire" Sei stato il mio primo vero amore, e forse oggi io non sarò il tuo, ma tu rimani comunque il mio. Ti amo, e non come si ama un semplice fidanzato, ma ti amo come se stessi amando l'unica persona che mi ha resa veramente felice Quando vedo le tue storie con lei l'unica cose che penso è che sono stata una vera cretina, e lo capirò se non vorrai tornare con me Ma ti prego almeno leggi queste righe, voglio essere consapevole prima di perdere qualsiasi cosa che tu sappia il mio amore per te. Ti amo. Sei la ragione dei miei vivi giorni. -anthony
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Lo scoiattolo volante
Lo scoiattolo volante
 Faceva capolino da un grosso ramo, lo scoiattolo era comodamente accovacciato, era salito sull’albero al tramonto, da un paio di giorni non aveva più la comodità della sua tana, della sua mamma, era il percorso naturale, adesso doveva arrangiarsi, e anche la sorellina non c’era più. Era più emozionato che triste, un po’ spaventato dalla notte, non aveva chiuso occhio, doveva trovare una tana, ma adesso sorgeva il sole, si sentiva più sicuro, e come faceva ogni mattina, non smetteva di osservare gli uccelli, e si chiedeva quando avrebbe potuto volare anche lui.
Salì ancora più in alto, quell’albero gli avrebbe dato la sensazione di volare, aveva fame, ma prima doveva trovare un rifugio, dopo qualche metro un incavo, guardingo annusa, cerca di guardare dentro, è spazioso, probabilmente una vecchia tana di scoiattoli, si infila, sua, fortunatissimo, senza fatica, inizia a fare un po’ di pulizia, l’istinto gli diceva che se tra qualche tempo avesse cercato una compagna, le avrebbe dovuto far trovare cibo e una casa sicura e accogliente, si prodigò, in breve tempo la tana era splendente, e c’era anche da mangiare, probabilmente il vecchio inquilino ha avuto qualche problema ed è dovuto andare via, si addormenta stanchissimo, sentendo il canto degli uccelli, sognò di volare.
Era mattina inoltrata quando si svegliò, fece un rapidissimo giro della tana, soddisfattissimo, aveva già segnato il suo territorio, nessuno lo avrebbe mandato via, era così sicuro di se quella prima mattina da solo, mise il musetto fuori non aveva notato quel ramo che sembrava una passerella immensa verso il cielo, era molto in alto, e di quel ramo non se ne vedeva la fine, usci fuori, sempre guardingo, come l’istinto gli aveva scritto, e, più piatto possibile, si iniziò a percorrere quel ramo, girandosi di tanto in tanto a rimirare la sua bellissima tana. Ad un certo punto scorge una costruzione di paglia, ben stabile, il vento non la muoveva minimamente, e si avvicinò, molto cauto. Tirò su il musetto, cercò di guardare dentro, ma era alto, si appoggiò a quell’ammasso di rami ben saldati tra loro, e si allungò più possibile, vide con terrore artigli e becco, scappò via, in pochi secondi era nella tana, nel panico razionale che solo gli animali hanno, chiuse più possibile la fessura della tana e osservò in silenzio il ramo, lungo, dove quegli artigli e quel minaccioso becco erano diventati un puntino lontano. Non riuscì a mangiare, non riuscì a staccare lo sguardo dal ramo.
Arrivò il buio, nessun movimento in fondo, che si fosse addormentato, o che non si fosse accorto di altri movimenti, nel dubbio, continuò a osservare, quegli artigli non promettevano nulla di buono, ma crollò in un sonno profondo, e sognò, come sempre di volare, questa volta il sogno era meno bello del solito, gli artigli lo cingevano per le zampe anteriori e lo portavano in alto, si, ma troppo in alto, tanto che scomparve la il suo albero, la foresta intera, poi il verde che la circondava, poi tutto, e guardava verso il basso, vedendo solo la sorellina che piangeva perché lui si allontanava sempre più, allora la rincuorò, la abbracciò e giocò, sempre volando, con la sorellina, poi si svegliò, sorridendo, e pensò alla sorellina.
Dormì ancora, e ancora rimase sveglio, e così fino ad un ora dall’alba, decidendo una sortita in quel nido, aveva considerato che gli uccelli iniziano a cantare, a urlare, a fare un gran baccano appena sorge il sole, quindi se fosse stato veloce magari li avrebbe trovati ancora addormentati, e corse, come se fosse già allenato, e avesse i muscoli caldi, corse velocissimo e arrivò in pochissimo tempo a pochi metri dal nido, il buio iniziava a diventare meno intenso, prese coraggio, si rizzò sul nido e guardò dentro, quegli artigli erano chiusi su loro stessi e il becco riverso di lato, non scappò, rimase ad osservare, e anche quando un occhio lentamente si aprì, lo scoiattolo rimase impassibile, languido quell’occhio, sembrava chiedesse aiuto, lentamente si richiuse, lo scoiattolo decise di salire sul bordo del nido, e chiamò quell’essere ricoperto di piume: -Hey, tu, che fai? Chi sei? Stai bene?- L’occhio si aprì di nuovo, il becco provò a rispondere senza riuscire, lo scoiattolo realizzò che quell’essere aveva sicuramente bisogno di caldo e di mangiare, e gli disse: -Aspetta qua, non ti muovere, vado a cercare qualcosa da mangiare.- L’essere con becco e artigli aprì ancora l’occhio, per poi richiuderlo stancamente, ma in un solo istante sembrò aver capito.
