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#anche quando avrebbe dovuto
galloberardi · 1 year
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Qui per ricordare che Locatelli era stato convocato in Nazionale e poi ha preso il Covid. Quado si e’ saputo, prima che iniziasse il ritiro, manco e’ stato sostituito con qualcuno che poteva rendersi disponibile a giocare da subito, semplicemente ha saltato la prima partita -e parte del ritiro- ed e’ volato a Coverciano non appena risultato negativo.
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love-nessuno · 2 years
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#Cara Sig.ra Ilaria Cucchi#non dimentichi però che quando suo fratello è stato arrestato e a sua madre è stato chiesto di nominare un avvocato di fiducia#in risposta#al telefono#sono volati solo insulti nei confronti di Stefano#e sua MADRE aggiunse che NON AVREBBE SPESO ALTRI SOLDI PER QUEL DELINQUENTE DI SUO FIGLIO E CHE AVREBBE DOVUTO FARE AVANTI IL BARBONE PER S#Cara sig.ra Ilaria Cucchi#non dimentichi CHE FU LEI A NON FAR VEDERE I NIPOTI A STEFANO DA BEN 2 ANNI#CERTO PER PROTEGGERLI DA LUI#DAL SUO STATO DI TOSSICODIPENDENZA#da suo FRATELLO CHE FREQUENTAVA AMBIENTI LOSCHI ED FU SEMPRE LEI CHE NON LO VOLLE PIU' NELLA SUA VITA ED ANCHE TUTTA LA SUA FAMIGLIA LO EM#RIMASE COSÌ SOLO E PERDUTO.#Mi preme però osservare che dalla terribile morte di suo fratello Lei è riuscita comunque a costruirsi un personaggio mediatico#conseguendo anche un giusto rimborso (somma che certo non la ripaga di quanto sofferto e perduto). Vorrei dirle che ha ottenuto una vittori#incredibilmente grande e giusta e grazie a lei verranno perseguiti dei delinquenti che non meritavano di vestire la divisa che indossavano.#ovvero che la stessa caparbietà che ha dimostrato nella ricerca dei colpevoli#non l'ha sfoderata quando c'era da aiutare Stefano; Lei se ne disinteressò ed ora invece#da candidata per il PD#ora suo fratello è diventato la persona più cara che avesse mai avuto al mondo! Un eroe!#Una perdita immensa! No Sig. ra Ilaria#Stefano non era un eroe#gli eroi son altri#era solo un ragazzo che meritava di essere compreso e aiutato#anche se si era perduto.#FIRMATO: UN CARABINIERE QUALUNQUE (la lettera non è firmata e circola sul web#ma interpreta il comune sentire di milioni di cittadini).
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surfer-osa · 23 days
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Rabbia proteggimi.
Quando mi avvicino a mio padre per fargli una carezza sulle gote lui strizza gli occhi come se dovesse arrivargli un pugno.
Probabilmente è un riflesso della sua infanzia, di tutte le botte che ha ricevuto che a loro volta erano il rimando di quello che hanno fatto a suo padre in un campo di concentramento.
Ho iniziato a prenderle sin da piccola e per i motivi più stupidi, essenzialmente perché ero solo una bambina. Sono finita più volte con la faccia nel piatto, pieno o vuoto non faceva la differenza per lui, ho preso tanti di quegli schiaffoni che mi facevano girare il viso dall’altra parte (non perché volessi porgere la guancia dall’altra parte), ho ricevuto tanti calci, mi veniva impedito di mangiare. C’erano anche la violenza verbale, le minacce e la cosa peggiore di tutte: il trattamento del silenzio. Non mi parlava per settimane, evitava di guardarmi, non rispondeva.
L’unico modo che conoscevo per reagire era provocare mio padre dicendogli che non mi faceva male e non abbassare mai lo sguardo (perché fa veramente male vedere che non riesci a spezzare una persona). Dentro morivo ogni volta, mi costava più delle percosse che arrivavano da una persona che avrebbe dovuto proteggermi, crescermi e confrontarsi con me. Ho fatto di tutto per andare avanti, per pormi come un cuscinetto tra di lui da una parte e dall’altra mia madre e mio fratello indifesi.
Non ho ripetuto gli schemi, ho mandato in frantumi il cerchio, non sono diventata come lui e ho la certezza che non diventerò mai così. Lo rivendico con tutta me stessa, mi aggrappo a tutta la rabbia che ho perché mi protegga.
Ora la demenza ci ha regalato dei rapporti diversi e in lui emerge quel bambino spaventato che veniva preso a cinghiate quando sarebbe bastato solo ascoltare cosa aveva da dire o dargli una carezza.
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belladecasa · 5 months
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Quando mi fanno la canonica domanda sul fidanzato ormai rispondo che io non sono compatibile, come faceva Battiato. Che poi io una fetta di famiglia non canonica ce l’avevo, una in cui nessuno ti avrebbe chiesto del fidanzato, dell’Università, del perché parli poco, una in cui c’erano persone che capivano cosa fosse opportuno chiedere e cosa no, e alcune che capivano pure la tua indole, la tua vocazione, il motivo e il desiderio per cui sei al mondo. Ma quando è morta mia zia è morta tutta una radice, un ramo, un frutto, un albero, un bosco intero. Mia zia non era una donna, era una famiglia, un sistema di segni e simboli, una scuola, una società, un cultura, una città, quasi era un’anima infinita come Roma. Soprattutto, era il mio daimon, non una madre biologica ma la madre del mio intelletto. Per quanto una terra possa essere fertile non può far crescere nulla se nessuno ci pianta un seme. Mia zia aveva capito quello che potevo essere e aveva messo il seme dentro la mia terra. Il seme dentro la vita. E quando se n’è andata io mi sono sentita come suolo inaridito, pensavo che mai nessuno avrebbe potuto far crescere più nulla da me, dentro di me.
8 settembre 2019
Otto anni fa, nella squallida cappella del cimitero, la tua bara era stata deposita su un carrello di ferro a quattro ruote che ti avrebbe trascinata sotto terra e lontano da me. Tutti toccavano quella bara come se fosse stato un semplice gesto lasciarti andare, così pensavo che anche io avrei dovuto darti quell’ultimo addio, ma farlo avrebbe significato toccare con mano la consapevolezza della tua morte, e io non potevo. Ho preferito lasciarti scorrere via di fronte a me come fosse stato un sogno, cosicché oggi, ancora, nella mia vigliaccheria posso chiedermi se sia stato reale, se davvero non ci sei o se è stato solo un mio incubo. Oggi, dopo sei anni, quella bara non l’ho ancora toccata.
Ora sono passati dieci anni, e ancora percepire per me significa sentire la tua mancanza, perché io sono entrata nel mondo per mano tua e ora sono al mondo senza di te, ma oggi quella bara l’ho toccata perché ho accettato che non ci sei più, che amare qualcuno significa amarlo nella sua finitezza, amare il fatto che niente e nessuno ti apparterrà mai e mai per sempre. Ho imparato a non amare mai nessuno come un oggetto. Ho accettato che qualcosa, una qualsiasi cosa, finisce, e brucia, o si consuma. O almeno le persone, l’amore e tutte le cose umane. Ancora oggi hai piantato un altro seme nella mia terra.
#s
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amamiofacciouncasinoo · 2 months
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Negli ultimi mesi sono ingrassata, mi sentivo sempre in colpa perché pensavo fosse dovuto alla mia poco equilibrata alimentazione e agli ormoni della pillola anticoncezionale, così ho cercato di cambiare, di mangiare più sano, di cominciare ad avere una vita più attiva anche a livello di sport, inconsapevole che dentro di me c’era un mostro che metteva radici sempre più profonde man mano che passava il tempo. Giorno dopo giorno mi sentivo cambiare, ero sempre più stanca, nonostante dormissi anche più di 7-8 ore era come se mi fossi riposata soltanto per un paio. Questo si ripercuoteva sulle mie giornate, sul mio carattere sempre meno paziente per la stanchezza, sempre più nervoso. Ho allontanato persone perché iniziavo a non sopportarle, ero troppo stanca. Ho iniziato ad avere dolori muscolari sempre più intensi, ma anche qui ho dato colpa al mio poco sonno in corpo e al fatto del poco esercizio. Ho deciso di fare le analisi del sangue e nei referti c’erano più asterischi* che valori che andavano bene. Ho iniziato a preoccuparmi. In meno di 10 giorni ho effettuato tutti gli esami e le visite del caso. Nelle ricette mediche i dottori hanno cominciato a segnalare sempre più urgenza per le prenotazioni. C’era qualcosa che non andava, ma nessuno mi diceva niente. Nell’ultimo esame, quello che avrebbe stabilito una diagnosi più accurata, mi hanno imbottita di valium e antidolorifici, una sensazione che riproverei (pensiero dato forse dal fatto che era tanto tempo che non mi rilassavo così tanto e che non mi sentivo “così bene” senza un minimo di dolore). Una volta (s)drogata, quando ho ripreso in mano la mia facoltà cerebrale, le notizie che mi hanno dato non sono state buone, un po’ me l’ero intagliata,il classico 1+1=2. “Signorina lei è piena di ulcere nell’intestino, abbiamo inviato 6 campioni per la biopsia. Ma noi crediamo sia Morbo di Crohn”. Morbo di Crohn? Che cazzo è il morbo di Crohn? È grave? Si guarisce? Devo operarmi? Cosa devo fare??? Queste tutte le cose che mi sono balzate in testa. Oltre che stavo cominciando a rivivere un incubo. Ad oggi ancora non mi sono data completamente tutte le risposte alle domande. Sono ancora allo sbaraglio. Devo evitare l’ansia e lo stress perché è come mettere benzina sul fuoco. Ce la farò?
