Tumgik
#non decidere per me
Questa situazione dell'aborto mi mette così tanta ansia, odio che qualcuno debba obbligarmi a tenere un bambino che non sarei pronta a crescere.
Questo fatto che fare i bambini sia così facile ma che nessuno si curi di crescerli bene è molto fastidioso.
Magari se volessi abortire è perché non mi sento pronta a prendermi così tante responsabilità e non perché sia contro la vita.
Magari economicamente non potrei mantenere un bambino, dovrei mettere da parte la mia vita per una situazione che non ho saputo gestire bene per tanti motivi. Dovrei sentirmi costretta ad abortire clandestinamente solo perché non c'è qualcuno che mi tutela, è facile giudicare dall'alto ma poi concretamente non è così semplice.
Non dico che non possiate pensarla come preferiate però vi prego di non giudicare me perché voi potete tenere il vostro piccolo ammasso di cellule ma io preferirei non fare altrettanto perché quel piccolo ammasso di cellule potrei rovinarlo per tutta la vita.
Quindi io dico di sì all'aborto ma perché io dico di sì alla libera scelta di volersi prendere e non prendere delle responsabilità.
piccoloatomodiunfreddouniverso
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surfer-osa · 13 days
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Ti ho messo vicino Jimi Hendrix perché secondo me avreste tanto da raccontarvi.
Sono già/solo sei mesi che te ne sei andata via ed ogni giorno cerco di restare a galla tra la rabbia che mi esplode nelle viscere e negli occhi contro la gioia dei ricordi passati e di quelli da costruire.
Mi hai insegnato che l'amore non è quella favoletta eterocis normata ma qualcosa che va oltre a tutto ciò che sappiamo. Mi hai insegnato a non avere paura della morte ma a saperla rispettare, mi hai insegnato come sapere quando è ora di lasciare andare le altre persone.
In sintesi questo è l'amore: lasciare andare.
Ho dovuto decidere per te da sola, in pochi istanti. Ti sono stata vicina in ogni modo che ho potuto: mentre tu mi hai dato la vita a me è toccato di darti la morte. Se fossi ancora qua ne rideremmo ma non ci sei e non è semplice farlo (però posso sempre provare a fare un tentativo, non trovi?).
Ciao bellissima.
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Buongiorno mi sembra che nella mia descrizione biografica abbia ben specificato che non accetto nessuna chat ... Sta a me decidere chi si chi no .. Purtroppo su questo social ci sono persone che non rispettano le donne .. Sono una signora di una certa età ,ma non di una età certa...Sono qui soltanto per passare del tempo e per scrivere ciò che mi passa per la testa ... Questo non significa che sono qui per sfogare i vostri istinti ...Se avete tanta fame di fighe c'è gente disposta a soddisfarvi ,basta pagarla .. Hai rotto il c.....E fai schifo ... Credo che tu abbia capito ... STRONZO
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amespeciale · 15 days
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E mi sono richiusa a riccio nei confronti dell'amore, che piu' mi ha dato, piu' mi ha fatto male, piu' mi ha tolto, piu' mi ha reso forte.
Ho fatto a pugni con il mondo per avere un amore che servisse, che fosse vero, e quando ho capito che nessuno per quanto voglia, possa realmente decidere la sorte del proprio destino, ho gettato l'ancora, e mi sono fermata nei confronti dell'amore che anche se triste, per me non credo possa esistere.
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s-l-a-v-e-m-m-e · 3 months
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...Mi capita di leggere parecchi post, scritti da schiave, dove sono tutte in eterno calore.
Tutte sempre vogliose, bagnate e pronte...
...e quindi mi chiedo: come è possibile che in me convivano le varie forme di donna che sono e la Sua schiava?
Perché io non sono stata contagiata dalla "umidità 24/7" che colpisce questa schiave?
Faccio affidamento al mio amato neurone che mi fa respirare e fermare un attimo per riflettere .
Riflettere sul fatto che sono proprio come il Padrone mi vuole.
Io non sono un take away, sempre pronto,
piuttosto un piatto elaborato da decidere, preparare...cucinare attentamente per poi essere gustato.
Si...sono proprio un piatto elaborato, io.
emme🌷
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occhietti · 3 months
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Ad Auschwitz superai la selezione per tre volte. Quando ci chiamavano sapevamo che era per decidere se eravamo ancora utili e potevamo andare avanti, o se eravamo vecchi pezzi irrecuperabili. Da buttare. Era un momento terribile.
