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pleaseminddgap · 1 year
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Don't Worry Darling, la caduta del velo di Maya
ALERT: QUESTO POST POTREBBE CONTENERE SPOILER!
Vi ricordate di Olivia Wilde, quella deliziosa attrice che ha interpretato sia film di fantascienza blockbuster (vedi alla voce: Tron: Legacy) che piccoli film "d'autore" (Her di Spike Jonze) con la medesima credibilità?
Ci siete? Beh, sappiate che la ragazza è ormai cresciuta e tre anni fa ha fatto il suo esordio come regista. Il suo primo film si chiama La rivincita delle sfigate e ammetto di non averlo ancora visto. Il suo secondo e ultimo film (finora) è Don't Worry Darling.
Una pellicola originale e succulenta, dal retrogusto spiccatamente femminista, che rievoca grandi film come The Truman Show e grandi storie come Il racconto dell'ancella di Margaret Atwood. Il perché vi verrà spiegato presto.
La storia va in scena nella communità fittizia di Victory, una florida cittadina circondata da un arido deserto che solo gli uomini a bordo delle loro Cadillac in colori pastello possono valicare.
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DON'T WORRY DARLING: ALICE E LE ALTRE
Partiamo dalla protagonista assoluta della nostra storia: Florence Pugh, un'ottima attrice inglese che ha la capacità unica di essere sia luminosissima che oscura (guardate Lady Macbeth e Midsommar per capire cosa intendo).
Non poteva esserci scelta migliore per il personaggio di Alice: una biondina dal nasino all'insù che passa le sue giornate tra faccende casalinghe, shopping, chiacchere con le amiche, e drink a bordo piscina.
Al marito Jack, invece, è dedicata tutta la seconda parte della giornata: dalla preparazione di deliziosi arrosti di carne al sesso post cena, a volte ricevuto dal maritino sempre voglioso.
La vita perfetta. Ma scopriremo presto che anche la perfezione ha le sue crepe.
Come lei, anche le altre donne che animano questo racconto cinematografico: Bunny, Shelley, Violet e tutte le altre.
Una comunità di casalinghe perfette che sembrano più massaie anni Cinquanta che donne del nostro millennio.
Evidentemente oppresse dal patriarcato, che ne controlla gli spostamenti (ricordiamo che a Victory le donne non possono attraversare il deserto) e le occupazioni. Sulla carta le residenti nella cittadina sono libere di godere del proprio tempo libero, ma la libertà, a volte, è solo prigionia narrata con astuzia.
Chi si oppone alla visione viene fatta passare per pazza o psichicamente fragile, come accadrà a Margaret, una vicina di Alice.
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IL MONDO MASCHILE COME CLUB ESCLUSIVO
Dall'altra parte ci sono loro: gli Uomini. Gli unici a poter valicare il deserto e a lavorare. Anche se sulle loro mansioni vige un estremo riserbo: si fa riferimento a un vaghissimo "sviluppo di materiali innovativi". Che siano armi o altro, non è dato saperlo né alle loro donne né agli spettatori.
L'ignoranza è potere, si sa: questo determina un primo vantaggio degli uomini di Victory sulle donne. Certamente, è facile esercitare la propria influenza su cagnolini che hanno i soli compiti di farsi belle e di mettere in tavola una cena prelibata.
Victory è un mondo fittizio pensato solo ed esclusivamente per loro. Ma questo lo scopriremo solo più avanti.
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UN MONDO DI FINZIONE
A Victory, tutto è finto: persino le uova, che sono gusci vuoti privi di un ripieno. Lo si capisce fin dall'undicesimo minuto del film.
E sarà Alice a sollevare il velo di Maya. Fino alle estreme conseguenze.
I DIFETTI
Se c'è un difetto che si può trovare, in questo film al mio avviso piuttosto ispirato e curato, anche sul piano simbolico, è il mancato approfondimento di alcuni personaggi interessanti, come Bunny.
Il finale, né consolatorio né risolutivo, invece, funziona alla perfezione.
