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#loren solis
solis-legacy · 10 months
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An updated photo of the Solis extended family. I love getting the chance to see them all together. Check out the family tree to see all of their connections.
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Pose Credit: @goldoradove
I also took this photo in some of their other outfits and it was fun to see what cas items I over use.
Formal:
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Party:
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Hot Weather:
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Cold Weather:
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lamilanomagazine · 10 months
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Napoli: Aldolà Chivalà live a Pessoa Luna Park
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Napoli: Aldolà Chivalà live a Pessoa Luna Park. Aldo è solito provocare vivaci discussioni dopo le serate nei locali del centro di Napoli e Mauro gli propone di lavorare sui suoi soliloqui. Dopo numerose sessioni di studio, Mauro riveste di musica elettronica gli Slam (genere di poesia orale tesa a catturare e scuotere lo spettatore) improvvisati da Aldo: ne viene fuori un incontro tra parole recitate e sample con la forma classica della canzone. Il duo inizia ad esibirsi nei locali di Napoli e provincia, il repertorio si arricchisce di serata in serata di nuovi brani. Nel 2011 esce Discontinuo, il primo disco. Il brano  omonimo diventa subito popolare nella scena underground di Napoli e provincia così come il videoclip girato dal regista Fabio Luongo che vede la partecipazione dell’attrice napoletana Loredana Simioli. Arriva l’invito di Gianni Simioli ad esibirsi nella trasmissione Operazione San Gennaro su Tele A, dove Aldo interpreta il brano Nun voglio ascì, slammando dall’interno di una tenda da campeggio. Dall’inizio del 2012 si unisce al progetto anche Valerio Vittorioso come Vj. Attraverso il suo video mapping visionario le performance del duo diventano ancora più suggestive. Continuano i live nei club in tutta la Campania e arriva l’invito ad esibirsi al primo maggio a Bagnoli del 2013. Durante la performance Aldolà passa il microfono ad alcuni operai in cassa integrazione presenti tra il pubblico che chiedono di parlare e la performance del duo viene interrotta subito dopo. Intanto si appassiona al progetto l’artista napoletano Daniele Sepe che inizia ad accompagnare Aldolà Chivalà dal vivo e spesso si aggiunge alle performance anche Gianluca “Shangò” Salerno alle percussioni. Nel Settembre del 2014 Aldolà Chivalà insieme a Daniele Sepe und rote Jazz fraktion suona sul palco di Eutropia nell’ambito della Festa dell’altra Economia a Roma. Nel 2015 Discontinuo diventa un disco più libro con disegni dell’artista Franco Silvestro commentati da Aldolà Chivalà per Roundmidnight Edizioni. Nel 2019 esce il nuovo disco Spostati un po’ con l’etichetta MrFew. Il Pessoa Luna Park è ispirato ai programmi di riuso transitorio degli spazi urbani presenti nelle maggiori capitali europee, Luna Park Urbano è un progetto finanziato, nell'ambito del Bando Fermenti, dal Dipartimento per le politiche giovanili e il Servizio civile universale con il patrocinio del Comune di Napoli e in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche giovanili e al Lavoro. Negli spazi dell'Ex Ospedale Militare, anche quest'anno location di eccezione, il Pessoa Luna Park si rivolge principalmente ai millennial, ma strizza l'occhio a diverse generazioni grazie alla ricca programmazione e alla presenza di laboratori, workshop, giochi, un'area per i bambini e alla musica live. Si conferma la collaborazione con l’artista Roxy in The Box, con il ritorno della Biliardina Trans, un calcio balilla in cui al posto degli omini tradizionali ci sono 22 personaggi femminili di rilevanza mondiale come Rita Levi Montalcini, Sofia Loren, Anna Frank e Ricchioners, un tiro al bersaglio contro l'omofobia e due nuove installazioni site specific, Bigotteria e Naturaless, realizzate in collaborazione con Pessoa Luna Park.   Le aree del Luna Park comprendono: Musica: jam session, live di musica indipendente, party tematici, nuovi format musicali e dj set. Playground: giochi da tavolo in formato XXL a cui partecipare da soli o in squadra, con un torneo di giochi notturno ogni settimana con le installazioni artistiche di Roxy in the Box, dissacranti, ironiche e ultra-Pop come l'artista partenopea Mercato Green & Picnic: ogni domenica, per trascorrere una giornata all'insegna del recupero di oggetti e alimenti che altrimenti andrebbero sprecati Area Kids: con attività e laboratori dedicati ai più piccoli L'ingresso al Pessoa Luna Park è sempre gratuito. La capienza è limitata, quindi la prenotazione è fortemente consigliata al link:http://pessoalunapark.it/prenota/   Pessoa Luna Park Ex Ospedale Militare, Vico Trinità delle Monache, Napoli 9 giugno - 6 agosto 2023 Giovedì e venerdì dalle 18.00 all'1 di notte, sabato e domenica dalle 12:00 all'1 di notte.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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huedskys · 2 years
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send 🎰 for me to put our muses into a random list generator then post the first five as potential ships!
manuela  &  nova
cartia  & hera
ember  &  solis
natasha  &  zara
loren  &  landon
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corallorosso · 3 years
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CE LO DISSERO LE MOSCHE 39 ANNI FA LA STRAGE DI SABRA E CHATILA di Robert Fisk “Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare. Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera. All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto. Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento. Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.» Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra. Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote. Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? (...) Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria. In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato. Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto. Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta. Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore. (...) Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena. Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo. Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro. (...) . I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato. (...) Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa. Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato. Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi. Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile (...) (Occhi sul Mondo)
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chismesdefamosos · 4 years
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7 Datos Curiosos de Miguel Bosé que NO eran tan Bueno como lo Creías
El “Papito” consentido de Europa y Latinoamérica, comenzó desde muy joven su carrera artística, apoyándose en la lectura, la danza y por supuesto, en el canto. Se codeó con los grandes.  pablo picasso lo acompañó en su primer dia de colegio, y en su casa se paseaban grandes personajes como ernest jemínwey y sofía lorens.