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junjourt · 5 months
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A Manuel e Simone
Chi non vi ha seguiti sin dalla prima stagione non potrà capire l'amaro e la delusione che ha lasciato questa seconda stagione a tantissimi di noi. Non può capire quanto amore abbiamo visto nei vostri occhi sin da quella scena meravigliosa in cui Manuel ha tatuato il braccio di Simone, che porterà per sempre un segno di Manuel, il primo amore, sulla pelle. Non può comprendere la paura che abbiamo visto negli occhi di Simone quando ha capito che non era vero che non era capace di amare, perché si era innamorato di uno come lui. Perché si era innamorato di Manuel, un ragazzo che, nonostante gli errori, ha permesso a Simone di dire che innamorarsi è una delle cose più belle del mondo. Un ragazzo spaventato dall'amore che Simone poteva dargli, perché non era abituato a sentirsi amato se non da sua madre, non era abituato a qualcuno che pensasse che lui vale. E questa paura l'ha portato a fare tanti sbagli, ma nonostante tutto ha sempre fatto in modo di proteggere Simone, perché lui è il suo "più amore", perché con lui "è diverso". La paura non li ha separati e li ha resi l'uno il porto sicuro dell'altro. E loro sono poi diventati il porto sicuro di tante persone, di chi sperava di vedere finalmente una degna rappresentazione della bisessualità o di chi, semplicemente, grazie a loro ha ritrovato una passione, qualcosa che lo smuovesse in un periodo buio, o ha trovato degli amici veri. Vedere loro, leggere i commenti e i meme sulla loro storia mi hanno salvata dal baratro dell'apatia in cui ero caduta in quel periodo. Vorrei tanto poter dire "Non prendertela, è solo una serie", ma purtroppo non è così, perché loro e Un professore hanno significato tanto per me.
E invece, dopo le prime puntate che ci avevano tanto fatto sperare tra gelosie, sguardi, un continuo cercarsi e sostenersi reciproco, tutto sembra essere crollato. Simone per un po' è rimasto un personaggio piatto col solo scopo di stare dietro a Mimmo. Manuel, invece, stava avendo la bellissima storia del padre e la sorella ritrovati. Poi il nostro Simone è tornato con la malattia di Dante, mentre Manuel è stato massacrato con la trama del rapimento di Lilli e il suo essere bloccato in una relazione che volevano far passare per grande storia d'amore, ma in realtà è stata solo tossica.
È questo che ci meritavamo?
Manuel dimenticato da Anita, Dante e Simone mentre affrontava DA SOLO il dolore causato da una verità taciuta per 18 anni? Manuel preso dai sensi di colpa per aver accidentalmente messo nei guai una ragazza, che però non fa che sminuirlo e non si preoccupa nemmeno di come sta?
Simone che a lungo ha dovuto affrontare il dolore per la malattia del padre DA SOLO?
Manuel e Simone che avevano una storia già scritta, Manuel che aveva un percorso che sembrava già pronto e che invece, non si sa per quale motivo, sembrano aver voluto dare a Mimmo (introdotto forzatamente, portando a un buco di trama enorme) creando, tra l'altro, continui parallelismi con la trama dei Manuel e Simone della prima stagione?
Eppure quelle poche scene che ci sono state di Manuel e Simone insieme, anche se durate pochissimi secondi come se avessero paura di farceli vedere (certo, che senso avrebbe far vedere che ti stanno privando di una cosa così grande?) sono riuscite a farmi emozionare più di qualsiasi altra interazione avuta dai loro personaggi.
Non riuscirò mai a farmene niente di qualsiasi altra coppia quando so che avremmo potuto avere loro, Manuel e Simone. Perché loro dovevano essere i nostri Pol e Bruno. Ma sembrano essersi dimenticati di Pol.
Spero solo che questo non sia davvero un addio. Vi amerò sempre, in tutti gli universi. E anche voi vi amerete in tutti gli universi, anche se in questo non avranno il coraggio di mostrarcelo.
Non vi lascio, va bene? Non vi lascio perché vi voglio bene.
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raffaeleitlodeo · 8 months
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Quando andai in galera nel modo giusto, a mani legate, 53 anni fa, ero un uomo fatto. A Torino, alle Nuove, che erano vecchie, vetuste, ed erano piene di giovani italiani meridionali buttati via. Quando ci tornai, allo stesso modo, in altre galere – le Nuove erano un Museo - un po’ più di trent’anni fa, erano piene di giovani stranieri meridionali, africani maghrebini soprattutto, anche già africani di quelli detti subsahariani, quasi tutti dentro per futili motivi. Li conobbi bene. Provai a dire che erano il fior fiore della generazione giovane dei loro giovani paesi, e che si sarebbe dovuto investire su loro, invece di sbatterli dentro ad abbrutirsi. Si sarebbe dovuto puntare sulla loro intelligenza, energia, e voglia enorme di essere accolti, di far parte – il solo modo che era concesso loro era il tifo per una squadra di calcio italiana, perciò sperticato. A casa scrivevano in genere senza mentire, ma omettendo i dettagli: scrivevano di trovarsi in Italia, a Bergamo, o a Firenze, o a Pisa – dove li avevo incontrati. Quando avevano la fortuna di una telefonata prendevano il tono più felice che potessero, si commuovevano, spiegavano di dover chiudere per i troppi impegni – telefonate rare e brevi, diceva il regolamento. Investendo su loro, e sui loro simili ancora non risucchiati dalla galera, si sarebbero trovati i migliori tramiti, i più sapienti ambasciatori, ai rapporti coi loro paesi d’origine, pensavo, e se ne sarebbe avvantaggiata la nostra vita economica e civile, e la nostra capacità di trattare la migrazione, che non avrebbe fatto che crescere. E che risparmio! Naturalmente, per quanto facessi tesoro della sciagurata situazione in cui mi ero venuto a trovare, e insistessi, per anni, parlavo al vento. Non che non lo sapessi. Via via sentivo gridare all’emergenza, e annunciare stentorei piani, altrettante versioni del “piano Marshall”, fino al piano Mattei di oggi, povero Mattei, povero Marshall. E ho smesso di occuparmi di quelli che: “E allora tu che cosa faresti?...” Niente, o quasi: raccoglierei quello che avete seminato. Ieri sono stato fiero di quello che ha detto Eugenio Giani, che è il presidente della Toscana in cui vivo. Non solo per il rifiuto della galera più miserabile dell’altra, “Non darò l’ok a nessun Cpr in Toscana”, ma per la spiegazione: “Si stanno prendendo in giro gli italiani, perché il problema dell'immigrazione è come farli entrare e accoglierli, non come buttarli fuori. Se arrivano questi immigrati con i tormenti, le violenze e le sofferenze che hanno subìto, la risposta che dai è 'faccio i Cpr', cioè luoghi per buttarli fuori? Prima rispondi a come integrarli e accoglierli, dar lor da mangiare e dormire. Poi parli anche di quei casi isolati nei quali poter prevedere la lunghissima procedura di rimpatrio". Prima dar loro da mangiare. Avevo ancora negli occhi i titoli gridati: “Migranti scavalcano il recinto ed evadono a Porto Empedocle”, e la successiva, sussurrata precisazione: “Sono rientrati tutti, erano andati a cercare dell’acqua da bere, e magari qualcosa da mangiare”. - Conversazioni con Adriano Sofri, Facebook
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diceriadelluntore · 10 days
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Storia Di Musica #325 - Family, Music In A Doll's House, 1968
L'edificio della copertina del disco di oggi è una casa. Ma di quelle delle bambole. È anche, come per una vera casa, un susseguirsi di ambienti legati, di storie. Il disco di oggi è, unanimemente, uno dei più particolari e preziosi dischi degli anni '60 e, aggiungo io, uno dei miei preferiti in assoluto. Tutto inizia a Leicester, inizio anni '60. Roger Chapman, che già ha qualche esperienza in piccoli gruppi, forma i Farinas, con suoi amici del Leicester Art College: Charlie Whitney, che suona la chitarra, Jim King che suona il sassofono, Harry Overnall e Tim Kirchin, quest'ultimo poi sostituito da Ric Grech. Registrano un primo singolo, per la Fontana, dal titolo You'd Better Stp / I Like It Like That del 1964, che ha un piccolissimo successo. Cambiano nome in Roaring Sixties e pubblicano un nuovo singolo, We Love The Pirates, nel 1966. A questo punto cambiano nome in Family, per l'abitudine di fare tutto insieme, e quando Rob Townsend sostituisce Overnall vanno a Londra. Qui in poco tempo si diffonde la notizia che in città c'è un gruppo che mischia in maniera totalmente innovativa blues, folk, jazz, e ha un cantante che ha una voce incredibile, calda, ruvida e trascinante. Nel 1967 pubblicano la loro prima grande canzone Scene Through The Eye Of A Lens, e firmano un contratto per la Reprise, etichetta fondata nel 1960 da Frank Sinatra, che cercava più libertà d'espressione dalla sua etichetta storica, la Capitol Records. Il disco di oggi, che esce nel 1968, fu il primo di una band Inglese distribuito negli Stati Uniti dall'etichetta (che nel 1968 faceva già parte della Warner Bros.).