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pleaseminddgap · 2 years
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pleaseminddgap · 2 years
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Blonde: un film non all'altezza del romanzo, o della vita
Ho scelto di vedere questo film una volta passato il clamore, il facile entusiasmo o le stroncature senza appello di chi non ci vedeva la trasposizione fedele della vita di Norma Jean Baker in arte Marilyn Monroe.
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Da quando ero una bambina sono appassionata delle vicende di questa donna, e in secondo luogo di questa attrice. I traumi infantili, la mancanza di un padre, l'essere oggettivizzata dagli sguardi maschili, il rapporto con la maternità mancata (o vissuta): sono tutte esperienze che un'altra donna può comprendere. Prima dell'uscita del film, con congruo anticipo, mi sono preparata, affrontando le settecentoepassa pagine del corposo e bel romanzo di Joyce Carol Oates dal quale il film è stato tratto: un romanzo, non una fedele biografia. Contenente molte parti di fantasia, molte illazioni credibili ma totalmente inventate, per ammissione della stessa autrice. Il libro l'ho amato, al punto da averne registrato anche la lettura di un brano, che poi ho condiviso su YouTube. Sebbene sia in larga parte frutto di fantasia, è vivo, palpitante, capace di far percepire sensazioni simili a quelle che deve aver realmente provato Marilyn. A sentirsi violata, recapitata qua e là come un pacco, da una famiglia all'altra, da un letto all'altro.
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Ne esce fuori il ritratto non di una vittima in senso assoluto bensì di una donna segnata fin dalla prima infanzia nel profondo, che rimane intrappolata dal suo aspetto e dal suo talento naturale per la recitazione. Una ragazza tanto sensuale da diventare la proiezione del desiderio altrui, una dea sessuale universalmente riconosciuta. Una donna affamata di sapere, consapevole dei propri limiti, in cerca di un'identità che venga accettata (e che le riporti indietro una figura paterna). Gli uomini che la circondano? In larga parte sono laidi, sfruttatori e, solo in due-tre casi, uomini che provano ad amarla davvero. Oltre a loro, solo il fidato amico e truccatore Whitey.
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La sessualità come tema cardine, ciò che avrebbe dovuto esserci e ciò che manca
L'accento sulla sessualità, centrale nel romanzo, resta tale anche nel film: il sesso anale sul tappeto del produttore, rievocato anche in alcuni flashback, il sesso a tre con i "gemelli" (che, a differenza di Norma Jeane, soffrono l'ingombrante presenza dei loro padri), la fellatio fatta a Kennedy. Poi c'è la Marilyn tormentata dal passato, l'orfana di padre (e anche di madre, in una certa misura), l'isterica, la madre frustrata nel suo desiderio di maternità, la donna che fa i conti con la perdita di una vita e di un sogno, la donna violata, l'insicura, che però appena si accendono i riflettori pare splendere di luce propria.
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Mancano totalmente all'appello alcune sequenze, peraltro fedelmente biografiche, che nel libro sono essenziali per lo svolgimento dei fatti: la vita all'orfanotrofio di Los Angeles, la sessione fotografica con Tom Kelley (Otto Ose nel libro, ndr), che a distanza di anni la porterà a comparire sul primo numero di Playboy e a dare scandalo; il matrimonio a soli 16 anni con Jim Dougherty (Bucky Glazer nel libro, ndr), durante il quale verrà scoperta come fotomodella; il tour in Corea durante il quale cantò per i soldati americani al fronte: una delle occasioni nelle quali, per ammissione della stessa attrice, lei era stata più felice. Manca anche Happy Birthday Mr President, la canzone di compleanno cantata davvero da Monroe a Kennedy il 19 maggio 1962 al Madison Square Garden di New York, una delle sequenze più vivide del libro (alla quale ho riservato la lettura su YouTube).