Tras casi 50 años de carrera, Miguel ha logrado colaborar con artistas nacionales, internacionales, así como incursionar en diferentes proyectos musicales y cine.
Se corrió el rumor de que a su padre no le gustaban los luks afeminados de su hijo, ni su profesión, aunque pasado el tiempo limaron asperezas.
Sus famosos duetos con personajes como Shakira, Natalia Lafourcade, Alejandro Sanz, Juan Luis Guerra, Marco Antonio Solis, Juanes, Ricky Martin, Julieta Venegas, Paulina Rubio, Ana Torroja, entre otros artistas más, demuestran su lado más camaleónico, que lo han hecho mantenerse a flote en la industria musical actual, ahora en oídos de las generaciones más jóvenes.
Muy poco se conoce sobre la información que se remontan a sus inicios, es por ello que te presentamos 7 datos curiosos sobre el intérprete de “amante bandido” en el día de su cumpleaños, hoy 3 de abril. (1956).
1.  Se ha cambiado 3 veces el nombre. Primero se llamaba luis miguel gonzalez bosé, después se llamó miguel dominguín bosé y finalmente miguel bosé dominguín.
2. Tiene 4 nacionalidades. Nació en panamá, tiene nacionalidad española, italiana y colombiana.
3.  Llegó a grabar canciones en japonés y mandarín.
4.  Su mentor fue nada mas y nada menos que el gran camilo sesto.
5. fue padrino de la banda timbiriche en los 80.
6.  Incursionó en el cine como travesti en tacones lejanos de pedro almodóvar.
8. durante 26 años ocultó su relación sentimental con el escultor español nacho palau.
Suscríbete para más despacito despacito.
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novapark · 5 years
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#89 Solie Loren Ebonstark
Mom: Tulip
Dad: Jarvis Ebonstark (mine) 
Traits: Brave, Charismatic
Sign: Virgo
Faves: Vegetarian Salmon, Pop, Grey
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tarditardi · 5 years
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7/9 Praja - Gallipoli (LE) - Si chiude una stagione di successi con Big Mama
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L'estate scatenata della Praja di Gallipoli (LE), super discoteca estiva gestita da Musicaeparole, colosso del clubbing del Sud Italia e non solo (gestisce infatti tra gli altri che il Tinello all'Elba), non è ancora finita.
Il mese di agosto 2019 si è chiuso con un doppio dj set d'eccezione, che il 31 del mese scorso ha messo in console l'italiano  Rudeejay, mentre dalla Svizzera è arrivato Dj Antoine, un vero maestro del divertimento più scatenato. Ha pure scritto un brano, Bella Vita, che è più o meno lo slogan della Praja, che è la bella vita… Le foto ed i video dell'evento parlano da soli. A fine agosto a Gallipoli, alla Praja, si balla davvero forte e in tanti.
E che succede sabato 7 settembre? L'estate della Praja si conclude in bellezza con Big Mama, la festa hip hop & urban di Musicaeparole: un party Big Mama è pensato per far muovere a tempo chiunque, anche chi di solito non lo fa. Lo slogan del party è lo stesso di questa stagione ormai quasi conclusa: we will rock you, ovvero ti daremo energia, ti daremo la scossa… perché di energia alla Praja se n'è respirata un bel po'. Eh si, proprio un bel po'.
Praja - Gallipoli (LE) info:  348 629 7999 http://www.prajagallipoli.it/Lungomare Lido San Giovanni - Gallipoli (LE)
Praja "La Bella Vita" di Gallipoli, un locale in continua evoluzione, location storica della litoranea gallipolina sempre attenta alle novità ma in grado di mantenere uno stile ed una classe inconfondibile. Situata sulla costa salentina, a Baia Verde, la Praja è il risultato di innovazione continua incastonato nella natura più selvaggia. Arredi e strutture, accompagnano ed esaltano la location naturale: salotti privè di pelle bianca si accostano alle strutture in acciaio delle dance zone. Punto di riferimento per serate magiche e suggestive, propone solo e soltanto grandi eventi con grandi dj.
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ginevrabarbetti · 5 years
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Dario Argento: “La solitudine non è un film dell’orrore”
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Di certi momenti conservo foto scattate senza macchina, immagini ben impresse nella pellicola della mia testa. L’ultima aggiunta all’album dei ricordi è quella di Dario Argento oggi sul portone di casa, al primo piano di un bel quartiere residenziale, che m’invita a entrare. Con gli occhi che ridono e un fare gentile, si scusa per il disordine che invece non c’è. Tanti invece, e ben disposti tra gli scaffali della libreria, i premi di una vita e i dvd in doppia fila. In ogni angolo il sole a mezzogiorno entra dalle finestre, senza chiedere il permesso. “Di respirare questo silenzio non potrei farne a meno, mi riporta al centro delle cose, è così mio” dice, mentre aspetta che mi sia seduta, per poi farlo anche lui.
