Tumgik
#ci sono stato una volta ma ero troppo piccolo quindi non conta
gelatinatremolante · 2 months
Text
Perché per essere sicuri di trovare dei biglietti per la Galleria Borghese bisogna prenderli più di un mese prima?? Io non sono sicuro nemmeno di cosa farò tra due giorni
23 notes · View notes
nubesnoctis · 5 years
Text
Odio dilagante e altre creature made in Italy.
Siete ciechi.
O meglio, preferisco pensarla così. Vi sto giustificando. Opto per la cecità perché pensare che, invece, non vogliate vedere ciò che succede intorno a voi mi dà il voltastomaco. Magari siete sotto l’effetto di stupefacenti e non lo sapete, vi hanno messo una pastiglia nel bicchiere e non l’avete notato. Non so più che altro pensare se non questo.
Il ministro dell’interno è quello che ha paragonato la Boldrini a una bambola gonfiabile. A voi donne piacerebbe essere paragonate a un oggetto di gomma? No, chiedo, perché magari sareste contente e sono io che mi sbaglio. Veramente quando accalmate il vostro ministro siete consapevoli del fatto che ha accostato una donna a un oggetto? Era in disaccordo con le sue idee, quindi? Meritava di essere definita come una bambola gonfiabile? Perchè sappiamo tutti a che cosa servono le bambole gonfiabili, no? Se siamo noi donne le prime a non ribellarci di fronte all’oggettivazione sessuale non so dove andremo a finire e direi che finire peggio di così è una sfida non indifferente.
Andiamo avanti. Forse non vi rendete conto di che cosa significa “incitamento all’odio”. Ve lo dico io:
si intende “un particolare tipo di comunicazione che si serve di parole, espressioni o elementi non verbaliaventi come fine ultimo quello di esprimere e diffondere odio ed intolleranza, nonché di incitare al pregiudizio e alla paura verso un soggetto o un gruppo di persone accomunate da etnia, orientamento sessuale o religioso, disabilità, appartenenza culturale o sociale e via dicendo.” (https://it.wikipedia.org/wiki/Incitamento_all%27odio)
Il 12 luglio 2018, quindi un anno fa, la Corte di Cassazione (non io, non voi, non il figlio dell’amica del fratello del marito del benzinaio) sostiene che l’aggravante dell’odio razziale si possa applicare anche a chi usa espressioni come “Che venite a fare qua, andate via”. (https://www.repubblica.it/cronaca/2018/07/12/news/migranti_cassazione_dire_andate_via_e_razzismo-201576353/) Il nostro ministro dell’interno ha condiviso la notizia e ha aggiunto la didascalia “Andate via! Andate via! Andate via!” che comportamento maturo. Complimenti. Un atteggiamento davvero da macho, da vero ministro dell’interno. Bravo.
Il ministro dell’interno era quello che cantava “senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani…”. Se al posto di “napoletani” ci fossero stati lombardi, liguri, piemontesi, toscani, emiliani… Voi che abitate in quelle regioni sareste stati contenti di sentire un soggetto politico cantare queste canzoncine? Ripeto, magari sono io, magari a me non piacerebbe che qualcuno mi definisse un essere disgusto, ma sono pareri. Vogliamo parlare di quella volta, nel 2014, in cui il ministro dell’interno è stato, scusate il francesismo, cazziato al Parlamento Europeo? Perchè magari vi è passato di mente, ma è così.
Allego video: https://www.youtube.com/watch?v=SrBOQc6jFNw
E sapere che, dopo cinque anni, sbraitando sull’immigrazione su Twitter, Facebook, Instagram eccetera eccetera, le cose non sono cambiate, l’assenteismo di questo soggetto è sempre lo stesso e non per impegni importanti, bensì per andare a sproloquiare in televisione, non mi tira su il morale. (https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/06/08/salvini-va-da-barbara-durso-e-salta-un-altro-consiglio-ue/5240294/)
Parliamo anche del chiudere i porti: non mi pare che sia compito del ministro degli interni chiuderli. Al massimo dovrebbe essere il Ministro delle Infrastrutture a proporre di volerli chiudere. Il ministro dell’interno si deve occupare della sicurezza.
Io non mi sento molto sicura nel mio Paese, dato che non posso manifestare perché gli striscioni mi vengono tolti, non posso dire la mia da nessuna parte perché rischio di sentirmi dire che anche io merito di essere violentata con un palo nella vagina. Pensare che se sono un magistrato e oso fare il mio lavoro, sono obbligata a chiudere il mio profilo facebook per i troppi insulti. Solo perché non va bene a qualcuno.
Senza nemmeno citare il fatto che, se salvo vite, (già perché è questo che ha fatto Carola Rackete. Potete dire quello che volete, potete non essere d’accordo con lei, potete anche odiare i migranti, ma lei li ha salvati; perché, news dell’ultima ora, sono esseri umani, come voi e me. Forse più di voi e me) vengo etichettata come “ricca viziata”. Se sono in disaccordo con quello che dite voi sono una buonista, una del PD, una comunista. Buonista poi cosa significa? Ah ecco:
“atteggiamento che, nei rapporti politici, di lavoro, familiari, viene considerato troppo incline alla comprensione e alla collaborazione da chi preferirebbe un comportamento più duro e aggressivo” (https://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=buonismo) oppure “Atteggiamento di benevola apertura e comprensione per tutte le posizioni, accusato di non andare al di là di generici appelli moralistici, capaci solo di produrre compromessi confusi e di basso livello” (https://dizionari.repubblica.it/Italiano/B/buonismo.html).
Sono troppo tollerante, insomma. Specialmente nella prima definizione si dice “chi preferirebbe un comportamento più duro e aggressivo” quindi tutti quelli che sperano nello stupro, tutti quelli che menano dei ragazzi accusandoli di essere antifascisti? E allora sì, sono una buonista. Nella seconda definizione “Comprensione per tutte le posizioni – anche e soprattutto quelle contrarie alla mia – ...accusato di non andare al di là di generici appelli moralistici – confermo: la mia morale mi impone di salvare le persone. È così, ho questo difetto – capaci solo di produrre compromessi confusi e di basso livello”  l’unico compromesso che chiedo è di arrivare a un dialogo e di confrontarsi in maniera civile, senza arrivare ad augurare lo stupro e senza augurare che le persone muoiano in mare, poi non so quale altro compromesso esista. Il dialogo è l’unico compromesso che permette un confronto, con delle argomentazioni valide e non ricorrendo a frasi come “ci rubano il lavoro” o “prenditeli in casa tu” o “eh ma dobbiamo prenderli tutti noi”, perchè lo ammetto: se queste sono le vostre argomentazioni non vi prendo in considerazione. Rispetto all’essere in disaccordo e, quindi, essere ovviamente, senza nessun’altra opzione, elettori del PD o comunistimangiabambini... Non arrivate nemmeno a pensare che è l’ideologia che conta e magari la mia ideologia non si avvicina nemmeno lontanamente a quella del PD. A sinistra ci sono altri partiti oltre al PD, potrei aver votato quelli, no? Forse sbaglio. O PD o comunismo: aiutatemi, che partito bisogna votare per risultare comunista? O c’è un partito che si chiama “Comunisti” e basta? Perché sulla scheda elettorale non l’ho visto, non ho nemmeno letto un programma elettorale. Boh.
Un’altra cosa che mi domando è: pubblicate la foto del bambino africano pelle e ossa sostenendo fermamente che lui sì che lo accogliereste, lui sì che va aiutato. Non capisco. Davvero non comprendo: che differenza c’è tra quei bambini? Io vedo solo dei bambini. Uno pelle e ossa, uno che arriva su un barcone (o che se non ci arriva è steso con la faccia nell’acqua, nel Rio Grande oppure su una spiaggia). Forse è che il bambino sul barcone non è pelle e ossa? Ah, certo, è questo: è necessario che il piccolo sia scarno, con uno strato irrisorio di pelle, che sia quindi a tanto così dalla morte, altrimenti chi ci crede che sei un bambino che sta scappando dalla guerra, che sei povero? A chi la vuoi dare a bere, bambino sul barcone? Perché invece è ovvio che il bambino che arriva sul barcone stia bene, è un fiore, e soprattutto non ha avuto paura di morire durante quel viaggio! Che sciocca a non aver notato tutti quei sorrisi sui volti dei bambini che arrivano in Italia, ero accecata dalle nike fluorescenti probabilmente. Chiedo venia.
Io credo che l’unica possibilità che io abbia per lamentarmi siano proprio i social network. Più voi condividete i post del capitano… Ecco un momento: capitano. Capitano di cosa? Io ogni volta che lo chiamate Capitano penso alla canzone di DJ Francesco. Se penso a un capitano penso a Francesco Totti. Questo per puntualizzare perché proprio non capisco di cosa sia capitano. Al massimo “capo” di un partito che ha rubato 49 milioni. Perché capitano di un partito non suona bene, secondo me. Dicevo, più voi condividete il post di quello che inneggia alla violenza e indossa le felpe, più io condividerò articoli validi e attendibili di quotidiani seri, (e non post condivisi da pincopalletto con scritto “Giobbe Covatta ha detto che stiamo sbagliando ad accoglierli!1!” per poi scoprire che è una fake news del 2018), più voi scriverete che chi salva vite merita di essere stuprata e più io scriverò che la violenza non è mai la soluzione. Anche se non vi interessa, anche se non leggete, anche se nascondete l’evidenza, se rifiutate la verità. Combatterò la vostra ignoranza con la cultura, la vostra arroganza con l’educazione. Voglio concludere solo dicendo che Liliana Segre che ha visto e toccato con mano il fascismo, i campi di concentramento, sostiene di vedere lo stesso odio dilagante di quell’epoca. Chi altro vi deve dare conferme? Chi altro può darvele se non chi le ha provate sulla propria pelle? Aprite gli occhi.
8 notes · View notes
len-scrive · 5 years
Text
Mi ricordo.
Mi ricordo.
Mi ricordo che mi svegliavo, aprivo gli occhi e la prima, primissima cosa a cui pensavo era quale numero avrebbe mostrato la bilancia.
Mi ricordo che se quel numero cominciava per cinque, la mia giornata era rovinata.
Mi ricordo le ore spese a contare ogni singola caloria, mi ricordo le ore spese ad organizzare le porzioni già pesate, a decidere cosa dovevo togliere da pranzo e cena se volevo un biscotto durante la giornata.
Mi ricordo quanto non sopportavo che mi si guardasse nel piatto o che mi si chiedesse cosa stavo mangiando, anche solo per curiosità.
Mi ricordo il tempo trascorso a scegliere i video di ginnastica da seguire. E ogni giorno, immancabilmente, le due, tre ore di ginnastica.
Mi ricordo ogni santa volta davanti allo specchio a dirmi che avevo la pancia. Perché diavolo la pancia non andava via?
Mi ricordo tutte le persone che mi dicevano quanto ero dimagrita, brava! Che bella che sei.
Mi ricordo che pensavo che era una cosa in cui ero brava. E dannazione le cose in cui mi ritengo brava sono poche, perciò come mi attirava continuare con quella. Raggiungere risultati in ciò che si fa è il massimo della soddisfazione e io non ne avevo molte altre.
Mi ricordo tutti i film, i documentari, le storie che leggevo sui disordini alimentari per sincerarmi del fatto di non avere il problema.
Il fatto era che non l’avevo.
Nel senso, ora so di averlo avuto, in testa, ma certe cose, se ne esci da sola, se arrivano e passano, se non lasciano danni visibili all’esterno… Allora vuol dire che non sono mai successe, per chi ti guarda da fuori.
Se non hai avuto bisogno d’aiuto allora non era poi così grave.
Beh, voglio accennarvi questa storia perché forse io stavo nel mezzo: non troppo, né troppo poco. Forse io non ci sono annegata dentro come a tanti, troppi ragazzi capita. Forse come al solito io non sono stata né carne né pesce, perfino nei miei problemi.
Ma tutto ciò può diventare grave, gravissimo. Così improvvisamente da non rendervene conto. A me è successo senza che me ne accorgessi. E assolutamente non pensavo di farmi del male, quello lo capisci solo dopo.
Se ci penso adesso non mi capacito di come il fatto di pesare cinquanta chili potesse essere il tarlo di un’intera giornata, eppure succedeva solo pochi anni fa.   
Ricordo che un giorno allo specchio non ho visto più le curve che avevo e ho cominciato a sospettare di aver esagerato. Quando ho perso il ciclo ne sono stata certa.
Avevo esagerato.
Però era ancora una cosa che ero brava a fare, per me era mangiare sano, e tra una correzione e l’altra all’alimentazione continuavo.
Ed era il pensiero fisso della fottuta giornata.
Inaccettabile.
Se solo penso a chi si trova ora, in questo momento, a combattere contro quel pensiero avrei voglia di cancellarglielo con un colpo di spugna così da liberarlo per sempre.
Perché la liberazione da quel pensiero è ciò che ti cambia la vita.
Quando tutto quello ha smesso di essere importante ricordo di aver pianto, un giorno, sotto all’albero di ciliegie. Perché finalmente potevo mangiarle senza pensare che ogni ciliegia erano cinque calorie in più che andavano conteggiate. Ancora oggi mi commuovo al supermercato quando infilo nel cestino un cibo senza prima calcolare quante calorie apporta una sola porzione.
E non c’è nulla di sbagliato nel sincerarsi di non mangiare merda, nel non esagerare con le patatine fritte, nel non finire la vaschetta del gelato… Ma non è il centro del fottuto mondo.
Se ci pensate troppo… Vi prego di credermi che non è importante. Non lo è.
Non racconto mai cos’ho provato in quel periodo, primo, appunto perché il salvarsi da soli conta sempre molto poco e, secondo, perché si sminuirebbero tutte le motivazioni che mi hanno portato a dire basta.
Le MIE motivazioni.
E una di queste è stata la serie Hannibal.
O meglio… La quantità di storie scritte in questi tre anni.
Scrivere mi ha aiutata. Ma scrivevo anche prima, quindi è stato più scrivere con un fuoco dentro che avevo perso da tempo, ormai delusa e sfiduciata.
Mi ha aiutata rendermi conto che per avere tempo di scrivere e lavorare tutto il resto doveva passare in secondo piano.
Insieme a quello ovviamente ci sono stati motivi tangibili e personali altrettanto importanti, ma Hannibal è stata la motivazione più soddisfacente, quella che mi ha portato dal buttare le mie giornate a fare qualcosa che mi stava abbattendo al riempire le mie giornate con allegria, creatività e voglia di condividere.
Ma ho fatto tutto da sola. Senza farmi vedere da nessuno.
Da sola ho vissuto questo periodo buio e da sola me ne sono tirata fuori.
Non c’entra un cazzo essere deboli, essere suggestionabili, avercelo nel sangue… Non c’entra un cazzo. Può capitare a chiunque e non necessariamente chi sta attorno a quel chiunque se ne accorge. O se anche se ne accorge dire “Sei troppo magro” non serve a nulla.
Perché solitamente non ci si guarda con gli occhi degli altri.
Io voglio solo dirvi che è meraviglioso poter contare sulle persone attorno a voi ed è meraviglioso avere nel cuore la certezza che le persone attorno a voi sono lì per aiutarvi.
MA.
Se ciò non dovesse accadere nell’immediato o se, com’è normale che sia, gli altri hanno i loro guai a cui pensare e magari non si accorgono dei vostri, trovate la forza di aiutarvi da soli. Io posso testimoniare, nel mio piccolo, che a guardare indietro dopo si capiscono molte cose che non si capivano mentre ci si trovava lì in mezzo.
I disordini alimentari sono una questione di testa.
Non è per apparire più belli o per diventare attori che si guarda tanto alla pesa.
È perché non ci si sente bravi in altro, come nel mio caso, o magari perché pensiamo che quello che mangiamo è l’unica cosa che possiamo controllare nella nostra vita o perché ci sentiamo indegni del ricco pasto, dei dolci o della pizza.
Invece non esiste niente e nessuno che deve farvi sentire in quel modo, men che meno voi stessi. La vostra vita, ma anche solo la vostra giornata, è troppo preziosa per focalizzarsi su cose alimentate da voci di sottofondo che vanno zittite. Sempre.
Quando le voci dicono che non siete bravi, che siete indegni o che non valete abbastanza prendete le voci a calci in culo.
Non posso essere più utile di così e me ne rammarico. Ma se queste poche parole possono servire a qualcuno a trovare la forza per dirsi che non è così che vuole vivere, allora sarò infinitamente grata a me stessa di averle scritte.
E sebbene questi non sono né saranno mai ricordi piacevoli, non li ho condivisi per mettervi tristezza, anzi l’opposto.
Da soli non è mai facile, ma da soli si può. Sempre.
Posso essere cinica quando si tratta del mondo e delle ingiustizie che lo popolano, ma non lo sono mai quando si tratta di forza di volontà e capacità di risollevarsi, di cadere e rialzarsi, di camminare sui gomiti per un po’ e poi all’improvviso mettersi a correre.
Quella scintilla è dentro tutti noi, bisogna solo cercarla e aggrapparsi alle motivazioni che da quella scintilla poi si trasformano in fuoco.