Lo scoiattolo corse verso il suo nido, c’erano ancora alcune ghiande e faggiole, lui si rese allora conto di non aver ancora procurato del cibo, ne cacciato uccelletti o insetti, ne trovato uova. Si chiese allora come avrebbe mai potuto volare se avesse offeso degli uccelletti che magari glielo avrebbero potuto insegnare, rendendosi contro di una grande abbondanza di abeti, larici e pini, dei quali rami si sarebbe potuto nutrire, disse a se stesso che non avrebbe mai mangiato uccelletti, e, convinto di questo cercò qualcuno che potesse dirgli cosa avrebbe mangiato il piccolo con becco  e artigli dentro quel nido. Arrivò subito l’alba, e appena iniziò a sentire i vari canti degli uccelli corse verso di loro per chiedere, ma ogni volta che lo vedevano, scappavano via volando, ah, quanto avrebbe voluto volare anche lui. Ad un certo punto, disperato  per il vano tentativo di aiutare quell’essere, si mise a caccia di insetti, quasi certo che avrebbe gradito, dopo un paio di ore di caccia riuscì a fare un bel bottino e lo porto soddisfatto al nido, entrò , e vide l’occhio sempre più stanco del suo animaletto con becco e artigli aprirsi, aprì istintivamente anche il becco, lui iniziò piano piano a infilargli gli insetti, lentamente li mangiò uno per uno, poi chiuse l’occhio come per riposare, lo scoiattolo mangiò qualche noce e vegliò su quell’essere.
Nel primo pomeriggio qualche segno di miglioramento, quell’animale si sollevò, finalmente e allora lo scoiattolo vide che era grandicello, un piccolo grandicello, vide entrambi gli occhi, finalmente, quando si scosse capiì che era un uccello, aveva salvato un uccello, fantastico pensò, l’uccello tremò più volte, si scosse, le sue bellissime piume allora apparvero imponenti come il mantello di un re, lo scoiattolo lo salutò e gli chiese: -Chi sei? E come stai?- -Sono un maschio di aquila reale, e tu mi devi aver salvato la vita, grazie, senza te sarei scuramente morto di fame- Lo scoiattolo, rassicurato anche dal tono del suo nuovo amico, sorrise e gli disse di non fare sforzi, che avrebbe procurato ancora del cibo per lui, l’aquilotto si sdraiò di nuovo e fece un sorriso di ringraziamento. Lo scoiattolo corse via e tornò ancora con del cibo, questo per vari giorni, finchè l’aquilotto si rimise completamente, intanto parlarono, parlarono tanto, fecero amicizia.
L’aquilotto divenne forte e in grado di volare dopo alcune settimane, lo scoiattolo diventò anche lui un po’ più grande, lo scoiattolo scoprì dal suo amico che la madre e il padre sono volati via e non sono più ritornati, e vide che ogni volta che l’aquilotto ci pensava, lacrimava. Pochi giorni dopo iniziò a sbattere le ali, il cibo che gli portava lo scoiattolo serviva a tanto ma il suo istinto lo portava a cercare della carne, lo scoiattolo gli chiese mille volte quando avrebbe volato, e che sensazione avrebbe provato, e che glia vrebbe dovuto raccontare tutto nei dettagli, l’aquilotto già sapeva, per istinto, ma si ripromise, visto l’entusiasmo dell’amico, di raccontargli tutto, così arrivò il giorno del primo volo. Si sentiva forte e il suo amico scoiattolo faceva il tifo per lui, l’altezza era notevole, era sicuro che sarebbe riuscito al primo tentativo, raramente in natura, ed entrambi lo sapevano, ci sarebbe stato il secondo. Decisero che lo scoiattolo sarebbe rimasto a terra sotto l’albero, in caso le cose fossero andare male, e avrebbe fatto di tutto per evitare danni peggiori, erano davvero diventati amici.
Il primo volo, l’aquilotto ormai impaziente si spinse con un saltello in avanti e le sue maestose ali aprendosi e muovendosi con decisione e forza lo spinsero in alto, da sotto lo scoiattolo urlò di gioia nel vedere librarsi nel cielo, in quel modo elegante, il suo amico, l’aquilotto volteggiò, tornò sul nido, poi ripartì, lontano, lo scoiattolo salì sul loro ramo, e lo aspettò, dopo un’ora l’aquilotto tornò con degli uccelletti tra gli artigli, uno per se uno per l’amico, un bel pranzo, lo scoiattolo non aveva ancora avuto tempo per cacciare uccelletti, ma da quel giorno sapeva che le cose sarebbero cambiate. La settimana che seguì diede modo all’aquilotto di perfezionare le tecniche di volo, e ogni volta che tornava sul ramo faceva un resoconto dettagliato allo scoiattolo, fino a proporgli di portarlo con se appena sarebbe stato in grado di reggere il suo peso. L’entusiasmo dello scoiattolo a quella notizia lo fece saltellare di gioia tanto che rischiò quasi di cadere dall’alto.