Bastava un cenno ed eri salvo, un altro ti condannava. Dovevamo metterci in fila, nude, passare davanti a due SS e a un medico nazista. Ci aprivano la bocca, ci esaminavano in ogni angolo del corpo per vedere se potevamo ancora lavorare. Chi era troppo stanca o troppo magra, o ferita, veniva eliminata.
Bastavano pochi secondi agli aguzzini per capire se era meglio farci morire o farci vivere. Io vedevo le altre, orrendi scheletri impauriti, e sapevo di essere come loro. Gli ufficiali e i medici erano sempre eleganti, impeccabili e tirati a lucido, in pace con la loro coscienza.
Era sufficiente un cenno del capo degli aguzzini, che voleva dire “avanti”, ed eri salva. Io pensavo solo a questo quando ero lì, a quel cenno. Ero felice quando arrivava, perché avevo tredici anni, poi quattordici. Volevo vivere.
Ricordo la prima selezione. Dopo avermi analizzata il medico notò una cicatrice. «Forse mi manderà a morte per questa…» pensai e mi venne il panico. Lui mi chiese di dove fossi e io con un filo di voce ma, cercando di restare calma, risposi che ero italiana.
Trattenevo il respiro. Dopo aver riso, insieme agli altri, del medico italiano che mi aveva fatto quella orrenda cicatrice, il dottore nazista mi fece cenno di andare avanti. Significava che avevo passato la selezione! Ero viva, viva, viva! Ero così felice di poter tornare nel campo che tutto mi sembrava più facile.
Poi vidi Janine. Era una ragazza francese, erano mesi che lavoravamo una accanto all’altra nella fabbrica di munizioni. Janine era addetta alla macchina che tagliava l’acciaio. Qualche giorno prima quella maledetta macchina le aveva tranciato le prime falangi di due dita. Lei andò davanti agli aguzzini, nuda, cercando di nascondere la sua mutilazione. Ma quelli le videro subito le dita ferite e presero il suo numero tatuato sul corpo nudo. Voleva dire che la mandavano a morire.
Janine non sarebbe tornata nel campo. Janine non era un’estranea per me, la vedevo tutti i giorni, avevamo scambiato qualche frase, ci sorridevamo per salutarci. Eppure non le dissi niente. Non mi voltai quando la portarono via. Non le dissi addio. Avevo paura di uscire dall’invisibilità nella quale mi nascondevo, feci finta di niente e ricominciai a mettere una gamba dietro l’altra e camminare, pur di vivere.
Racconto sempre la storia di Janine. È un rimorso che mi porto dentro. Il rimorso di non aver avuto il coraggio di dirle addio. Di farle sentire, in quel momento che Janine stava andando a morire, che la sua vita era importante per me. Che noi non eravamo come gli aguzzini ma ci sentivamo, ancora e nonostante tutto, capaci di amare. Invece non lo feci.
Il rimorso non mi diede pace per tanto, tanto tempo. Sapevo che nel momento in cui non avevo avuto il coraggio di dire addio a Janine, avevano vinto loro, i nostri aguzzini, perché ci avevano privati della nostra umanità e della pietà verso un altro essere umano. Era questa la loro vittoria, era questo il loro obiettivo: annientare la nostra umanità...