Music In A Doll's House passerà alla storia già solo per il titolo: infatti uscirà poche settimana prima del disco dei Beatles che John Lennon voleva chiamare con lo stesso titolo (che riprende il famoso testo teatrale di Henrik Ibsen nel 1879). Lennon fregato dall'accaduto decise poi di pubblicare il loro ultimo lavoro, un disco doppio, con la copertina bianca semplice e dal semplice titolo The Beatles (capolavoro immenso della storia della musica). Quello che rende quest'album tra i più enigmatici e inventivi di quegli anni è che fu, all'atto pratico, l'anello di congiunzione storico-musicale per quello che pochi mesi dopo diventerà il progressive. Prodotto da Dave Mason dei Traffic (Inizialmente l'album avrebbe dovuto essere prodotto da Jimmy Miller, ma quest'ultimo era già impegnato nelle registrazioni di un altro capolavoro, Beggars Banquet dei Rolling Stones), il disco sciorina in 15 brani brevi (uno solo sopra i 4 minuti) una varietà incredibile di creatività, la musica della casa di bambole apre ogni volta stanze differenti: blues revival e canti gregoriani nella stessa canzone (la favolosa Old Songs New Songs), sanno giocare con il fascino dolciastro del r&b (Hey Mr Policeman), sanno suonare il miglior beat sound inglese, come i riferimenti a Kinks e Traffic di due gioielli come Me My Friend e la languida Mellowing Grey, passano con disinvoltura al folk rock (Peace Of Mind) senza disprezzare puntatine verso la psichedelia all'epoca nel fiore della sua potenza, con il sitar orientaleggiante di See Through Windows. E come dimenticare i violini e la voce "da brividi" che aprono The Voyage, prima di trasformarsi in un saltellante rock? O lo sgangherato God Save The Queen che chiude la circense 3 X Time? I brani sono intervallati da piccoli intermezzi strumentali, chiamati giustamente Variation: Variation On A Theme of Hey Mr. Policeman, Variation On A Theme Of The Breeze e Variation On A Theme Of Me My Friend. In Old Songs New Songs suonano non accreditati la band di Tubby Hayes, virtuoso del sassofono, e alcuni arrangiamenti per archi furono effettuati dall'allora 18enne Mike Batt, che diventerà in seguito grande produttore e per anni presidente dell'Industria Fonografica Inglese. La band gira a mille, usando strumenti all'epoca innovativi come il Mellotron suonato proprio da Dave Mason, il sassofono tenore e soprano di Jim King, il violino e il violoncello di Ric Grech (il quale l'anno dopo lascerà la band per suonare il basso nei Blind Faith assieme agli ex-Cream Eric Clapton e Ginger Baker e a Steve Winwood, in pausa dal suo progetto principale, i Traffic). Ma la vera bomba è la voce di Roger "Chappo" Chapman, un ruggito blues indimenticabile, dall'animalesca vocalità, che segnerà un'epoca, e farà moltissimi seguaci (Peter Gabriel dei Genesis, che nascevano proprio in quelle settimane, ne prenderà nota).
La carriera della band proseguirà per qualche anno ancora, fino al 1973, con grandi album (tra tutti Family Entertainment, Anyway e Fearless), con una delle copertine più belle degli anni '70 (il vecchio televisore anni '50, sagomato nell'edizione originale di Bandstand del 1972) e la nomea di band degli eccessi, idea questa che venne "prepotentemente" sottolineata dai racconti che una famosa groupie, Jenny Fabian, che nel suo romanzo Groupie non usò molta fantasia per nascondere i nomi dei nostri nel raccontare le pruriginose avventure dei nostri. L’ultimo concerto della Family avvenne al Politecnico di Leicester, il 13 ottobre del 1973, e si racconta che il party post concerto fu altrettanto memorabile. Degno finale di una delle più suggestive e talentuose formazioni musicali di quegli anni.
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limoniacolazione · 11 months
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Cronaca dell’ultimo anno, del perché scomparire, del perché poi tornare TW: Depressione, suicidio, burn-out
Il 10 ottobre 2022 il mio medico ha scritto per la prima volta, nero su bianco, nella mia cartella clinica le parole “burn-out” e anche “disturbo depressivo maggiore” e ancora “fobia sociale selettiva”. La mattina del 10 ottobre 2022 ho avuto un episodio psicotico mentre aspettavo di uscire di casa per andare al lavoro e con la sensazione, come ogni sacrosanto giorno, di non volerci andare, di non poter forzare un passo fuori dalla porta senza piangere a dirotto. Prima di quella mattina, ho passato ogni giorno delle vacanze nell’estate 2022 ad avere un attacco di panico perché un secondo dopo l’altro mi avvicinavo immancabilmente al rientro al lavoro. Prima ancora dell’agosto 2022, avevo già ascoltato la parola “burn-out” appiccicarmisi addosso durante una seduta di psicoterapia: era il 2021, ma non ci ho fatto caso. Quando ho chiuso l’Atelier Pupini, quando ho smesso di cucire, quando ho smesso di leggere i tarocchi, quando non ho più sentito interesse per niente e nessuno, quando ho smesso di dormire la notte, quando ho pianto tutte le lacrime, quando ho iniziato ad avere paura di uscire di casa, quando tutte queste cose si sono accumulate come macigno sui polmoni, avrei dovuto forse accorgermi e prendermi una pausa, ma non ci ho fatto caso. Quando ad inizio del 2021 ho avuto una sciatica, l’unica della mia vita, che si è protratta per mesi, che mi ha imposto di camminare con due stampelle per tutta la primavera, che è stata studiata come un mistero da molteplici esperti del campo medico che non hanno saputo trovare una spiegazione, avrei dovuto ascoltare il richiamo del corpo che mi invitava a fermarmi, ma non ci ho fatto caso. 
Quando lavori nel sistema pubblico, aggiungici pure che sei una people pleaser del cazzo, che non hai mai imparato a dire no, che i limiti non sai manco come si scrive, quando lavori per dei bambini che sono in tutte le situazioni della scala sociale, che si sono trovati ad avere magari dei genitori di merda o che sono meno fortunati di tanti altri, non ci fai caso ai segnali che ti dicono di fermarti quando c’è ancora tempo. Non ci fai caso perché il senso di responsabilità è la tua forza motrice. Perché se non te ne occupi tu, chi lo farà? Così non ho frenato. Mi sono schiantata con la pazzia, la depressione, il burn-out, la fobia sociale in un mattino di ottobre 2022; ci siamo accartocciati e siamo diventati una cosa sola.