E penso di aver scritto tutto questo anche perché sono stufa di sentir dire che i disordini alimentari sono il vezzo dei ragazzini che guardano al mondo del cinema e vogliono assomigliare agli attori, sono stufa di sentire “Guarda quella come s’è conciata per diventare magra”, e veder trattare le persone affette da questo disturbo come imbecilli che si guardano allo specchio e vogliono vedere apparire l’immagine di un’attrice o di un attore al posto della loro.
Sono altrettanto stufa di sentire che questo non è un problema maschile.
Vorrei tanto che chi non sa nulla sull’argomento non si permettesse mai di aprire bocca, vorrei che chi non sa nulla sull’argomento parlasse per una volta con chi sta vivendo quest’incubo per capire che è un incubo spaventoso e che sapere che ci si sta facendo del male troppo spesso non è abbastanza per smettere.
Ed io sono proprio l’esempio vivente che non ci si casca per essere più belli.
Volevo solo raggiungere risultati. Mettere i miei sforzi in qualcosa che poi si realizzava esattamente come avevo previsto.
Ci sono persone a cui questo può sembrare poco, per me è tutto.
Ho lottato tanto per distogliere la mia attenzione dalla cosa sbagliata e andare su quelle giuste, o almeno su quelle che non mi fanno del male. Ancora oggi certi commenti fatti senza pensare mi bruciano, ma me li scrollo di dosso. Ancora oggi se mi chiedi cos’ho nel piatto l’associazione di idee a quel tempo mi fa rabbrividire.
E auguro a chiunque sta leggendo ed è nel bel mezzo di questa lotta di non mollare mai.
Schermate le vostre orecchie dai commenti di chi non comprende o di chi non ha abbastanza tatto per trattare l’argomento.
Non si può chiudere la bocca a certe persone, ma si può non ascoltarle.
31 notes · View notes
Tumblr media Tumblr media
Signora: Remì, non andare mai, mai e poi mai oltre i confini della foresta o il mostro della foresta ti divorerà!
Disse l'anziana signora con tono autorevole e preoccupata al Nipote.
Remì: Nonna, ma tutti parlate di questo mostro, ne avete grande paura, ma esattamente chi è?
Chiese il piccolino con la curiosità che solo un bambino poteva avere
Nonna: Oh caro mio...siediti, adesso ti racconto una storia...Tempo fa c'erano quattro bambini: Tiny, Milia, Sammy, Beth
Remì: Nonna! La bambina si chiama come te! AHAH!
L'interruppe il bambino, divertito
Nonna:Si caro, è vero, ora riprendendo il discorso...
Era una giornata come le altre, ovvero calme, tranquille e terribilmente noiose per i bambini e quindi per passare il tempo i bambini di cui ti ho parlato prima decisero di giocare al Beholder nascosto, nella foresta vicino.
Disse la signora con un viso ferito da alcuni ricordi, probabilmente molto tristi.
Beth: Ragazzi io non posso più giocare, devo tornare a casa o mamma si arrabbia.
Tiny: Va bene, ciao Beth. Dai Sammy, ora tocca a te contare!
Milia: Si dai Sammy, conta tu!
Sammy: Ok! 9..8..7..3..2..1. Pronto o no il Beholder si è nascosto. 
Con tanta euforia e tanta energia per vincere al gioco Sammy controllò dietro ogni albero, ogni arbusto, ogni roccia, ma nulla i bambini erano introvabili; era passata ormai metà giornata e i suoi amici si erano volatilizzati.
Sammy: Ragazzi dove siete??? Non vi trovo!!
Iniziò a urlare il piccolino, ormai stanco di cercare
Milia: Sammy sono qui! Nel centro della foresta!! Aiutami, Tiny è stato...ahhh!
A quell' urlo Sammy non potette fare altro che correre, verso il centro della foresta, alla ricerca dei suoi amici. Arrivato al centro quello che trovò fu il nulla se non una statua che rappresentava una creatura strana, deforme, anomala ma vagamente umana ornata ma con delle bende, proprio una di queste si trovava per terra, vicino a un corpo mutilato, sfigurato e fatto a pezzi .
In quel momento la paura si insinuò come un brivido freddo nel corpo di Sammy
Sammy: Ragazzi dove siete!!! Non vi trovo, coraggio strillate!
Urlò Sammy mentre cercava i suoi amici, finché un'altra voce non interruppe le sue urla.
Voce sconosciuta: Mi dispiace! Ma ormai è tardi per loro, non li troverai!
Disse una voce fortemente gutturale, inumana e vagamente famelica.
Sammy: Chi sei?
Urlò il piccolo in preda all'ansia.
Voce sconosciuta: Oh! Sono qualcosa che solo voi umanoidi potevate risvegliare, sono qualcosa che va oltre le vostre comprensioni, ma per te farò un eccezione, e proverò a spiegarti... io sono un araldo e sono stato creato da voi, dal vostro odio, dalla vostra fame, dalla vostra cattiveria che si è condensato in un unico corpo creando me.
Per Sammy tutto ciò che diceva il mostro era qualcosa di altamente distante, quasi come se non lo riguardasse, insomma un discorso troppo complesso per un bambino.
Sammy: Io! Io non ho paura di te!
Disse mentre tremava quasi a contraddire ciò che egli aveva detto. Subito dopo tali parole un dolore allucinante colpì Sammy al braccio, quando fece per controllare quello che vide fu una cosa orribile, una creatura deforme, abominevole alta minimo tre metri, che era inginocchiato vicino a lui..la stessa creatura che veniva rappresentata nella statua, che stava divorando il suo braccio.
Sammy:  Ah!!! Bastardo! Mi fai male!
Disse Sammy piangendo e disperandosi, mentre provò ad allontanarsi dalla creatura la quale gli strappò il braccio con una forza inumana.
Mostro: Oh.. Odiami pure se vuoi, da al mio pasto quel tocco che non guasta mai!
Preso dalla paura, Sammy iniziò a correre verso il villaggio.
Mostro: AH AH AH! Prova a scappare se ci riesci, ma ne dubito!
Proprio come un predatore insegue famelico la sua preda, tale orrore inseguiva Sammy. Dopo una breve corsa, interrotta dalla caduta di Sammy sul cadavere del suo amico Tiny, il mostro lo raggiunse e con un morso gli ruppe l'altro braccio.
Con l'adrenalina nel corpo che non gli fece sentire dolore, Sammy iniziò a scappare di nuovo, questa volta corse per molto più, forse duecento metri finché non fu quasi arrivato ai confini della foresta dove l'orrore gli si parò davanti.
Mostro: Ah! Ah! Non c'è cosa più bella dell'antipasto, ma ora meglio passare al piatto principale
Disse il mostro, con un ghigno malefico, quasi compiaciuto di quello che stava accadendo.
Così dicendo il mostro iniziò ad allargare la sua bocca, la quale raggiunse la dimensione adatta per divorare un bambino e si fiondò su Sammy, il quale con un colpo fortuito riuscì a colpire il mostro all'occhio. Urlante e paralizzato per il dolore il mostro si inginocchiò su se stesso,  Sammy sfruttò tale occasione per uscire dalla foresta e tornare al villaggio.
Nonna: Al suo ritorno Sammy raccontò tutto agli anziani e agli abitanti prima di crepare per dissanguamento.
Disse la signora, mentre tratteneva a stento le lacrime
Remì: Nonna e tu come sai che questa storia è vera?
Domandò con ingenuità il bambino, mentre cercava di asciugare le lacrime della nonna.
Beth: Oh io c'ero figlio mio, quella bambina che non poté giocare e che dovette tornare a casa..ero io.
Disse la donna abbracciando suo Remì
Beth: Promettimi! Ora che non andrai mai nella foresta, fallo
Remì: Si nonna, lo prometto.
6 notes · View notes
ilarywilson · 6 years
Text
feel like a six out of ten
Hogwarts, 18 Aprile 2074 [...] Vorrei essere coraggiosa abbastanza da restare anche se sono spaventata, perché è questo che fanno i Grifondoro, giusto? Ma ho realizzato anche che... il coraggio è questione di fiducia, altrimenti è incoscienza e basta. Se sali su una scopa anche se soffri di vertigini è perché sai che Chris vola con te e che ti farà apparire un materasso in caso dovessi cominciare a precipitare. Certo potrebbe tardare e tu potresti sfracellarti, ma non è mai arrivata tardi fin'ora per cui perché dovrebbe cominciare adesso? Quindi è vero, Chris potrebbe non arrivare in tempo, ma tu conti che lo faccia e corri il rischio salendo sulla scopa anche se hai paura dell'altezza. Io funziono così anche con le persone nuove. Non mi piace assumere che siano il genere di persona che mi farebbe cadere da una scopa. Lo so che tu non sei fatto così, non è che sia giusto o sbagliato il mio modo o il tuo. Questo è il mio, e quello è il tuo. Sono solo diversi e io avrei voluto che tu lo accettassi. Pensavo te lo ricordassi che... è proprio perché sono fatta così che con te ci sono salita, sulla scopa, sperando che non mi facessi cadere. Il problema è quando inizi a cadere. Una, due, tre, quattro, cinque volte. E non conta se sia stato fatto di proposito o meno, se tu soffri di vertigini e inizi a volare giù dalla scopa tutte queste volte, dopo un po' non ci credi più che la scopa sia qualcosa di sicuro, che sia questione di credere che non cadrà e allora non lo farà. Perché l'ha fatto. Un sacco di volte. E allora se ci sali ancora una volta che cos'è? Coraggio o incoscienza? Per essere coraggiosi bisogna fidarsi. Io non mi fido più. Per questo sono scesa. 
Tumblr media
«Fai una threesome anche tu?» Sussurrato al trio appena giunto, sebbene ci sia una persona in particolare - che non guarda - a cui si sta riferendo.
Quella frecciatina spiacevole, oltre a farla arrossire, basta a farla scattare in avanti. Barcollando quando molla le braccia dei suoi accompagnatori per trovare un punto d`equilibrio poggiando un palmo sul tavolo, raggirando Simon e rubando il primo bicchiere a portata di mano per tentare di tirarlo dritto addosso a Sebastian senza troppe cerimonie. Qualcuno la fermi. Lui avrà bevuto, ma lei pure insomma. «SEI DAVVERO UN TROLL, WALEYSTOCK! PERCHÉ SE AVESSI UN CERVELLO UN TANTINO PIÙ GROSSO FORSE AVRESTI CAPITO ALMENO UN DECIMO DELLE COSE CHE TI HO DETTO!»
«Illy!» ci prova a richiamarla all’ordine, affrettandosi ad acchiapparla, allacciandole un braccio intorno alla vita per tirarla via, e allontanarla da quel tavolo. «Non costringermi a usare il “sacco di patate”» la presa con cui la porta in giro contro la sua volontà da quando sono piccoli.
«... La mia camicia nuova!» è la prima lagna che fuoriesce dalle labbra, quando quel bicchiere finirà a macchiargli il rosso scuro dell`indumento. «AH, IO HO UN CERVELLO PICCOLO? IO?! E TU SEI UNA STRONZA, WILSON!» si alza, quasi istintivamente, a voler poggiare anch’egli i due palmi sul tavolo, rischiando seriamente di barcollare nell’esatto momento in cui si tira sù dalla sedia. «SCOMMETTO CHE NON LI HAI I BOLIDI PER VENIRMI AD AFFRONTARE DA VICINO» Ma Devon la riacciuffa e lui decide di andarsela a prendere, a passo spedito e tentando di non barcollare. «ILARY» prova a piombarle addosso - e a piombare addosso a Devon - per provare a stringerla a sé e baciarla con una certa prepotenza, se Devon gliel’avesse permesso, se Ilary gliel`avesse permesso, se tutto il mondo gliel’avesse permesso (...).
«MA IO TI AVADIZ-» quando il suo pensiero va alla propria camicia, il piede di Illy è già stato sollevato sulla sedia lasciata libera da Sasha per darsi lo slancio sufficiente a salirci sopra. Ringraziamo le braccia di Devon che fungono da pratico contenimento lasciandola a sgambettare per aria solo quanto basta a tornare coi piedi per terra. Ché la minaccia "sacco di patate" basta a sedarla, lasciandola a prendere profondi e vibranti respiri e a puntare due occhi lucidi colmi di amarezza, indignazione e dolore su Sebastian. Ci scusiamo per il disagio. «OOOOH, MI SEMBRAVA STRANO CHE NON M`AVESSI ANCORA INSULTATA. BENTORNATO, WALEYSTOCK!» e sembra tutt`altro che ironica. Ah, le meraviglie dell`alcol. «AAAAAAHHHH!» strilli da banshee impazzita mentre quella provocazione basta a tentare di farla insorgere «MA FAMMI IL PIACERE, NON AVRESTI CHANCE. TI STO FACENDO UN FAVORE!» Saranno ben due, i piedini che Sebastian si beccherà nello stomaco se Ilary sarà riuscita a sfruttare il braccio di Devon per appoggiarcisi di peso, così da riuscire in quella mossa di karate improvvisata, dettata dalla rabbia e dalla poca voglia di fornire spettacolo, anche se non si direbbe.
«OK BAMBOLI. Tempo di levare le tende per il team delle meraviglie». Si alza pure, avvicinandosi alla rissa dove i contendenti si danno ancora battaglia, con uno sguardo verso Devon, pronto ad aiutarlo. «Dai che il barista vi guarda malissimo…» e cercando di prendere Ilary a braccetto per dirigerla verso la porta e fuori di lì, ma non prima d'aver urlato: «ABBIAMO COMUNQUE VINTO NOI! UHHH, TEAM HOGWARTS VINCE CONTRO TEAM THREESOME MALPENSATA! VE LA FACCIAMO VEDERE NOI UNA THREESOME FATTA BENE, NOVELLINI!»
Se non ci pensa Sasha, ad allontanare Sebastian, ci pensa lui allungando il braccio e tirando indietro la bionda «Ok. Ho una Wilson e non ho paura di usarla!» perché fa paura una bionda del genere, potenzialmente letale. E ringraziamo Nihe che gli va in soccorso e acchiappa a braccetto la ragazza. Sbuffa divertito, nel sentire le parole del docente di incantesimi, prima di lasciare il campo. Ringraziate sul serio, fortuna che sono un’esperto di Creature Magiche: i comuni mortali non riuscirebbero a cavarsela e a sedare una bestia famelica come la Wilson.
Ma Sasha interviene, tentando di agguantare la spalla di SEB e di tirarlo indietro di una metrata abbondante per sottrarlo ai calci rotanti di Ilary. «Avete mai sentito la storia di quelle due persone adulte che affrontano i loro problemi senza distruggere un intero locale? È terribilmente noiosa, ma magari…»
«Nah, Sasha. Per Ilary è molto più semplice rinchiudersi ad Hogwarts e gettare via la fede» E la guarderebbe, apparentemente calmo, per quanto fuori luogo. «Simon, io vado a casa. Non ho bisogno del tuo elfo» tenterebbe di riafferrare il mantello per gettarselo sulle spalle ed incamminarsi verso la porta. «Ilary» in ultimo, con un’ammiccatina leggera ed un sorriso un po` (troppo) arrabbiato ed offeso «ti lascio guardare la mia schiena che esce dal locale, così puoi fantasticarci senza sentirti in colpa».
Deglutisce le lacrime, affondando le unghie nel povero braccio di Devon e tirando un profondo respiro per darsi un contegno, nonostante le nebbie dell`alcol. «E tu ricordati di questo momento, la prossima volta che oserai assumere che non sappia difendermi da sola dalla gente che prova a saltarmi addosso!» La voce trema abbastanza da lasciar intendere non le faccia esattamente piacere dare aria alla bocca al momento. «E tutto questo senza bacchetta. Perché io, a differenza tua, me le ricordo ancora le cose che ti fanno male e non sfrutto la prima occasione disponibile per usarle contro di te!» sarà anche ubriaca, ma mai come in questo momento lo ritiene indegno della propria fiducia o non si spiegherebbe l`espressione nauseata che porta stampata in viso. «Tanto ci sono abituata!» alla tua schiena e non c`è alcuna allusione nelle sue, di parole, solo la punta di recriminazione a ricordargli tutte le volte che se n`è andato lui. Scusa tanto se stavolta ha fatto le valige lei.
can you see the panic inside? i'm making you uneasy, aren't i?
Lei parla, senza urlare, ma precisa ed impeccabile come non mai, nelle ferite che soltanto lei potrebbe causargli con precisione chirurgica. «Hai ragione. Sei un piccolo tornado ambulante ed io ho dubitato di te» non ha alcool a sufficienza, nel corpo, per evitarsi di comprendere quelle parole. Ma forse ne ha a sufficienza per parlare con trasparenza e coraggio. «E ti chiedo scusa, per questo».
- Better now than never -
Argleton, 25 aprile 2074 [...] Potremmo imparare a ri-conoscerci da capo. Perché… ci amiamo. E l’amore, con pazienza e dimostrazioni, può ricostruire la fiducia. Io sono convinto di questo. Non posso accettare l’idea di vivere in un mondo in cui l’Amore non è davvero la magia più potente al mondo. Pensaci, okay? Mi dispiace tantissimo aver provato a baciarti al Tortiglione, non volevo metterti in imbarazzo. Eravamo entrambi ubriachi ed è successo quel che è successo. Volevo dirti anche io che non mi pento di una sola cosa che siamo stati e che mi bruciano ancora i polmoni, quando ti penso o ti leggo.