In questo momento immagino di avere lo stesso stato d’animo di quando lei, più o meno alla mia età, ha intervistato i Beatles.  
Emozionata tanto da non riuscire a mettere insieme le parole?
Esattamente. Cosa ricorda di quando faceva il giornalista? 
È stato uno dei momenti più significativi della mia vita, un crescendo veloce che ricordo con piacere. Ho imparato la scrittura rapida, d’impulso, quel pensare che nasce e si traduce immediatamente tra le righe di una pagina. Poi, per una serie di circostanze fortuite, sono diventato prima critico cinematografico e poi sceneggiatore. Le mie storie funzionavano, venivano scelte anche da registi importanti, come Leone e Bertolucci.
Le capitava di andare sul set? 
Spesso, e quella confusione delirante non mi piaceva per niente. Preferivo di gran lunga stare da solo sul mio foglio, e scrivere. Mi son detto che mai avrei fatto il regista, e invece.
E invece, fortunatamente è andata come è andata. 
Avevo scritto la sceneggiatura de L’uccello dalle piume di cristallo. Mi pareva potesse funzionare, e in effetti andò bene. Pensi che l’idea è nata al caldo torrido di una spiaggia tunisina, dove mi ero beatamente addormentato con la testa al sole. Al risveglio sono rimasto in una sorta di torpore, dove visualizzavo il susseguirsi delle scene. È proprio in quel preciso istante, tra sogno e realtà, che vengono fuori le intuizioni migliori.
Quel film ebbe il successo che si meritava e giornalisti iniziarono a interessarsi a quel ragazzo così geniale. Il primo che scrisse di lei fu un giovanissimo Luigi Cozzi, che poi è diventato suo sceneggiatore.
M’intervistò vestito da militare, era in servizio qui a Roma. E ancora oggi è uno dei miei più stretti collaboratori.
Chi sono gli autori fondamentali che un suo braccio destro deve assolutamente aver letto? 
Senza dubbio Edgar Allan Poe, per quello spirito unico e fantastico con cui riesce a toccare tematiche tanto spaventose. Poi H.P. Lovecraft e la sua fantasia sfrenata, rarefatta, ovattata. Era capace di creare un’atmosfera onirica unica. Il sogno torna, ed è molto importante, anche nei miei film, dove spesso gioco con le lentezze, intervallate da velocità improvvise.
Il sogno è importante tanto quanto la solitudine?
Amo la solitudine. Quando ne sento parlare in senso negativo, non riesco a comprendere come possa essere motivo di disagio. Pensi, ti lasci andare alla fantasia. Stare da soli è tanto fondamentale quanto meraviglioso. Quando scrivo i miei film, mi ritiro in alberghi piccoli e anonimi, dove spero nessuno si accorga che esisto, e lì rimango il tempo che serve. Cerco una chiusura con il mondo, quasi fosse una prigione. Trovo invece tanto ossigeno creativo. Profondo Rosso è nato in una villetta di famiglia vicino a Roma, dove nessuno andava più da anni. Avevano anche staccato i fili elettrici, non c’era più niente. Solo la scrivania e una finestra grande con un bel panorama: ho ancora negli occhi quelle valli, m’incantavo a guardarle.
Mi sta dicendo che il film più pauroso di sempre è nato in questo scenario bucolico?
Quando si abbassava il sole e rimanevo al buio, solo con una candela a scrivere le scene più cruente, non le nego che avevo una discreta paura.
Dev’essere fantastico riuscire a terrorizzarsi in totale autonomia. Scommetto che le piace viaggiare senza compagnia. 
Adoro farlo, è sempre stata la mia passione. Ho girato il mondo: Sud America, Oriente, India. Partivo e rispondevo solo a me, vedevo il bello e non dovevo necessariamente verbalizzare, ché poi a parlarne si riduce tutta la magia dell’esperienza. In India mi sono avvicinato alla dimensione spirituale dei guru, veri medici dello spirito, e al fascino nella trascendenza. Di Haiti ricordo invece i riti voodoo, alcuni impressionanti, altri meno. Sento ancora il calore delle fiamme che si levavano altissime dalle cataste di legno e le “maman" che gridavano come degli ossessi.
Lei si fida delle predizioni? 
No. Però una volta, in Brasile, mia madre incontrò una santona, che con un sigaro stretto tra i denti le chiese come stesse mio padre. Dopo poco arrivò una telefonata, l’avvertivano che Salvatore si era rotto una gamba in un incidente a Roma.
E agli alieni, ci crede? 
Certo, esistono eccome. Fortunato chi ha l’apertura mentale e la sensibilità così spiccata da saperli vedere, riconoscere e accogliere. Credo fortemente nell’anima, nel contatto speciale che si crea tra certe persone.
Allora sicuramente avrà visto qualche creatura tanto strana da esser degna di nota. 
Una volta ero in Messico, nella biosfera, la zona più fitta di vegetazione. Guidavo, e a un certo punto un essere non ben definito attraversò la strada, proprio davanti a me. Era altissimo, coperto di peli, mi guardò fisso negli occhi per poi scappare nella foresta. Dopo qualche minuto di comprensibile disagio, chiesi agli abitanti del vicino paese se sapessero qualcosa di quella spaventosa creatura. In effetti mi confermarono che una sorta di yeti, mezzo animale e mezzo uomo, si aggirava da quelle parti. Peccato che nessuno l’avesse mai visto. Io sì però, e anche bene.
