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scienza-magia · 2 months
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Ridotta del 16% la produzione petrolifera Russa
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Attacchi e sanzioni: così il petrolio russo comincia a vacillare. I droni ucraini fermano le raffinerie, mentre crollano le esportazioni verso India e Turchia. La svolta dallo scorso autunno, quando le misure occidentali contro Mosca e i suoi alleati hanno iniziato ad essere applicate con maggiore severità. Da una parte i droni ucraini, sempre più potenti e precisi, tanto da aver messo ko un decimo della capacità di raffinazione russa nel giro di quarantott’ore. Dall’altra le sanzioni, che dallo scorso autunno hanno iniziato a “mordere” davvero, fino a scoraggiare le importazioni di partner di ferro come l’India e la Turchia. Sul fronte del petrolio Mosca, a due anni dall’invasione dell’Ucraina, ha smesso di sembrare invulnerabile: una discontinuità rilevante, anche se è presto per definirla una svolta, che in futuro potrebbe incidere sull’andamento del conflitto oltre che avere un impatto rialzista sui mercati energetici. Gli ultimi sviluppi hanno già contribuito a riaccendere le quotazioni del barile, spingendo il Brent ai massimi da quattro mesi, vicino a 85 dollari. Con una produzione di greggio che tuttora è stimata intorno a 9,5 milioni di barili al giorno, la Russia è seconda soltanto agli Stati Uniti. E rimane un fornitore di cui a livello globale è impossibile fare a meno per soddisfare la domanda. Le sue esportazioni nonostante l’embargo occidentale sono rimaste quasi invariate rispetto a prima della guerra: Mosca è stata abilissima nel dirottarle in tempi rapidi verso l’Asia, spostando i sacrifici soprattutto sulle spalle delle compagnie. I profitti delle società russe dell’Oil & Gas sono crollati (di oltre il 40% solo nel 2023), a causa dello sforzo, logistico e non solo, per conquistare nuovi clienti e per la necessità di concedere forti sconti, in parte legata al “price cap”, misura sanzionatoria sui generis che vieta ai Paesi del G7 di fornire trasporti, assicurazioni o altri servizi a meno che Mosca non si pieghi a vendere al di sotto di un certo prezzo. Ma nonostante tutto il petrolio, oggi come in passato, continua ad essere la prima fonte di entrate per lo Stato russo. Ed è una fonte che si è assottigliata molto meno del previsto.
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Difendendo i volumi d’esportazione, lasciando svalutare il rublo e più che raddoppiando il carico fiscale per le società del settore, l’anno scorso Mosca è riuscita ad incassare l’equivalente di 108 miliardi di dollari grazie all’Oil&Gas: una cifra pari a un terzo delle entrate statali e in linea con il 2021, prima dell’invasione dell’Ucraina (anche se inferiore al 2022, segnato da prezzi record per l’energia), come fa notare un’analisi dell’Oies su dati del ministero delle Finanze russo. È soprattutto il petrolio a finanziare la guerra contro Kiev. Ed è proprio per questo che rappresenta anche il tallone d’Achille della Russia: il punto più vulnerabile, difficile ma non impossibile da colpire se si vuole fermare lo sforzo bellico. E qualche colpo pericoloso – per quanto non ancora decisivo – oggi ha cominciato ad arrivare. Una variabile imprevista è quella dei droni ucraini, solo di recente perfezionati al punto da penetrare per centinaia di chilometri in territorio russo, andando a segno con precisione crescente su obiettivi strategici, tra cui proprio le infrastrutture petrolifere. In vista delle elezioni presidenziali russe (al via il 15 marzo) Kiev ha intensificato gli attacchi, riuscendo a danneggiare due tra le maggiori raffinerie del Paese: l’impianto Norsi di Lukoil, nella regione di Nizhny Novgorod, e l’impianto Rosneft di Ryazan, a 200 km dalla capitale. C’erano stati altri attacchi a gennaio, che avevano ridotto di 400mila barili al giorno (o del 7%) la produzione di carburanti delle raffinerie russe, stima Viktor Katona di Kpler. In seguito c’era stato un parziale recupero, ma l’offensiva di questi giorni per l’analista potrebbe avere conseguenze più gravi, fermando fino al 14% della capacità totale. Mosca ha già vietato l’esportazione di benzina per sei mesi a partire da marzo, per contrastare rincari alla pompa (e forse carenze) sul mercato domestico. Presto potrebbe essere costretta a limitare anche l’export di diesel e altri prodotti raffinati. «Niente di critico, vorrà dire che esporteremo più greggio», ha minimizzato il viceministro dell’Energia Pavel Sorokin secondo la Tass. Ma in realtà anche su questo fronte ci sono difficoltà