Camden, 29 aprile 2074 [...] Sono contenta che tu stia da con Simon, sul serio. Non sono arrabbiata per questo, lo sono per quello che è successo al Tortiglione perché lo sai che detesto questi gesti plateali. Lo so che eri ubriaco, ma ero ubriaca anche io eppure ce l'ho fatta a trattenermi dallo schiantarti seduta stante. Perché tu no? È di queste cose che parlo quando dico che non ci sto a farmi mancare di rispetto e a sentirmi ogni volta così mortificata o trattata come una bambina o un soprammobile da preservare. E volevo che tu sapessi che non ho gettato via quegli anelli. Sono tornati tutti e tre nella scatolina a forma di cuore che mi hai regalato e sono nel primo cassetto della mia scrivania. Ci sono solo loro, e un non ti scordar di me ormai secco. Sono una promessa, sono la nostra promessa, quella che non sto più mantenendo e per questo non me la sento più di portarli. Per questo volevo restituirti il tuo Patronus e permetterti di scegliere un altro ricordo felice per castarlo. Sono sicura che ci sia. Mi prometti che lo troverai?
8 notes · View notes
giancarlonicoli · 4 years
Link
30 set 2020 20:05
TOP OF THE “POZ” – "IO COCAINOMANE? MI SONO GODUTO LA VITA MA NON MI SONO MAI DROGATO" – POZZECCO SI RACCONTA IN UN LIBRO – I FLIRT CON CACCIATORI E DE GRENET, LE SBRONZE OMERICHE (“MA SEI GIORNI SU SETTE ERO IN PALESTRA A FARMI IL CULO”), LE 22 VITTORIE CONSECUTIVE SULLA PANCHINA DI SASSARI (“HO AVUTO CULO”) E QUELLA VOLTA CHE CON LA CACCIATORI TIRARONO NOCCIOLINE AD ALBERTO SORDI – “SONO STATO UN CRETINO? IO SONO ANCHE IL CRETINO CHE ERO. NON E’ CHE SEI SEMPRE LO STESSO…” – VIDEO
-
https://m.dagospia.com/amori-triangoli-e-follie-di-maurizia-cacciatori-io-e-pozzecco-tirammo-noccioline-a-alberto-sordi-185514
https://m.dagospia.com/pozzecco-ho-gufato-l-italbasket-agli-europei-del-99-ecco-il-motivo-de-rossi-ibra-e-il-mona-233620
MARCO IMARISIO per il Corriere della Sera
«Se giochi con i Lego a cinque anni, va bene. Se lo fai a cinquanta, hai qualche problema, oppure sei un pirla. Come dicono quelli che hanno studiato, tertium non datur ...».
Per il suo quarantottesimo compleanno, si è regalato due espulsioni in tre partite, l'ennesimo cazziatone da parte del presidente della squadra che allena, e «Clamoroso», una autobiografia così sincera nel mettersi in piazza con tanto di sbruffonerie e fragilità annesse che la sua fidanzata Tanya non gli ha parlato per giorni a causa del racconto, talvolta esplicito, delle passate avventure.
Gianmarco Pozzecco non sarà mai per tutti. Non ci sarà mai unanimità di giudizio sul suo conto. Sulla sua storia, persino sulle sue doti, a cominciare dall'equilibrio mentale. Con il giocatore che è stato il volto dell'ultima età dell'oro del nostro basket, l'unico a uscire dalla ristretta cerchia di noi malati dello sport più bello del mondo, diventando personaggio televisivo, volto noto, protagonista di vita mondana e di relazioni con fidanzate più o meno famose, ci saranno sempre due partiti.
Ancora oggi, quando il diretto interessato ha più volte dato segni intermittenti di maturità, permane la divisione tra chi continua a considerarlo un mezzo matto esaltato, sempre sul filo della crisi di nervi, una specie di Balotelli che ce l'ha fatta, e chi invece lo ritiene una persona di talento forse solo troppo sincera, al limite dell'autolesionismo.
«Ah, intervisti Pozzecco? È ancora così matto oppure è cambiato?»
Pozzecco, vuole rispondere lei?
«Ci provo. Tutte e due le cose. Ho fatto un sacco di cose stupide, spesso mi sono fatto male da solo. Un certo tipo di vita non mi appartiene più, ma è un passato che non rinnego.
Sono stato un cretino? Io sono anche quel cretino che ero. Non è che sei sempre lo stesso, ognuno di noi contiene cose belle e brutte, errori. E prima di giudicare, forse bisognerebbe sempre conoscere, e sforzarsi di capire gli altri, i loro sbagli, i loro eccessi, la vita che hanno avuto».
Da dove viene questa sua perpetua necessità di dimostrare qualcosa al mondo?
«Mi guardi. Lei è molto più alto di me. Arrivo appena a un metro e ottanta. Sono sempre stato il più piccolo delle scuole che frequentavo con scarso profitto, forse perché ero scemo. Ero un tappo che voleva solo giocare allo sport dei giganti, più scemo di così...».
Era solo una questione di altezza?
«Una sera di tanti anni fa. Casa mia a Trieste. Siamo seduti a tavola in terrazza, per pranzo. Ho 13 anni, e devo scegliere se giocare a pallacanestro in C1 nella squadra allenata dal mio papà, come mio fratello maggiore e più alto, oppure giocare a calcio in terza categoria con il Chiarbola. Io avevo già deciso. Basket, tutta la vita, anzi voglio che il basket diventi la mia vita. C'è solo da aspettare che papà torni a casa, e glielo dirò, facendolo felice. Almeno così immaginavo».
Non fu così che andò?
«Avevo le farfalle nello stomaco, non vedevo l'ora. Lui si sedette e non disse nulla. Io aspettavo il momento in cui mi avrebbe rivolto la parola, lo pregustavo, ma niente, non mi filava. Arrivati al caffè, quasi con nonchalance, si gira verso di me e mi dice: "Allora siamo d'accordo, vai a giocare a calcio, no?". Fu come ricevere un pugno da Mike Tyson. Ko tecnico».
Lei cosa rispose?
«Che obbedivo. Che avrei giocato a calcio. Poi mi alzai da tavola e tornai nella mia stanza, a piangere. E poi feci di testa mia, per la prima di una serie infinite di volte».
Non credo di poter sopravvivere a un'altra storia padre-figlio, c'è già stato Agassi con il suo «Open»...
«Per carità, quel libro non sono neppure riuscito a finirlo, l'ho mollato a pagina 200...».
E perché?
«Agassi ripete a ogni pagina quanto gli faccia schifo il tennis. Abbiamo capito, va bene, peccato per te. Io invece ho amato e amo il basket con ogni mia molecola. Mi ha insegnato a vivere. A gestire la pressione, a stare in gruppo, a tollerare l'errore del compagno. Il basket ha definito quello che sono».
Non le dà fastidio che qualcuno ancora la consideri un pirla?
«Cosa posso farci? Essere discriminato, in ogni senso, è stata la costante della mia vita. Lo so, c'è gente convinta che io sia stato semplicemente un donnaiolo discotecaro, arrivato a certi livelli solo grazie a un po' di talento e tanta fortuna».
Un farfallone, come disse Boscia Tanjevic quando la tagliò dalla Nazionale che nel 1999 poi vinse l'oro agli Europei?
«Ecco, grazie per averlo ricordato... D'accordo, ci sono state tante domeniche che ho fatto l'alba con un drink in mano. Ho preso sbronze omeriche e da ubriaco ero capace di fumare due pacchetti di Marlboro in poche ore. Ma gli altri giorni della settimana? Ero in palestra, a farmi il c... e non c'è nessuno che possa dire che non abbia sempre dato l'anima in campo».
Il giocatore e coach Pozzecco si sente vittima del personaggio che ha costruito?
«No, per nulla. Il basket mi ha concesso una vita incredibile, e me la sono goduta. Ne ho fatte di tutti i colori, in campo e fuori. E nel libro non ne nascondo mezza. Sa perché?»
Per far capire quanto era fuori di testa?
«Anche quello, ok. Ma ho scritto il libro anche per un'altra ragione più importante: vorrei far capire che il giudizio sulle persone non può mai essere definitivo. Che cambiamo tutti, ogni giorno. Non è sempre bianco o nero, non che sei cretino per sempre o cretino mai. Siamo tante cose tutte insieme, ognuno di noi».
La ferisce essere ricordato da qualcuno più per i flirt con Samantha De Grenet o Maurizia Cacciatori che per le vittorie?
«L'unica cosa che mi fa male è quando sento qualcuno dire che ero un cocainomane. Io non mi sono mai drogato nella mia vita. Mai. Ero pazzo? La gente veniva al palazzetto apposta per vedere me, sapeva che mi sarei inventato qualcosa».
Il rapporto difficile con gli allenatori nasce quel giorno a tavola con suo padre?
«No, per carità. Nella mia prima stagione in A2, l'allenatore di allora mi gridò davanti al resto della squadra: "Ma tuo padre, quella sera, invece di andare con tua madre, non poteva farsi una..."».
È ancora vivo?
«Credo di sì. Lo attaccai al muro, e imparò a rispettarmi. Ma il mondo dello sport è ancora pieno di gente così, che umilia l'adolescente sentendosi chissà chi, tirandogli i capelli, insultandolo, con la scusa che è per tirare fuori il meglio da lui. Non è così che si insegna a un giocatore. Non sei un buon coach, sei solo un uomo vile e frustrato».
Quale è stato il suo miglior allenatore?
«Charlie Recalcati, per distacco. Una persona eccezionale. Un uomo che cercava di capire chi aveva davanti, che non ti guardava mai dall'alto».
Non ha avuto problemi anche con lui?
«Qualcuno, superato. All'inizio pensavo addirittura che avesse vinto il suo primo scudetto, a Varese, solo per merito mio, di noi giocatori. Poi lui ne ha vinti a decine, e io sono rimasto a uno. Quindi mi sbagliavo, come sempre. Si impara».
Perché a un certo punto, sul finire dalla carriera da giocatore, lei rinuncia alla televisione, alle serate al Billionaire, alla mondanità?
«Ancora prima di incontrare Tanya, la donna che mi ha cambiato, ho realizzato che non ero felice per via della fama e della celebrità che mi dava il basket. Ero felice perche giocavo a basket. Quando si avvicina la linea d'ombra, il cambio di stagione, con la fine di quella vita, lo spogliatoio, l'adrenalina, il cameratismo, le lacrime di gioia o di rabbia, ecco, è allora che vedi chiaro e capisci quello che conta davvero».
Rimpianti?
«Un po'. Anzi, molto. Essere un personaggio non ha reso la mia vita speciale. Giocare a basket, inseguire la mia passione, è l'unica cosa che mi manca. È un vuoto che può essere colmato solo da un figlio. Lo vorrei tanto».
E se poi le dice che non gli piace il basket?
«Faccio come Erode. No, seriamente. L'unica cosa che ho imparato è che per vivere bene bisogna avere un desiderio, una passione forte. Non metterò un pallone a spicchi in mano a mio figlio, e non ho necessità che segua le mie orme. Mi dispiacerebbe solo vederlo senza un sogno da inseguire, senza qualcosa che lo illumini, che sia leggere o suonare una chitarra. O giocare a basket...».
Come ha fatto un «farfallone» casinista a sfiorare da coach uno scudetto a Sassari vincendo 22 gare consecutive, che credo sia un record?
«Ho avuto culo. Davvero. Una cosa che mi fa impazzire in Italia, è l'importanza che si dà all'allenatore, e non parlo solo di basket. Ce ne sono di due tipi: quelli che pensano di avere la ricetta per far vincere i giocatori, e quelli che invece pensano che siano sempre i giocatori a farti vincere. E se appartieni alla seconda categoria, ti prendi anche un po' meno sul serio, che non fa mai male».
Ma quindi Pozzecco è davvero diventato un vecchio saggio?
«Beh, sono stato Peter Pan per molto tempo, ma fortunatamente oggi non gioco più con il Lego. Anche se l'altra sera mentre guardavo la televisione sono finito su una specie di Masterchef del Lego». Ha cambiato canale? «Sono rimasto sveglio fino all'alba a guardarlo».
0 notes
pangeanews · 4 years
Text
“Vorrei comunque che lo leggessi: c’è una buona dose di crudeltà… e molta scrittura superflua”. T.E. Lawrence scrive a George Bernard Shaw e a Robert Graves
Ultima parola su Lawrence d’Arabia. Intrufolarsi nel suo armadio. Vedere cosa scriveva agli amici che volevano pubblicare I sette pilastri e nel 1926, dopo quattro anni di insistenze, la spuntarono. Ne risultò un libro in edizione platinata: segno di buon gusto. Se il libro richiedeva tempo per venir divulgato, che almeno ne valesse la pena. Comunque. Quando scrive da Westminster il 27 agosto del ’22 al mitico commediografo e satirico George Bernard Shaw, Lawrence d’Arabia è già un uomo morto. Gli indirizza una lettera leggera, come uno spiritello che sta per migrare in altri mondi e non vuole troppe responsabilità per quello che ha fatto. A fine agosto, Lawrence è intruppato nella R.A.F., Royal Air Force, e per dieci anni non farà altro che mettere a punto migliorie tecniche agli strumenti per fare la guerra. (Andrea Bianchi)
*
T.E. Lawrence a George Bernard Shaw
14 Barton St., Westminster
27 agosto 1922
Caro Mr. Shaw (aggiungere A.D. a scopi cerimoniali: sei un grand’uomo!)
Primo. Molte grazie per la tua gentilezza. Cercherò di farne buon uso anche se credo che tu non lo vorresti: quindi il volume [Sette pilastri] si srotolerà fino a Welwyn da te a metà settembre. Ti ho già detto che fatica bestiale mi sia costato, quindi su questo versante non ti inganno. Come mi dicevi, sono un privilegiato, dunque farò del mio meglio: anche se è stato un processo insostenibile e non credo che il libro sia stato terminato con le mie sole forze.
Secondo. Pubblicazione. Mi dispiace ma non voglio che sia pubblicato. Buon per te che pensavi alle edizioni Constable. Magari vorrebbero anche pubblicarne una parte. Ma io  penso che non ne varrebbe la pena: pubblicarlo per intero, poi, è cosa impossibile. Ma dal momento che ti sei messo a leggerlo lascio a te il giudizio: so già che mi darai ragione. Se così non fosse, io resterò del mio parere.
Vorrei che comunque lo leggessi: finora, spettacolo degno di Sodoma cui Abramo non poté assistere, l’ha visto solo un’altra persona; intendo farlo leggere a sei in tutto. Vorrei che tu lo leggessi solo perché sei tu: in parte, voglio aggiungere, potrei trar profitto dalla tua lettura, caso mai avessi occasione di parlarti presto di persona anche prima che tu arrivi alla fine del libro. Cerca di capirmi però: la guerra, per noi che c’eravamo dentro, fu il tempo giusto per gli esaltati mentali. Perdemmo la terra da sotto i piedi. Scrissi in quell’atmosfera e credo che la puzza sia rimasta quella. C’è una buona dose di crudeltà e qualche altra cosa eccitante. Tutto questo, nelle mani di un principiante, lo porta sul filo del rasoio: sospetto ci sia molta scrittura superflua. Tu sei molto attento alle flatulenze verbali e spero moltissimo che scoppierai a ridere davanti a quelle parti che io volevo risultassero solenni: se potremo parlarne prima che tu ti sia dimenticato delle tue risate, ho ancora una chance di migliorare.
Sarai divertito dal mio metodo da amante che chiede aiuto: per non parlare dello standard che vorrei raggiungere. Ma si tratta pur sempre dell’unico libro che intendo scrivere e quindi desidero che risulti digeribile. Tu invece ne scrivi uno nuovo ogni volta che ti ricordi di non aver detto per intero qualcosa in un libro precedente! Quindi dato che non lo pubblicheremo ma che comunque non ti farà perdere tutto settembre e potrà essere di profitto per me: yallah! come dicono gli Arabi. E molte grazie per esserti messo così gentilmente a disposizione.
Il tuo sempre sincero
T.E. Lawrence
Il mio nome sarà pure illustre ma non ho titoli. Me ne hanno offerto qualcuno ma sapevo che non mi sarei comportato all’altezza di quel che si aspettavano da uno titolato: quindi dissi di no. Il Who’s who non mi avrà, quindi aspettati di ricevere questa lettera dopo sei mesi. Se tu volessi affrettare i tempi in futuro, aggiungi ‘Colonnello’, così capiscono che ci conosciamo. La Stampa fa così.
***
Seconda mossa. Passano più di dieci anni. Tornato in Inghilterra, Lawrence ha accumulato incomprensioni col letterato numero uno, Robert Graves, dopo anni di amicizia giovanile (o puerile) all’università. In ogni caso, tra ’28 e ’32 ha tradotto l’Odissea, scrive a Graves, “per rifarsi il cottage”. Nella lettera scritta con nonchalance da un hotel di Bridlington, cosparsa di malizia a ogni capoverso (“Col tuo libro su Claudio ti sei messo al sicuro: la gente andrà a comprarsi anche quello successivo, sempre ammesso che non sia un libro di poesia!”), Lawrence non perde il vizietto di castigarsi. Aveva 47 anni e scriveva: “Volevo semplificare tutto (sento nel profondo, nel senso reale, che la mia Vita è finita”) e sono ancora in cerca di 700 sterline.”