Non posso fare a meno di pensare a quante storie meravigliose abbia raccontato la sera prima di dormire a figlie e nipoti. Cosa conserva e ritrova umanamente, invece, di sua madre e suo padre? 
Mia madre Elda faceva la fotografa, era specializzata in ritratti femminili, tutte le più grandi attrici di un tempo sono passate dal suo obiettivo. Andavo a scuola vicino al suo studio e finite le lezioni, correvo da lei. Ho ancora nel naso l’odore dolciastro di un cerone particolare che usavano sul viso, per il trucco. Me ne stavo buono a aspettare che finisse di lavorare, in una piccola stanza in fondo al corridoio.
Lo stesso corridoio che torna in molti suoi film. 
È vero. Insieme alle scale, alle finestre, ai teatri. In una scena di Suspiria c’è un carrello che corre lungo un corridoio, senza che succeda niente, avanza e basta. E pensare che proprio quella è la scena che crea nel pubblico più inquietudine. Ci sono spesso dei richiami alla psicoanalisi di Freud, agli aspetti più profondi del subconscio, a quando eravamo feti nel ventre materno, prima di nascere. Girare film è anche un modo di fare analisi.
E in fondo al corridoio, nello studio di sua madre, chi erano le attrici che si facevano ritrarre? 
Le più importanti: Cardinale, Loren, Lollobrigida. Stava ore a regolare le luci per illuminare quei volti meravigliosi, e metterne ancora più in evidenza i pregi. Questo aspetto l’ho ritrovato nei miei film, una sorta di attenzione constante nel capire le donne, nel descriverle. Mentre cerco di tradurle mi trovo molto a mio agio, mi piace farlo. Rivedendomi, ho visto anche lei, il suo lavoro.
Di suo padre Salvatore, che ricordi ha? 
Faceva il produttore, un lavoro che lo portava spesso lontano. Eravamo grandi amici, andavamo al cinema, a cena, parlavamo di tutto come si fa con gli affetti più cari, era prezioso ed estremamente importante per me.
Lei ha una grande passione per l’opera, che spesso sa far paura più di un film horror. 
Dice bene, ci sono delle azioni sceniche terrificanti. Ho lavorato al Macbeth, alla Lucia di Lammermoor, esperienze bellissime. È stata mia nonna ad avermi trasmesso questa passione. L’accompagnavo al Teatro dell’Opera di Roma, spettava a me in quanto nipote più grande, seppur piccolissimo. Ne ho viste tante. E le ho amate molto, anche il balletto, con quei corpi. Le sono profondamente grato, ed è un pensiero che ritorna spesso.
In Horror. Storie di sangue, spiriti e segreti racconta episodi fantastici legati ai posti in cui è stato. 
Sono città che mi hanno colpito, lasciandomi qualcosa dentro l’anima. Nel primo capitolo, dove sono protagonista, la storia si svolge agli Uffizi. Sale che mi sono rimaste nel cuore mentre giravo La Sindrome di Stendhal: prendevo la torcia, in piena notte, e approfittavo per vedere tutta quella maestosità pittorica. Provavo una grande emozione, quasi soggezione.
Sono racconti che si tradurranno poi in film? 
Forse quello ambientato a Merano. Il bambino fantasma è un ottimo punto di partenza per una pellicola.
Come darle torto. Dove le piacerebbe vivere, se non a Roma? 
A Parigi. Mi ci trovo ancora molto bene, si respira costantemente aria di cultura. Ho iniziato proprio lì ad amare il cinema, mentre studiavo al liceo. Andavo sempre alla cineteca, dove vedevo almeno due film al giorno. Sono stati il mio pane: l’espressionismo tedesco, Bergman, gli horror americani degli anni ’40 e ’50.
Nella sua autobiografia Paura, racconta le esperienze di una vita. Quali sono stati i momenti emotivamente più faticosi da ricordare e trascrivere?
Probabilmente gli anni in cui avevo tendenze suicide. Rievocando certi passaggi sono riaffiorate diverse cose di quel periodo, che effettivamente è stato doloroso da rievocare. E pensare che volevo uccidermi in un momento apparentemente sereno, sentivo forte una sorta di attrazione verso la finestra della mia stanza, mi chiamava. Un amico medico mi consigliò di metterci un armadio davanti: “se devi pensare a spostarlo ogni volta, nel frattempo ti passa la voglia”, disse. Così è stato, e sono ancora qui. Ho sofferto anche nel ricordare la mia prima storia d’amore per un acuto senso di dispiacere, o quando mi sono separato.
Quello che riscriverebbe mille volte, invece? 
Senza dubbio quando le mie figlie sono venute a vivere con me, quella sì che era felicità.
Ginevra Barbetti 
Foto Alex Astegiano 
MarieClaire.it 
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academiasbodyticket · 2 years
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fotopadova · 3 years
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Mario De Biasi. Fotografie 1947-2003
di Cristina Sartorello
--- A Mario De Biasi (Sois, Belluno, 1923 -  Milano, 2013), tra i più straordinari interpreti del Novecento, instancabile viaggiatore e osservatore del mondo, è dedicata la grande retrospettiva che la Casa dei Tre Oci di Venezia presenta dal 13 maggio 2021 al 9 gennaio 2022, dal titolo: “Mario De Biasi. Fotografie 1947-2003”.