- Liliana Segre - Fino a quando la mia stella brillerà
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gregor-samsung · 3 days
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“ Tina, nome di battaglia Gabriella, anni diciassette, giovane come tante nella Resistenza. Non ho mai pensato che noi ragazze e ragazzi che scegliemmo di batterci contro il nazifascismo fossimo eccezionali, ed è questo che vorrei raccontare: la nostra normalità. Nella normalità trovammo la forza per opporci all’orrore, il coraggio, a volte mi viene da dire la nostra beata incoscienza. E così alla morte che ci minacciava, che colpiva le famiglie, gli amici, i paesi, rispondemmo con il desiderio di vita. Bastava aprire la porta di casa per incrociare il crepitare delle armi, le file degli sfollati, imbattersi nella ricerca dei dispersi; partecipare dell’angoscia delle donne in attesa di un ritorno che forse non ci sarebbe stato: ma le macerie erano fuori, non dentro di noi. E se l’unico modo di riprenderci ciò che ci avevano tolto era di imbracciare il fucile, ebbene l’avremmo fatto. Volevamo costruire un mondo migliore non solo per noi, ma per coloro che subivano, che non vedevano, non potevano o non volevano guardare. E se è sempre azzardato decidere per gli altri, temerario arrogarsi il diritto della verità, c’erano le grida di dolore degli innocenti a supportare la nostra scelta, c’era l’oltraggio quotidiano alla dignità umana, c’era la nostra assunzione di responsabilità: eravamo pronti a morire battendoci contro il nemico, a morire detestando la morte, a morire per la pace e per la libertà. Vorrei che voi sfogliaste insieme a me l’album di ricordi, con i volti dei miei tanti compagni di grandi e piccole battaglie, fotografie scattate nei giorni della pace ritrovata, quando ci riconoscemmo simili. Mi rivedo, ci rivedo, con i capelli ricci o lunghi, barbe più o meno incolte, vestiti a casaccio, e tuttavia qua e là spuntano una certa gonna più sbarazzina, scarpe basse ma con le calzette colorate, un fermaglio su una ciocca ribelle, la posa ricercata di un ragazzo, e tutti insieme a guardare diritto l’obiettivo, tutti insieme sapendo che il futuro ci apparteneva, tutti insieme: questa era stata la nostra forza, la nostra bellezza. “
Tina Anselmi con Anna Vinci, Storia di una passione politica, prefazione di Dacia Maraini, Chiarelettere (Collana Reverse - Pamphlet, documenti, storie), 2023; pp. 3-4.
Nota: Testo originariamente pubblicato da Sperling & Kupfer nel 2006 e nel 2016.
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colonna-durruti · 9 months
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Maledetti, maledetti sfruttatori classisti.
DA LEGGERE: Lettera su Il Fatto Quotidiano
“Sono una 24enne studentessa universitaria, lavoratrice occasionale. E sono figlia di un padre di 59 anni, invalido, che ha ricevuto l’sms della sospensione del Rdc. Scrivere questa email è umiliante, ma vorrei chiarire le idee a chi forse non le ha chiare su chi siano le famiglie che in questi 4 anni sono riuscite ad andare avanti grazie a questo sussidio.
Vengo da una famiglia molto povera e sin dalle elementari ho avvertito il senso di inferiorità rispetto alle mie compagne. Non ho mai potuto fare sport, ricevuto regali come libri, mangiare fuori con la mia famiglia. Alle medie non avevo un euro per il panino, se non per qualche giorno quando mio padre riceveva il suo misero stipendio, ancora ringrazio la mia compagna Lucia che mi dava un pezzo del suo senza farmelo mai pesare. Non ho mai potuto fare gite di classe, legare davvero con le mie compagne: sapevano che stavo un gradino più in basso, non avevo argomenti, spesso piangevo perché mi sentivo abbandonata a me stessa e molte volte mi chiedevo se avrei mai potuto sentirmi “normale” come loro. Quando i soldi c’erano, erano per la casa, le bollette, per riempire frigo e freezer. Quando le cose andavano male, si rompeva un elettrodomestico, era anche peggio, bisognava decidere se mangiare o non lavarsi per una settimana. Più di tutto mi è pesato dover sempre scegliere la cosa che meno poteva impattare su tutti. A volte mi sembra di non aver vissuto, di non aver ricordi della mia infanzia/adolescenza, se non quelli passati a piangere chiedendomi che cosa avessi fatto di male per essere capitata in una famiglia così povera.
La povertà in Italia è una colpa, è un continuo fare la guerra alle persone che per definizione sono solo scansafatiche. Perché se sei povero, puoi solo essere questo. Non puoi studiare, oppure puoi studiare, senza libri, senza risorse, senza Internet, senza dispositivi, puoi adattarti agli orari delle biblioteche, appoggiarti sulle borse di studio regionali, quelle per cui devi avere il 90% di crediti dell’anno in corso. Ma avete una vaga idea di quanto possa essere difficile rimanere in corso senza una famiglia che ti sostenga alle spalle? L’università premia i bravi studenti, ma non i poveri studenti. E cosa c’entra con il Rdc?
Mi ha permesso di non scegliere, di avere i libri di cui avevo bisogno nell’immediato, di pagare le tasse (nonostante rientrassi in fascia 1), di vivere senza preoccuparmi mentre studiavo, di sentirmi normale, di non sentirmi in colpa per soldi in penne, quaderni, pranzi al sacco all’università. Mi ha consentito di vedere la mia famiglia felice per una spesa che ti assicura dei pasti decenti per 2-3 settimane. Mi ha privato della vergogna di dover chiedere aiuti alla chiesa o ai vicini. Di andare dal dentista quando stavo male, di comprare le lenti a contatto e non usare le mensili per 6 mesi. Mi ha permesso di vivere dignitosamente. Mi preoccupa tornare a come eravamo anni fa, quando i litigi in casa erano all’ordine del giorno, in un clima in cui è difficile studiare.