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Che né il libro né il film siano strettamente biografici lo si capisce subito, se si conosce bene la biografia di Marilyn. In entrambi non vengono mostrati esplicitamente gli abusi (nel libro sono vissuti in modo vivido come qualcosa al confine tra sogno e ricordo rimosso, senza essere mai descritti), l'amore breve ed extra coniugale con Yves Montand, l'amicizia con Truman Capote (che l'avrebbe voluta nella trasposizione cinematografico del suo Colazione da Tiffany, ndr), la relazione lesbica con l'insegnante di recitazione Natasha Lytess' e tanto altro.
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Punti di forza e punti deboli
Quindi ecco quali sono, secondo me, i punti di forza e i punti deboli di questo film.
I punti di forza: il lavoro intenso e coraggioso sul personaggio di Ana De Armas, sulla carta molto diversa da Marilyn, sia fisicamente che come retaggio culturale (De Armas è cubana, sebbene il suo lavoro sull'accento sia stato molto accurato). Tuttavia, De Armas fa di tutto per essere Marilyn, oltre a sottoporsi a lunghissime sessioni di trucco, proprio come la stessa Marilyn: una fase essenziale per smettere di essere Norma e diventare la "maschera" Marilyn; la scrupolosa ricerca iconografica, sebbene questa risulti talvolta erronea e decontestualizzata; i numerosi tentativi di nobilitare l'opera con trovate registiche alternative, con una pretesa di originalità; la fotografia, che è stata curatissima in ogni dettaglio.
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I punti deboli: voler mostrare tutto, spiegare tutto, rendere in modo patinato anche l'intimità della donna Norma Jean (un esempio su tutti: il feto del suo "Baby" mai nato, che poteva tranquillamente essere evocato senza essere mostrato esplicitamente); la superficialità: il film sembra una carrellata di celebri foto di Marilyn, ricreate pedissequamente ma totalmente decontestualizzate e incoerenti nel loro flusso; la scelta di fare la copia/caricatura di Marilyn rendendo De Armas, in certi fotogrammi, quasi irriconoscibile dall'originale; il doppiaggio italiano, esasperato, che riproduce più il doppiaggio dei film di Marilyn (e quella voce da bionda svampita che l'ha resa riconoscibile) che la reale voce dell'attrice.
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Certe trovate che strizzano l'occhio alla morbosità dello spettatore, come la scena della masturbazione nella sala cinematografica all'anteprima di Niagara, sono superflue e quasi grottesche, oltre a non essere presenti nel romanzo. Al contrario, la scena della fellatio praticata a John Kennedy nel libro è presente e rende bene l'idea dell'umiliazione di Marilyn. In un'intervista a Variety Ana De Armas ha commentato così le scene esplicite alle quali ha preso parte: "Ho fatto cose in questo film che non avrei mai fatto per nessun altro, mai. L’ho fatto per lei (Marilyn, ndr) e l’ho fatto per Andrew. So cosa diventerà virale ed è disgustoso. È sconvolgente solo a pensarci. Non posso controllarlo. Non si può davvero controllare cosa fanno le persone e come estraggono le cose dal contesto. Non credo che la cosa mi abbia fatto avere ripensamenti, mi ha solo dato amarezza pensare al futuro di quelle clip". Mi sento di giustificare, almeno in parte, il regista Andrew Dominik: un materiale succoso come il romanzo di Oates sotto mano, così visivo e avvincente, era molto facile farsi prendere la mano. L'autrice del romanzo, comunque, è intervenuta in difesa della trasposizione Netflix con un tweet: "Penso che sia stata/sia una brillante opera d'arte cinematografica ovviamente non per tutti. Sorprendente che in un'era post #MeToo la cruda esposizione della predazione sessuale a Hollywood sia stata interpretata come 'sfruttamento. Sicuramente Andrew Dominik intendeva raccontare sinceramente la storia di Norma Jeane".