crescenti. L’export di greggio russo – rimasto piuttosto stabile da inizio anno, con una media di 3,48 milioni di barili al giorno – «probabilmente ha raggiunto un picco», si legge in un report di Gibson. Kiev ha anche intensificato le operazioni con droni sottomarini nello stretto di Kerch e al largo della Crimea, fa notare la società, e questo comporta «ulteriori rischi, oltre a quello delle mine, per le navi con carichi russi nel Mar Nero». Ma gli ostacoli maggiori derivano dal giro di vite sulle sanzioni, su cui le potenze occidentali sono diventate molto più rigorose, cominciando dallo scorso autunno a punire le violazioni con maggiore frequenza e severità. Da novembre in avanti gli Usa, seguiti dagli alleati europei, hanno messo in black list più di 40 navi e una serie di società di diversi Paesi, accusate di agevolare l’export di petrolio russo aggirando le regole sul price cap: una svolta che secondo il broker marittimo Poten & Partners ha scatenato «un esodo di armatori occidentali» dalle attività di trasporto. La paura delle sanzioni Usa, scrive Reuters, ha spinto improvvisamente i registri navali della Liberia e delle Isole Marshall a ritirare le bandiere alle petroliere russe, ostacolandone la navigazione. Non basta. Nello stesso periodo Mosca ha iniziato ad accusare difficoltà anche in India e in Turchia: Paesi che avevano accolto a braccia aperte i barili russi, ma in cui gli acquisti sono crollati. L’India in particolare ha fatto un dietrofront clamoroso, respingendo carichi di greggio Sokol mentre le petroliere erano già in viaggio, fino a “bloccare” in mare 18 milioni di barili. Ora si sono ridotti intorno a 10 mb, stima Bloomberg: molte navi si sono dirette in Cina, ma anche qui alcune hanno dovuto gettare l’ancora, in attesa di acquirenti che tardano a farsi avanti. I problemi riguardano soprattutto i pagamenti, su cui ha avuto un impatto dirompente un ordine esecutivo firmato lo scorso 22 dicembre dal presidente Usa Joe Biden. Il provvedimento ha alzato la guardia su banche e altri intermediari finanziari, minacciando di tagliarli fuori dal sistema del dollaro con effetto immediato al minimo indizio di aver facilitato, anche in modo indiretto, «il finanziamento della macchina da guerra russa». Moltissime banche, ovunque nel mondo, hanno rallentato le transazioni per passare al setaccio ogni documento che possa collegarle ad entità russe. E qualcuna – persino in Cina – si è spinta oltre, scegliendo di interromperle del tutto. In Turchia la paura di sanzioni oltre alle banche ha contagiato diverse società non finanziarie. Il terminal marittimo di Dörtyol, sul Mediterraneo – che era emerso come uno degli snodi principali per il petrolio russo, con sbarchi per 11,7 milioni di barili nel 2023 – la settimana scorsa ha deciso per precauzione di vietarne il transito «anche in assenza di violazioni di leggi, regolamenti o sanzioni»: una scelta drastica, che secondo indiscrezioni di stampa sarebbe stata presa in seguito a forti pressioni esercitate dagli Usa. «I russi – osserva Poten – stanno provando a contrastare questi sviluppi e cercano acquirenti alternativi»: di recente ci sono stati carichi esportati in Venezuela, Pakistan, Ghana e Brunei. Rimpiazzare i volumi di India e Turchia però «sarà una sfida», che «potrebbe rendere necessari sconti molto più alti». Nel frattempo per il petrolio russo si è chiusa un’ulteriore porta di accesso all’Europa, quella verso la Bulgaria, uno dei Paesi che avevano ottenuto un’esenzione all’embargo da parte della Ue. Sofia – che ha sfruttato a lungo il privilegio, anche esportando carburanti prodotti con greggio russo – ha interrotto anche gli acquisti via oleodotto a inizio di marzo, con sei mesi di anticipo sui tempi concordati. Fino a poco tempo fa riceveva più di 150mila barili al giorno. Read the full article
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attud-com · 1 year
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livemintvideos · 1 year
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US is now the top destination for refined petroleum products made from refined Russian crude. According to ministry of commerce, US imported more than half a billion dollars worth of oil products made in India. For the better part of last year, western countries led by US continued to put pressure on India to decrease its Russian crude imports. India however refused to budge and continued to buy cheap Russian crude. It has now emerged that while on one hand US and Europe were criticising India over its Russian crude import, on the other they were buying petroleum products made from refined Russian crude from India in huge quantities.