Alla dottoressa che ha scritto, nero su bianco, nella mia cartella clinica, le parole “burn-out” e anche “disturbo depressivo maggiore” e ancora “fobia sociale selettiva” ho detto “mi faccia un certificato per oggi che ho saltato il lavoro e domani ci ritorno” (che quando uno è di coccio). Lei, la dottoressa, ha riso. Mi ha detto “hai pensieri suicidi?” e io ho detto no, fissando però un quadro del lago d’Annecy e immaginandomi nel suo fondo più profondo, coperta da metri cubi d’acqua, cosa che anche oggi, a scriverla, mi fa sentire una leggerezza, una pace che non so meglio descrivere. Ho mentito. La verità è che non avrei potuto sopportare un ricovero in ospedale psichiatrico, che mi avrebbe annientata e per questo ho mentito. Per mesi ho avuto idee suicidarie passive e adesso che è quasi un anno che sono sotto antidepressivi, direi che sempre di meno. Va meglio.
Al lavoro non ci sono più tornata. Mi hanno messo in lunga malattia. Adesso il mio lavoro è curarmi e provare a riemergere meglio di prima.
Ho imparato che si può essere depressi e innamorati, aver voglia di morire e ridere allo stesso tempo, passare notti insonni e giorni a dormire, che corpo e testa lavorano insieme, anche quando ti sembra che vogliano farti la guerra. 
La strada è ancora lunga, ma non sono sola. Esco ancora poco, ma parlo agli amici (ogni tanto, anche se lo sforzo è grande) e parlo di quello che sto vivendo (pure se la fatica è titanica). L’amico G., di professione psichiatra, mi ha chiesto se sono seguita. Ho risposto che ho due psicologi (uno per l’EMDR, una clinica) e uno psichiatra e che il prossimo passo è invitarli tutti a fare una partita di strip poker per entrare ancora di più in intimità.
Lo psicologo dell’EMDR mi ha detto “concediti un errore, mostrati trasparente, non abbellire la vita, inciampa”. Così, in tutta fragilità, ho scritto questa cosa e glielo dirò alla prossima seduta. 
Guillaume mi ama, riamato. Ogni tanto, quando mi sente vagare per casa, nel mezzo della notte, si alza anche lui, prende due biscotti e facciamo insieme uno spuntino. 
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francesca-70 · 4 months
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"Sembro una tempesta ma ho un cuore di cristallo. Sembro un uragano ma sono delicata come una farfalla. Basta poco per ferirmi… A volte proprio chi avrebbe dovuto amarmi mi ha fatto più male, chi doveva proteggermi mi ha lasciata sola, chi mi aveva fatto mille promesse non ne ha mantenuta nessuna. Alcune persone non vedono quello che hai dentro nemmeno se gridi. E sono stanca di aspettare, di essere messa in un angolo, di dover ingoiare le lacrime. Sono stanca di essere quella che resta sempre mentre gli altri se ne vanno. Sono stanca di essere sempre quella forte. A volte avrei solo bisogno di qualcuno che mi abbracci e si prenda cura di me quando mi perdo e non so dove cercarmi. Sono fuoco e sono vento, a volte sono un controsenso. Sono la luce del sole e l’acqua salata del mare, sono un cielo di stelle, sono vento sulla pelle. Io resto sempre anche quando fa male, perché l’unica cosa che so fare è amare. Sto solo provando a essere tutto il meglio che posso".
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Chiara Trabalza
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colonna-durruti · 8 months
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Adriano Sofri
E allora tu che faresti coi migranti?
Quando andai in galera nel modo giusto, a mani legate, 53 anni fa, ero un uomo fatto. A Torino, alle Nuove, che erano vecchie, vetuste, ed erano piene di giovani italiani meridionali buttati via. Quando ci tornai, allo stesso modo, in altre galere – le Nuove erano un Museo - un po’ più di trent’anni fa, erano piene di giovani stranieri meridionali, africani maghrebini soprattutto, anche già africani di quelli detti subsahariani, quasi tutti dentro per futili motivi. Li conobbi bene. Provai a dire che erano il fior fiore della generazione giovane dei loro giovani paesi, e che si sarebbe dovuto investire su loro, invece di sbatterli dentro ad abbrutirsi. Si sarebbe dovuto puntare sulla loro intelligenza, energia, e voglia enorme di essere accolti, di far parte – il solo modo che era concesso loro era il tifo per una squadra di calcio italiana, perciò sperticato. A casa scrivevano in genere senza mentire, ma omettendo i dettagli: scrivevano di trovarsi in Italia, a Bergamo, o a Firenze, o a Pisa – dove li avevo incontrati. Quando avevano la fortuna di una telefonata prendevano il tono più felice che potessero, si commuovevano, spiegavano di dover chiudere per i troppi impegni – telefonate rare e brevi, diceva il regolamento. Investendo su loro, e sui loro simili ancora non risucchiati dalla galera, si sarebbero trovati i migliori tramiti, i più sapienti ambasciatori, ai rapporti coi loro paesi d’origine, pensavo, e se ne sarebbe avvantaggiata la nostra vita economica e civile, e la nostra capacità di trattare la migrazione, che non avrebbe fatto che crescere. E che risparmio! Naturalmente, per quanto facessi tesoro della sciagurata situazione in cui mi ero venuto a trovare, e insistessi, per anni, parlavo al vento. Non che non lo sapessi. Via via sentivo gridare all’emergenza, e annunciare stentorei piani, altrettante versioni del “piano Marshall”, fino al piano Mattei di oggi, povero Mattei, povero Marshall. E ho smesso di occuparmi di quelli che: “E allora tu che cosa faresti?...” Niente, o quasi: raccoglierei quello che avete seminato.
Ieri sono stato fiero di quello che ha detto Eugenio Giani, che è il presidente della Toscana in cui vivo. Non solo per il rifiuto della galera più miserabile dell’altra, “Non darò l’ok a nessun Cpr in Toscana”, ma per la spiegazione: “Si stanno prendendo in giro gli italiani, perché il problema dell'immigrazione è come farli entrare e accoglierli, non come buttarli fuori. Se arrivano questi immigrati con i tormenti, le violenze e le sofferenze che hanno subìto, la risposta che dai è 'faccio i Cpr', cioè luoghi per buttarli fuori? Prima rispondi a come integrarli e accoglierli, dar lor da mangiare e dormire. Poi parli anche di quei casi isolati nei quali poter prevedere la lunghissima procedura di rimpatrio".
Prima dar loro da mangiare. Avevo ancora negli occhi i titoli gridati: “Migranti scavalcano il recinto ed evadono a Porto Empedocle”, e la successiva, sussurrata precisazione: “Sono rientrati tutti, erano andati a cercare dell’acqua da bere, e magari qualcosa da mangiare”.
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ragazza-whintigale · 24 days
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𝖄𝖆𝖓𝖉𝖊𝖗𝖊 𝕬𝖗𝖙𝖍𝖚𝖗 𝕻𝖊𝖓𝖉𝖗𝖆𝖌𝖔𝖓 𝖝 𝖗𝖊𝖆𝖉𝖊𝖗
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𝔒𝔭𝔢𝔯𝔞 ➵ Four Knights of the Apocalypse
𝔄𝔳𝔳𝔢𝔯𝔱𝔢𝔫𝔷𝔢 ➵ Comportamento Yandere, sangue, rapimento, abuso di potere, ossessione, prigionia, giochi mentali 
𝔓𝔞𝔯𝔬𝔩𝔢 ➵ 3576
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Non credeva fosse possibile cambiare così tanto.
Questo era quello che pensava (nome), chiusa nella sua stanza con Arthur seduto davanti al camino aspettandosi forse una specie di spiegazione da parte sua. Ma ancora era scomparsa per 16 anni, chissà cosa sarà successo e cosa l’avrà cambiato, anche se in realtà non lo voleva davvero saperlo. Non quando ha ritenuto opportuno e di suo diritto, mandare diversi cavalieri a riprenderla con la forza e a portarla da lui.
Si sentiva alquanto inquietata e sospettosa sul modo rapido con cui l’hanno trovata. Solo 1 giorno di ricerche e Camelot era a 1 mese di distanza a piedi, contando che non avrebbero potuto sapere dove era, questo era decisamente sospettoso. Ma l’unica cosa che potevi distinguere oltre al terrore e al disgusto, era la delusione. Lui le aveva sempre detto che l’amore significava in qualche modo lasciare andare le persone affinché fossero felici, almeno prima di partire ti disse questo e forse eri diventata più romantica di quanto lo fossi a suo tempo.
Nessuno sguardo caldo e dolce che racchiude sempre un po’ della sua infantilità, nessuna considerazione allegra sulla crescita che la giovane di Camelot poteva aver dimostrato in 16 anni. Solo quello sguardo pieno di malvagia soddisfazione nel vederla difficoltà ed fuori luogo.