*
T.E. Lawrence a Robert Graves
Ozone Hotel, Bridlington
4 febbraio 1935
(…) Riguardo il film che Korda vorrebbe fare su di me. Mi fa orrore la sola idea di venire reso celluloide. Le mie poche visite ai cinema, non quelli carini all’aperto, riescono a sprofondarmi in un senso di falsità superficiale… e di volgarità, stavo per dire, ma non quella volgarità dell’uomo comune (magari!) e quei film che ho visto erano cattivi come quel che si può trovare sotto la cintura, messo su carta. Ora che si siamo spiegati la questione denaro e abbiamo considerato il cinema, passiamo all’epitaffio.
Hogarth ha fatto per l’uomo di passaggio un piccolo ritratto di Lawrence nel 1920 e hanno fatto bene a smontare quel pezzo. [Una riga omessa] da parte mia non dico altro ma se tu lo farai, non dare troppa importanza a quel che ho combinato nella guerra araba. Sento che il Medio Oriente sistemato a quel modo da Winston Churchill e me nel 1921 (ma avessero rispettato i Trattati di Pace nel dettaglio!) meritava di più che una semplice battaglia. E comunque conta meno della mia vita dopo il 1922 quando andai alla conquista dell’ultimo elemento, l’aria, che mi sembra l’unico grande compito della nostra generazione; dove non conta tanto il singolo genio quanto lo sforzo comune. È la moltitudine di rudi camionisti che riempiono le strade inglesi di notte a costituire la nostra età meccanica. Sono gli uomini delle forze aeree, i meccanici, non i Mollison e Orlebar con le loro catene di abbigliamento. Il genio fa i suoi raid ma è l’uomo comune che occupa, che prende possesso. Ecco perché sono stato nei ranghi e ho servito al meglio delle mie abilità, influenzando i miei compagni e dando loro un orgoglio che non avevano, disponendo solo di un senso del dovere inarticolato. Ho fatto veder loro qualcosa – con qualche successo (…)
Tutto questo chiacchiericcio non per glorificarmi ma per spiegarti; e qui veniamo al mio ultimo punto, le tue ristrettezze davanti al cambiamento che ho effettuato da quell’ultima volta a Oxford che ci sentivamo molto vicini. Un po’ di ragione ce l’hai. All’epoca tentavo di scrivere; forse, di essere un artista (i Pilastri avevano pretese di concezione ed erano scritti con fatica riguardo la prosa) o perlomeno un tipo cerebrale. La mia testa mirava a creare cose intangibili. Ma non mi sono espresso bene: ogni creazione è tangibile. Quel che allora cercavo di fare, immagino, era portare una superstruttura di idee sopra tutto che andavo combinando.
Bene. Ho fallito. Se mi paragonavo a te o gente come Augustus John notavo che non ero della vostra stoffa. Magari ero anche un artista ma quando arrivi al nocciolo, c’è dell’altro. Avessi saputo allora cos’era, quel nocciolo, te l’avrei detto o sarei diventato uno dei tuoi. Solo, non ci sono riuscito.
Così ho cambiato direzione e sono entrato nella R.A.F. dopo aver messo un po’ d’ordine in quella matassa che è l’Oriente: un dovere che ricadde su di me perché ero io l’origine della matassa. Che Oriente abbiamo avuto: quella parte del mondo ha pur guadagnato qualcosa dalla guerra.
Ma come ti ho detto sono entrato nella R.A.F. per uno scopo meccanico, non come leader ma come ingranaggio della macchina. Il mio auto-addestramento da artista ha ampliato il campo di veduta e da allora sono stato un uomo meccanico. Lascio ad altri giudicare se sia stato bene o male: un beneficio di essere ingranaggio è che si impara che nessuno conta niente!
Ti ricorderai che all’epoca ti scrissi dicendoti che l’equivalente più moderno della mia scelta era entrare in un monastero medievale. Ho capito in seguito: avevo tagliato ogni possibilità di comunicazione con le donne. Non penso ci sia qualche donna in grado di capire la felicità di un uomo meccanico che serve nelle sue componenti.
Va bene, questo se lo leggi così sembra un paragrafo di quel D.H. Lawrence da cui ho preso il nome. Non ho mai pensato per un solo momento di essere nel giusto ma spero che il tuo senso per i caratteri ti indicherà la diversità di vedute tra noi due. Laura [seconda moglie di Graves] mi ha conosciuto troppo tardi, dopo che avevo cambiato direzione. Aveva e tuttora ha assolutamente ragione a evitare ogni comunicazione con me. Non ci sono colpe da nessuno dei due lati: c’è buon senso, la presa d’atto di una difficoltà troppo difficile da sormontare, quando ci sono anche altre attività sottomano da iniziare, ognuna con sua soddisfazione. Non preoccuparti, non aver rimpianti: non volere che io cambi faccia alla natura. Siamo fortunati ad avere una proporzione, a sopportare la crescita delle nostre ossa.
Tuo
T.E.S.
Che lettera-balena. Cinque minuti di conversazioni sarebbero stati molto più divertenti!
*traduzione di Andrea Bianchi
L'articolo “Vorrei comunque che lo leggessi: c’è una buona dose di crudeltà… e molta scrittura superflua”. T.E. Lawrence scrive a George Bernard Shaw e a Robert Graves proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/3foYimq
0 notes
saggiosguardo · 5 years
Text
AsSaggio: Mackie CR3, una sonora delusione
Ho cambiato casa già da diversi mesi, ma ancora non ho terminato la sistemazione del mio studio e la trasformazione del garage in laboratorio foto ed assemblaggio, ma nel frattempo sto preparando la postazione hardware che sarà destinata a quell'ambiente. Ho il precedente Mac Pro 2013, un monitor che mi sta piacendo (a breve la recensione), i miei fedeli Logitech K780 ed MX Master 2S. Ho già preso anche un secondo microfono, molto più economico del Rode Procaster che uso quotidianamente ma comunque decente. Non ho ancora deciso quale scheda audio usare ma ho voluto iniziare dalle casse, perché di quelle si sente subito la mancanza. In studio uso le Audioengine A2+ (recensione) di cui sono estremamente soddisfatto. Non hanno un volume elevato ma il suono è molto pulito e bilanciato, ricco di colore e dettaglio in ogni range di frequenza. Mancano anche un po' di bassi, ovviamente, con queste dimensioni sarebbe impossibile il contrario, ma per il mio uso da monitor nei montaggi video/audio e per il volume d'ascolto tipico che adotto di fronte al computer, le trovo davvero ottime. Ero quasi tentato di comprarne un paio uguali o del modello superiore anche per questa seconda postazione (che io chiamo di backup), ma alla fine mi ha stuzzicato l'idea di sperimentare qualcosa di nuovo.
In queste situazioni Amazon è una brutta bestia. Non tanto il sito in sé, che offre moltissime alternative, quanto la polarizzazione che si crea su alcuni prodotti. Ogni volta che cercavo qualcosa di specifico mi ritrovavo nei consigliati, negli sponsorizzati o in qualsiasi altra bizzarra sezione di consigli si siano inventati oggi, le Mackie CR3. Sono definite "monitor" nel titolo e il costo della coppia è interessante, anche perché si parla di 50W di potenza e woofer da 3". Insomma, non troppo grandi ma potenti e ad un prezzo di circa 100€.
Io tendo a non leggere le recensioni dei clienti, soprattutto quando sono tante, perché prima di trovarne una sensata devo perdere almeno 10 minuti a scartare deliri di ogni tipo. Quello che mette 1 stella sul prodotto perché il pacco gli è arrivato ammaccato e ce l'ha con il corriere di turno, il tipo che esordisce dicendo "io non so niente di questo argomento" e ti fa passare la voglia di leggere il resto, quello che le ha ricevute in omaggio e non conoscendolo non puoi sapere se è davvero super partes, l'immancabile deluso che ne dice di cotte e di crude e poi tanti esperti dell'ultima ora che si inseriscono nel filone di maggioranza copiaincollando le parole di altri. C'è anche la recensione giusta, quella di chi davvero le ha provate bene e sa cosa dice, ma di solito viene sepolta in quello spazio cosmico indefinito che si trova tra "la recensione più positiva" e "la recensione più critica". Purtroppo viviamo di estremismi, di pollici in su e in giù, per cui se uno mette 3 stelle e spiega lati positivi e negativi in modo ponderato viene considerato inutile dagli algoritmi computerizzati e dalla massa. Di lui il mondo del web non ha bisogno. Vuole solo sapere che c'è chi ha trovato quel prodotto il più migliorissimo di tutti, così da superare l'ultimo scoglio prima di cliccare su acquista, oppure che, dall'altro lato, ci siano sufficienti persone a pensare che faccia schifo, così è legittimato a pensarla nello stesso modo. Vabbè, scusate, è partito l'embolo della digressione polemica, torniamo in flusso e coi piedi per terra, nel preciso momento in cui metto le CR3 nel carrello, gettando un'occhiata fugate a quelle 4,5 stelle di media con oltre 200 recensioni, traducendo così: proprio schifo non faranno.
Pesano, più di quel che pensassi. Sono 2,5Kg a cassa, con una dimensione di 14 x 21 cm e circa 16 di profondità. I richiami verdi non mi piacevano nelle foto e anche dal vivo il ho trovati un po' eccessivi, ma la costruzione non è malvagia. Nulla di particolarmente rifinito, si nota che sono economiche ma rimangono più che dignitose. Sul retro della cassa master, che ha un cavo di alimentazione integrato, si trovano:
interruttore on/off
morsettiera per il collegamento della seconda cassa
ingresso TRS con jack da 6,3mm (sono supportati anche i collegamenti bilanciati)
ingresso RCA
un selettore che consente di scegliere se la cassa master dovrà riprodurre il canale L o R
Quest'ultimo elemento mi è piaciuto molto, perché a seconda della disposizione degli elementi del proprio setup o della preferenza per il raggiungimento dei controlli frontali, si può decidere se posizionare la cassa master a sinistra o a destra. In dotazione vengono forniti pochi cavi, solo un RCA a mini jack ed un mini jack che si può utilizzare per l'ingresso AUX posto frontalmente, vicino ad un'uscita per cuffie. Per il collegamento principale alla sorgente audio ho utilizzato gli RCA con terminale da 3,5mm collegato prima direttamente al Mac Pro e poi al DAC DragonFly Red.
Dopo aver dato corrente con l'interruttore posteriore, le casse si accendono con il potenziometro frontale, che fa uno scatto dopo lo zero e mostra l'accensione grazie ad un LED che lo circonda (sempre di colore verde). Le ho messe al 50% e ho iniziato a mandare un po' di musica dalla mia playlist di test su Spotify Premium scaricata in locale alla massima qualità.
Il primo impatto è stato qualcosa come: "WOW, suonano bene"! Erano i primi secondi di Tender Surrender (Steve Vai) e l'ingresso della chitarra accompagnato dalla batteria è stato di grande effetto. Col passare dei minuti ho iniziato ad avvertire un vuoto nelle frequenze medie e quando la musica si è fatta più incalzante i bassi sono entrati a gamba tesa. Sono forti, non c'è dubbio, molto di più di quelli delle mie piccole Audioengine A2+, ma coprono inesorabilmente i pochi medi e nei momenti di maggiore enfasi si sfaldano e rimbombano.
L'amplificazione in classe D di queste casse non lasciava presagire nulla di particolarmente buono in termini di controllo, ma onestamente speravo in qualcosa di meglio. Sono passato ad una sorgente più raffinata con i pochi FLAC di cui dispongo e collegando il DragonFly Red, ma il miglioramento percepibile è stato comunque marginale. Ho continuato a farle suonare per diverse ore, riducendo mano a mano il volume fino a che le frequenze basse risultavano ancora ben controllate, ma a quel punto avevo perso gran parte della potenza e azzerato il dettaglio nel range di frequenza medio-basso.
Sulle casse non c'è alcun controllo audio, quindi ho utilizzato un po' l'equalizzazione del player Vox per cercare di migliorare la resa. In effetti così ho avuto la possibilità di far venir fuori un po' di musica in quel frastuono, e finalmente ho apprezzato anche un po' la voce di queste casse e l'ampio stage che riescono a delineare. Nel complesso però, le consideraro una delusione dal punto di vista audio. Probabilmente conta anche l'abitudine ad ascoltare il suono riprodotto dal ben più pregiato amplificatore in classe AB delle mie A2+, ma di certo queste non sono casse adatte all'uso monitor e neanche tanto piacevoli per un ascolto casual dalle piattaforme di streaming.
Conclusione
Possibili campi di utilizzo soddisfacenti per le Mackie CR3 li immagino lontani da una postazione di lavoro e più nella riproduzione di musica dance per un party, o magari per i videogiocatori più estremi che amano vivere le sparatorie degli FPS nel modo più viscerale possibile. A me non sono piaciute per nulla e se assegno un voto sufficiente è solo perché ritengo che avrei potuto capire fin da principio che non erano adatte al mio orecchio ed alle mie esigenze. Cercavo sì qualcosa di economico, ma non per fare una discoteca e sentire tremare la scrivania. Anche a costo di perdere bassi e potenza, ritornerò sicuramente su delle casse con amplificatore in classe AB e, volendo mantenere contenuti ingombro e spesa, credo di aver trovato una soluzione ideale nelle PreSonus Eris E3.5. Vi saprò dire di più dopo qualche settimana di prova.
L'articolo AsSaggio: Mackie CR3, una sonora delusione proviene da SaggiaMente.
Articoli correlati:
Marshall aggiorna gli speaker Acton, Stanmore e Woburn introducendo il multi-room Marshall è uno storico brand inglese specializzato nella realizzazione di...
Recensione: casse amplificate Audioengine A2+, qualità da monitor in piccolo formato Utilizzo diversi computer, la maggior parte dei quali sono Mac,...