Le altre Marilyn
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C'è una bella differenza tra Blonde e un film come My Week With Marilyn (2011), che alla sua protagonista è valso un Oscar: a differenza di De Armas, Michelle Williams non pretende di essere il calco identico di MM, sebbene le somigli fisicamente più dell'attrice cubana. Tuttavia le restituisce una verità inconfutabile, senza risultare mai sopra le righe. Certo, bisogna tenere conto di un'altra differenza importante: il film del 2011 è basato sul memoir strettamente biografico di uno scrittore (Colin Clark, ndr) che ha conosciuto davvero Norma Jeane e ci ha passato del tempo assieme, raccogliendone confidenze e pensieri. Erano i tempi in cui lei si trovava a Londra per girare Il principe e la ballerina con Laurence Olivier nella doppia veste di protagonista e regista (1957) e lui era un giovane neolaureato al suo primo impiego come assistente personale del regista inglese. Tornando a Blonde, del romanzo di Oates esiste un'altra trasposizione filmica: la miniserie prodotta da CBS con Poppy Montgomery come protagonista. Mi riprometto di vederla al più presto per poter fare un confronto.
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pleaseminddgap · 2 years
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Madres Paralelas, l'importanza delle proprie radici
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Qualche giorno fa, con colpevole ritardo, ho guardato l'ultimo film di Pedro Almodovar, Madres Paralelas. Dico con colpevole ritardo perché mi sono pentita di non averlo fatto prima: il film mi ha coinvolta e riportata al migliore Almodovar di trent'anni fa, quello che confezionava film come Tacchi a spillo e Il fiore del mio segreto. Chiariamolo subito: questo film è principalmente un melò. Non gli manca nulla: il dubbio, il segreto non svelato, gli scambi di persona, la tensione erotica, la tenerezza, la tragedia, i legami affettivi e familiari che non sono mai semplici.
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Protagoniste sono le due "madres paralelas" del titolo, due donne diverse per età ed esperienza di vita: da una parte Janis (Penelope Cruz), fotografa affermata e indipendente, dall'altra Ana (Milena Smit), adolescente ribelle che ancora non ha trovato la sua strada. Da una parte una famiglia che aleggia in forma quasi fantasmatica, cui appartengono due bisnonni e una nonna in forma di ritratti in bianco e nero e un nonno sepolto in una fossa comune; dall'altra una madre premurosa ma che non rinuncia alle sue aspirazioni di attrice quarantasettenne (la magnetica Aitana Sánchez-Gijón, ammirata trent'anni fa in Il profumo del mosto selvatico al fianco di Keanu Reeves) e un padre assente e sfuggente, che non viene mai mostrato.
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Questo il retaggio familiare delle due protagoniste, che si conoscono in sala travaglio, prossime a partorire da madri single: una rimasta incinta in seguito alla relazione fugace con un uomo sposato, l'altra in seguito a uno stupro di gruppo. Le due si piacciono, si tengono compagnia, si scambiano i contatti. Dopo alcuni mesi si ritrovano. E qui prende avvio la vera storia del film, che anima l'intreccio con un colpo di scena che legherà insieme le storie delle due donne per sempre.
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La maternità come tematica tanto cara al regista, che non nega mai uno spazio nemmeno alle mille sfumature dell'identità sessuale e di genere (la ragazza trans fotografata da Janis, l'amore di Elena per l'amica Janis, l'attrazione tenera che nasce fra Janis e Ana, bisognosa di una figura materna) né ai messaggi femministi.
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Colpo di fulmine per la scenografia, curatissima e variopinta come in tutte le pellicole almodovariane e per alcune sequenze fotografiche: come quella della tenda gonfiata dal vento impetuoso, che nella scena successiva si trasforma nel camice bianco gonfio del ventre gravido di Janice.
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Per questo film Penelope Cruz è stata giustamente candidata agli Oscar 2022, anche se la vera scoperta è Milena Smit, che infatti è stata candidata ai Premi Goya come Migliore Attrice Rivelazione 2021. Aitana Sánchez-Gijón fa faville, cimentandosi in un bellissimo monologo nella scena di un provino teatrale. A Rossy De Palma (Elena), musa di lungo corso di Pedro, si vuole sempre bene.
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pleaseminddgap · 2 years
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"Promettetemi di ascoltarci, donarci agli altri. Anche solo per essere certi che le nostre convinzioni non siano solo convenzioni".