Questo non era decisamente amore.
❝ Dove sei stata in questi 16 anni? ❞La sua voce attraversò le silenziose mura della stanza, provocando un nodo di brividi lungo tutto il corpo di Lady (nome). Cosa poteva dire? Era attualmente imprevedibile. Mentire era rischioso, chissà cosa le avrebbe fatto se l’avesse scoperto e la verità era troppo complessa da spiegare, anche se avvolte (nome) si convinceva che non esisteva una spiegazione. ❝ In giro.❞ Forse lui avrebbe potuto anche rammentare come la sua amata non fosse mai stata una persona che amava le lunghe spiegazioni . Dalla sua espressione sembra ricordarlo ora.
Un sorriso più profondo unito al divertimento gli balló nelle iridi e sulle belle labbra. Distolse comodamente lo sguardo dalla figura tesa come corde di violino, per portarlo sulle fiamme del camino. Una volta , (Nome) avrebbe giurato che il riflesso del focolare nelle sue iridi, avrebbe in qualche modo dovuto portarle una sorta di calore e conforto, ma questo non avvenne. Forse era troppo cresciuta per definirsi ancora una immatura sognatrice, che non avrebbe mai capito la differenza tra affetto e ossessione, ma ora lo era. Lady (Nome) é abbastanza grande da capirlo, e semplicemente il nodo allo stomaco era l’ennesima tra le conferme. Doveva andarsene.
La ragazza si guardò attorno il più discretamente possibile, cercando di non far trapelare intenzioni che non avesse già esposto prima. Niente era davvero passato sotto i suoi occhi, che potesse esserle di aiuto. ❝ Sei molta carina così.❞ Si era distratta, o forse era meglio dormire che si era concentrata troppo; e non aveva notato che ora la stesse guardando. Lo sguardo era cambiato, come decine di volte in quell’ultima ora di imbarazzanti discorsi a senso unico.
In cui dalle labbra sottili di Lady (Nome) uscivano solo brevi frasi per accontentarlo. Era qualcosa di dolce e malinconico, come se si volesse scusare di cosa le aveva fatto, ma non si è lasciata ingannare. (Nome) abbassò lo sguardo verso la veste color cipria e non disse nulla. Prima che lui potesse venirla a vedere di persona, Alla giovane di Camelot era stato fatto un bagno, vestita, ed infine acconciata. Forse questa era una tradizione utilizzata a Camelot, tuttavia lei nata e cresciuta a Camelot e poteva vantarsi di conoscere abbastanza Arthur, almeno così aveva sempre creduto. Era tutto un trucco per metterla a disagio.
Un vestito rivelatore, che la metteva in mostra agli occhi del re, nessun segreto, segno o pensiero poteva essergli nascosto. I capelli acconciati abbastanza stretti da rendere difficile il corretto scorrere del sangue. Il forte profumo di incenso e fiori gelsomino era lo stesso che aveva odorato all’entrata di Arthur. Infine quei pesanti ornamenti legavano come un collare attorno al suo delicato collo, al pari di un animale al guinzaglio.
❝ Grazie… immagino sia opera tua.❞ Era stata scortese? Lo sperava sinceramente . Si è impegnata a mettere tutto il disdegno e il rancore possibile nella sua voce e sperava davvero che lo notasse. O prima o poi l’avrebbe fatto. Ma ancora sembrava velatamente farlo, dato che rise sommessamente alle sue parole. ❝ Perspicace come sempre, (nome). e questa situazione ti deve mettere così alle strette da renderti nervosa.❞ Non mosse un muscolo.
Non era come se lo stesse nascondendo in effetti, ma questo non voleva dire che lui potesse sottolinearlo. Era palese che quella situazione non le piacesse e il fatto che lui l’avesse detto non l’avrebbe dicerto cambiato, ovviamente. ❝ Non mi sembra di averlo mai nascosto.❞ Aveva risposto schietta e scortese, solo dopo un attimo di silenzio. Lui non parlò allora lo hai fatto tu, ma non sembrava turbato dalla tua impertinenza.
❝ Devo dire che sei cambiata molto in questi 16 anni.❞ Aveva premuto di nuovo il dito sulla ferita, forse il Re di Camelot voleva farla sentire in qualche modo in colpa. Non che ci fosse riuscito un granchè, e non avrebbe certo finto il contrario. Aveva continuato a divagare ancora in discorsi sul passato e sul tempo in cui era stata via. A volte erano domande retoriche che avrebbero dovuto farla sentire in colpa ma che non lo hanno fatto e altre volte invece erano innocenti ricordi che lei aveva deciso di dimenticare per tutto il tempo dell’incontro.
Anche se ad un certo punto aveva smesso ascoltarlo in verità, concentrandosi su una via di fuga. La sua presenza di Arthur era quello che più le rendeva difficile farlo, era ovvio non le avrebbe permesso di fuggire così tranquillamente, quindi doveva distrarlo.
Solo allora i suoi occhi caddero sul set da the in ceramica, che era posato su un tavolino in mezzo a loro. Strano, Lady (Nome) non ricordava che fossero mai stati là, e non deve essere da molto. La bevanda ambrata all’interno della tazzina fumava ancora intensamente, quindi era relativamente da poco tempo che è stata versa. Tuttavia non aveva visto nessuno entrare. Un’idea balenò nella sua confusa mente, forse non la migliore delle soluzioni che avrebbe potuto pensare per risolvere un problema, ma rimaneva l’unica idea che le era venuta in mente.
Con lenti movimenti si mossé lentamente e con eleganza, prendendo il manico sottile della tazzina e per poi lanciare il contenuto sul volto del Re. Grugnì piegandosi su se stesso cercando di alleviare almeno in parte il suo bruciore. La ragazza ne approfittó per correre verso la porta di uscita. Voleva andarsene il prima possibile.
(Nome) allungò la mano per afferrare la maniglia che però scomparve. Rimase pietrificata, come era possibile? Merlin non era presente e Arthur gli aveva chiesto di andarsene e di non intervenire in alcun modo. Quindi come era possibile? Cercò di spingere la porta nella vana speranza che si potesse aprire, ma non funziona. Lady (Nome) inizió a colpire ripetutamente il legno della porta con le mani strette in pugni. Era ovvio che non si sarebbe aperta, non aveva mai avuto un grande forza fisica, e solo ora poteva rammaricarsi con te stessa per non aver cambiato la cosa prima. I colpi, man mano che passa il tempo, si trasformarono in graffi. Neppure questo era di aiuto e osava dire fosse anche più doloroso per le sue mani. Le unghie raschiavano insistentemente il legno fino a consumarsi. Era doloroso ma non si é fermata nemmeno quando le sue ginocchia sono crollate a terra e il suo respiro divenne affannoso oscurando a poco a poco la sua vista. Per quanto (Nome) cercarse di tenere aperti gli occhi era tutto inutile. Si sentiva stanca e affannata, quando poi le mani di Arthur fermarono le sue era stato ancora più difficile, non caderci definitivamente. Alla fine lo hai fatto.
❝ Stai tranquilla (nome), passerà molto presto.❞ Non voleva sapere cosa intendesse, e scivolò nell’oscurità.
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Quando si svegliò, tutto era al suo posto tranne lei stessa. Il fuoco era ancora acceso e le poltrone erano rimaste lì, non erano state spostate. La porta era ancora chiusa e Arthur non era più lì. Un sospiro di sollievo lasció le labbra della giovane ricercatrice, era ovvio che non fosse un sogno. Tutto questo guardando le mani, prive di qualsiasi segno. Le sue unghie erano perfette, curate e dipinte di un tenue colore rosato. Identiche a come lo erano quando le domestiche le avevano curate per lei dopo il bagno. La porta non portava segni dei suoi graffi che era sicura di aver lasciato e la maniglia c’era. Era frustrante non sapere cosa stesse succedendo.
Questo posto avrebbe dovuto portare un calore famigliare e ricordi felici, ma non lo fece. Arthur avrebbe dovuto scherzarci sopra con dolci e innocenti battute. Questo posto non le ricorda niente di così piacevole come la sua infanzia e Arthur era visibilmente cambiato, in peggio ovviamente.
L’unica cosa positiva, che in questo momento poteva trovare era che Arthur non c’era. Sarebbe stato stupido da parte su non approfittarne per guardare meglio l'ambiente e cercare una via di fuga.
(Nome) ha spostato le coperte che avvolgevano il tuo corpo.