from AsSaggio: Mackie CR3, una sonora delusione
0 notes
questionedabitudine · 5 years
Text
tredicembreduemiladiciotto
Sono tornata in Italia con uno spirito nuovo, oltre che con un nuovo taglio. Stare davvero da soli per due mesi ti fa capire quanto sono fondamentali le persone intorno a te, quelle che non apprezzi mai davvero nella tua quotidianità. Eppure... io devo tutto a loro. Settembre è volato tra tentativi falliti di fare un paio di esami. Ma questa volta ero più tranquilla - non mi farò più inghiottire dall’ansia- ho pensato. E tutto sommato meglio così. Inizio Ottobre io, Turbo e Fuccio decidiamo di salire in macchina dallo Scodo, e tra una sbrattata in autostrada e un finestrino rotto abbiamo passato tre giorni molto movimentati, anche se meno di quanto ci aspettassimo. La fidanzata di Marco è pur sempre una 98 appena iscritta all’università che pensa di poter spaccare il mondo come tutte le matricole, anche se la sua perenne puzza sotto al naso la rende snob e inapprocciabile. Ho tentato di dare il contentino a Turbo e stare più tempo possibile attaccata a lui, ma una volta tornata a casa, scopro che in realtà i suoi complessi sul “Betta mi odia” non sono ancora passati, ma anzi stanno inglobando sempre più gente.  Da quando sono tornata ho notato molti cambiamenti. In primis Aurora e Pasquale non vivono più con me, al loro posto c’è Francesca - ragazza de Roma spigliata e alla mano. Federico si è trasferito con Lorenzo in una casa vicino piazza Dante, vista stupenda e Donato&Fiore in casa. Albertino è andato via, così come Mariafrancesca. Alessia è tornata con Ralph, ora vive nel palazzo di Aurora. Marino è andato a vivere con Aurora e Pasquale, la ragazza a breve si trasferisce a Forcella direttamente da Madrid. Insomma, io ho passato più tempo a casa di Aurora che a casa mia. Esco con sicurezza. Torno tardi a che ora mi va. Non voglio farmi condizionare da Napoli e la sua fama, voglio tornare a casa a che cazzo di ora mi pare. Spesso quindi sono rimasta fino a tardi. Spesso ancora sono rimasta a dormire, perchè Aurora è un po’ una cagasotto e Forcella a prima vista non sembra molto sicura.  Spesso con noi c’era anche Gaetano, il migliore amico storico di Aurora, ora al secondo anno di Beni culturali alla Federico II - in realtà ha sempre frequentato casa mia perchè non ha casa a Napoli ma non so come o perchè non ci ho mai fatto veramente caso. Vabbè insomma, Gaetano, riccio scuro, colorito mediterraneo, spallone e faccia di cazzo allucinante. Inizi settembre si lascia con la tipa storica. Noto che mi guardava in un modo particolare. La cosa inizia a lusingarmi e ad interessarmi. Nessun segnale ovvio di interesse, solo quel suo sguardo penetrante.  Inizio a farmi i primi film mentali. E’ davvero un bel ragazzo, anche se più piccolo di me. Noto le sue spalle: sono sempre state così larghe? Sogno di appoggiare le mie labbra alle sue, con innocenza. Non mi sarei mai fatta avanti, non sapevo nemmeno cosa volesse dire. Lui,poi, è il migliore amico di Aurora, un dettaglio non trascurabile. Passiamo un paio di serate insieme, ubriachi. Il mio campo gravitazionale è sempre attorno a lui, faccio la scema. Torno a casa e me ne pento tantissimo. Lui continua solo a guardare, non mi fa capire nulla. Una sera mi ha anche quasi vomitato addosso dopo un cicchetto di tequila. Quella sera sarebbe successo qualcosa se non avesse vomitato, lo so. Ma comunque, nulla di concreto. Le nostre mani spesso si sfiorano per passarci accendini e canne- sento una scossa per tutta la spina dorsale. Penso: “merda, questa cosa mi sta sfuggendo di mano”. Nel frattempo Aurora mi illustra le sue preoccupazioni su un eventuale ritorno di fiamma da parte di Gaetano nei suoi confronti, ora che la ex è fuori gioco. Io non le dico nulla, faccio finta di assecondarla. Mi chiedo se abbia percepito qualcosa. Una sera finiamo a teatro a vedere gratis lo spettacolo del coinquilino di Aurora. Sembrava un’uscita a coppie - Giorgia e Domenico, Aurora e Pasquale e... io e Gaetano. Ovviamente noi due finiamo in fondo, isolati. Il mio cuore non ha fatto altro che andare a mille all’ora. Avevo una voglia matta di toccarlo. Ho tentato il contatto in ogni modo, tremando, ma niente. Vedevo solo lui agitatissimo, che si passava la mano tra i capelli, si aggiustava i baffi, sospirava. Un’ altra serata passata a sperare succedesse qualcosa che non è successo. Nel frattempo ogni tanto ci scrivevamo. Fondamentalmente ci mandavamo idiozie su One piece, meme o simili. Era troppo bello svegliarsi e trovare il suo messaggio col nuovo capitolo... 30 Ottobre: a Napoli il cielo è giallo. E’ in atto una vera è propria apocalisse. Il mio caffè alle 3 con Federico e Gaetano viene annullato da Gaetano che decide di tornare a casa prima. Esco scontentissima da lezione. Aurora e Pasquale sono non ricordo dove, ma Marino è sicuramente a casa. Decido di chiamarlo. Mi risponde dicendomi che stava arrivando a Napoli,e vista la casa vuota voleva organizzare una serata tra amici a casa. Accetto l’invito e mi dirigo a casa. Poco dopo arriva un messaggio di Marino, mi dice che quella sera sarebbe venuto anche Gaetano,e sarebbe rimasto a dormire da lui. Mi precipito a casa di Aurora alle 7 e scopro che la serata tra amici in realtà conta solamente noi 3. Mangiamo, guardiamo un film, beviamo e fumiamo, mangiamo, guardiamo un film e così all’infinito. I ragazzi visto il mal tempo mi convincono di rimanere a dormire lì, in camera di Aurora. E così per l’ultimo film horror della serata decidiamo di spostarci in camera di Marino. Gaetano seduto al centro.  Io ero già parecchio su di giri. La spalla di Gaetano era così allettante che appoggiarci la testa sopra mi è venuto proprio naturale. Lui ha appoggiato la sua testa sulla mia. E’ un segnale. No, ma che cazzo dici Betta, stai solo facendo più amicizia. Tutto questo mix di pensieri che facevano a cazzotti nella mia testa si è improvvisamente stoppato quando ci siamo ritrovati mano nella mano improvvisamente. Fortunatamente era buio, perchè la mia faccia era sicuramente andata a fuoco. Impacciata come poche cose, a fine film scappo in bagno. Decidiamo di fumarci un’ ultima sigaretta in cucina tutti insieme e poi ognuno nella propria stanza a dormire.  Nemmeno 5 minuti che Gaetano mi manda un messaggio. Una scusa per attaccare bottone, chiaro. Mi chiede di fumarci un’ultima sigaretta insieme. Rimango a fissare il telefono per 5 minuti come una cretina immaginando le conseguenze della mia risposta. Ma sticazzi, sigaretta sia. Viene in camera di Aurora, fumiamo. Cominciamo a parlare di cazzate, il tempo sembra infinito. Rimaniamo per un’oretta uno affianco all’altro sul letto di Aurora a parlare fin quando la distanza tra di noi non si fa pericolosamente piccola abbastanza da saltarci addosso. Iniziamo a baciarci con foga fino a strapparci i vestiti da dosso. Il tutto rigorosamente a luce accesa, tra le altre cose. Insomma, finiamo a fare sesso.  Beh, che dire.... è stato assurdo. Io avevo un sacco di paure e di fisse che pensavo sarebbe stato orribile, e invece è stato tutto così naturale.  Ma non è finita qui. Siamo rimasti tutta la notte abbracciati a coccolarci. E’ stato stranissimo. Per me è stata come una prima volta.. Lui mi ha riempita di complimenti. Mi ha confessato che ha una cotta per me da tre anni. E’ stato molto dolce. La cosa non mi è dispiaciuta affatto. La mattina dopo round 2 e corsa all’università. Mi sentivo ancora le sue mani dappertutto. E’ stato difficile superare la giornata. Da lì è cominciato tutto. Non ci vediamo spesso, ma se rimaniamo da soli in casa non smettiamo di saltarci addosso. Lui ha risvegliato tutti i miei ormoni in letargo di questi due anni. Io mi sento come cera calda tra le sue mani. Non ho mai provato nulla del genere. E poi chi si sarebbe mai aspettato che avrei potuto piacere a qualcuno. Insomma, io sono un disastro. Gaetano è attento a tutti i particolari, mi fa sentire desiderata. Mi fa sentire speciale. Tra le sue braccia mi sento così amata e protetta. Per me è quasi imbarazzante parlarne.  Nemmeno Aurora sa la verità su come è iniziata questa storia... però diciamo che sono tutti contenti per noi. Noi ancora più di loro. Per ora va tutto bene. Io voglio vivermi questa cosa così come viene, e spero che per lui sia lo stesso. Non abbiamo ancora fatto grandi discorsi, non ci siamo ancora scoperti abbastanza, ma comunque ogni giorno che passa scopro nuovi lati di lui che lo rendono più maturo, più adulto, più interessante.  Caratterialmente siamo proprio agli antipodi.. forse un giorno questo sarà un problema. Ma per ora non me ne voglio preoccupare. Voglio vivermi questa cosa bella e inaspettata fin quando posso.
0 notes
historicaleye · 6 years
Photo
Tumblr media
Un iscritto mi ha chiesto chiarimenti sulla guerra di secessione Americana e nel rispondergli la mia mente malata ha iniziato a viaggiare creando uno scenario di attualità, ambientato in italia che ha un non so che di inquietante, probabilmente perché è uno scenario plausibile. Faccio una premessa assolutamente non necessaria e decisamente superflua, ma meglio evitare fraintendimenti. Non voglio far politica, non mi interessa trattare su questa pagina l’attualità politica, quella che andrò a scrivere è un "ucronia", è un gioco, la scrivo qui perché è divertente, mi ha divertito scriverla e credo possa divertire anche voi, di solito le ucronie che scrivo vengono pubblicate solo per chi mi supporta su Tipeee, ma questa è troppo divertente per lasciarla ad un pubblico “esclusivo”. Faccio in fine presente che alla base di questa ucronia c’è un voluta esasperazione della realtà, proprio perché il mio intento è quello di creare qualcosa che sia divertente da leggere e da amante della commedia dell’assurdo, trovo l’esasperazione della realtà e del verosimile qualcosa di meraviglioso, detto questo, possiamo cominciare. È il 27 Marzo 2018, il presidente Mattarella affida un mandato esplorativo a Luigi di Maio, leader del primo partito italiano, questa notizia manda su tutte le furie il leader della prima coalizione italiana, Matteo Salvini. I militanti della lega nord scendono in piazza per manifestare contro la decisione del presidente e Salvini lancia un segnale forte alla repubblica, un segnale estremo, si autoproclama Presidente sociale di Padania, perché Salò suonava male. La parola Nord torna sui vessilli della lega e i nostalgici del partito di Umberto Bossi esultano in un idioma misterioso che gli studiosi di linguistica di tutto il mondo cercano in vano di decifrare da quasi trent’anni. La lingua sembra un incrocio tra alcuni dialetti del lombardo veneto e della Calabria meridionale, abilmente camuffato da lingua germanica. In meno di una settimana l’Italia è nel caos, il presidente della repubblica richiama all’ordine e all’unità della nazione, ma la parola Unità risuona come cryptonite alle orecchie degli indipendentisti del lombardo-veneto, quella parola oscena, dichiara salvini su Twitter, “è un chiaro richiamo al quotidiano rosso”, queste parole sono sufficienti per dipingere Mattarella come un novello Stalin o Tito e su facebook inizia a teoria secondo cui l’incarico di governo sarebbe andato a di Maio perché Meridionale come Mattarella. Questa voce diventa presto virale, al punto da arrivare anche alle orecchie dello stesso di Maio che, tra una Partita a Candy Crash e un corso serale di “italiano for dummies”, ha scoperto che la carica di Presidente del Consiglio in realtà non conta un cazzo in una repubblica parlamentare. Sembra che la pulce nell’orecchio di Giggino sia stata messa da Rocco Buttiglione, il cui nome non compariva in un pezzo di satira almeno dal 2009, indicativamente lo stesso periodo in cui si dice abbia acquistato l’ultima confezione di sciampo. Berlusconi per non correre rischi ha chiesto alle Iene di indagare su queste fantomatiche pulci di Buttiglione, vuole capire se sono tipo le zecche comuniste o sono pulci vere e proprie, e per non correre rischi ha messo il collare antipulci sia a Dudù che La Russa. Giorgia Meloni vede Ignazio col collare e lo trova inspiegabilmente sexy, ma questo è un altra storia che racconteremo un altra volta. Tornando alle sorti del paese. Nelle strade italiane ritornano le barricate, al nord viene imposta la Flat Tax che sposta il carico fiscale dalle imprese ai lavoratori e in meridione vista l’assenza di una vera opposizione, viene approvato il reddito di cittadinanza il cui peso sulle casse dello stato sembra essere attenuato dal sequestro preventivo dei beni di tutti gli indagati, indipendentemente dal presunto reato commesso. Ancora da verificare il drammatico racconto di Pier Luigi Bersani a cui sembra sia stata sequestrata Birba in seguito ad una denuncia di molestie avanzata da Puffetta (o brunetta, non ero molto attento). Nella repubblica sociale di Padania Salvini organizza un piccolo esercito volontario e nel paese iniziano a circolare Panda da combattimento, sono dei bizzarri veicoli artigianali a metà tra una Ruspa e una Panda 4x4. I consiglieri di Salvini gli spiegano che sarebbe più utile utilizzare dei veri mezzi da combattimento o al massimo dei veicolo più performanti di una panda, ma il fhurer è intransigente, e ordina che tutto ciò che non è rigorosamente made in Italy (l’italia meridionale non conta come italy) deve essere fuso e convertito in Tombini di Ghisa, ovvero la nuova moneta provocatoria coniata a Pavia. Giggione non sa come rispondere al riarmo dell’italia settentrionale, vorrebbe schierare le proprie forze armate, ma il suo cuore da Ultrà tifoso del Napoli glielo impedisce, e giustifica il tutto citando l’articolo 11 della costituzione. Pietro Grasso che si trovava ancora a Roma fa una chiamata a Giggione per dirgli che in questo caso l’articolo 11 non gli impedisce di intervenire ma dopo mezz’ora di monologo si rende conto che il numero salvato come “giggione a 5 stelle” non è quello di luigi di Maio, ma quello di una Pizzeria molto carina all’incrocio tra Via Giustiniani e Via delal dogana vecchia.. Dopo due mesi di guerra urbana il paese è in ginocchio, Francia e Germania offrono il proprio aiuto, in nome della comunità europea al legittimo governo italiano, ma di Maio rifiuta, nel frattempo Putin continua a finanziare il governo secessionista di salvini. L’eco di quel che sta succedendo in Italia si riflette su tutta europa, l’Austria proclama l’anschluss del Sud Tirol e della Croazia, Salvini esulta, poi si rende conto che l’ha preso proprio lì dove non batte il sole perché quest’annessione gli ha sottratto dei territori. Contemporaneamente all’Austria anche la Francia prova a fregare dei territori rivendicando la sovranità francese sulle provincie piemontesi di Cuneo ed Ivrea. Approfittando del caos uno squadrone di fedelissimi di Casapound e Leghisti della prima ora si imbarca su un barcone e fanno rotta verso la Libia, ma una tempesta li fa naufragare a Lampedusa con grande confusione per Salvini che da capo di stato della RSP pretende il rispetto dei diritti civili per i suoi concittadini presentati come “prigionieri politici” e dall’altra istiga il popolo meridionale a schierarsi con la RSP per contrastare questa ennesima invasione. Passa altro tempo, siamo a fine luglio, inizia a fare caldo, Salvini vorrebbe andare al mare, ma non può, la villa in Calabria è in territorio nemico, e quella in Sardegna è stata occupata da un gruppo di nazionalisti sardi che un sabato sera non sapevano cosa fare. Nel mese di settembre la guerra civile italiana sembra essere destinata a non finire ma proprio nel momento più scuro ecco che ritorna dalle vacanze Antonio Razzi che si immola a mediatore tra le due italie, Indice quindi un vertice tra Salvini e di Maio e inizia a parlare in Koreano (o almeno così dice), per la prima volta dall’inizio della crisi i due leader politici sono d’accordo su qualcosa, nessuno dei due ha capito un cazzo di quello che usciva dalla bocca di Razzi, decidono quindi, su proposta di di Maio, di affidare la mediazione a Maduro, ma il risultato non cambia, nessuno dei due parla Spagnolo, a questo punto Salvini propone di affidare la mediazione Putin, amico fidato di entrambi, di Maio accetta, ma ad un unica condizione, cito direttamente dal suo twitter “facciamo l’incontro, le bibite le porto io”. Alla seconda bottiglia di Aglianico Salvini e Putin iniziano a vedere i Puffi, ed proprio a quel punto che Bersani irrompe nella sala riunione urlando “vi mangerà tutti”, ma viene allontanato dalla security di Putin e deportato non si sa bene dove. Mattarella che da mesi provava ad appianare la situazione e organizzare un incontro manda a fanculo entrambi, ma viene querelato da grillo per violazione di copyright. Alla fine, con l’arrivo delle prime piogge autunnali e la riapertura del campionato di calcio le strade si spopolano, i militanti tornano alle proprie case perché col cazzo che si perdono una partita e nel paese tornò una pace illusoria fatta di odio razziale, omofobia e intolleranza nei confronti di Berlusconi e Andreotti che è sempre presente nei nostri cuori. p.s. Ci sono innumerevoli errori di battitura, grammaticali, refusi e dio solo sa cos’altro. Cambio tempi verbali tra una frase e l’altra e probabilmente alcuni periodi non hanno mai visto la propria conclusione, e questo perché non ho letto e non ho intenzione di rileggere le mille stronzate che ho scritto in questo post, che ripeto, �� un post ironico, satirico, fatto di grottesche esagerazioni. Nessuno si senta offeso se al contrario l’ho citato, nessuno si senta escluso, se non l’ho citato, ma volevo incentrare il grottesco racconto sui due protagonisti, i personaggi minori non mi interessano. http://ift.tt/2txFlv8
0 notes
christmasatmosphere · 7 years
Text