Ripongo nella mia carriera le speranze che un giorno la mia famiglia non vivrà tutto questo, che potrò raccontare ai miei figli ridendo di essere stata aggredita dalla mia professoressa per non avere 10 euro per il diario scolastico. La carriera da medico non mi farà dimenticare che cosa significa essere povera e vivere nella sfortuna, sarò presente nella vita di chi ha bisogno come me, ricordandomi di chi ha aiutato la mia famiglia quando più ne aveva bisogno. Nanni Moretti diceva: “Io non parlo di cose che non conosco”, perciò voi italiani, che puntate il dito, che avete visto la povertà solo nei film, che leggete della delinquenza sui giornali e la attribuite a noi, mettetevi una mano sulla coscienza e chiedetevi se siete consapevoli abbastanza per poterne parlare.”
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focacciato · 9 months
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L'importanza che pensiamo di avere nelle vite degli altri non rispecchia mai la verità se non in rare occasioni. Spesso ho sopravvalutato l'affetto che provavo per persone che in fin dei conti vedevano in me una persona qualunque. Anni fa non l'avrei sopportato, ma oggi sono maturato abbastanza per dire che il valore non dipende da quanto ricevi in cambio, ma da quanto sei disposto a dare senza chiedere nulla indietro. Decidiamo noi con chi stare, decidiamo noi quanto dare. Se l'altra persona non vuole ciò che vogliamo darle, se non lo apprezza, siamo noi a decidere quando smettere di dare. Alla fine è così la vita: dare dare dare e pochissime volte ricevi e ne fai tesoro, per dare ancora di più.
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yomersapiens · 9 months
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Ho una giara di biscotti. Ok forse è un barattolo ma la parola giara mi piace di più, ha più fascino. Io amo i biscotti e amo inzupparli un pochetto nel latte a fine colazione. Mai più di tre, più di tre è peccato e vuol dire che qualcosa sta andando storto nella mia vita. Tre è il numero perfetto di biscotti. Vuol dire che sono bravo a fingere che tutto stia andando bene. Compro diversi pacchi di biscotti ogni volta che ne trovo qualcuno interessante e che non ho mai provato. Poi li apro e li riverso nella giara. Mi piace guardarli da fuori (ovviamente perché non credo di riuscire a potere mai entrare nella giara, anche se mi piacerebbe molto restringermi a tal punto da entrarci) e da fuori è come osservare i vari strati dell'evoluzione del mio appetito. Sono una di quelle persone che non riesce a finire le cose, soprattutto i biscotti. Se li mangio tutti poi smetteranno di esistere (non ritengo plausibile l'andare a comprare nuovamente lo stesso pacco) così lì lascio depositare sul fondo. Sono i superstiti, quelli che ho risparmiato. Si accalcano e fanno salotto nelle profondità della giara e accolgono i nuovi arrivati. Così ora ce n'è uno per specie. Quello al cioccolato saluta il compagno alla mela che parla con una gocciola che sta vicino a un pan di stelle che trae ispirazione da un cookie triplo caramello che è attratto da uno all'avena dalle proprietà snellenti. Mi piace molto la mia giara. Una volta facevo la stessa cosa con le persone. Cioè no, non ho una giara piena di cadaveri umani. Nemmeno una cantina. Intendo con le storie passate. Non volevo finissero mai e le lasciavo a depositarsi nei fondali dei miei pensieri. Dare l'ultimo saluto mi sembrava una brutalità. "Metti che poi torna? Io lascio la porticina aperta..." pensavo mentre tutto restava spalancato. Storia dopo storia la metaforica giara si riempiva e non era possibile quasi far entrare niente di nuovo, per questo poi mi toccava sempre dire "Scusate, siamo pieni, provate a passare più avanti". Poi non so cosa è successo, è come se il passato abbia fatto la muffa o forse sono stato io a decidere che era ora di sgomberare e ho fatto piazza pulita. Sempre nella mia testa però, non c'era bisogno di andare ad avvisare che avevo chiuso, cioè vi immaginato se dopo mille anni torna uno e vi dice "Sappi comunque che ora ho chiuso!" e tu sei lì che cerchi di ricordarti chi era sto qua. Ho evitato brutte figure. Dovevo chiudere per me stesso e l'ho fatto e la giara ora è vuota. Quella delle persone del passato eh. Quella di biscotti non potrà mai essere vuota perché io amo i biscotti come finale di colazione. Sempre tre. Mai più di tre. Tre è il numero perfetto di biscotti e poi se hai più tipologie di biscotti puoi mangiarne tre per tipo! È così che funziona, fidatevi di me, io sono un esperto.