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forzaitaliatoscana · 1 year
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thechasefiles · 2 years
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Feel free to discuss the PM’s Press conference. Effective August 19th Price cap on Gas $4.48 & Diesel $4.03 to be in place until January 31st 2023. Vat cap on petroleum products until January 31st 2023. Responses to the Auditor General’s report to be laid in parliament this week. #thechasefiles #pricecaps #vatcap #petrol #deisel #gas #lilease #auditorgeneral https://www.instagram.com/p/ChTJeZBtS5jnStnHfx1dtA4kRU7lRXgpsvAH3c0/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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kandelaias · 1 year
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18th-19th April Important Events By Kandela IAS
"India and China's Strategic Move: How Buying Russian Oil Above Western Price Cap Impacts Global Energy Markets" #IndiaChina #RussianOil #EnergyMarket #GlobalPolitics #PriceCap #StrategicM#PetroleumTrade #EconomicImpact #kandelaias #InternationalRelations
18th-19th April Important Events By Kandela IAS India and China buy Russian oil above Western price cap India and China buy Russian oil above Western price cap Indian and Chinese ports have purchased the majority of Russian Urals oil in April at prices above the Western price cap of $60 per barrel. The Kremlin is benefiting from stronger revenues despite the West’s efforts to restrict funds…
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mariuskalander · 1 year
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RT @strange_days_82: Dragoni ( La Verità ) : "Governo compatto, price cap inutile". 1/2 #lariachetira #Dragoni #Santanchè #pricecap #spiaggelibere @laveri @fdragoni https://t.co/CmLnx1Zjet
— Mario Calandra (@MariusKalander) Dec 27, 2022
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paradoxkinspace · 2 years
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Self Care for a Newly Human Hal Strider with Roxy Lalonde, chewy stims, and a 10aud pricecap
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scienza-magia · 1 year
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Inflazione e sanzioni distruggono il Rublo
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L’economia russa è in rovina. Il 15 dicembre Putin disse: “Il rublo è fra le monete più forti al mondo”. Poi, il crollo: -9,4% in una settimana e un’intera economia russa al collasso. «Il tentativo dell’Occidente di distruggere l’economia russa è fallito. Il rublo è fra le monete più forti al mondo» ha detto Putin. E subito dopo il rublo è crollato: -9,4% in una settimana e -14% in un mese rispetto al dollaro Usa. Il “Wall Street Journal” ha calcolato che «il declino della valuta a dicembre è il più marcato tra le 49 monitorate. Questo mese il rublo è una delle valute con le prestazioni peggiori al mondo poiché la manna di petrolio e gas, che ha contribuito a isolare il Paese dalle sanzioni occidentali, adesso sta svanendo». Lo zar aveva parlato il 15 dicembre, collegato in video con il Consiglio per lo sviluppo strategico e i progetti nazionali e proprio mentre al Consiglio europeo di Bruxelles si discuteva della reazione europea all’invasione russa in Ucraina. «Contro di noi un’aggressione economica senza precedenti» si era lamentato. Come se invece sia stato normale provocare in Europa la prima guerra dal 1945 con l’obiettivo di annettere un altro Stato, peraltro in flagrante violazione del Memorandum di Budapest (con cui la Russia si era impegnata a rispettare l’integrità dell’Ucraina in cambio della sua rinuncia all’arsenale nucleare ereditato dall’Unione Sovietica).