La rabbia e disperazione che io ho dentro non credo siano numerabili in nessun unità di misura... forse non ti accorgi di niente di quello che tu fai a me.. tu puoi avere tutte le ragioni del mondo e tutte le motivazioni che mi porti posso cercare di comprenderle, ma sta di fatto che le cose che mi hai imposto per stare con te rimangono. Tu mi dici che io faccio quello che voglio, ma il mio agire così è un meccanismo di difesa ed una conseguenza alle tue richieste. Una volta ho messo la foto di un ginocchio di un mio compagno sulla storia Instagram, e tu ti sei arrabbiato. Non ci sei stato quando sono partita per Praga, perché me ne stavo andando da te. Non sopporti nemmeno l'idea dell'unico amico che ho, rendendomi perfino difficile poterlo cercare perché mi sentirei troppo in colpa. Se esco o sono fuori, anche solo per studiare, tu non riesci a parlare con me. Se vado alla mia cena di classe, tu non vuoi vedermi ne sentirmi per due giorni perché 'sono fuori a divertirmi senza di te'. E sai Francesco, queste cose si sommano e io piano piano non so nemmeno più come gestirle. Perche come fai a trovare giusto che una persona non si senta libera di cenare con la propria nonna, perché quella sera non posso stare con te? O che io non possa fare il mio compleanno con la mia famiglia senza che me lo rinfacci? Io ho detto no all'ultimo lavoro che avevo per paura della reazione che avresti avuto a sapere che lavoravo quando dovevo uscire con te. Ho cercato di adattarmi o di accettare questo, ma dentro di me fa un male cane dover sempre scegliere tra litigare con te o poter fare una cosa. E una volta su un milione scelgo di farla, però tu vedi sempre solo quella. Tu non vedi che io sto ballando e non lo voglio fare quindi dici vado lì e la porto via così la salvo, tu vedi che io sto ballando e con te non l'ho mai fatto, perché hai questa assurda convinzione che con te non mi diverto. Beh ti do una notizia, le cose che faccio con te, mi fanno sempre stare bene, per quello le faccio. E se mi annoiassi, oh cazzo Francesco non mi avresti vista più. Ma ogni volta che c'era un piccolo litigio tu mi hai dipinta come una persona che non merita nulla, una persona falsa e menefreghista, una persona che io non sono e che tu hai dedotto dalle tue convinzioni, che io mai ho supportato ma anzi sempre ti ho detto no, non è così. Tu mi hai portata a distruggere ogni tipo di autostima che avessi dopo tutte le litigate, mi hai portata a sentirmi un barattolo vuoto. Io ero sorpresa perché avevi fatto una scelta impulsiva, e tu ne hai dedotto che ti trovassi monotono. Tu proietti tutte le tue paure passate e future sulle mie azioni e le distorci tutte. Se io corro da te e non sono vestita bene e devo farmi la doccia, ma sono venuta così perché ti ho promesso che sarei arrivata appena avrei potuto, non vedi che ho davvero mantenuto la promessa, ma vedi che non mi sono impegnata a curarmi per te. Tu vedi sempre la versione peggiore di me... e io non credo sia questo che dovrebbe vedere qualcuno nella persona che ama. E il tuo restarci male, il tuo non supportare nulla che scelgo di fare se toglie del tempo a te, mi ha fatto venire molti dubbi. Io non sono uscita con le mie amiche per mesi, e questo non ti ha suggerito che preferissi stare con te, ma hai pensato che non si fossero trovate. Anche quando la tua storia non sta in piedi, se serve a farmi apparire menefreghista per te è quella giusta. Io ti ho aperto il mio mondo, il mio cuore e la mia casa. Ti ho lasciato torturare il mio piccolo cucciolo, ti ho lasciato entrare nella mia camera, ti ho lasciato entrare in me. E per te questo non significa che mi importa. Secondo te la mia e' solo un'elaborata strategia per farti male e basta. Io ti cerco sempre. Io ti chiedo sempre se possiamo vederci. Io ti volevo presentare alla mia famiglia, non tu. Tu mi hai tenuta nascosta come un segreto imbarazzante per mesi e ancora lo fai, dicendomi di stare a 500 metri dai tuoi amici. Tu mi rinfacci serate perché io ballo con le mie amiche, ma ti dimentichi che era il mio ultimo giorno e che le persone che vedevo ogni giorno forse non vedrò più, non pensi nemmeno di giustificare che io abbia voluto bere con loro un ultimo aperitivo prima di salutarle per tanto tempo, perché non siamo andati insieme. Questo non e' mettermi nella condizione di esserci per te. Tu pretendi di dare la tua fiducia alle persone come un premio dopo che queste hanno fatto uno spettacolo da circo per guadagnarla, tu pretendi che io ci sia per te perché tu pensi di esserci stato per me. Ma la realtà è che ogni volta che ti succede anche la più piccola cosa negativa, ad esempio che io dico un orario e tu ne volevi un altro, tu ti arrabbi e non mi parli più, non mi ascolti più. E quante di queste volte io avevo bisogno di te, ma quella minima cosa ti impediva di vederlo? Quante volte ti ho detto ho bisogno di te e mi hai risposto che avevi i coglioni girati e non era il momento? Quante volte hai preso in giro i miei problemi perché non era il momento? Io sono rimasta e ho cercato nonostante tutto di darti il meglio di me, Perche quelle piccole cose che tu pensi io non veda in realtà sono state il motivo per cui ho continuato a sperare. Perché il male che mi faceva ogni piccola litigata, un po' alla volta mi spegneva. Ma le piccole cose mi hanno fatta rimanere, perché c'era una speranza che tu con il tempo ti saresti addolcito, ti saresti accorto che certe cose non erano possibili, ne' ragionevoli, ti saresti reso conto che io volevo solo stare con te; ma io sono una persona, non un oggetto che puoi mettere dove ti pare. Tanto tempo fa ti ho detto che mi dispiace non poter eliminare tutto il resto dalla mia vita, e tu l'hai preso come una provocazione, ti sei alzato e te ne sei andato. Sai cos'era in realtà? Un gesto disperato. Perché per fare si che tu rimanessi al mio fianco come sei quando le cose vanno bene, l'unica soluzione che io vedevo era eliminare tutta la mia vita che non ti comprendesse. Lasciare solo te. La tua vita Francesca? Il mio ragazzo. E basta. Quella era l'unica soluzione che vedevo per poterti avere e tu hai preso e te ne sei andato, senza accorgerti di quanto amore questo dimostrasse verso di te, ma anche di quanto dolore. Perché tu mi hai spiegato tante volte le tue motivazioni, ma sei stato irremovibile. Questo è, punto. E non hai mai cercato di venirmi incontro o di farmi vedere che mi accettavi. Al ballo, mi hai detto vai pure con loro e io mi sono sentita bene. Mi sono sentita supportata, e ho sentito quello che aspettavo da tempo. Ma poi sei sparito, e ti ho ritrovato distante, 'con i coglioni girati', 'non mi toccare', 'non parlarmi', 'me ne vado, fai il cazzo che vuoi tu' e ad andare via con un'altra ragazza... ecco vedi, queste cose le fai tu, ma se le facessi io per te sarebbero un segno. Tu non agisci secondo le regole che richiedi a me. Tu commenti le ragazze in mia presenza, dicendomi che sono meglio di me, tu esci con le tue amiche, messaggi con la tua ex. No, non ti sto facendo apparire come qualcosa che non sei, io sto dicendo i fatti. E questi sono fatti. Tu mi dici che sono l'unica cosa che conta... e io te li ho elencati. Quando hai voluto andare a vedere la partita e non mi hai fatta venire a casa tua io sono stata male, eppure non te l'ho fatto pesare più di dieci minuti, e il giorno dopo ero già disposta a cancellarlo. Tu a volte mi rinfacci che non ci sono perché non ti risposto per dieci minuti, ma quando tu rispondi ogni mezz'ora senza darmi un motivo a meno che non lo chieda tre volte è tutto a posto per te. Mi chiedi di parlare, ma ogni volta che ci provo alla fine mi dici solo si ok, e quindi quando non vedo più il senso e smetto, mi dici che lascio tutto lì. Ma secondo te, da chi l'ho imparato Francesco? Tutti i miei problemi che hai abbandonato lì e a cui io ho rinunciato...La verità e' che tu pretendi da me cose che fai al contrario e io lo trovo assurdo da richiedere. Io oggi volevo venire da te e consegnarti un pezzo della mia anima, una cosa che non avrei mai fatto con nessuno e che ero spaventata all'idea di fare, ma l'hai distrutta dicendoti che ti avrei deluso come sempre. Ma non posso dirti tutto questo, perché mi diresti solo di andarmene. E sono costretta a scriverlo qui, perché mi hai minacciato di bloccarmi ovunque se avessi mandato un solo altro messaggio. Io ho riflettuto tanto su di noi, ma ora credo sia il momento che tu rifletta sugli errori tuoi.
0 notes
giancarlonicoli · 4 years
Link
24 DIC 2019 17:171. VITA, OPERE E CAZZATE DI CHECCO ZALONE: UN COMICO SCORRETTO O UN GRAN PARACULO? 2. “RIVENDICO IL DIRITTO DI NON PIACERE E DI NON RISULTARE DIVERTENTE. ANCHE SE DEVO DIRE CHE ESSERE DIFESO (DA MELONI A SALVINI, NDR) DA CHI AVRESTI VOLUTO ATTACCARE È DIVERTENTENTISSIMO. IL PROBLEMA È LA POVERTÀ DEL DIBATTITO. IL DITINO MORALIZZANTE SEMPRE ALZATO A DIRE “QUESTO SI PUÒ O QUESTO NON SI PUÒ DIRE”. VIVIAMO NELL’ASSURDO” 2. IO E SORDI: “CON LE DOVUTE PROPORZIONI, INTERPRETIAMO PERSONAGGI CHE RIESCONO A FARTI IMMEDESIMARE ANCHE QUANDO SONO MOSTRUOSI, CINICI O SERVILI. SONO GREVI, SPESSO ORRENDI, ETICAMENTE DISCUTIBILI, MA SONO ESATTAMENTE COME SIAMO ANCHE NOI” 3. ''LA PIÙ GRANDE GIOIA? AVER AVUTO UNA CANZONE DAL MIO MITO, FRANCESCO DE GREGORI”
Malcom Pagani per Vanity Fair
«Signor Malcom, mi dica subito, lei ha parentele con quel tale X che negli anni Sessanta difendeva i diritti degli afroamericani?».
«Assolutamente no».
«Bene, si accomodi e cominci pure con le domande».
Chitarra. Voce. Checco Zalone.
All’uscita del supermercato ti ho incontrato (“il carrello lo porto io”) / Al distributore di benzina (“metto io, metto io”) monetina / Al semaforo sul parabrezza / C’è una mano nera con la pezza / E ritrovo quel tuo sguardo malandrino che mi dici: ��C’ha due euro per panino!”
Genesi: «Esco di prima mattina e lo incontro sulla porta. Mi chiede una moneta, gliela do. Due ore dopo lo rivedo in un’altra zona. Mi domanda un euro, glielo allungo. Ormai si è fatta sera. A un semaforo, qualcuno si offre di lavarmi il vetro della macchina. Abbasso il finestrino, è ancora lui. Lo guardo. Mi guarda. Si rende conto, mi rendo conto. Scoppia a ridere, rido anch’io. Diventiamo amici. A fine giornata penso di scriverci una canzone, poi accantono l’idea fino a quando, in una giornata africana particolarmente deprimente, mentre con i miei amici Antonio, Giuseppe e Maurizio cerco di ingannare il tempo tra una pausa e l’altra del set, mi torna in mente quella storia e scrivo Immigrato».
Ancora un ciuffo di giorni e Checco Zalone, dopo essere stato un’assenza, un’attesa e un pretesto, sarà una statistica. Su Tolo Tolo, sull’esegesi delle intenzioni e sulla pioggia di interpreti del pensiero di Luca Medici, si aprirà l’ombrello dei numeri. Al protagonista, il dibattito preventivo sul suo film sembra vuoto come la dispensa del suo residence: «Un caffè glielo faccio, ma non ho lo zucchero». Ha girato il suo primo film: «Due mesi di sopralluoghi, quasi 20 settimane di riprese tra Malta, Kenia, Marocco e Belgio, Tolo Tolo è stato faticoso. Tanto. Troppo».
Ha affrontato «un tema che era nell’aria e a cui tra un proclama di Salvini e uno sbarco a Lampedusa pensavo da anni. Cercavo una storia da ambientare in Italia fino a quando Paolo Virzì non mi ha dato l’idea di spostare il fuoco e di ambientarlo al di là del Mediterraneo».
Si aspetterebbe di più della conta un po’ meccanica dei milioni di euro e di una serie di reazioni a Immigrato «che mi hanno annoiato se non imbarazzato. Siamo messi male. Rivendico il diritto di non piacere e di non risultare divertente. Anche se devo dire che essere difeso da chi avresti voluto attaccare è divertententissimo».
Chi l’ha attaccata però lo ha fatto con durezza.
«Ma lei pensa che non sapessi cosa andavo a scatenare?».
Lo sapeva?
«Ma no, lo dico per dare soddisfazione a tutti quelli che hanno parlato di geniale operazione di marketing. Di strategia. Di calcolo. Ma dove? Ma quando?».
L’associazione Baobab ha parlato di banale spazzatura per il mercato delle festività.
«Direi che non dobbiamo preoccuparci. Magari chi ha scritto queste cose non ha visto integralmente il video o nutre semplice antipatia nei miei confronti. Il problema è la povertà del dibattito. Il ditino moralizzante sempre alzato a dire “questo si può o questo non si può dire”. Il nascere pretestuoso di polemiche inutili e modestissime».
Che impressione le fanno?
«La soglia della correttezza pretesa e della scorrettezza denunciata dal tribunale degli opinionisti si è vertiginosamente abbassata e in pochissimo tempo. Se si guarda al cinema degli anni ’70 lo si capisce immediatamente. Viviamo nell’assurdo. Siamo a un passo dal corso di laurea in politicamente corretto».
Lei la laurea la prese.
«In Giurisprudenza, ma non feci un solo giorno di pratica. Mentre mia zia Lina, vicequestore di Polizia in appoggio alla Buoncostume, la stessa che anni prima mi aveva spedito al Cirillo di Bari, un mestissimo semiconvitto per soli maschi, si occupava di trovarmi uno studio in cui esercitarmi gratis come legale, arrivò la chiamata di Zelig. Dopo il jazz, il piano bar e gli spettacolini, feci un provino a Milano. Una gag che a Bari, quando la mettevo in scena, lasciava per lo più indifferenti: “Un bacione alla casa circondariale di Trani con gli auguri di una presta libertà”. Fu un trionfo, il punto di svolta dopo una lunga notte».
Com’era la lunga notte che precedette Zelig?
«Come dice Daniele Silvestri, più in basso di così non si poteva andare. Il picco dell’umiliazione fu quando mi chiesero di suonare un pianoforte vestito da Babbo Natale. Comunque lo picchiassi o per quanto lo scuotessi con delicatezza, quel piano scassato non restituiva mai una nota tenue. Io sul palco, senza renne, vestito di rosso e di bianco per 50 euro di ingaggio e sotto di me il pubblico inferocito che mi chiedeva di fare meno rumore, di non disturbare la festa».
Fa impressione sentirlo dire dal campione d’incassi del cinema italiano.
«Le ho provate tutte. E non mi sono arreso. Sono stato fortunato, anzi fortunatissimo perché senza una buonissima dose di culo non vai da nessuna parte, ma quando ho avuto un’occasione ho dimostrato di sapermela meritare. Mi mandavano in onda, funzionavo, facevo ridere».
Milano le diede un’occasione.
«Il primo migrante ero io. Un migrante disperato come tutti i migranti. Per andare in trasmissione viaggiavo sulla tratta ferroviaria Bari-Milano con la stessa frequenza di mio nonno Pasquale, capostazione, e in tasca non avevo una lira. Parlavo per ore al telefono con Mariangela, con la quale sto da 15 anni perché lo saprà, all’inizio tra fidanzati non si fa altro che parlare e dormivo a casa di Nicola, un mio amico dell’università che vinse il concorso per entrare in Polizia Penitenziaria e da buon ragazzo del Sud comprò subito una casa a Milano. Periferia nord. Fermata Dergano. In pieno luglio, con un caldo sconvolgente, andavo a fare queste prove in viale Monza, combattevo con le zanzare e poi tornavo a Capurso. Una volta in treno incontro uno di Noicattaro».
Un suo conterraneo.
«Lombrosianamente, una faccia da tagliagole. Attacca discorso e mi comincia a raccontare una storia pazzesca: era stato in galera e si era trasferito in Germania perché in Italia non poteva più lavorare per aver rubato un motorino. Si immagini la scena: noi due in piena notte in un vagone deserto. Lui, enorme e poco raccomandabile, mi racconta nei minimi particolari il suo arresto. Io, piccolo e magro, visibilmente terrorizzato penso: “adesso questo, i pochi soldi che ho in tasca, me li rapina fino all’ultimo centesimo”».
E accadde?
«Macché. A un certo punto si commuove, gli si riga il volto di lacrime e mi dice: “L’altro giorno mio figlio mi dice che vuole un motorino. E io sai che ho fatto? Gliel’ho rubato. Così almeno non si sporca la fedina penale pure lui”.  Rimango zitto e intanto penso: “Qui c’è un film, qui c’è l’Italia”».
Lei quando ha capito di aver un potenziale?
«Quando ho inseguito i miei sogni. C’è stata un’epoca abbastanza buia in cui mi sembrava che non esistesse niente di più importante che avere un’indipendenza economica. Volevo qualche euro in tasca, una macchina tutta mia, un orizzonte sereno. Volevo il posto fisso. Mi misi in testa che dovevo fare il rappresentante e mio padre, venditore di medicine, mi trovò un posto di lavoro per sostituire quello dell’Amuchina che andava in pensione per raggiunti limiti d’età. Fui assunto. Avevo 23 anni. Con il colera, in Puglia, il prodotto si diffuse in maniera capillare. Lo usavano per lavare la verdura, pulirsi i piedi, farsi il bidet, la barba e forse anche al posto dell’acqua minerale».
Quindi tutto bene?
«Qual era il problema? Che in questo listino di prodotti da vendere che dovevamo proporre ai farmacisti, oltre al nostro Leo Messi, al nostro gioiello, al nostro vanto, l’Amuchina, c’erano una serie di cadaveri, noi rappresentanti li chiamavamo così, che rasentavano l’invendibilità. Il punto di rottura ci fu sui cerotti».
Racconti.
«I calciatori indossano cerotti per respirare meglio e per un paio di mesi, vedendoli in tv, più di un calciofilo volle imitarli. Tre settimane di follia, ordini alle stelle, pallottolieri che giravano. Poi, all’improvviso, al ventunesimo giorno, dei cerotti non volle saperne più nessuno e dei cerotti a quel punto avrei avuto bisogno io. I farmacisti erano inferociti e arrogantissimi: “Riprenditi questa monnezza e prova a venderla, altrimenti non ti fare più vedere”. Non solo non te li pagavano, ma avevo l’auto che traboccava di casse. A un certo punto i cassonetti li aprii davvero, mi liberai della merce e per un periodo andai proprio in crisi. Ero depresso. Mi sarebbe piaciuto suonare e invece mi rendevo conto che stavo buttando la mia vita. Tre o quattro mesi tremendi con lo spettro del servizio militare a incombere».
E cosa fece?
«Prima tentai di entrare in Polizia. L’esame prevedeva diritto penale, civile e amministrativo. Sui banchi, tutti quelli che facevano il concorso in Magistratura e affrontavano quel concorso in maniera sussidiaria. Avevo perso in partenza. Se l’avessi passato sarei diventato ispettore, mamma mia, poi dici che Gesù non esiste». (ride)
E poi?