Dopo un paio di mesi l’aquilotto diventò forte e sicuro, e in una delle ultime sue scorribande alla ricerca di prede vide una gabbia, grandissima che circondava un albero con dei rami, sui quali varie aquile, imprigionate. Si fece coraggio ma come si avvicinava alla gabbia planando silenzioso sentì la madre e il padre che gli intimavano di scappare con il loro consueto strillo, allertato per tempo risalì veloce e si nascose, studiando la situazione, aspettò la notte, e silenziosamente riuscì a sorvolare la gabbia enorme, l’albero usciva dal centro di quella imponente costruzione, apparentemente aperta, ma maledettamente chiusa bene, si posò in cima all’albero e chiamò i genitori, immediatamente entrambi si avvicinarono nell’ultimo albero alto utile e salutarono il figlio, chiedendogli come aveva fatto a resistere e diventare così grande e bello, lui gli raccontò tutto, ma chiese come avrebbe potuto liberarli, disperato. Nessuna soluzione apparente, nulla, i genitori sarebbero rimasti la dentro insieme a tanti altri loro amici.
L’aquilotto tornò l’indomani sul ramo, in lacrime spiegò l’accaduto al suo amico, che immediatamente gli disse di portarlo la per fargli vedere come era costruita quella gabbia, decisero per il tramonto, ora in cui nessuno li avrebbe potuti vedere, lo scoiattolo avrebbe volato, ma l’emozione di poter fare qualcosa per i genitori dell’amico superava addirittura l’emozione del volo tanto atteso. Arrivò la sera, impacciati decisero come fare, serviva la sicurezza dello spazio per non fare fracassare lo scoiattolo sui rami più bassi, serviva la certezza che la stretta degli artigli non gli avrebbe fatto dei danni, si posizionarono quindi su due rami a una decina di centimetri, l’aquilotto agguantò le zampe anteriori dell’amico e salì, sempre più in alto, lo scoiattolo nonostante il buio vide il cielo in tutta la sua luminosità, stava volando. Lui, scoiattolo, stava volando. Arrivarono dopo parecchio nei pressi della gabbia, ma allo scoiattolo serviva la luce, doveva capire cosa avrebbe potuto fare, aspettarono nascosti in un ramo altissimo tutta la notte.
All’alba lo scoiattolo fece un cenno all’amico, dicendogli di aspettare immobile senza farsi vedere, e scese dall’albero, in silenzio, velocemente fece un giro alla base della gabbia, e nulla, era saldamente infissa in terra, non era pensabile cercare di scardinarla, il padre del suo amico scese silenziosamente e disse, dopo avere salutato e ringraziato di cuore lo scoiattolo per quello che aveva fatto con il figlio, gli disse che secondo lui, in cima all’albero centrale lui sarebbe passato, ma che una volta dentro, cosa avrebbe potuto fare lo chiese a lui, lo scoiattolo cercò la porta di ingresso, e, miracolosamente era chiusa con un ramo dall’interno, un ramo di abete, chi li teneva prigionieri considerava anche la possibilità che qualche animale potesse usare quel pezzo di ramo, mettendolo infatti all’interno, sapeva quindi che fare, disse al padre di tenersi pronti, la notte gli avrebbe aperto la porta principale della gabbia, e tornò dall’amico, raccontandogli il suo piano. Emozionati aspettarono tutto il giorno in silenzio, immobili.
Il tramonto, poi la notte buia, come una squadra collaudata l’aquilotto prese il volo con il suo amico scoiattolo, e lentamente lo avvicinò all’albero al centro della gabbia, per poi tornare a librarsi in aria e guardare, con la sua vista, tutto quello che sarebbe successo a breve. Lo scoiattolo scese dalla cima dell’albero, si insinuò tra le maglie di acciaio della gabbia e l’albero, e passò, scese rapidamente e corse verso il cancello, si arrampicò e mangiò velocemente il ramo che teneva chiusa la porta, saltò giù e spinse con forza la porta grigliata che si spalancò in un istante, tutti i prigionieri, ad uno ad uno, volarono via, ultimo il padre dell’aquilotto, che fece un cenno allo scoiattolo, lo agguantò e lo portò con se, raggiungendo la sua famiglia già in volo, arrivarono al ramo carichi di gioia, emozionati, e felici.
Da allora, ogni volta che si poteva, lo scoiattolo volava in alto con i loro amici. Volava.
 Cesare
 3 Gennaio 2017
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