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                                                                        ph©Cristina Sartorello
256 fotografie, metà delle quali inedite e vintage ripercorrono l’intera produzione del fotoreporter, dagli esordi della sua collaborazione con la rivista Epoca, fino agli ultimi lavori. Per la prima volta, in questa mostra, le fotografie di De Biasi vengono accostate e integrate con i disegni dell’autore in cui soli, teste, cuori raccontano la poliedricità e la complessità del lavoro dell’autore.
L’esposizione è curata da Enrica Viganò in collaborazione con l’Archivio Mario De Biasi, organizzata da Civita Tre Venezie con Admira e promossa dalla Fondazione di Venezia.  
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                                     Burano, 1958 © Archivio Mario De Biasi/courtesy Admira, Milano
Frutto di un’immensa ricerca nell’Archivio De Biasi, il percorso espositivo procede diacronicamente per nuclei tematici attraverso dieci macro sezioni, passando per il racconto dei grandi eventi storici, i viaggi esotici, i ritratti di personaggi potenti e famosi, le scene di vita quotidiana, i volti anonimi, sfociando poi nel concettuale e nell’astratto.
“Era il momento!, osserva la curatrice Enrica Viganò. Si sentiva la necessità di una mostra antologica che celebrasse il talento di Mario De Biasi in tutte le sue sfaccettature. Il fotoamatore neorealista, il fotoreporter di Epoca, il testimone della storia, il ritrattista di celebrità, l’esploratore di mondi vicini e lontani, l’artista visuale, l’interprete di madre natura, il disegnatore compulsivo e creativo. Tutto il suo lavoro è un inno alla vita”.
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                    Guardarobiera, New York, 1956 © Archivio Mario De Biasi/courtesy Admira, Milano
Nel 1944 De Biasi era stato deportato a Norimberga e li casualmente aveva trovato una rivista di fotografia, si era appassionato alla materia, decidendo in seguito di farne la professione della sua vita; tornato a Milano girava in bicicletta nei paesi vicini e nel 1948 fece la sua prima mostra fotografica professionale; nel 1953 la Mondadori gli aveva comperato dieci fotografie e nel 1953 iniziò la sua collaborazione con Epoca, per cui fece 132 copertine, che raccontano la vita di tanti paesi, girando i cinque continenti.
Tra i tantissimi inediti, la Casa dei Tre Oci espone, per la prima volta, l’intera sequenza della fotografia più celebre e probabilmente più amata di De Biasi “Gli Italiani si voltano” realizzata nel 1954 per il settimanale di fotoromanzi Bolero Film e scelta da Germano Celant come immagine guida della sua mostra al Guggenheim Museum di New York, “The Italian Metamorphosis 1943-1968”, nella quale una splendida Moira Orfei vestita di bianco, passeggia per il centro di Milano, attirando lo sguardo di un gruppo di uomini. Per ottenere questa foto l’attrice dovette camminare ancheggiando dalla Galleria a piazza Duomo tutto il pomeriggio, fino ad ottenere lo scatto voluto da De Biasi.
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                        Sofia Loren, Venezia, 1958 © Archivio Mario De Biasi/courtesy Admira, Milano
Gli anni ’50 del Novecento costituiscono uno dei fulcri del percorso espositivo con le immagini di un’Italia devastata dalla guerra, dove si coglie, tuttavia, la voglia di rinascita e di ricostruzione, o gli scorci memorabili di New York; poi la prospettiva ravvicinata dell’insurrezione ungherese del 1956, sotto il tiro delle pallottole, che feriscono De Biasi e gli fanno guadagnare il titolo di “Italiano Pazzo”.
Sono brani visivi “di un ‘900 che oggi appare lontano, precisa Denis Curti, direttore artistico della Casa dei Tre Oci, ma che non smettono di muovere curiosità”.
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             Al confine tra Austria e Ungheria, 1956 © Archivio Mario De Biasi/courtesy Admira, Milano
Al 1964 risalgono due incredibili servizi, che testimoniano l’ostinazione di De Biasi: quello in Siberia, con temperature di 65 gradi sotto lo zero, protetto da una tuta termica rossa ed i bambini del luogo gli correvano incontro dicendo: “un cosmonauta è tra noi” e quello realizzato in notturna tra le lingue di lava dell’Etna in eruzione, con la suola delle scarpe che si era staccata, mentre stava scendendo.
Non mancano momenti di leggerezza e intimità, che De Biasi ha indagato in tutti e cinque i continenti con le foto dei baci, dei barbieri di strada e delle pause pranzo realizzate da Londra a Parigi, da Roma a Vienna, dal Cairo a Teheran, dalla Thailandia al Brasile, da Israele al Nepal. Proprio alle pause pranzo è dedicata una grande installazione raffigurante un mappamondo, sul quale sono esposte 40 fotografie vintage, di piccolo e piccolissimo formato, ciascuna connessa al luogo in cui è stata scattata. L’intento è di restituire il senso di universalità e il taglio antropologico della ricerca di Mario De Biasi, che ritrova in un semplice gesto quotidiano un forte senso di comunanza tra culture lontane e diverse.  
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                                                                           ph©Cristina Sartorello
In mostra anche le immagini dello sbarco sulla luna, della mensa della Nasa, dove anche lui ha mangiato, i suoi più famosi ritratti legati al Festival del Cinema di Venezia, tra i quali quelli di Brigitte Bardot, Fellini e Masina, Romy Schneider, Maria Callas; gli innumerevoli viaggi, in particolare a Hong Kong, in Sud America e in India.  