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Ripreso dagli organi di stampa russi, il discorso di Putin aveva esaltato la «resilienza delle finanze russe» contro il tentativo di «schiacciare la nostra economia in breve tempo, esaurendo la nostra valuta nazionale e provocando un’inflazione distruttiva. Ma il rublo è diventato una delle valute più forti al mondo nel 2022, anche in virtù del passaggio del pagamento del gas in rubli. Il livello dei prezzi in Russia, dopo un forte aumento in marzo-aprile, non è praticamente cambiato da maggio». Non l’avesse detto! In effetti, per alcuni mesi l’aumento dei prezzi degli idrocarburi ha compensato il crollo delle esportazioni grazie anche a mercati alternativi, in particolare l’India e la Cina (dove la Russia ha soppiantato l’Arabia Saudita come primo esportatore). Il surplus delle partite correnti è così più che raddoppiato nei primi nove mesi dell’anno fino a superare i 198,4 miliardi di dollari: circa 120 miliardi di dollari in più rispetto allo stesso periodo del 2021 e più del doppio del precedente record del 2008. Questo ha permesso a Mosca di immettere liquidità nell’economia e persino di far apprezzare il rublo del 30% su euro e dollaro, dopo l’iniziale picchiata. Il risvolto negativo di questo surplus è però un crollo dell’import da sanzioni, che oltre ai consumi ha investito pesantemente l’industria – bellica in particolare, oltre che automobilistica e aeronautica – per la mancanza di componenti tecnologiche. Putin aveva predetto che dopo la rottura con la Russia si sarebbe andati verso «la deindustrializzazione dell’Europa», ma è stato invece proprio lo sforzo militare russo a essere compromesso. I segnali in tal senso sono numerosi: la richiesta affannosa di droni all’Iran, l’utilizzo di chip di frigoriferi e lavastoviglie nei carri armati, l’ondata di furti di autovelox svedesi per ricavarne telecamere da droni. Intanto l’India ha fatto incetta di così tanto greggio russo a prezzo di favore che adesso ha le scorte piene, in Cina la produzione industriale è crollata per via della ripresa del Covid mentre dall’inizio del mese le sanzioni occidentali al petrolio sono partite sul serio. Read the full article
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scalper · 5 years
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ドメインデータベースの維持管理を行う非営利団体Internet Corporation for Assigned Names and Numbers(ICANN)と、.
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forzaitaliatoscana · 2 years
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Polish reimbursement a challenge, but not unobtainable
Poland for a long time has seemed like a difficult market for high-cost innovative drugs, especially when the Reimbursement Act of 2012 was launched, which caused many forecasters to predict a sharp downturn in sales. However, after a trying beginning, opportunities are now beginning to arise, albeit slower than many hoped. 
Whilst drug prices in Poland are amongst the lowest in Europe, in part due to the capped reimbursement on drugs at 17% of overall healthcare expenditure brought in in 2012, universal healthcare coverage does means that 98% of the population is covered by health insurance and the introduction of risk sharing agreements have slowly increased the numbers of innovative products available. Yet when it takes on average 3-5 years to launch an innovative drug onto the Polish market following its preceding on the EU-15, and with high patient co-payments often needed, access to medicines in Poland is by no means a sure thing.
Poland has also begun to adopt a process commonly known as “jumbo price referencing” whereby different molecules that belong to a similar therapeutic group are brought together in the same reimbursement bucket, regardless of mode of action or generic or branded status. This method of pricing has faced criticism from the industry as they do not allow for incremental innovation to truly occur as many ‘me-too’ products are forced into a reimbursement limit that are not sustainable for the producer of the product.