«Dopo il liceo, a Capurso, bisognava trovarsi un lavoro. E io un lavoro non ce l’avevo più. Così mi ributtai a studiare, chiusi la partita Iva e pensai a come rimediare alle mie voragini fiscali con lo Stato. Erano cazzi. Ma cazzi veri. Dovevo quasi 20.000 euro all’Inps, una cifra per me impensabile. Zelig, da quel punto di vista, era vitale, ma non avevo più un soldo in tasca, neanche per il treno. Un giorno di luglio, più caldo e cattivo di altri, andai dal produttore e dissi che non potevo più fare avanti e indietro tra Bari e Milano per mancanza di fondi e quello senza eccepire mi firmò un assegno. La cifra, 5.000 euro, mi diede le vertigini. Chi cazzo li aveva mai visti quei soldi tutti insieme?».
Le cose si misero a posto pian piano?
«Grazie alla tv arrivarono le convention. Un miracolo in tempi ancora non straziati dalla crisi. Grandi aziende, gente disinteressata in platea, denaro facile. Ne facevo anche due o tre a settimana. Adesso me la tiro e non le faccio più, ma non so quanto sia una buona idea». (sorride)
Adesso fa il regista.
«Io la parola regista non riesco neanche a ripeterla, mi intimidisce, però a stare fuori scena, quando capitava durante la lavorazione di Tolo Tolo, mi sono divertito molto. Meno divertente è il lato oscuro del mestiere. Quando mi chiedono cosa ne pensi della color correction o chi devo ringraziare sui titoli di coda».
Lo rifarà?
«Temo di sì. È come una droga. Più ci ripenso e più ci voglio riprovare. Tra un po’ però, non domani mattina. Tanto, che sia tra un anno, tre o cinque, la mia condizione di base non cambia».
Quale condizione?
«Quella di chi ha fatto fare soldi e deve farne fare sempre di più».
Al primo gennaio, giorno dell’uscita di Tolo Tolo mancano pochi giorni. Prova ansia?
«Provo ansia prima, dopo e durante un film. Sono nato ansioso, non dormo da sei mesi, devo essere all’altezza delle aspettative. Immagino che se non fossi ansioso però sarei depresso».
L’ansia restituisce solo ansia?
«Da un certo punto di vista è la mia forza. Mi rendo conto che i momenti in cui avrei voluto morire e mi chiedevo “come cazzo faccio adesso?” sono quelli che hanno fatto scaturire le scene più belle del film. Il motore del guizzo è sempre la disperazione».
Sinossi di Tolo Tolo.
«È la storia di un italiano deluso dalla madre patria. Di un individuo che ha fatto una serie di investimenti sbagliati e sostiene di essere un sognatore. Posso usare una parolaccia?».
Prego.
«Se mi passa questo termine osceno, messaggio, il messaggio è proprio questo: Tutti abbiamo diritto di sognare. Il mio sognatore fugge dall’Italia, si trasferisce in Africa e una volta lì assiste allo scoppio di una guerra civile. Arrivano le milizie, una sorta di Isis o di Boko Haram, ed è costretto a tornare indietro, solo che non può farlo perché in Italia è inseguito dai creditori. Si ritrova quindi  nella stessa situazione dei migranti: non c’è nessuno che lo voglia. Se non fosse stato un titolo troppo colto, il film si sarebbe potuto chiamare Il migrante bianco».
Ma il suo protagonista è un figlio di puttana?
«Tutt’altro. Al limite un egoista, una testa di cazzo, un uomo incapace di vedere al di là del proprio ombelico. È uno che alla guerra antepone sempre i suoi problemi. C’è una scena di cui vado molto fiero: il suo numero di telefono è arrivato in diretta tv a Spinazzola, il suo paese, e mentre è in corso un bombardamento gli telefonano tutti. A lui delle bombe che piovono dal cielo non importa nulla, è molto più preso dalle ex mogli, dal commercialista e dai parenti che dal pericolo. Quando si rivolge agli altri, agli africani, con l’aria di saperla lunga fa loro un discorso a cuore aperto: “Sono questi i veri cazzi della vita, questa è la vera guerra”. È la metafora del nostro egoismo congenito visto comicamente, senza però il ditino alzato della morale moralizzante. O almeno spero».
A cosa aspira il suo protagonista?
«È un fuggiasco, uno che non ha più un luogo, uno che nonostante si trovi nei camion dei migranti o nelle navi con altri senza terra e senza patria, non sogna di tornare a Itaca. È cresciuto in mezzo all’amoralità. La madre gli dice: “Sei stato dato per disperso, hai la grande possibilità di estinguerti, se sparisci estingui tutti i tuoi debiti” e lui, in mezzo a un casino gigantesco con il suo amico Oumar, un appassionato di cinema italiano che sogna di andare a Cinecittà nonostante venga quotidianamente dissuaso da me “guarda che non c’è lavoro, non c’è una lira, non c’è una prospettiva”, non pensa al contesto drammatico che lo circonda, ma aspira all’unica salvezza del regime fiscale che troverebbe in Liechtenstein, dove c’è un suo cugino che gli darebbe riparo. Da un certo punto di vista, il mio personaggio è un candido».
Come il Candide di Voltaire?
«Ah, l’ha già scritto lui Tolo Tolo?». (ride)
In cos’altro spera?
«Che si capisca il paradosso. La poesia. Il ribaltamento dello schema. Non solo il valore del film o il fatto che ci abbia buttato dentro tanto sudore».
La più grande soddisfazione a film concluso?
«Aver avuto una canzone dal mio mito, Francesco De Gregori. Viva l’Italia è in una delle ultime scene del film e rispetto a quel che si vede sullo schermo è quasi antifrastica.  Temevo la sua reazione. Quando mi ha telefonato ero quasi certo che mi avrebbe detto “non puoi usarla”. Risponde con la stessa fiducia dei condannati e, incredulo, lo ascolto: “Finalmente, bravo Checco, è bellissima”. Sono momenti di impercettibile felicità».
Per la prima volta dopo quattro film insieme non è diretto da Gennaro Nunziante.
«Ci siamo allontanati come forse capita alle persone che stanno troppo tempo insieme e magari c’è anche un po’ di imbarazzo, ma io so che ci vogliamo bene. Non c’è nessun rancore da parte mia come credo non ci sia da parte sua».
È stato un set faticoso diceva.
«Mi sono sentito un po’ come Terry Gilliam alle prese con il suo Don Chisciotte, con un film che sulla carta non finiva mai. Il fato si è accanito contro la produzione, abbiamo avuto sfighe inenarrabili, rallentamenti, ritardi. La nave presa per girare alcune scene ha subìto un controllo ed è stata bloccata. C’erano cento persone ferme ad attenderla. Era surreale, una storia nella storia, i migranti nei migranti. I mètamigranti. Poi il bambino».
Il bambino?
«C’è un bambino che mi segue nel film, che mi si affeziona, che mi prende un po’ per un secondo padre. Per una questione burocratica non aveva il visto per venire in Italia. Praticamente un’iperbole. Il Kenia non ce lo mandava con Salvini ministro dell’Interno in carica».
Lei ha detto: «Le cose semplici non mi riescono». Soffre a inventare?
«Non è sofferenza, è lavoro. L’improvvisazione esiste, ma deve muoversi su basi ben solide. Scrivere film come i miei, comici e apparentemente semplici, non è affatto facile. A una cosa penso e ripenso migliaia di volte. Mi chiedo se stia in piedi, se funzioni, se faccia ridere davvero. Poi, se serve, improvviso. La battuta, quando è scritta, perde già il 50 per cento della propria efficacia».
Dove ha imparato a ridere e a far ridere?
«A casa. Simpatici i miei, simpatici i parenti, simpatico il comico della famiglia, zio Nino. È morto due anni fa e a quest’uomo che andava fiero di aver lavorato pochissimo nella vita, ero molto affezionato».
Come faceva a farsi volere bene?
«Aveva – sia detto bonariamente – una clamorosa faccia da culo. Si era specializzato in epitaffi e quando in famiglia moriva qualcuno e tutti, più di qualcuno anche in maniera ipocrita, si stracciavano le vesti davanti al feretro, Nino entrava in scena a modo suo. Ti gelava. Diceva delle cose tremende e irripetibili. Indifferente alla bara e al lutto, Nino ribaltava il quadro. Spesso ingiuriava il defunto e io che avevo 10 anni ridevo come un pazzo. Forse il gusto, il senso, direi il dovere di disturbare con una nota dissonante mi è venuto da lì».
Una certa passione per i suoni l’ha sempre avuta.
«Mio padre suonava il basso con Gli amici del Sud. Dodici dopolavoristi scatenati tra le balere e le sagre di paese. Suonava mio nonno che mi ha lasciato in eredità il Beckstein, un pianoforte dell’800 che – mortacci sua – ha i tasti in avorio il cui acquisto oggi è vietato. I tasti sono rovinati, non posso cambiarli e quindi è inutilizzabile. Suonava anche il fratello di mio nonno, vincitore di un concorso, poi riparato in America ai tempi di Mussolini. E naturalmente suonavo io imitando Celentano, mio idolo assoluto, davanti allo specchio».
Con 24 mila baci / felici corrono le ore.
«Con i miei amici di allora e direi anche di adesso facevamo casino tutto il giorno. Le faccio vedere una cosa». (Checco armeggia con il telefono, escono video antichi in cui lui ha tutti i capelli e anima scherzi telefonici, recite collettive, imitazioni in gita scolastica)
Sembrate una banda.
«Con Beppe De Bellis che adesso, poveraccio, fa il direttore di Sky Tg 24 e non vive più e Rocco Chiodo, un mio amico negato per la fica ma con un cognome da film porno, facevamo scherzi telefonici a metà tra il lazzo ingenuo e l’insostenibile pesantezza. Rocco era un genio dell’elettronica. Con mezzi poverissimi era in grado di inventare sistemi audiovisivi che per noi, una generazione cresciuta con Holly e Benji e Bim Bum Bam, sembravano provenire direttamente dal futuro e ci facevano lo stesso effetto dell’Hal 9000 di Kubrick in 2001: Odissea nello spazio».
Dal suo luogo d’origine lei ha tratto molti spunti.
«Osservavo il contesto, studiavo e poi rielaboravo. Che si trattasse del prete di Capurso, Don Franco che teneva omelie più teatrali di un testo di Goldoni, o del mio professore, fascistissimo, di filosofia, cercavo i caratteri. Le peculiarità. Le stranezze. Da meridionale mettevo in burla i tipici vizi dei miei conterranei esagerando volutamente. Ce n’era per chi elevava il furto a seconda religione di Stato e per chi giudicava sacrilego, offensivo delle tradizioni familiari, superare la terza media».
Con Pietro Valsecchi, il suo produttore, come si è conosciuto?
«Premessa: se non avessi detto no a Leonardo Pieraccioni forse non avrei mai lavorato con Valsecchi. Leonardo e Giovanni Veronesi, lo sceneggiatore, mi avevano scelto per Io e Marilyn. Ero arrivato da Roma con mio fratello, che è identico a me, e loro pensavano che Checco Zalone fosse lui. Uno fa l’attrezzista per il cinema e l’altro lo steward per Air Norwegian, le interessa?».
Vorrei tornare a Pieraccioni e a Veronesi.
«Arriviamo da loro in macchina da Bari con una fame pazzesca,  mi genufletto, dico subito di sì preventivamente al ruolo che mi offrono e poi, siccome con la pasta in bianco che avevano preparato soffro i morsi della fame, quando mi chiedono cosa faccia dopo il nostro incontro rispondo: “vado a pranzo”. Risate, accordo fatto, felicità reciproca».
Poi?
«Poi con la sua voce cavernosa a 5 Megahertz, nella mia vita, una settimana dopo, arriva proprio lui, Pietro Valsecchi. Io non sapevo chi fosse. Al telefono capisco soltanto due parole: Cortina e Aereo. Chiamo Gennaro Nunziante e gli dico: “Mi ha cercato un certo Valsecchi”. Sento un silenzio dall’altra parte, poi un gorgoglìo che somiglia a un’esultanza. “Ma sai chi è Valsecchi? Dobbiamo portargli subito una storia”. Così in pochi giorni tiriamo giù il canovaccio di Cado dalle Nubi e lo raggiungiamo in montagna».
Lei si deve liberare dall’impegno con Pieraccioni.
«Fu fantastico. Mi disse: “Ti è accaduta una cosa che è capitata anche a me e che non ti succederà mai più. Vai, cogli l’attimo e non preoccuparti”. A Cortina andai. Pietro versava vino e grattuggiava tartufo, che detesto, come fossero coriandoli o soldi del Monòpoli. Feci finta di niente, stetti male, vomitai fino all’alba e tenni duro. Il resto è una lunga storia. Sono tutti i miei film, fino a Tolo Tolo».
Avete mai litigato?
«In continuazione. Ci urliamo di tutto e poi facciamo pace. Magari non ci parliamo per ventiquattro ore, ma non è mai niente di serio. D’altra parte mi presenti qualcuno che non ha mai litigato con Valsecchi. È un grandissimo produttore. Ha fiuto. Entusiasmo. E poi ha un carattere».
Quanta gente ha conosciuto con un carattere?
«Non tanta. Uno era Ettore Scola. Lo conobbi al Festival di Bari dove era presidente e all’inizio feci l’orgoglioso. Mi chiamò un amico: “Domani c’è una lezione di cinema davanti al pubblico del Petruzzelli, ti andrebbe di venire?”. Dico di sì, ma vengo a sapere che al mio posto era prevista Liliana Cavani che all’ultimo istante non aveva potuto presenziare. Ci rimango male: “Ma allora non vogliono me, sto andando a tappare i buchi di Liliana che rinuncia, non mi va”. Chiamo il mio amico e gli comunico bruscamente di cercarsi un altro al mio posto. Passa poco tempo e mi telefona Ettore: “Vieni subito qui, non fare  l’orgoglioso, non fare la testa di cazzo”. Abbasso la testa e ubbidisco. Scola mi abbraccia: “Porto una croce, lo sai? Ho una nipote che è fan di quei film di merda che fai tu”. (ride) Ricordando il loro Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? in Tolo Tolo omaggio proprio Scola e Sordi».
Cosa la lega ad Alberto Sordi?
«Con le dovute proporzioni, interpretiamo personaggi che riescono a farti immedesimare anche quando sono mostruosi, cinici o servili. Non li giudichiamo e non ci estraniamo, ma restituiamo loro un’umanità in cui tutti possano rispecchiarsi. Sono grevi, spesso orrendi, eticamente discutibili, ma sono esattamente come siamo anche noi, almeno una volta al giorno».
Negli ultimi dieci anni lei ha concesso sì e no dieci interviste.
«In un mondo in cui tutti sentono il bisogno e l’urgenza di dare la propria opinione, io mi rendo conto che la mia non è interessante. Non so cosa dire. Che devo dire? Ho provato ad approcciarmi anche a Twitter, ma poi sono tornato indietro. “Madonna, ma perché devo scrivere ’sta cazzata? Ma è utile? È edificante? Interessa?”».
Cosa si è risposto.
«Di no. E ho deciso di tacere».
0 notes
pangeanews · 4 years
Text
“Bisogna distaccarsi dal mondo per stare nel mondo, morire a sé stessi per rinascere attraverso la letteratura”: dalla quarantena dell’Isola sarda, Salvatore Niffoi dialoga col suo conterraneo Matteo Fais
Quando vedo il suo nome lampeggiare sullo schermo del cellulare, sono sempre titubante. Non so mai se rispondergli o meno. Non che non mi faccia piacere sentirlo – anzi. La verità è che me la faccio sotto e ho sempre una paura boia di fare una figuraccia. Il fatto è che lui non è uno qualsiasi. Lui è Salvatore Niffoi, il Maestro, il vincitore del Premio Campiello, l’allievo di Tullio De Mauro e Carlo Salinari, quello con un curriculum di romanzi che pare Stephen King. Parlarci a tu per tu, mi fa tremare le ginocchia. E quando quel dannato telefono squilla, io comincio a sudare. “Ma che gli dico a questo?”, penso, “E non posso neppure limitarmi a stare zitto e imparare, o mi prenderà per un cretino”. Insomma, se come dicono alcuni non bisognerebbe mai conoscere i propri miti, posso garantirvi che esiste anche un altro problema con questi: averci a che fare, senza limitarsi a uno sciocco balbettio. Ma Salvatore Niffoi è per me come una bella donna e da tempo lo corteggiavo, per avere un’intervista. Così ho ingoiato la paura e fatto finta di niente. Quando Giunti mi ha inviato la copia per la stampa del suo ultimo romanzo, Le donne di Orolé, dunque, gli ho posto la fatidica domanda: “Salvatore, ma l’intervista…?”. Ha accettato, cosa che oramai non fa praticamente più. Io mi sono limitato a scuoterlo leggermente con le domande, come un albero, e aspettare i frutti che cadevano a pioggia.
Milena Agus, in Perché scrivere, dice “quando ho conosciuto Niffoi, avevo già letto tutti i suoi romanzi. Incontrandolo ho pensato che magari era una domanda scema, ma gli volevo chiedere se quelle storie terribili succedevano davvero dalle sue parti”. Salvatore, ma quel che tu racconti è realmente verosimile?