Drusilla Foer, Festival di Sanremo 2022
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pleaseminddgap · 2 years
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Del razzismo e delle sue forme
La contemporaneità ha un vizio capitale: quello di parlare troppo di tutto, al punto da banalizzare e svuotare di significato e profondità ciò di cui si occupa. Affibbia avidamente etichette e nomi, riuscendo miracolosamente ad appiattire qualsiasi concetto, sia semplice che complesso.
È accaduto anche ieri, sul palco di Sanremo. Il conduttore Amadeus ha invitato come co-conduttrice (ruolo più di forma che di sostanza) un'attrice mia coetanea, Lorena Cesarini. Una ragazza dolce e fragile come uno scricciolo che, oltre ad aver recitato nella serie Netflix Suburra, ha una caratteristica: quella di essere italiana e mulatta, figlia di madre senegalese e padre italiano.
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Caratteristica che secondo alcuni le è valsa l'invito al Festival. Ipotesi probabile, visto che a prendere la decisione è stato uno showman come Amadeus, che in tre edizioni di festival si è distinto per aver spesso operato scelte political correct camuffandole da anticonformiste. Questa insinuazione è razzista? No. Non è rivolta a Lorena Cesarini, bensì al facile compiacimento del pubblico, che vedendo una ragazza dalla pelle scura sul palco può sentirsi a posto con la propria coscienza, non razzista "come tanti altri".
Sul palco servono tempra e presenza scenica: qualità che io non scorgo in Lorena Cesarini (né in Ornella Muti, ingessata e paralizzata in un sorriso forzato). Intendiamoci: come voi amo la sua fragilità di uccellino ferito sul palco, la tenerezza, le lacrime, la delicatezza, il bel volto sorridente, le parole sofferte, la lettura del libro di Tahar Ben Jelloun (vedere qualcuno leggere un libro in tv, senza fare autopromozione del proprio libro, è raro come la neve in agosto). Come attrice mi è piaciuta in Suburra, accoppiata al bullo ma tenero Borghi. Però non ci vedo le caratteristiche di una vera co-conduttrice, non necessariamente perché non le abbia ma per via di Amadeus: due prime donne non possono condividere lo stesso palco.
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Mi sarebbe piaciuto vedere una ragazza, di qualsiasi colore, forte, fiera, spigliata. O almeno raccontata come tale, visto che oggi il racconto tende a sostituire la realtà. Invece ciò che ho visto ieri è una giovane donna fragile, presentata al pubblico in modo paternalistico dal conduttore, anche negli sguardi a lei rivolti. Dalla fisicità nervosa e magrissima, quasi a riproporre un'estetica da bambina denutrita del Biafra. La magrezza esasperata anche dal primo abito indossato, dal taglio inadatto al suo corpo filiforme. Non è, tutto questo, un'ulteriore forma di razzismo?
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C'erano altre candidate analoghe idonee al ruolo? Ovviamente sì. Qualche nome: Denny Mendez, già Miss Italia, oggi apprezzabile attrice di teatro e cinema e ancora splendida donna. Oppure la giovane stella di Netflix Coco Rebecca Edogamhe, protagonista della serie Summertime: ventuno anni, italiana, più o meno la stessa ascendenza di Cesarini (madre italiana e padre senegalese), il piglio sicuro. O, perché no, un'attivista con 22.000 follower su Twitter come @OizaQueensday (che tra l'altro ha espresso opinioni molto condivisibili sul Festival).
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Mi sconforta pensare che, con tutta probabilità, la migliore co-conduttrice del Festival di quest'anno, quella a cui immagino che verrà dato maggiore spazio, sarà un personaggio femminile di fantasia (Drusilla Foer, che adoro e che il palco se l'è meritato tutto). Sogno che un giorno sia considerato normale mettere su un palco da 9 milioni di spettatori, indifferentemente, una donna, un uomo, un/una transessuale, una drag queen, un drag king e, più in generale, persone di talento senza più sentire il bisogno di etichettarle.