However, despite much criticism and perceived inefficiency in the Polish system, innovative medicines are beginning to reach the market sooner than previously seen due to the risk sharing agreements that help to ensure companies are not forced to pay back sizeable amounts when the government’s 17% cap is reached.
Poland is a strategically important market for pharma given the population size and increasing affluence, yet there is still some way to go before access to innovative medicines is achieved for all new innovative products.
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scienza-magia · 11 months
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Tassi d'interesse banche centrali e inflazione reale
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Quelli che criticano le banche centrali. Oltre ai governi che protestano, ci sono molti economisti che stanno cercando soluzioni non convenzionali all'inflazione, con risultati incerti. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni sostiene che la Banca Centrale Europea stia sbagliando a continuare ad aumentare i tassi di interesse per fermare l’inflazione, ossia l’aumento generale del costo della vita che va avanti da quasi due anni. È la tecnica che la teoria economica tradizionale reputa più efficace per tenere sotto controllo i prezzi, ma viene spesso criticata per tutta quella serie di effetti collaterali che comporta, tra cui il consistente aumento del costo dei mutui e il rischio concreto di causare non solo un rallentamento economico, ma addirittura una recessione. Le critiche spesso sono portate avanti dalle componenti più estreme sia della destra che della sinistra, ma talvolta anche da chi è più moderato. Nel tempo vari economisti hanno sviluppato tutta una serie di idee alternative all’aumento dei tassi di interesse, che si inseriscono in un dibattito di teoria economica più ampio su tutti gli strumenti più o meno innovativi a disposizione delle banche centrali e dei governi per fermare l’aumento dei prezzi. Nei periodi storici di aumento dei tassi di interesse è piuttosto comune assistere alle critiche di una parte del mondo politico proprio per tutte le conseguenze negative di una misura di questo tipo, che ha un impatto su qualsiasi aspetto dell’economia e che ha come obiettivo deliberato quello di “raffreddare” un’economia che cresce troppo, in cui i prezzi aumentano principalmente perché l’offerta delle aziende non sta al passo della domanda dei consumatori. Le critiche però non vengono solo dal mondo politico ma talvolta anche dagli economisti: secondo alcuni gli effetti collaterali del rialzo dei tassi di interesse spesso rischiano di essere troppo gravi per l’economia e la società rispetto alla reale efficacia nel combattere l’inflazione. L’aumento dei tassi di interesse sarebbe una misura troppo generalizzata, mirata a far rallentare l’economia nel suo complesso senza la certezza di riuscire davvero a risolvere le cause dell’aumento dei prezzi.
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La presidente della Banca Centrale Europea Christine Lagarde (AP Photo/Michael Probst, file) In un articolo sul Guardian del dicembre 2021 l’economista Isabella Weber ha detto «se la tua casa è in fiamme, non vorrai aspettare che l’incendio alla fine si estingua. Né vuoi distruggere la casa allagandola. Un abile vigile del fuoco spegne il fuoco dove sta bruciando per prevenire il diffondersi delle fiamme e salvare la casa. La storia ci insegna che un approccio così mirato è possibile anche per gli aumenti dei prezzi». L’articolo fu molto contestato da tutta la comunità accademica con toni anche molto accesi – il premio Nobel per l’economia Paul Krugman arrivò a chiamarla «davvero stupida», poi scusandosi – perché suggeriva non solo un approccio all’inflazione meno convenzionale ma anche l’uso di uno strumento che non si vede da anni nel mondo occidentale: il controllo strategico dei prezzi da parte dello stato. Nel corso della sua carriera Weber ha studiato molto questo strumento che fu applicato negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale, quando l’amministrazione Roosevelt impose severi controlli sui prezzi per evitare aumenti nei settori più strategici o di necessità. Secondo lei l’economia di allora era piuttosto simile a quella durante la pandemia da coronavirus: molte materie prime erano introvabili e c’erano enormi inefficienze nelle produzioni, spesso bloccate proprio a causa dei semilavorati che non si trovavano. L’offerta