Mario De Biasi faceva ritratti sia verticali che orizzontali perché non sapeva se sarebbero stati pubblicati dal giornale in una pagina o due, e voleva essere sempre pronto; per realizzarli cercava di mettere a suo agio chi doveva immortalare, anche se il soggetto non lo desiderava, come il maestro Toscanini, parlando delle loro passioni, riuscendo ad ottenere uno scatto naturale, addirittura in pigiama.
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                                                                           ph©Cristina Sartorello
L’ultima sezione si concentra sull’amore per la natura, di cui sono rivisitati forme e segni, resi in foto come una sorta di “poesia visiva” con scatti che sfociano nel concettuale e nell’astratto.
Accanto alle fotografie sono esposti molti materiali, volumi, i numeri originali della rivista Epoca, appunti, quaderni e due approfondimenti audiovisivi. L’intervista di Laura Leonelli in cui Mario De Biasi racconta la sua esperienza di fotografo e una proiezione di immagini a colori, selezionata dalla figlia e responsabile dell’Archivio, Silvia De Biasi, con i servizi per la collana di Epoca intitolata Le meraviglie del mondo.
Il fotografo girava sempre con tre corpi macchina, due a colori e uno in bianco e nero, con tre obiettivi, ed aveva progettato una borsa per contenere tre corpi macchina e nove obiettivi; nella sua lunga vita ha pubblicato ottanta libri di cui quattro sulla natura e sedici su Milano.
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                                     Messico, 1968 © Archivio Mario De Biasi/courtesy Admira, Milano
Oltre a essere un grande fotografo, Mario De Biasi, appassionato di arte e di pittura, era anche un originale disegnatore. Un universo di tinte forti e infinita fantasia “riveste” la Casa dei Tre Oci, restituendo continuità stilistica all’allestimento lungo i tre piani del palazzo neogotico con la raffigurazione di soli, occhi, teste e cuori.
“Perché dovunque s’incontra la vita s’incontra la bellezza. Basta guardarsi attorno per vederla: anche in una foglia, in un sasso, in un balcone fiorito. Anche nei riflessi in una pozzanghera.
Non riesco a stare fermo senza la fotografia, nonostante l’età; per me la fotografia è tutto!”  Mario De Biasi
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Dal 13 maggio al 27 giugno 2021, sarà inoltre possibile vedere la mostra "Dedalo" di Veronica Gaido, in cui prosegue il percorso della Casa dei Tre Oci verso la fotografia contemporanea, realizzata dall’autrice a pieno formato, con lunghe esposizioni, e con l’uso del drone, in un  ottimo lavoro dedicato a testimoniare e interpretare in modo onirico la realtà degli spazi produttivi di  Sanlorenzo, primo cantiere navale monobrand al mondo per la produzione di motoryacht sopra i 24 metri di lunghezza.
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La mostra di Mario De Biasi è visitabile, nel rispetto delle attuali norme di sicurezza, alla Casa dei Tre Oci a Venezia (Fondamenta delle Zitelle 43, Giudecca) fino al 9 gennaio 2022, con apertura tutti i giorni dalle ore 11 alle 19, tranne il martedì.
Sabato e domenica aperto su prenotazione con almeno un giorno di anticipo come da attuali disposizioni governative.
Dal lunedì al venerdì la prenotazione non è obbligatoria ma è consigliata.
Per prenotare, scrivere a [email protected] oppure online: https://bit.ly/3vAru2u
La fermata del vaporetto è  “Zitelle”:
Da piazzale Roma e dalla Ferrovia linea 4.1 - 2 / Da San Zaccaria linea 2 - 4.2
Dal 13 al 31 maggio promozione speciale per tutti i visitatori con biglietti al costo di 9 € ridotto speciale per tutti; dal 1 giugno 2021 prezzo intero a 13,00 € intero.
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solis-legacy · 2 months
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The extended family comes over that evening to celebrate Candlefest.
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eliophilia · 6 years
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Non le capisco ste serate soli maschi e sole donne, no davvero, mi ripeto, io farei una serata sole donne solo se fossimo io, Meryl Streep, Penelope Cruz, Sophia Loren e Shay Mitchell.
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yesiamdrowning · 6 years
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sporcaccioni.
Stanno agendo tutti come da copione. Il premio Oscar specializzato da una vita nel ruolo del bipolare ne approfitta per fare outing, il suo collega immedesimato dal 1967 nella parte del (finto) tonto casca dal pero, il mega-super-produttore parla tramite avvocati e il bassista di heavy metal, beh, il bassista heavy metal si incazza di brutto.