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pleaseminddgap · 2 years
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Monica, camaleonte biondo
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Mentre l'Italia s'imbambola con poco entusiasmo davanti alla televisione a vedere il Festival di Sanremo e a fare il pieno della vacuità e della mediocrità che ha da offrirci la contemporaneità, se ne va in sordina un'attrice.
Anzi, un'Attrice: Monica Vitti, nata Maria Luisa Ceciarelli.
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Romana de Roma, lontana da ogni forma di burinaggine.
Bellissima, di una bellezza universalmente riconoscibile ma, incredibilmente, mai stereotipata. Malgrado le gambe affusolate, le labbra sensuali, gli occhi languidi che celavano sempre un fondo di incolmabile malinconia.
Aveva ricevuto in dono anche una voce grave e roca, in contrasto con il viso dai lineamenti delicati: sabbiata, inconfondibile (così distante dalle voci, cantanti e apparentemente tutte uguali, del Festival della canzone italiana).
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Alla voce bella e inusuale associò un talento grande e semplice, come lo sono tutti i veri talenti. Così naturale e poco artefatto, in grado di spaziare con naturalezza dalla commedia al dramma. Monica sapeva cantare, sapeva ballare, sapeva recitare, sapeva far ridere e sorridere senza snaturarsi. In scena non si risparmiava mai.
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E poi il fatale incontro con Michelangelo Antonioni, perché ogni musa che si rispetti ha bisogno di un occhio attento che la riveli. Quello di Antonioni, sì, ma anche di Monicelli, Scola, Bunuel, Losey.
Anche Tinto Brass, ben prima che prendesse la sua caratteristica deriva di vecchio sporcaccione, regalandole il primo ruolo brillante (nell'introvabile film "di fantascienza" Il disco volante, datato 1964).
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Non è un caso che abbia avuto tre grandi amori tutti collegati al mondo della fotografia: Antonioni, la cui sensibilità fotografica di regista è innegabile; Carlo Di Palma, direttore della fotografia; Roberto Russo, fotografo di scena e lui stesso regista, suo ultimo marito.
E' stata una delle attrici più fotogeniche della storia del cinema italiano: malgrado la mutevolezza del suo volto, o forse proprio grazie a quella.
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Era nata per il cinema e per essere una musa. E anche un'icona di stile. In La ragazza con la pistola di Mario Monicelli inizialmente si presenta come una ragazza dell'entroterra siciliano, lunga treccia nera e abiti neri da vedova pudica; nel corso del film diventa sé stessa: una bella, bionda ed emancipata ragazza che non teme nulla e ripaga della stessa moneta l'uomo che l'ha disonorata e poi abbandonata.
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L'ho sempre percepita come una donna estremamente femminile, accogliente, di tempra fortissima, ma allo stesso tempo molto bisognosa di amore e di tenerezza. Una donna discreta, piena di talento e di dignità, che non si è mai svenduta.
Ha vissuto i suoi ultimi 20 anni di vita avvolta nella nebbia di una malattia degenerativa simile all'Alzheimer della quale soffriva dal 2002.
Lei ci aveva dimenticati. Noi, oggi e domani, non la dimenticheremo.
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PER CONOSCERLA MEGLIO
Vitti d'arte, Vitti d'amore, speciale RAI disponibile su RaiPlay (link)
Monica Vitti, Sette sottane, Sperling & Kupfer
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pleaseminddgap · 2 years
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Kirsten Dunst in "Becoming a God in Central Florida".
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pleaseminddgap · 2 years
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Kirsten Dunst, On Becoming a God in Central Florida (2022).
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pleaseminddgap · 2 years
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On Becoming a God: lo storytelling e il Sogno Americano
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"Noi riteniamo che sono per sé stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità" (Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America, 1776).