non teneva il passo della domanda, proprio come durante e dopo la pandemia. Con il controllo strategico dei prezzi, per tutta la durata della Seconda guerra mondiale negli Stati Uniti l’inflazione rimase piuttosto stabile. La misura fu poi ritirata praticamente subito dopo la fine della guerra, senza dare modo alle imprese di riprendersi e di risolvere i blocchi produttivi, col risultato che aumentò tantissimo l’inflazione. Secondo Weber un controllo strategico dei prezzi nei settori in cui stavano aumentando di più avrebbe potuto essere una soluzione nella fase di transizione in cui la crisi dei commerci globali aveva creato enormi distorsioni nelle produzioni: calmierare i prezzi avrebbe consentito di tenere a bada l’inflazione per tutto il periodo necessario alle aziende per ripristinare le loro produzioni. Una sorta di controllo strategico dei prezzi è stato il price cap europeo alle importazioni di energia, uno degli strumenti più invocati nell’ultimo anno e mezzo per tenere sotto controllo il complessivo aumento dei prezzi. Dopo mesi di discussione, e forse un po’ troppo tardi, è stato introdotto un tetto massimo al prezzo di gas e petrolio: i paesi europei sono riusciti a introdurlo solo in casi eccezionali e a un valore anche piuttosto alto, per cui non ha avuto una grande efficacia. Sul controllo dei prezzi proposto da Weber e altri circola ancora comunque un grosso scetticismo, sia perché sarebbe una misura parzialmente contraria all’ortodossia economica sia perché molti esperti sostengono che il paragone fatto da Weber con il periodo della Seconda guerra mondiale non tenga: in economie estremamente complesse e globalizzate, sostengono i critici della misura, controllare adeguatamente i prezzi è impossibile e probabilmente controproducente. Il controllo dei prezzi è comunque solo uno dei vari approcci non convenzionali alla gestione dell’inflazione: alcuni economisti suggeriscono riforme della concorrenza per ridurre il monopolio di alcune imprese, che sfruttano la possibilità di aumentare i prezzi quanto vogliono senza mai sperimentare un calo della domanda; altri propongono di canalizzare gran parte del credito delle banche a tutti quei settori in cui ci sono gravi problemi produttivi; altri ancora propongono misure per incoraggiare (o addirittura forzare) il risparmio, in modo da smorzare la crescita dei consumi. Sono tutte misure con un raggio d’azione ben delimitato, quasi chirurgiche, che effettivamente comporterebbero meno rischi di un rialzo dei tassi. Non sono però mai state davvero sperimentate nella lotta all’inflazione. Il dibattito di questi anni non è stato solo su quali strumenti fossero migliori per fermare l’aumento dei prezzi, ma anche sulle cause all’origine dell’inflazione, che poi ovviamente condizionavano anche la discussione sulle possibili soluzioni. Gli economisti con una visione più tradizionale hanno ricondotto l’inflazione degli ultimi due anni a due cause principali: la pandemia, che prima ha bloccato le produzioni e i consumi e che poi quando la domanda è ripartita ha creato tutta una serie di intoppi nelle catene produttive per i prezzi di tanti semilavorati e prodotti, che sono aumentati perché introvabili; e la guerra in Ucraina, che ha provocato un aumento fortissimo dei prezzi di petrolio e gas e quindi dei costi per produrre qualsiasi cosa, dalla carta, al cibo, ai più banali prodotti di consumo. L’inflazione recente sarebbe stata quindi un misto: c’era sicuramente una componente legata a un’economia che correva, dopo l’enorme rallentamento imposto dalle restrizioni dovute alla pandemia da coronavirus, ma c’era anche un’inflazione dal lato dell’offerta, dovuta soprattutto all’aumento dei prezzi dell’energia. C’è poi una minoranza di economisti che fin dal principio ha ricondotto l’aumento dell’inflazione al fatto che le aziende stessero speculando sulla situazione generale di aumenti dei prezzi per ottenere più profitti possibili, e che per questo abbiano aumentato i prezzi dei beni e dei prodotti molto più di quanto sarebbe necessario per coprire l’aumento dei costi. Oggi c’è sempre più consenso su un intreccio delle cose: gli aumenti dei prezzi causati dalla pandemia e dalla guerra sono poi diventati strutturali nel sistema economico anche perché le aziende hanno mantenuto alti margini di guadagno nel frattempo. E questo si vede dal fatto che il costo della vita continua ad aumentare nonostante molti dei fenomeni che avevano originariamente creato un aumento dei costi per le aziende sembrino ormai essere terminati. I rincari di oggi appaiono quindi piuttosto ingiustificati ed è una convinzione ormai diffusa che le aziende stiano decidendo arbitrariamente di continuare ad aumentare i prezzi per far crescere i profitti. Read the full article