Tutti si dicono estranei ai fatti, e anche disposti a chiedere aiuto in una clinica di quelle che riportano sul pianeta terra i sesso-dipendenti. Ma chiariamo bene una cosa: il problema non è mai stato il sesso. La verità è che superata un’età, c’è una sola ragione per usare il proprio status per entrare nelle mutande di qualcuno: perché, perdonatemi la dialettofilia, “cumannari  è megghiu ca futtiri“ e concede coprire la propria viltà con un certo stile (quel ”Può avere chiunque, figuriamoci se…” che sentite in giro). Se infatti si può ritrovare nell’insicurezza smargiassa dettata dall’età una giustificazione quando si parla di adolescenza (come raccontato in centinaia di college-movie, quella mi pare l’età più difficile della vita, quella in cui riuscire ad avere una propria vita sessuale è più feroce, ma in cui è importantissimo trovare un proprio equilibrio), son ridicole se riferite a un adulto. Allora comandare, e la molestia è un indubbio atto di intimazione, è meglio che fottere significa che fottere lo può fare chiunque, anche il povero (il fan, l’elettore, la debuttante, eccetera). Invece il comando, precluso ai poveri (o ai fan, gli elettori, le debuttanti, eccetera), spetta a chi, forte del proprio essere, impone qualcosa per ciò che è, per il ruolo che ricopre, e nient’altro. E quando una cosa non è vera ma tu non lo sai, si tratta di un errore. E’ il caso dei capitani delle squadre di rugby che si trombano tutte le ragazzine più belle della scuola per confermare sé stessi (a sé stessi per primi e) agli altri ma, Juno docet, aspirano da sempre alle tipe strane, “solo che non lo ammettono”. Ma se lo sai e lo imponi, allora diventi abominevole, tu e la falsità. Invece, dopo che il mondo del cinema  è stato colpito e affondato dalla bomba Harvey Weinstein, quando sul produttore di Hollywood sono piovute addosso le accuse di molestie sessuali da una mezza dozzina di attrici, ecco cosa ha detto il collega e regista Oliver Stone: “Penso che a livello internazionale Weinstein sia vittima di ipocriti giustizieri”. Già basterebbe. A fargli eco invece ha pensato la scrittrice Natalia Aspesi che, rimarcando il concetto da “esperta” di Questioni di Cuore, come il nome della rubrica che inspiegabilmente tiene su Repubblica, crede di trovare nelle varie denunce “un’insincerità di fondo. Sono un lamento tardivo. Un coro che non tiene conto della realtà dei fatti”. Quale sarebbe? Ce lo spiega la scaltra stilista Donna Karen: “Hollywood ha sempre agito così, le ragazze sono sempre state consapevoli. Avevano fretta di arrivare. E più i loro genitori, che spesso le hanno accompagnate senza scrupolo alcuno”. Nessuno ha parlato di “nuovo orrore che si ripete“. Non ha detto che “l’uso della propria posizione per azioni comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui è assolutamente inaccettabile”. No, quello che preme sottolineare ai lor signori e signore è che al mondo non esistono leoni e agnelli. Com’è buffo che il resto del mondo creda ancora a questa “favoletta” fatta di orchi da uccidere e belle da salvare, consenzienti o meno che siano. E ci si interroga: scalfirà in qualche modo predatori e vittime? Avrà conseguenze sui prossimi campioni d’incassi in uscita? Sottintendendo che cambierà poco e niente. Come il disvelamento d’un segreto di Pulcinella. Stuzzicante, ma noto. Tanto più se dei sogni sporcaccioni degli uomini, meglio se in ombra, reticenti, segreti, se ne parla già ovunque (si pensi all’uso voyeuristico e fintamente perbenista fatto da Le Iene).
Non è passato molto tempo che, alle accuse contro Weinstein, sono seguite quelle contro Kevin Spacey, Dustin Hoffman e lo storico bassista di Manson, Twiggy Ramirez - come se non fosse bastata la notizia dello stupro (ehm…) di gruppo di cui sono stati accusati a settembre (quasi) tutti i Decapitated. Ma il feedback ottenuto è stato, un po’ ovunque, di nuovo lo stesso. Perché appena una cosa ottiene un minimo di rilevanza tendiamo a buttarla giù, a minimizzare. Si vede che ci piace la merda, e chiunque voglia distaccarsene viene visto con sospetto, come Courtney Love, che aveva detto dei party di Weinstein già nel 2OO5 e il commento più autorevole credo sia stato: “Fatte n’altra canna!”, se non direttamente con disprezzo, come Asia Argento, che in quanto cagna a recitare sembra non esserle concessa nemmeno una dignità come persona.
Quindi il problema non è mai stato il sesso, siamo noi. E la costanza con cui lo sopravvalutiamo o sottostimiamo.