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francesca-70 · 3 months
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DOVE VA A FINIRE L’ amore QUANDO FINISCE?
- Come faccio - mi chiese -
A lasciarlo andare ? Non vederlo piu’, non sapere piu’ niente di lui .
- perché devi figlia- rispose la curandera guardando verso l’antica quercia .
- vedi , nulla davvero ci appartiene ma chi abbiamo amato ha mescolato con noi il suo corpo astrale .
- che significa?
- che vi siete intrecciati come i rami dell’edera , ma non nel corpo , quello e’ momentaneo, nello spirito .
- ma a me non basta .
Sto male , voglio ancora vederlo e toccarlo e parlargli .
Non ce la faccio .
- non ce la devi fare - rispose sorridendo la donna di cui nessuno conosceva l’ eta’ .
- non ce la devi fare perché non sei tu a decidere : l’amore improvvisamente e senza merito arriva , come un canto di uccelli a mezzanotte .
E cosi’improvvisamente e senza motivo se ne va .
Ma non finisce mai.
Continua in quest’ altra dimensione .
- quale dimensione ?
Chiede la ragazza soffiandosi il naso avvolto dalle lacrime .
- la dimensione dell’invisibile. Dove vivono i maestri, i sacri spiriti, gli esseri di luce e le forze superiori .
I vostri spiriti congiunti e intrecciati salgono su fino a li , fino a diventare impercettibili e tuttavia continuano a vivere .
Vedi cara : l’umano non accetta che cio’ che può vedere e’ pari a un granello di sabbia a confronto dell’oceano.
- sto iniziando a capire ma fa ancora male .
- lo so bambina .
Non scacciare il demone del dolore : ogni volta che il cuore si spacca, si allarga un po’ di piu’ ma solo se lo lasci fare.
Se respingi, fingi , rigetti indietro, ti stordisci con le frivolezze , ritornera’ piu’ forte e ti chiudera’ il cuore .
E un cuore chiuso, e’ cio’ che di peggio puoi dare al mondo .
- gia’ in passato , Signora ho chiuso il mio cuore per non soffrire piu’ ed e’ stato sempre peggio !
- certo! Dimorare nelle tenebre e nella paura non e’ mai bene cara .
Non cercare di capire il dolore , lascia che ti travolga come un’onda, fatti lieve come piuma , lasciato attraversare come burro , ma se chiudi il cuore allora i demoni danzeranno sul tuo petto e ne’ gioia ne’ dolore toccheranno piu’ il tuo ventre .
E questo equivale a morire .
- si , ho capito .
Ho capito che essere forti significa stare 5 passi indietro.
Lo lascero’ andare ...
- domani sera , con la luna piena, da sola , vai in collina e pianta un ulivo .
Le sue foglie argentate saranno nutrite dalla tua leggerezza .
Qualcosa crescerà da questo strappo ma solo se lasci che la luce lo disinfetti .
E cosi sara’ per la pianta .
E la ragazza ando’ .
Con la luna calda di agosto a piantare il suo amore finito tra o cespugli di ginestra .
Scivolo’ dentro se’ per un po’
E la curendera non la perse mai di vista .
Da lontano, la vedeva con l’ occhio interiore e lei inviava ogni sera gli spiriti del bosco a vegliarle il sonno ...