Nonostante il torpore dei sensi e la vestaglia leggera che indossava che non apportava molto calore. Il movimento alzò per l'ennesima volta un forte odore, però questa volta diverso. Sembrava un profumo che avrebbe usato un uomo e che sarebbe rimasto impresso sulla sua amata dopo aver passato del tempo con lui. Solo che in tutto questo, (Nome) non era la sua amata e non voleva passare del tempo con lui.
La giovane di Camelot raccolse velocemente una giacca trovata appoggiata sul bracciolo di una delle poltrone e la indossò. Era sua, lo sapeva eppure quella vestaglia era troppo rivelatrice e trasparente per non provare freddo nonostante il fuoco acceso. Raggiunse una delle grandi finestre coperte da pesanti tende per impedire alla luce di entrare, forse per lasciarla riposare. Guardando attraverso la superficie poteva dire con certezza che sarebbe stato impossibile fuggire da qualsiasi finestra di quella stanza.
Non era al pari di una di quelle principesse rinchiuse su una torre, ma comunque la torre é abbastanza in alto da assicurarti una morte rapida, non appena avrebbe toccato il suolo. Forse l’ennesima misura di sicurezza per impedirle di poter scappare, anche se pensavi fosse improbabile. Dalle fattezze e la grandiosità della stanza (Nome) poteva chiaramente dire che era quella dove Arthur dormiva, rendendo l’altezza casualmente strategica. Se davvero avessero temuto per questo, Merlin avrebbe avuto di sicuro qualche incantesimo per risolvere la cosa.
Scosse il capo, non era davvero tempo per pensieri tanto aggrovigliati. Presto sarebbe tornato alla riscossa con qualche altra conversazione, e lei avrebbe trovato un modo per tirarla a suo vantaggio.
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Era dura non trovare un qualsiasi motivo per scagliarsi contro di lui. Per questo aveva iniziato a evitarlo e la cosa era risultata più semplice da quando le era stato permesso di aggirarsi liberamente all’interno dei confini castello. Era quasi divertente, poteva quasi definirlo come un gioco se non fosse che perdere, non significa effettivamente perdere qualcosa, ma avere a che fare con colui che più temeva attualmente.
Questo però non lo ha fermato dal trovarla veramente quando voleva assolutamente vederla.
Quel castello non era normale. Non era un classico con torri e muri antiche. No.
O almeno, questi c’erano, ma non erano nel posto in cui dovrebbero essere. Torri e muro o semplici mattoni separati tra loro erano fermi nello spazio a mezz’aria. Senza fili o pilastri che potessero reggerli. Alberi e piante contorti o spezzati, si dividevano in forme mostruose, altri si alzavano in altezza con rami maestosi. No fiori, no frutti, no foglie. Niente di questi essere sembrava avere vita propria o ancora sembrano non avercela proprio una via.
Camelot era un'ombra assurda e oscura di quello che era stato una volta, e di quello che Lady (Nome) poteva ricordare così teneramente.
Ricorda ancora l’amaro stupore e il disgusto, quando l’ha portato fuori dal castello del re, sospeso su tutto quell’orribile spettacolo. La sua amata città natale sembrava un'accozzaglia di pattume ammassato dove lui governava con orgoglio.
(Nome) ricordò le lacrime che hanno minacciato di uscire e la disperazione mista a disgusto, ma non era arrivata ancora così in basso da concedergli le sue lacrime. Ma gli aveva gridato contro, nessuno ti avrebbe potuta trattenere dall’odiarlo apertamente. Era la cosa ti riusciva meglio in questo periodo è ne andavi fiere. Tutti i cavalieri presenti si erano fermati dalla propria marcia per guardare la favorita del Re di Camelot e temere pietosamente per la sua vita.
Lo aveva preso per il bavaglio e aveva continuato ad interrogarlo su questo.
Non ha detto niente.
Assolutamente niente riguardo a questo. Solo che lei avrebbe prima o poi capito che era anche per il suo bene.
Lady (Nome) decise segretamente a se stessa che lo avrebbe fermato. I loro occhi si scontrarono, mentre se lo sei promise e lui guardava solo con soddisfazione quello spettacolo straziante che ballava e vorticava mele iraconde iridi della sua amata. Conservava ancora quel fuoco che poteva ricordare e Arthur ne fu soddisfatto
(Nome) era sicura che il primo passo fosse capire quale assurda magia o maledizione lo affligge. Non ne sapeva molto di questo genere di cose, nessuno lì era disposto a darle più informazioni di quelle che aveva già. Ricordava amorevolmente che da qualche parte ci fosse una libreria. Almeno una volta c’era, ora non lo sapeva più. Annesso che potesse esserci dentro a quel chaos che era camelot e il suo castello.
Velocemente Lady (Nome) apprese che non sarebbe stato facile muoversi per quei luoghi. Le sale intricate e i corridoi infiniti portano a posti che non ricordava o che semplicemente non c’erano mai stati. Ogni ‘porta’ che attraversava portava a qualche punto diverso del castello e la maggior parte delle volte cambiava ogni giorno. La stessa porta non portava mai allo stesso luogo due volte consecutive.
Questo l’ha destabilizzato. Non sapere quale porta, con il quale una volta avrebbe familiarizzato, l’avrebbe portata nel posto che desiderava e sapeva ci fosse dietro, è in assoluto il modo più destabilizzante di torturarla. Annesso che Arthur la consideri una tortura. Anche gli alberi sono porte, o meglio dire portali, ognuno aveva il proprio incantesimo. Ma (Nome) non era una maga e di conseguenza non possedeva magia.
Solo qualche volta é riuscita a trovare la biblioteca, e il suo orgoglio si sarebbe comunque infranto l'istante successivo in cui Arthur ha sorpassato la stessa porta da cui era entrata ma che sospettava non fosse la stessa da cui era arrivata.
Non ha ricevuto nemmeno la possibilità di aprire un libro, nemmeno una di quelle due volte che era stata lì.
Astutamente, ha cercato un modo di dare un senso a questo posto, segnando su un taccuino quali porte portava in quali luoghi.
Ma era tutto inutile. Ogni giorno cambiava e non c’era un ciclo regolare con cui si sarebbe ripetuta quella sequenza di stanze.
Per questo era qui. Passando scale alla cieca e aprendo porte in vana speranza di un qualcosa. Forse lui poteva comandare anche questo susseguirsi di porte e stanze sempre diverse. Dargli un senso allora sarebbe inutile in ogni caso.
(Nome) incimpò sul tuo vestito ma non cade, è riuscita ad appoggiarsi al muro in tempo. Se si potesse chiamare ancora così ovviamente.
❝ TU non dovresti essere qua. ❞ Il suo viso si alzato alla frase sibilata con stupore. Un qualcuno che assomigliava ad una bambina decisamente graziosa e delicata per un posto come questo, era davanti a te. Voleva pensare che non fosse un posto per lei ma qui niente aveva davvero un senso.
Sembrava conoscerla visto la casualità con cui si è riferita a (Nome), tuttavia era sicura di non conoscerla.
Presupponendo fosse di Camelot era da sedici anni che non ci metteva piede, e lei non sembrava aver più di 10 anni ad occhi. Ma poteva sbagliarsi, é incredibilmente facile farlo in questo luogo. Invece se non fosse stata di Camelot non poteva dire con certezza dove si potessero essere incontrate prima.
❝ Ehm… Ciao piccola… ci conosciamo per caso? ❞ I suoi occhi sembravano stupiti di quanto le parole di (Nome) potessero essere delicate nei suoi confronti. La’ espressione della bambina le diceva questo ma ora come ora (Nome) non era sicura. Aveva un comportamento davvero strano.
❝No…❞ Prese una piccola pausa. Un piccolo respiro. Il tempo sembrava quasi scorrere più lentamente mentre la (colore) aspetta pazientemente che continuasse. ❝ Tu non mi conosci e non ci siamo mai incontrate prima. Ma io ti conosco. ❞ Ci capiva ancora meno ad essere sincera.
❝Non riesco a capire… ❞ Ha allungato una mano, piccola e minuta, adatta alla bambina che era. ❝ Non temere, avevo previsto un nostro incontro… ti spiegherò tutto.❞
Guinevere, questo è il nome della bambina, le ha spiegato tutto sul serio. Ogni cosa. Alcune cose erano vaghe altre decisamente dettagliate.
Da quello che (Nome) poteva supporre con il suo livello di compressione, la bambina poteva essere paragonata ad una qualche sorta veggente, anche se non era proprio così. Kaleidoscope. Si era riferita così in merito alla sua capacità.
Le ha spiegato che aveva previsto che loro si sarebbero incontrate. Non sapeva come, quando e dove ma lo aveva visto. Anche se non aveva mai pensato fosse in questo genere di situazione.