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mariuskalander · 2 years
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RT @Lantidiplomatic: La migliore sintesi del tetto dei prezzi petroliferi immaginato dall'Ue.. #pricecap https://t.co/gYNeD14jUm
— Mario Calandra (@MariusKalander) Oct 6, 2022
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britishutilities · 2 years
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2 additional energy firms gone bust added to the list
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2 additional energy firms gone bust added to the list: The soaring gas prices that have caused 24 suppliers to leave the market appear to continue to leave their mark in the UK’s energy retail market. Whoop Energy & Xcel Power Ltd have now reported they are stopping trade. Whoop Energy which was started as a small, independent family managed company served 262 customers with the majority of them being businesses. Xcel Power had 274 customers, gas only as well as being all non-domestic. Ofgem's advice for customers is not switching but to wait for a new supplier to be appointed. “Ofgem’s number one priority is to protect customers. We know this is a worrying time for many people & news of a supplier going out of business can be unsettling. “I want to reassure affected customers that they do not need to worry, under our safety net we’ll make sure your energy supplies continue.” Neil Lawrence, Director of Retail at Ofgem, stated. At the beginning of this year, Together Energy which was supplying about 176,000 customers reported ceasing to trade. 2 additional energy firms gone bust added to the list Read the full article
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britishutilities · 2 years
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UK’s electricity capacity auction pass greatest price ever
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UK’s electricity capacity auction pass greatest price ever: On Tuesday, the UK’s auction to guarantee enough electricity capacity for 2022/2023 passed a historical high of £75 per kW each year. This was the conclusion of the Capacity Market’s T-1 auction that was announced by the National Grid ESO. The amount exceeded the prior record established in the T-1 auction for 2021/2022 of £45 per kW/year. The study says that 4,996MW of de-rated capacity was acquired throughout 226 Capacity Market Units. The granted capacity for the T-1 2022/2023 will emanate from gas (3,385MW), arising from demand side response (516.8MW), from coal (411.1MW), battery storage (385.3MW),  waste (101MW), pumped storage (85.1MW) as well as from other origins. The Capacity Market is a mechanism brought in by the government to guarantee that electricity supply carries on to satisfy demand as more irregular and unpredictable renewable generation plants emerge. Promising Capacity Market participants in the T-1 auction can bid for contracts in auctions set 1 year before the delivery date. “The high clearing price keeping units online that may otherwise have been retired bodes well for the stability of the market this year in comparison to the winter just passed." Says EnAppSys Director Phil Hewitt. “It is unlikely that clearing prices as high as this will be repeated in the near term as the high price was driven by very particular events. This will have brought forward the start dates for several new build projects to make the most of the high prices. “Many people in that auction would have settled for a lower price. It feels like the billpayers may have overpaid for capacity.” Sue Ferns, Senior Deputy General Secretary of trade union Prospect, remarked: “The record-high prices in the latest Capacity Market auction are yet another sign of how our energy security has been undermined by a persistent failure to properly plan for when the wind doesn’t blow and the sun doesn’t shine. “This is an urgent wake-up call to government to get on with the job of delivering a new fleet of nuclear reactors that can provide the always on, low-carbon power we need to complement renewable energy.” UK’s electricity capacity auction pass greatest price ever Read the full article
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