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Testo originale di
ClaudiaCrispolti
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kon-igi · 4 months
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Ciao Kon. Sono una sanitaria pubblica da molti anni. Sempre più spesso sento il peso di un'organizzazione che pezza ma non risolve, delle responsabilità assolte e liquidate con una pacca sulla spalla. Della stanchezza. Non ho più entusiasmo. So che è il momento d'oro del privato, ma non ho mai creduto alla favoletta del Bengodi, prima gli schiavi erano loro, adesso noi, la ruota prima o poi girerà di nuovo e resteranno sempre i conti da pagare. Certe vicende personali rendono tutto più pesante per il lavoro continuo che devo fare su me stessa. La professione mi ha curata tanto, adesso è come se l'avessi associata al mio malessere e volessi almeno cambiare posto... ma finora oltre a sentirmi dire che sono brava e l'occasione ci sarà, non ho ottenuto alcun miglioramento. Anzi. Sento di poter andare avanti, di essermi almeno allontanata un po'dal baratro della depressione, ma sento sempre addosso le sue dita viscide e l'impasse di non saper decidere cosa potrebbe essere meglio per me professionalmente, come mettere in fila le priorità. Non ti chiedo risposte, solo grazie di ascoltarmi, adesso come altre volte. Grazie.
Sai qual è il tuo errore?
Lo stesso che ho fatto io cioè credere che chi è sopra di te nella struttura piramidale organizzativa si occupi della cura degli altri con le tue stesse motivazioni.
E bada bene che il mio non è un giudizio sul singolo (esisteranno sempre persone ben motivate quanto abietti approfittatori) ma una considerazione sul sistema: più sali nella piramide, più paiono piccole le persone, fino ad assomigliare a numeri tutti uguali... e a volte diversi, quindi meno importanti.
E più sali, più diventano grandi le pressioni che ti fanno e i compromessi a cui devi scendere per evitare che il castello di carte crolli.
Perché il castello di carta, questo castello di carta E' destinato a crollare, senz'ombra di dubbio alcuna.
Da una parte c'è l'inclinazione di molte persone alla cura e all'accudimento (alcuni usano il termine 'missione' ma a me fa schifo perché sottintende abnegazione, sacrificio e troppo spesso annullamento) e poi ci sono quelli che soppesano le scelte con la bilancia del profitto, perché in una società come la nostra questo è il metro di misura che va per la maggiore...
L'utilità.
Prendi un cane non perché sia un membro della tua famiglia ma perché faccia la guardia, studi non per essere migliore della persona che eri ieri ma perché ti eleva nella succitata piramide, aiuti qualcuno non perché si vada avanti tutti assieme ma perché poi lui saldi il suo debito con te, costruisci non per la gioia della creazione ma per competere, ami non per 'sentire' l'altro ma perché l'altro ti ascolti e basta.
Io ho 'risolto' il problema fuggendo, letteralmente, anche solo dalla visione di quella piramide (senza nemmeno interessarmi al posto che avevo in essa) e lavorando in un contesto piccolo, in cima a una montagna e fuori dal mondo.
Detto da altri, avevo tutte le carte in regola per 'fare carriera' e per un po' ho avuto il pensiero e l'illusione che, magari, sulla parte alta della piramide avrei potuto fare qualcosa per cambiare le cose ma vedendo con chi avrei dovuto avere a che fare mi sono reso conto che non avrei avuto le forze fisiche e psichiche e che molto probabilmente sarei dovuto soccombere a quella merda che è la realpolitik.
No, grazie.
Preferisco aiutare e prendermi cura degli altri stando in basso, venendo deriso da colleghi che hanno fatto carriera e portando a casa uno stipendio decisamente modesto ma senza aver abiurato nemmeno per un attimo a quello che mi ero ripromesso tanti anni fa, quando ho cominciato a fare questo mestiere...
Nessuno verrà lasciato indietro.
Ed è faticoso perché le bestemmie te la cavano a forza dal cuore, con i loro sotterfugi, i loro compromessi al ribasso e la loro cecità verso tutto tranne che il guadagno e la gratificazione di un ego gonfio come la vescica di un alcolizzato.
E allora non rimane che aiutare dal basso, ignorando le false lodi da giuda iscariota, continuando per la nostra strada e spesso scegliendo quella che per altri è meno conveniente... ma certe persone non cercano il lustro o la gratificazione fine a se stessa.
Io con l'utilità dettata dagli altri è trent'anni che mi ci pulisco il culo.
Piango chi è andato insieme a chi è rimasto, tendo mille mani alle mille e uno persone che hanno bisogno (perché davvero non li puoi salvare tutti) e nella folla con cui proseguo il cammino verso non so dove mi tengo strette le persone a cui voglio bene.
Quando il castello di carte crollerà, tu sarai lontana e di gran lunga migliore di chi ti maledirà, perché nemmeno allora ti avrà voluto dare ragione.