Il diritto di perseguire la felicità, sancito già all'epoca della costituzione degli USA, è stato il motore dell'enorme sviluppo economico del Paese. Nell'immaginario collettivo, gli Stati Uniti sono la nazione che sogna in grande per antonomasia e nella quale tutto diventa possibile: anche diventare miliardari. Ed è sul sogno americano e sulla grande ambizione imprenditoriale che viene sollecitata a tutti i livelli della società statunitense che si basa e si è sempre basato il grande inganno del multilevel marketing (si pensi allo schema Ponzi). Uno schema piramidale che, se nella sostanza è organizzato in modo strettamente gerarchico, nella propaganda non prevede differenze, se non nell'impegno dei singoli individui che ne fanno parte. "La differenza fra un Jefferson e un Washington risiede nell'impegno nel lavoro" si sentenzia in una nuova serie tv targata Netflix, On Becoming a God. Franklin, Jefferson, Washington : sono i livelli gerarchici, dal più basso al più alto, ai quali possono aspirare coloro che si affiliano come distributori alla FAM (Founders American Merchandise), azienda produttrice fittizia di prodotti per la casa probabilmente ispirata alla Amway (link), come ipotizzato da Rolling Stones. Per entrare a far parte dell'universo FAM, gli aspiranti distributori devono acquistare una fornitura di prodotti e un "corso" di formazione in audiocassette: siamo negli anni Ottanta, e ancora non esistono personal computer e lettori mp3. Il corso in audiocassette consiste, in pratica, in un lavaggio del cervello motivazionale a pagamento, registrato da un uomo (il "multimilionario" Odie Garbeau II, interpretato dall'eccelso Ted Levine) che passa ore a sbandierare i suoi supposti successi, i molti guadagni e i lussi che la sua impresa di successo gli consentono. Il messaggio di reclutamento FAM è basato soprattutto sull'idea che un uomo coraggioso possa garantire un radioso futuro alla sua famiglia. Coraggio, futuro, famiglia, soldi: sono le parole chiave che conducono al successo (o, più spesso, alla rovina). Il tutto è narrato attraverso uno storytelling studiato nei minimi dettagli e basato sui miti americani, in primis quello dei padri fondatori che danno il nome alle varie classi di appartenenza dei collaboratori FAM.
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La famiglia Stubbs è il perfetto esempio di famiglia media americana giovane e ambiziosa: biondi con gli occhi azzurri (bebé compresa), lui un vichingo di un metro e novanta (interpretato dallo svedese Alexander Skarsgård), lei un'ex reginetta di bellezza (l'adorabile Kirsten Dunst) tutta sorrisi e decolleté. Le vittime perfette del sistema Garbeau. Si danno entrambi da fare per la FAM , ispirati dal motto "Go-getters go get!" ("gli intraprendenti intraprendono"). Poi lui finisce divorato da un alligatore in un fiume, proprio mentre ascolta le audiocassette motivazionali, e il sogno degli Stubbs si trasforma in incubo. Assistiamo da subito alle peripezie di Krystal, rimasta vedova con una figlia piccola. Il dorato mondo Garbeau prevede che le donne rivestano il ruolo di bambole sorridenti e accondiscendenti, presenze decorative con chiome fluenti, trucco discreto e stile inappuntabile. Lei, invece, si ribella a ogni stereotipo: con il suo apparecchio per i denti, il corpo imperfetto post-parto e lo stile un po' provinciale, ma soprattutto con il suo cervello ben funzionante e pensante, non si sente a proprio agio in questo ruolo. E presto si scoprirà che dietro le tette prorompenti e i capelli biondi nasconde un grande spirito imprenditoriale. Così tutt* ci troviamo a fare il tifo per lei, imprenditrice wannabe con la passione per le lezioni di acqua gym.
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Gli anni Ottanta pervadono la serie: li riconosciamo nel mito dell'imprenditore rampante ossessionato dal successo ma soprattutto nei minuziosi outfit indossati dai personaggi femminili della serie. In una pregevole ricostruzione d'epoca ogni personaggio ha il suo stile caratterizzante: i colori pastello, gli abiti peplum, i tailleur fiorati con minigonna, l'abbondanza di fiocchi e gli abbinamenti un po' kitsch appartengono a Krystal (che nel corso della serie affina il suo stile), le fantasie alla Ken Scott alla giornalista Mirta Herrera (Melissa De Sousa), gli abiti da sera da diva hollywoodiana alla moglie del tycoon, Louise Garbeau (Sharon Lawrence). E che dire del maglioncino kitsch con il gattino dell'irriconoscibile Beth Ditto, icona curvy d'America, nei panni di Bets Gomes? Una vera delizia per le appassionate di vintage.