Poi le ha parlato di quello che è successo nei suoi più di 16 anni di lontananza da Camelot. Della guerra santa e del Chaos. Le ha rivelato i piani di Arthur, le ha rassicurato che tutto prima o poi sarebbe finito. Ma non aveva previsto il ritorno della stessa (Nome) - o rapimento -. Le ha spiegato in quale modo questi poteri funzionavano e come li controllava Arthur. Le ha rivelato il motivo per cui lei si trovata qua, e che Lady (Nome) non faceva parte del piano di Arthur. Era solo un capriccio che avrebbe tenuto per sé.
È stato straziante per molti versi ascoltarla e poteva quasi crollare su se stessa. Provò un minimo pietà per Arthur, ma non ha smesso comunque di odiarlo per quello che ha fatto.
❝ Cosa posso fare per fermarlo? ❞ Lady (Nome) giocó inconsciamente con le sue stesse dita, cercando di diminuire la tensione. I suoi occhi grandi la guardavano quasi sorpresa. (Nome) era palesemente impotente, lo sapeva già da sola ed era certa lo sapesse anche Guinevere. ❝ Niente... ❞ Stranamente non riuscì a sentire la delusione da questa affermazione pesare sullo stomaco. Si sentiva come una specie di principessa da salvare, anche se non era una principessa e non si vedeva nemmeno come tale.
❝ … dobbiamo aspettare. Ma ne usciremo di qui.❞ Ha giocato con le sue mani ancora, avvolte prendendo anche l’abito soffice insieme.
❝ E se le cose cambiassero…? ❞ Guinevere sbatté gli occhi con un'espressione accigliata. ❝ Hai detto che il fato non può essere modifica o ci saranno gravi conseguenze… ma se lui riuscisse ad evitare tutte le conseguenze…❞
(Nome) è una persona molto negativa e paranoica per natura, anche se la bambina non lo aveva visto questo, lo ha intuito. Ogni domanda che aveva posto durante la loro chiacchierata era qualcosa di assolutamente catastrofico.
❝ Delle conseguenza ci sono sempre… e lui le affronterà se decidesse di proseguire per questa stra-❞ ❝ Quali conseguenze? ❞
Una voce allegra, quasi al limite del fastidioso arrivó da dietro. Successivamente (Nome) venne avvolta da due braccia, rimase rigida anche quando appoggia il mento sulla spalle e le parlò. Un sussurro basso, ma non troppo, tanto che anche Guinevere lo aveva sentito. ❝La mia signora sta forse complottando contro di me? ❞
Il fianco le mancò o forse lo stava solo trattenendo, come se avesse qualcosa da nascondere. Ma ancora Lady (Nome) non aveva capacità, poteri o abilità straordinarie per poter essere utilizzata per i suoi scopi, era più un capriccio che si era concesso nei suoi piani.
Qualcosa dal passato che non era riuscito ancora ad abbandonare del tutto, nonostante fosse stato lui a permetterle di andarsene in primo luogo.
❝ Avrei qualche possibilità forse? ❞ Era retorica la domanda, con unica risposta. No. Ma lui sembrava quasi divertito. ❝No, mia cara… ❞ disse e poi si allontanò, andando a sedere in una poltrona che non ricordava fosse lì - o forse non c’era mai stata -. Congiunge le mani mentre i suoi gomiti sono appuntati sui bracciolo. ❝ Ma guarda qui… potremmo quasi sembrare una famiglia… ❞ Il primo sguardo fu rivolto a (Nome), con note amorevoli parlò ❝… la madre ❞ si voltò su Guinevere induro lo sguardo. ❝… e la figlia irrispettosa. ❞ Sapeva che le aveva raccontato tutto, non che avesse dubbi. Poi si voltò di nuovo verso la ragazza di cui era ancora innamorato, tornando calmo e rilassato. ❝ O ma giusto! Lei non è nostra figlia… Ma potrebbe essere un buon spunto.❞
Mai! Le guance della (colore) si tinsero e mentre le sue mani strinsero il tessuto già arricciato della gonna. ❝Toglitelo dalla testa, non accadrà mai!❞ Canticchia sommessamente. ❝ Non dare fretta al tempo (nome). C’è un tempo e un luogo per tutto. Quando saremo pronti accadrà senza che nemmeno te ne accorgerai…. ❞ Appoggia il viso al palmo della mano e avrebbe voluto spaccargli la faccia.
❝ …abbiamo tutto il tempo che vuoi. ❞
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falcemartello · 1 year
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1984 è il titolo di un libro di George Orwell scritto tra il 1948 ed il 1949 divenuto ormai famosissimo e, considerato da molti, un vero precursore dei tempi moderni.
Orwell era britannico anche se nato nell'India coloniale e l'ormai iconico suo libro, famoso per aver descritto così accuratamente la realtà distopica recente, non aveva inventato nulla di nuovo.
Fu in realtà lo scritto di un sovietico che lo ispirò; si trattava del libro Noi di Evgenij Zamjatin scritto nel 1919.
Noi di Zamjatin racconta di una società futura in cui gli individui sono controllati da un governo totalitario e devono seguire delle regole rigidissime. Il protagonista, D-503, è un ingegnere che lavora alla costruzione di un'astronave per conquistare altri pianeti. La sua vita cambia quando incontra una donna ribelle, I-330, che lo introduce a un mondo sotterraneo di libertà e resistenza
Ma 1984 fu anche l'anno in cui venne inventato il gioco elettronico più famoso del mondo
Infatti il 6 giugno di 39 anni fa, un giovane ricercatore dell'Unione Sovietica che lavorava al Centro di Calcolo dell'Accademia delle Scienze dell'URSS di Mosca, Aleksej Leonidovič Pažitnov, inventò TETRIS!
Pažitnov si ispirò ai tetramini, delle figure geometriche composte da quattro quadrati uniti tra loro e giustapposti lungo i lati.
Tetris divenne presto molto popolare tra i dipendenti dell'Accademia e poi in tutta l'Unione Sovietica.
A quei tempi, qualsiasi invenzione dei ricercatori sovietici che lavorassero in enti dello Stato (praticamente tutti) divenivano automaticamente invenzioni di proprietà dello stato; nessun ricercatore poteva brevettare a suo nome ed a suo esclusivo beneficio il frutto del proprio genio.
Ma Pažitnov non voleva brevettarlo, voleva che fosse di libero utilizzo.
Rischiò grosso quando si scontrò con il Direttore del Centro di Ricerca di Mosca Nikoli Belikov
Pažitnov anticipò di circa un decennio, l'epoca dell'informatica condivisa degli anni '90.
All'epoca la grafica computerizzata era agli arbori, non esisteva nulla di quello a cui siamo abituati oggi, infatti le ormai famose figure del Tetris formate ognuna da 4 quadratini, erano visualizzati come una successione di 2 parentesi quadre: [ ]
Ma le invenzioni geniali non possono essere tenute nascoste a lungo al mondo ed infatti ben presto si diffusero versioni diverse sia in Europa che in Giappone e Stati Uniti.
A quei tempi i 3 mercati principali erano molto chiusi uno all'altro, ed ognuno di loro aveva proprie licenze di utilizzo distinte dalle altre. Fu quindi così che la Nintendo giapponese sviluppò la sua versione e la Atari Games statunitense la sua.
Ci furono feroci ed estenuanti scontri legali tra l'Unione Sovietica contro il Giappone e gli Stati Uniti; The Tetris Effect: The Game that Hypnotized the World di Dan Ackerman è un libro che spiega bene tutte queste fasi
Ma la Nintendo e la Atari avevano ottenuto le licenze da intermediari diversi e questo generò scontri ulteriori.
Fu infine la patria del capitalismo, gli Stati Uniti, che con un proprio Tribunale, decise chi avrebbe dovuto guadagnarci dalla distribuzione del Tetris, infattu nel 1989 decise che Nintendo aveva i diritti esclusivi per la distribuzione di Tetris per le console mentre la Atari Games, li avrebbe avuti per le sale giochi.
(Luperco)
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der-papero · 8 months
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Ciao Papero. Sono appena stata al sud in quel che era casa mia, un paese di campagna, con l'abuso edilizio di fianco alle vecchie case di tufo con il portone ad arco. I miei genitori pure sono emigrati e giù mi sono rimasti pochi parenti, al nord ho un buon lavoro e una casa. Ma non ho le montagne a circondare la vallata, non ci sono le terre con le pecore a pascolare, non c'è l'arte di arrangiarsi. Faccio l'orto e le conserve come faceva mia nonna ma non ho nessuno con cui parlarne, con cui scambiare questo sapere che si va perdendo. Sono stata definita una risorsa fondamentale nella mia azienda, mi stanno facendo proposte ma tutto quel che vorrei è tornarmene in una casa che ormai non c'è più, a vivere di ricordi, dove mi basta pochi minuti per arrivare al mare, per arrivare sotto al nostro vulcano, per arrivare forse alla serenità.