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limoniacolazione · 7 months
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Ieri (casualmente era pure la giornata mondiale delle malattie mentali) è stato un anno tondo dalla mia prima crisi, quella che ha fatto capitolare me e il resto intorno. Me ne sono accorta solo oggi, perché nel mare magnum della depressione ogni giorno è uno di troppo e tutto si assomiglia. Poi ottobre è il mese che è e di date nella memoria ce ne sono già due: il 20, che è morto S., il 25, che è morto L. "Ogni giorno è un anniversario", diceva zia Rosa, che di gente ne aveva persa parecchia e passava i mesi a ricordare nascite e morti, fino a quando poi non se n'è andata pure lei.
Il mese prossimo una commissione medica si riunirà per decidere se sono depressa abbastanza. Non so da che cosa determineranno la mia volontà di stare al mondo o meno. Non è come un osso rotto in una radiografia o un neo dai contorni non definiti. Ci riuniremo quindi su un ponte e mi chiederanno di saltare? Mi aspetteranno in seduta plenaria col cappio pronto?
Per me non è questione di abbastanza. Non è questione di bianco o nero: la mia depressione è un eterno grigiore in cui nulla accade. L'atmosfera è talmente pesante che gli arti non si sollevano più. Un cielo plumbeo che però non piove mai (dentro di me).
Non è questione di combattere, né di mollare e neppure di resistere. Ho lasciato cadere il coltello, che comunque non ho mai tenuto dalla parte del manico. Ho alzato le mani in segno di resa, ma non è neppure questione di arrendersi. Non è questione neanche di ricordare, di segnare di rosso un numero nel calendario o di stracciare le pagine dell'agenda una dopo l'altra. Non è questione di riempire, sostituire, distrarsi. Pure se faccio tutte queste cose (fuori da me): guardo film, disfo cartoni, cucino, mangio, leggo, rido.
Lo sapranno, quelli della commissione medica, che sono un'artista del camouflage? E certo rido, leggo, mangio, cucino, disfo cartoni, guardo film, ma non esco di casa, non ascolto la radio, non getto l'occhio sulle pagine del giornale. Che sarebbe troppo, mi dico, aggiungere al mio il dolore degli altri.
Faccio lo slalom tra gli annunci dei social che mi chiedono aiuto per costruire un ospedale per i koala investiti sulla tangenziale - per i bambini che muoiono di fame - per chi fa la guerra e chi la subisce - per il long COVID - per distruggere le cimici dei letti che invadono Parigi - per salvarle, le cimici dei letti. No, non è neppure questione di agire o di chiudersi a riccio e lasciare il mondo andare a farsi fottere. Non è questione di girarsi dall'altra parte, né di guardare il pericolo negli occhi. Non è questione di dire qualcosa o dare la propria opinione (quanto di farsene una). Non è questione di problem solving.
Non è per forza questione di morire. Non è certamente questione di vivere. È questione di liberare spazio, di imbiancare la tela, di restare sgombri, di alleggerirsi per poter almeno galleggiare, oppure, al contrario, di immergersi completamente.
E quando penso ad immergermi mi viene in mente, chi lo sa perché, Ragnar Kjartansson e la performance audio-visiva "The Visitors". Forse è la vasca da bagno, oppure cantare all'infinito "Once again I fall into my feminine ways", come fosse un sortilegio per cadere, sì, e poi riuscirne intatti, liberi, leggeri.
youtube
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fallimentiquotidiani · 4 months
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Tumblr di per sé è una cazzata. Dipende dall'uso che se ne fa, molti lo usano malissimo.
Per me rimane ancora il miglior "social" in circolazione, ovvio non bello come anni fa, ma comunque molto meglio degli altri posti tossici.
Poi è chiaro che non è la vita reale, mostriamo solo quello che vogliamo mostrare, è interagiamo e non chi vogliamo interagire ritagliandoci piccoli rifugi personali nello sconfinato spazio siderale della rete.
Sta solo a noi decidere di usarlo bene e venire sorpresi o usarlo male e rompere i coglioni agli altri.
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spettriedemoni · 11 months
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Solo un cane
Lo scorso inverno ho deciso di prendere un cane.
Sono andato al canile comunale, che a Milano sta in via Corelli.
Per arrivarci bisogna passare davanti al centro di detenzione dei migranti, che è lì accanto.
Banale quanto inevitabile notare che persone e cani sono tenuti in cattività così simili e vicine. Peraltro, entrambi privi di alcuna colpa.