La contemporaneità – e soprattutto la sua mediaticità – ci ha talmente diseducato al senso della realtà che tutto ci sembra inverosimile. Ognuno si costruisce nella testa un’idea di normalità che serve per allontanare, come vediamo negli ultimi giorni, l’idea della pestilenza, del dolore, del male. È una sorta di metadone sociale. Però, poi, la realtà è quella che è. Se non sei allenato a questa – quindi alla sofferenza –, tendi a rimuovere. Noi di fronte al dolore siamo ogni volta costretti a improvvisare, perché mai abbastanza allenati. Quando qualcuno ce lo fa vedere, anche solo sulla pagina, ci terrorizza. La situazione attuale ne è la prova. Non si può rimanere eternamente immersi in quella che Zygmunt Bauman avrebbe chiamato la “destrutturazione della morte”. Ma, venendo al discorso prettamente letterario, io preferisco una scrittura spinosa, che metta il lettore al cospetto di determinati problemi. Non amo il catering letterario. Leggere non è come entrare in una pasticceria e domandare ciò che si desidera. Voglio che attraverso il mio lavoro la gente si abitui alla provvisorietà dell’esistenza, così da non perderne di vista né il valore né il miracolo che la determina. Non mi piace lasciare dormire sonni tranquilli ai lettori, perché poi si finisce per pensare che a noi non succederà mai un cazzo – quando, invece, questo accade, oh se accade! Oggi la gente è disposta a condividere il dolore degli altri, ma a costo zero. Lo fa a parole, sui social, in televisione, senza rischi. Per capire veramente ciò che questo comporta, però, lo devi vivere e assumere su te stesso. Altrimenti, basta un raffreddore per spaventarti a morte. Comunque, non si può fare a meno di parlare della morte. Tutti gli scrittori che amo ne trattano. Se parli d’amore, parli della morte. Sono elementi che convivono. Del resto io, tendenzialmente, mi guardo intorno e descrivo ciò che vedo. Credimi, le mie storie sono meno esotiche e fantastiche di quanto si possa pensare. Chiaramente, vi è un processo di trasfigurazione – anche per evitare il gioco dell’identità. Ma la cosa importante, quella su cui non ho dubbi, è che devo emozionare, dare qualcosa. E, di conseguenza, la scrittura deve coinvolgere tutti i sensi e possibilmente uno in più che non si vede, ma risiede nella testa e nel nostro cuore. A ogni modo, delle mie storie è certamente vero che la Barbagia che ho messo su carta ha vissuto un terremoto antropologico devastante. Per lungo tempo siamo stati col culo sopra il vulcano, legati ai ritmi della natura, quelli imposti dalla vita contadina. Poi siamo caduti dentro il vulcano, con l’industrializzazione. Abbiamo venduto un pezzo di noi per del pane avvelenato. Non possedevamo i mezzi per affrontare questo demone della velocità e del progresso, essendo andati avanti per secoli in un meraviglioso isolamento… Un isolamento anche culturale – cosa abbiamo, in fondo, qui in Sardegna, prima di Gramsci e la Deledda?
Come è sorta in te la pulsione alla scrittura? Perché, insomma, hai iniziato a scrivere?
Non nasce niente, ce la devi avere. Non te la puoi inventare. Per questo non credo nelle scuole di scrittura, né alla scrittura come mestiere. Devi farlo per amore e per piacere. Te lo devi sentire. Poi, chiaramente, parlare di semplice vocazione è una cazzata. Il mestiere si affina, si acquisiscono competenze, ma ci vuole la spinta iniziale. Per questo ti dicevo, non credo alle scuole di scrittura come a quelle che insegnano a parlare una lingua che non si parla più, la nostra. Anzi, mi fanno cagare dalle risate le scuole di sardo per gente che non l’ha mai praticato. Questa lingua la ricevi per imprinting naturale.
Ma ci sarà pur stato un evento scatenante che ti ha portato a dire “Oramai non è più prorogabile, bisogna prendere la penna in mano”… 
Un evento? No, io credo che il piacere della scrittura sia consequenziale a quello della lettura. Ho avuto la fortuna di avere una madre che, nonostante la contingenza – la disperazione post-bellica –, mi ha messo in mano poco pane ma molta roba da leggere. Poi c’era mio nonno, nella cui casa ho scoperto delle reliquie meravigliose, come le opere di Zola e Balzac. Ma è stata soprattutto mia madre che, già a tre-quattro anni, mi ha insegnato a leggere con “La domenica del Corriere”. Successivamente è venuta la lettura di “L’intrepido”, “Il Vittorioso”, “Tex Willer” – andavo in chiesa a leggerli. Inoltre, a quei tempi, c’erano le sezioni di partito – io praticamente ci sono nato in una sezione del PCI – ed erano piene di testi. E, per quella che io definirei la matericità della mia scrittura, è stato fondamentale il contatto con la natura. Noi ragazzini, allora, conoscevamo le piante, la frutta che raccoglievamo di passaggio attraverso i campi. È lì che tutto, per me, ha cominciato a prendere forma. In letteratura, credimi, il miracolo non esiste: o hai una storia da raccontare, oppure rimani un cazzeggiatore. Puoi avere agganci politici, editoriali, ma se non hai storie, bello mio, il lettore se ne accorge. Quello che conta è l’originalità. Devi essere identificabile, riconoscibile. E questo io non lo chiamerei semplicemente mestiere. A chi sa scrivere basta spesso un’ora per fare meglio di chi lavora di filato per dieci ore. Io sono cresciuto con la bellezza delle parole e penso sia a esse che bisogna tornare, come all’ascolto. Quando ero bambino, nelle sere d’estate, si usciva fuori per strada e c’erano le persone anziane che raccontavano. Spesso non avevano finito neanche le elementari, ma sapevano narrare. Il piacere del film è arrivato dopo. Il cinema ha aggiunto un’ulteriore possibilità di sognare a quella già data dalla letteratura.
Esiste realmente la categoria denominata “letteratura sarda”, oppure la tua è solo e semplicemente letteratura?
Penso che sia il momento di smetterla con l’identitarismo narcisistico e pataccaro, da strapazzo. Prima devi essere uomo di mondo e poi sardo. Cinese, thailandese, australiano o nigeriano non aggiunge e non toglie proprio un cazzo. Torno al discorso di prima: o hai storie da raccontare, o che tu sia sardo o meno non cambia niente. Poi, ovviamente, ognuno ha la sua, da Bernhard a Faulkner. Ma il paese piccolo e chiuso non esiste più, esiste il mondo. Era così anche prima, solo che allora era un grande puzzle. Noi dobbiamo andare per il mondo con le nostre storie, ma senza millantare più di tanto l’identità di appartenenza, senza esibirla.
Questo tuo stile caratterizzato da una commistione tra l’italiano e la lingua sarda come è nato?
Come l’idea di scrivere, non l’ho scelto, mi è venuto. Come spiegarti! È stato come quando ho visto la ragazza che poi sarebbe diventata mia moglie. L’ho capito subito che sarebbe stata lei. I miei amici dicevano “Ma no, troppo bella per te”. Sta di fatto che, dopo una settimana, stavamo già insieme. Capisci cosa intendo? La moglie, come la scrittura, non è qualcosa che ti puoi costruire in laboratorio. Fuor di metafora e andando nello specifico, per i romanzi creo da prima una sorta di canovaccio. L’idea originaria può sorprendermi ovunque. Posso essere in macchina e dire a mia moglie “scrivi”. Quando torno a casa, sviluppo. Per questo vado sempre in giro con la penna e il taccuino. Delle volte, mi basta un’occhiata a un paesaggio e da lì tutto prende forma. Sembra pazzesco, lo so, ma è così – l’importante è capire che non deve essere una faticaccia, ma un piacere. Successivamente, di solito, scelgo i nomi dei protagonisti e i loro soprannomi, che sono la carta d’identità fondamentale – sottendono un destino. Poi, insomma, come avrai capito, do una grande importanza al paesaggio, oltre che alla psicologia dei diversi soggetti. Anche quelli che sembrano comparse hanno sempre una vita autonoma e sono molto legati allo spazio. Ecco perché è importante definire l’architettura del romanzo. È un lavoro di fino, difficilissimo, tenere insieme tutti i fili, come quello delle grandi tessitrici del mio paese. Poi bisogna scrivere tutta la toponomastica: le vie, i vicinati, le chiese, i passi. E non si dimentichi, nel caso delle mie opere, la fitologia, ovvero lo studio delle piante, per esempio per sapere quando certe fioriscono… In un romanzo del passato, mi è capitato di sbagliare in tal senso. Non per niente, mi serve tempo per documentarmi. Molto fa l’esperienza, il fatto che io sia cresciuto in campagna. Ho anche una certa consuetudine con gli animali. Alcuni li avevo anche dentro casa. Trovavamo persino le cacche di topi nella roba da mangiare che, poi, nel caso, si bolliva – la fame era fame, allora, ma si apprezzava di più il mondo. Come quando mangiavamo la carne, circa una volta al mese. Ricordo anche il brodo con quelle chiazze di grasso, il formaggio acido grattugiato da giorni. Microbi e batteri non ci facevano nulla, anzi ci ringraziavano per averli ospitati (ride). Non c’erano i bagni. Ci si lavava tipo a Pasqua e Natale – tutto molto pasoliniano. Certo non vivo di nostalgia del passato, però scrivo anche per ricordare ai ragazzi che quei tempi non sono poi così remoti.
Siamo in fondo quattro gatti su quest’isola – mi pare un sesto dei siciliani. Ma, dunque, che senso ha, nell’economia della letteratura italiana, e per te che sei tradotto in tante lingue, raccontare la nostra terra? Insomma, dove sta l’universalità delle tue narrazioni?
Tutto quello che si racconta è universale. Solo che adesso a raccontare siamo in tanti. Prima si era in pochi, la fruizione era dunque più lenta, e col tempo si diventava dei classici. Oggi tutto si brucia nel giro di una settimana. I libri funzionano per le strenne natalizie. Siamo sempre più preda di una sindrome da bestsellerismo. Io, comunque, credo in quello che faccio e non sono un marchettaro. Non cerco visibilità mediatica, non mi interessa creare libri che stanno alla letteratura come le canzonette alla poesia. Leggere certi romanzi da cazzeggio è come farsi un clistere al cervello. Tutto ciò non mi interessa. Io ho questo mondo e voglio raccontarlo. Non faccio grande vita sociale, non vado in giro per bar. Sono solitario e molto selettivo. Credo che la cultura sia legata all’abnegazione: quando si scrive si toglie tempo alla vita, vita alla vita, e bisogna coltivare la solitudine per riuscirci. Bisogna distaccarsi dal mondo per stare nel mondo, o meglio ancora morire a sé stessi per rinascere attraverso la letteratura. C’è in questa idea del raccontare la volontà di dire sé stessi e ritagliarsi un piccolo angolino di immortalità, un pezzetto di paradiso se esiste.
Salvatore, tu sei laureato in Lettere, niente meno che con Tullio de Mauro, uno dei più grandi, se non il più grande, linguista del Paese. Ma c’è, a tuo avviso, una preparazione fondamentale che chi voglia scrivere deve avere?
No, la preparazione non c’entra proprio un cazzo, ne sono convintissimo. Per scrivere devi semplicemente essere come una calamita che attira tutto quello che gli gira intorno. Ciò che potrebbe essere utile lo devi acchiappare, imparando a vedere. Non ti devi perdere nulla: una persona nei suoi pregi e difetti, una risata. Fin da piccolo, devi andare in giro con questa borsa che riempirai man mano sempre più con storie ed esperienze. Personalmente, quando ero bambino avevo già la passione per la scrittura. Mia madre era disperata perché mi vedeva invecchiare in fretta. Sai, scrivere e pensare fa invecchiare in modo celere, perché leggendo vivi due volte. Per fare letteratura non devi andare a scuola, semmai in biblioteca. Io ci andavo sempre. Così ho continuato ad annaffiare questa pianta che aveva seminato mio nonno insieme a mia madre. Lei mi insegnò a leggere e scrivere. Il latino l’ho imparato da grande, da un sacerdote. Quando andavo a scuola, invece, le poche volte che entravo, scrivevo – della matematica e materie affini me ne fottevo. Alle superiori avevo un’agenda grossa con la A di anarchia, in cui buttavo giù racconti e poesie. Risalgono a quel periodo alcuni dei miei primi romanzi, tutti non pubblicati. Mancano praticamente delle parti dialogate. Erano più un assemblaggio di poesie, ma c’era già in nuce il mio percorso futuro. Sai, io ho fatto ragioneria alle superiori, non il liceo. A quei tempi era molto forte, per una questione di riscatto sociale, l’idea di diventare ragioniere per poter poi magari trovare posto in banca. Il punto è che a scuola non ci andavo. Ero sempre in giro. Insomma, alla fine non ne potevo più di partite doppie e faccende simili. Mio padre si era rotto i coglioni e chiese a mia madre cosa fare di un asinaccio come me. Ma la donna aveva capito che io non ero scemo. Così mi mandarono a tagliare pietre, d’estate, per farmi capire cosa fosse la fatica. Dopo quell’esperienza traumatica, a settembre, mi spedirono a Roma. In un anno e mezzo mi tolsi dalle palle questo diploma. Frattanto, avevo già cominciato da tempo a frequentare le lezioni di Lettere, alla Sapienza – anzi, a dirla tutta, ero sempre lì. Infatti, quando mi iscrissi, superai tutti gli esami in qualche anno. Nel resto del tempo, scrissi la tesi con De Mauro e Salinari.
Ci pensi mai a cosa resterà della tua opera tra uno o più secoli? Inutile nascondere che, da romanzieri, un simile interrogativo ci angoscia.
Guarda, si scrive soprattutto per i contemporanei. Non per i morti, ma per i vivi. La letteratura è una sorta di vendetta contro il male di vivere e l’inquietudine che ci tormenta tutti. Poi, a me non piace spingere la gente a leggermi. È per questo che non vado in giro a fare presentazioni. Non sono un imbonitore. Non credo che un passaggio televisivo cambi più di tanto, nemmeno le interviste. Ho un grande senso del pudore – e del ridicolo – che ho ereditato da mia madre. Non amo molto gli autori di oggi che scrivono e pisciano il libro subito sul mercato. Non è mio costume. Poi, certo bisogna produrre, avere molte cartucce, cioè storie da raccontare. Non che la quantità faccia la differenza – possono bastare anche pochi testi, anche se sono rari quelli che riescono a raccontare il loro mondo in uno spazio così ridotto. Io preferisco scrivere per lasciare un segno, altrimenti siamo come i cani che lasciano solo cagate per terra. Non voglio passare sulla terra leggero, voglio lasciare un’impronta e voglio lasciarla pesante. Racconto il mio mondo così com’è, nella sua vitalità. Naturalmente, lo voglio fare con la scrittura dei romanzi, perché quella della rete non resta. Non ha odore, non sporca, è algida. La differenza tra le due è come quella che corre tra la tabaccaia di Fellini, non bellissima ma molto abbondante, e una femmina che vedi per un attimo in una foto porno. Non c’è paragone, non c’è piacere.
In questo tuo ultimo romanzo, Le donne di Orolé, il punto di vista femminile risulta predominante. Ti vorrei chiedere a tal proposito cosa ti affascina nella prospettiva dell’altra metà del cielo e, soprattutto, come possa un maschio ambire a comprendere la visione del mondo che hanno le femmine?
Bisogna imparare a resettare gli ormoni. La mia fortuna è sempre stata avere tante amiche. Facevo di tutto per uscire, il pomeriggio, da giovane, e annusare queste ragazze… Allora, sai, si andava anche con loro a fare i bisogni, in campagna, perciò il mistero si scopriva insieme per così dire. Sono sempre stato bene con le amiche, meglio che con gli amici. E anche gli amori che ho avuto, in tal senso mi hanno lasciato tanto, aiutandomi a entrare in quel microcosmo. Mia madre, poi, mi ha insegnato a dare. Lei era una donna che sapeva donare. Era possessiva in maniera ombelicale, però era anche una femmina che riusciva ad assorbire la disperazione e il dolore. Con mia moglie, poi, in quarantacinque anni d’amore, non è mai volata una parolaccia, un gesto sbagliato. Credo davvero che le donne sappiano trasformare il male di vivere in speranza. È insito nella loro natura: chi dà la vita non può toglierla. Le donne, inoltre, mi hanno anche aiutato ad aprire gli occhi, a capire l’importanza e la serietà dello studio. Per questo ero sempre innamorato delle mie insegnanti, in particolare quelle di Italiano. Bisogna tenere presente che l’architrave del mio murale narrativo è sempre femminile – pensa solo a La vedova scalza. Gli uomini, certo, non sono unicamente delle comparse, ma hanno un ruolo diciamo da spalla. Le mie lettrici lo sanno che Dio non ha tolto una costola all��uomo per fare la donna, ma ha tolto le palle alla donna per darle all’uomo e semplicemente a scopo riproduttivo.
Matteo Fais
L'articolo “Bisogna distaccarsi dal mondo per stare nel mondo, morire a sé stessi per rinascere attraverso la letteratura”: dalla quarantena dell’Isola sarda, Salvatore Niffoi dialoga col suo conterraneo Matteo Fais proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2TZMj65
0 notes