Con grande disappunto del sottoscritto, anche l’opinione pubblica italiana si è fermata all’idea che chi ha già tutto non voglia di più, rimanendo decisamente contraria a qualsiasi prospettiva accusatoria nei confronti dei molestatori - più dei due terzi dei commenti sui social sembrano volere discolpare i sospettati - e, per la prima volta, anche i commentatori di tendenza sinistroide, ovvero gli stessi che scrissero peste e corna dei bunga-bunga di Berlusconi, si sono visti concordi sull’idea che le vittime se la siano andata un po’ a cercare (”Se mi chiedi un massaggio e te lo concedo, poi non mi posso stupire di come vada a finire” come letto su un giornale che ha avuto tra le firme Montale e Calvino). Se però nel XXI Secolo dovessimo ancora prendere per buono il consiglio della Loren, l’attrice italiana più nota al mondo che disse di essersi sposata nel 1966 “per proteggermi, per non passare attraverso esperienze molto negative”, non la prenderei proprio come una conquista per la società. Abbiamo visto a cosa portano queste cose. Con una buona dose (e neanche tanta) di sfiga non ci si salva nelle pareti domestiche ne altrove. Certi uomini hanno sempre la forza e l’illusione di essere i padroni di tutto. Qualcuno di loro a otto anni dalle nozze della Scicolone nazionale considerava ancora la donna una proprietà privata quanto basta per non  volere far passare il referendum sul divorzio. Pochissimi ora vogliono che gli venga tolto quel diritto, pochissimi credono che valga la pena continuare una storia malata. Ma secondo quel terzo mistero di Fatima di Maria Grazia Cucinotta (nel senso che Dio solo sa come faccia ancora cinema) le denunce sono solo un mix di gossip e verità e dopo tanto tempo denunciare non ha poi nemmeno tanto senso. A quanto pare, abbiamo ancora la memoria a intermittenza. Ma non siamo soli. Nel corso dei decenni  di storie simili ne abbiamo sentite già altre. Klaus Kinski accusato di stupro dalla figlia Pola. Roman Polanski accusato ad anni alterni di molestie. E il mondo della musica non è da meno. Da Ike Turner ad Axl Rose, passando per Michael Gira e Sleazy. La lista degli sporcaccioni con cui, alla fine, abbiamo mantenuto dei rapporti cordiali negli anni è lungo, ed è un atto di accusa contro chiunque abbia il coraggio di sostenere di muoversi sul terreno della correttezza. Tutta gente che ha finito per guadagnarci su più delle proprie vittime. Quindi il problema non è il sesso ma, nel bene o nel male, siamo noi. La generazione cresciuta durante lo scandalo di Bill Clinton e quello di Pete Townshend che ancora “riflette” su chi abbia più torto tra la vittima e il carnefice. Abbiamo visto il terreno della moralità che alcuni dei nostri beniamini hanno tracciato sul successo che gli abbiamo dato, e abbiamo visto che si scioglie come neve al sole. Ciò non ci impedisce di continuare ad apprezzare ciò che di buono hanno fatto nella propria carriera. Ma almeno noi mettiamoci dal lato chi non si lascia accecare dall’isteria di chi mischia l’attore con l’uomo, la confessione privata all’intrigante storytelling del ritratto d’artista, di chi tollera la megalomania del grande e addita il risentimento del piccolo e non viceversa. Almeno noi dai.
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tarditardi · 5 years
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Modus Dj: a settembre fa scatenare le location più "up" di Milano a ritmo di Funky House
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Dopo un agosto di fuoco nella sua Puglia, Modus Dj torna a Milano per far emozionare alcune delle location più "up" della città a ritmo di funky house: Diana Majestic e Principe di Savoia, soprattutto. Tra i tanti appuntamenti riportati nel flyer allegato, segnaliamo soprattutto il GP di Monza Party del 7 settembre al Principe di Savoia ed un esclusivo Bonarda Event previsto per l'11 settembre. Tra i suoi singoli più recenti ci sono "Saturday" e "Get it Right", pubblicati entrambi su Irma Records.
Nato una trentina d'anni fa a due passi dal mare in Puglia,  Salvatore Modeo al mixer Modus Dj da tempo vive a Milano. E' infatti un professionista della console già piuttosto affermato in città e non solo. Tra le sue release più recenti c'è "Get it Right", uscito su Irma. Nell'estate 2019, sulla stessa importante label, esce pure "Saturday".
Modus Dj è protagonista musicale in molti degli 'hot spot' milanesi (Principe di Savoia, Diana Majestic, Duomo 21, etc), con la sua house, sempre melodica e contaminata dal funky. Soprattutto durante i party esclusivi legati alla diverse Fashion Week, quando milano si riempie di professionisti e vip di tutto il mondo, il sound caldo di Modus fa la differenza. Infatti da sempre predilige tracce in cui gli strumenti sono suonati da veri musicisti.
Soprattutto all'ora dell'aperitivo e dopocena, Modus dj fa muovere a tempo un pubblico anche adulto nelle hall di hotel ed in location esclusive. In console ha una tecnica notevole, che qualche volta mostra in video su YouTube, ma il cuore di ogni sua performance resta la musica, non certo lo show.
Affascinato dalla musica fin da bambino, Modus Dj ha iniziato ad avvicinarsi prima a una tastiera, con cui riproduceva le melodie delle canzoni. Poi, a soli 9 anni, ha iniziato ad essere affascinato dai vinili e dai cd per diventare dj. Sono arrivati così i primi party e le prime esperienze nelle radio locali pugliesi. Dopo sono arrivate diverse esperienze in giro per l'Italia e pure all'estero, ad esempio alla Winter Music Conference di Miami.
www.facebook.com/modusdjofficial twitter.com/modusdj www.youtube.com/user/MODUSDJCHANNEL www.instagram.com/modusdj/ www.modusdj.com  
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zazoomnews · 4 years
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Sophia Loren ricorda Ennio Morricone: «I grandi se ne vanno restiamo sempre più soli» http://dlvr.it/Rb6LY4
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Appartamento Loren 🌊🌊🌊🌊LATINA MARE🌊🌊🌊🌊 Disponiamo di un grazioso appartamento🏠🏠di circa 75 mq, posto al primo piano di una palazzina di soli 2 piani, a meno di 100 metri dal mare. 🌊🌊L'immobile e' composto da ingresso, soggiorno, cucina semi-abitabile, camera, cameretta e bagno.Tre balconi. VISTA MARE!!!!!! 👀👀👀Prezzo di vendita 135.000 EURO👀👀👀 Per informazioni chiamaci al 0773-480601!!! (presso Latina, Italy) https://www.instagram.com/p/B6bJENBoF6m/?igshid=iud2wr56eyzr
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