Amen.
Al canile di Milano sono molto seri, non è che vai lì e prendi il cane. Devi compilare moduli, sottoporti a interviste, indagini psicologiche, diverse visite perché possano decidere qual è il cane che va bene per te, o meglio il contrario.
Dopo la terza visita mi hanno fatto scegliere tra due. Ho scelto il più anziano, per solidarietà anagrafica.
Poi ho dovuto, giustamente, fare altre sei o sette visite per familiarizzare con lui, il cane dico.
Ogni volta passavo davanti al carcere per migranti. Ma questo si è già detto.
Ogni volta poi passavo tra le gabbie dei cani, a cui lì non manca nulla di concreto ma stanno tutto il giorno in gabbia da soli.
Il problema è la solitudine, mi spiegavano i ragazzi del canile. I cani, come gli esseri umani, hanno l'affettività alla base della loro piramide dei bisogni, al pari di cibo e acqua. Ma al canile, con più di 200 cani da curare, su quella cosa possono farci poco.
Dopo un po' di settimane mi hanno dato il cane, finalmente. La solitudine per lui era finita.
Ho chiesto, uscendo, se potevo avere informazioni sulla sua vita precedente, sui sette anni che gli avevano imbiancato il muso da bastardo. Mi hanno detto solo che stava al canile da qualche mese, che il proprietario precedente era morto, ma niente di più perché c'è la privacy.
Il cane e io, dopo, abbiamo fatto il nostro normale percorso di amicizia - e chi ha avuto un cane ne conosce l'assoluta bellezza. Ma io non ero ancora formalmente il suo padrone, c'è un periodo di solo affido, per essere sicuri che l'adozione funzioni.
Ha funzionato, quindi un po' di tempo fa mi è arrivata la carta del passaggio di proprietà. E c'era su scritto il nome del padrone precedente. Fine della privacy. Qui, chiamiamolo T.
Vado al pc e lo googlo, per innata curiosità.
Trovo solo due cose.
Una è la sua pagina Facebook abbandonata. Ma non abbandonata perché era morto, proprio abbandonata da sempre. L'aveva aperta nel 2017, zero "amici" e non ci aveva postato neanche una parola. Solo tre foto: del cane, il mio cane, quando era giovane e il muso era ancora tutto nero. Una era in montagna, il cane pareva contento.
Mi ha fatto piacere.
L'altra cosa che ho trovato su di lui, googlando, era una pagina recente della Gazzetta Ufficiale in cui si affidava a un tal avvocato la ricerca di suoi familiari, per "eredità giacente".
C'era anche la data di nascita di T., sulla Gazzetta Ufficiale, e la residenza a Milano (che buffo, stava vicino alla radio dove lavoro adesso) e il codice fiscale. Scopro così che siamo quasi coetanei, anzi lo eravamo.
Faccio il giornalista, per eccesso di curiosità.
E così telefono all'avvocato che deve gestire "l'eredità giacente". È gentile, mi spiega che lui non conosceva il defunto e che dalle indagini per trovare eredi non sta cavando un ragno dal buco: non risultava aver alcun parente, il vecchio padrone del mio cane. Né aveva fatto testamento.
Un giorno, uscendo dalla radio, per via della consueta curiosità decido di passare dalla casa dove abitava il mio cane.
Mi presento alla portinaia.
Gentilissima - e commossa quando le dico che il cane ora sta con me e sta bene.
T., mi dice, viveva per lui, anche perché non aveva nessuno.
Non lavorava: viveva o sopravviveva grazie all'eredità dei genitori, ma faceva esistenza modesta.
Non aveva amici, nessuno, dice la portinaia.
Usciva tutti i giorni a pascolare il cane, e basta.
È morto in casa, da solo, l'estate scorsa.
Cioè, non era proprio da solo: c'era anche il mio cane.
Dopo un po' di giorni che non lo vedeva uscire col cane, la portinaia è salita a bussare.
Ha risposto solo il cane, con un disperato guaito.
Lei allora ha chiamato la polizia.
Hanno sfondato la porta. T. era disteso accanto al letto con una confezione di medicine in mano.
Il cane tremava come una foglia, mi ha detto. Lei gli ha dato da bere e da mangiare, lui ha solo bevuto.
Poi lo hanno portato al canile.
Fine.
Già.
Il problema è la solitudine. La questione dell'affettività, che è alla base della piramide dei bisogni.
(Alessandro Gilioli)
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