Ne stai parlando con me, cosa della quale ti ringrazio profondamente. Magari puoi considerarlo un inizio, anche infinitamente piccolo rispetto a quel vuoto che provi, e che capisco più di tante altre cose.
Tanti anni fa, una blogger che io ammiro tanto, @vesna-vulovic (la cosa diciamo "buffa" è che ho dovuto smettere di essere un imbecille per poter apprezzare quello che scriveva), quando ancora aveva il vecchio blog, scrisse una frase che non dimenticherò mai, ovvero che quello che manca della nostra casa (nel caso del suo post era l'Italia) è una idea di casa che è tutta nella nostra testa, ci manca un qualcosa che da un lato ci è stato tolto con la mancanza di scelta, e dall'altro forse non esiste più, se non in pochi pezzi di spazio e tempo, che proviamo a costruire con una vagonata di pazienza e con la forza della disperazione.
A me fa male leggerle queste parole, ma non perché non siano belle o sincere, ma perché spero sempre di essere il solo a sentirle e di non vivere con l'idea che un'altra persona possa sentirsi "straniero nella sua nuova casa", ma mi accorgo che siamo un popolo importante e silenzioso, un popolo che avrebbe potuto tranquillamente buttare merda sui luoghi da dove proviene, come fanno tanti per giustificare la loro partenza, forse anche con delle ragioni reali, ma non è di ragione che stiam parlando, e invece vive costantemente in quell'amore silenzioso, tipo quello che potresti provare per i tuoi figli, anche se sono le peggiori creature di questo pianeta, perché sono il legame più forte che hai, ma poi la vita ti mette davanti a delle scelte, e da quelle non si scappa.
A me fa male anche non poterti dare alcun consiglio o soluzione, credimi, se li avessi, egoisticamente li userei per me. Non saprei cosa consigliarti sul tuo lavoro, se accettare o meno tutto quello che l'azienda meritatamente ti offre, o mandare tutto al diavolo e tornare alla tua vera casa. Se non lo facessi non mi azzarderei minimamente a puntare il dito o a rinfacciarti qualche numero da busta paga, giusto per motivare la mia miopia.
Posso solo inviarti un abbraccio fortissimo, per il resto so già che farai ciò che è giusto per te.
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kon-igi · 10 months
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QUELLA VOLTA CHE MI HANNO CHIESTO PERCHÉ NON CREDESSI IN DIO
Praticamente eravamo io e Dio in una cantina di Ixtlán del Río e c’era questo messicano ubriaco vicino al nostro tavolo che continuava a fissarci in malo modo e Dio, il solito sbruffone, gli dedicava versi strani ciucciando il limone della tequila. Smettila subito – gli faccio – sennò finisce come quella volta che eravamo in macchina e mostravi il dito medio a quei bambini sulla scuolabus… i genitori ci hanno circondato la macchina e tu hai dovuto tirare fuori la storia dell’angelo della morte e del primogenito per non farti gonfiare di botte. Sì, ma questa volta è diverso – mi fa Dio, tenendo in bocca una fetta di limone e fischiando la Cucaracha e, poi, a voce alta – questo messicano puzza così tanto da farmi pensare che si sia impomatato i baffi con piscio di mulo! Io sapevo che Dio era un attaccabrighe spaventoso e infatti la sua biografia era piena di infantili attacchi di protagonismo e di isteria da prima donna, ma quando sentii tutte le sedie della cantina muoversi e vidi una trentina di messicani incazzati mettere mano ai navajas, pensai con rammarico che Nietzsche avrebbe avuto finalmente ragione. Deténgase, por favor! – faccio io alzando le mani e poi a bassa voce rivolto a Dio – E adesso stai zitto! Fai parlare me una volta tanto e forse questa volta ce la caviamo senza farci rattoppare! -- Amigos agricultores, mineros, carpinteros, criadores – indico tutti gli avventori della cantina – debe perdonar mi compadre que è muy dolorido por la muerte di su hijo… el su niño… (parlottio) que se llamava, ehm, Jesus (cenni di assenso e di comprensione)…ehm… e su madre es ademas dolorida… – i coltelli rientrano nei foderi e a questo punto i clienti sembrano essersi calmati e fanno per mettersi a sedere, quando Dio si alza in piedi e urla – … E ANCHE QUEL CORNUTO ROTTINCULO DI GIUSEPPE FA L’ADDOLORATO MA TANTO LO SO CHE GLI BRUCIA ANCORA  PERCHÉ GLI HO TROMBATO LA MOGLIE! E A DIRLA TUTTA SONO VENUTO IN QUESTO POSTO DI MERDA PER BERE TEQUILA E PER TROMBARE ANCHE LE VOSTRE… E LA TEQUILA E’ APPENA FINITA! 
Ci facemmo ricucire da un barbiere di Fresnillo e fu così che da quel giorno giurai a Dio che non avrei più creduto a una sola parola di quello che sarebbe uscito dalle sue labbra.
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ophelia-northwood · 1 month
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Ophelia&Helyas
chapter i
"il tetto si è bruciato, ora posso vedere la luna"
Era una notte buia quella che investiva Londra. La vita però non si era ancora, completamente, rintanata tra le mura domestiche, qualcuno si ostinava a bighellonare in qualche pub tra le note rimbombanti delle casse stereo ed i boccali di birra che tintinnavano tra loro come avevano già fatto la prima volta.
Ma la vita scorreva in tutta naturalezza, ignorando, forse deliberatamente, il respiro del male che pure strisciava nel medesimo buio.
Era un mondo, quello lì, diviso in maniera netta. Da una parte si ergeva il bene e dall'altra si annidava il male, le uniche zone grigie erano costituite dagli esseri umani che chiudevano gli occhi e si rifiutavano di vedere, intenti nella perenne oscillazione senza giungere ad una tregua.
Ophelia Northwood faceva parte di quella porzione di universo nascosto che combatteva l'oscurità giorno per giorno, scongiurando la morte e le atrocità che i demoni perpetravano sulla Terra.
Attendeva con le mani nelle tasche di un elegante cappotto azzurro pastello, i lunghi capelli biondi scendevano morbidamente sulle spalle in ordine impeccabile. Era lì da appena qualche minuto, le era stato spedito l'ordine per una nuova spedizione sebbene, in un certo senso, non si sentisse così entusiasta di prendervi parte.
La muoveva un motivo del tutto personale che aveva tentato di sopire con una puntualità assoluta. Quella missione avrebbe dovuto svolgerla insieme ad Helyas Baskerville e non ci sarebbe stato proprio nulla di strano, se solo non fosse stato che, quell'uomo sarebbe un giorno diventato il suo sposo.
Helyas e Ophelia si erano scambiati a stento qualche parola, non avevano mai avuto molto da condividere se non lo stupore per la notizia del loro fidanzamento ufficiale saltata fuori senza preavviso. Da lì in poi le occasioni per frequentarsi e scoprire reciprocamente qualcosa dell'altro si erano fatte via via più complesse da gestire ed era regnato sovrano un tacito silenzio come se, evitarsi avrebbe lenito ad Ophelia l'imbarazzo di trovarsi l'uno di fronte all'altro e forse chissà rendere sempre più intangibile quel futuro prossimo di cui né l'uno né l'altra aveva avuto facoltà di esprimere un'opinione.
Funzionava così nella società dei cacciatori, era essenziale proteggere i marchi e preservarli dai mutamenti del tempo affinché quella guerra perenne avesse ancora una chance di essere vinta. Persino uno sospeso nella zona grigia come quello che si portava lei addosso.
Ophelia mosse qualche passo solo quando riconobbe la figura di Helyas poco lontano. Si trovò, solo in quell'istante, a domandarsi se anche lui avesse vissuto con lo stesso disagio scoprire che sarebbe stato costretto in missione proprio con lei o se invece non gli fosse interessato affatto. E tra l'una e l'altra possibilità, Ophelia si scoprì a non saper decidere quale fosse la peggiore.
Ad ogni modo lo raggiunse e con la solita spontaneità, Ophelia si trovò a schiudere un sorriso leggero.
«Buonasera Helyas!»
 «Andiamo?»
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