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La serie è ricca di richiami simbolici: come quelli al pellicano, che a detta di Odie Garbeau II è un nobile animale, perché "è sia scaltro che feroce, elegante quando si libra nel cielo alla ricerca di cibo ma spietato quando si abbatte sulla sua preda". Proprio come Odie, predatore che si finge accogliente imbonitore delle masse.
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pleaseminddgap · 2 years
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Ode a Thierry Mugler, scultore di femminilità
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In questa foto, giovane e dal piglio fetish, posava per l'amico Helmut Newton, autore delle più celebri foto che ritraggono le sue creazioni. Manfred Thierry Mugler era un uomo che aveva ben chiaro il suo ideale di femminilità e si è impegnato anima e corpo a donarlo al mondo.
La sua idea di donna era un'esasperata silhouette di clessidra, coadiuvata da corsetti estremi. Una femminilità sempre sfrontata ed esibita al mondo, pur non risultando mai volgare.
Nelle sue mani le donne diventavano libellule e farfalle, insetti antropomorfi (come nella collezione "Les Insectes" del 1997), moto dal rombo potente, automi alla Metropolis, ninfe immortali.
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Le sue modelle non erano semplici indossatrici ma autentiche performer dei suoi show: non manichini ma donne piene di personalità, mai viste simili sulle passerelle, vive, birichine, che sapevano come prendersi il palco e gli applausi. Vere dive.
Non modelle ma muse, il cui rapporto con il couturier è durato nel tempo: Jerry Hall, Simonetta Gianfelici, in tempi più recenti Irina Shayk.
E' stato uomo di spettacolo anche nelle collaborazioni, fra cui una con il Cirque Du Soleil.
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Pur amando la bellezza, puntava molto sulla personalità e sulla grande presenza scenica: oltre alle supermodel più celebri del periodo, portava in scena bellezze agée (Carmen Dell'Orefice fra le altre) e donne dall'aspetto non convenzionale (Rossy De Palma sfilò per lui nel '95). Fu il primo stilista a portare in passerella una cantante: si trattò di Diana Ross, nel 1995.
Negli ultimi anni il suo successore Nicola Formichetti è rimasto fedele al suo esempio, scegliendo come musa della maison Lady Gaga.
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Molti sono stati i suoi autori di riferimento nel cinema e nella fotografia. In una recente intervista (link) livello cinematografico citò, fra i registi che lo avevano maggiormente ispirato, Carl Theodor Dreyer, Josef von Sternberg, Fritz Lang, Billy Wilder, Federico Fellini e Luchino Visconti; fra i fotografi figuravano Cecil Beaton, George Hoyningen-Huene e Horst P. Horst (come non pensare al suo Mainbocher Corset?). Molte delle sue muse evocano in modo potente Marlene Dietrich e la sua aurea di donna divina e imperscrutabile che sa quello che vuole e sa come andare a prenderselo.
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E forse anche il Blaue Engel di Von Sternberg ha ispirato a Mugler la creazione del profumo Angel (1992), noto per essere stata la prima fragranza "gourmand" della storia, seguita anni dopo dall'iconico Alien (2005), la cui pubblicità rappresenta la donna come creatura irraggiungibile ed extraterrestre. Giusto qualche anno dopo che un'immagine simile era stata proposta al pubblico da J'Adore di Dior (creato nel 1999, ndr).
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Dopo una vita dedicata a esaltare le donne nel loro essere opere d'arte in movimento, ieri Mugler è morto, troppo presto (73enne).
Degli stilisti contemporanei è forse stato quello che più ha pensato le donne in tutti i modi possibili, tranne che come soggetti passivi, bamboline inerti. Nella vita come nella moda.
PER CONOSCERLO MEGLIO
LIBRI:
Thierry Mugler, Couturissime, PHAIDON / L'ippocampo edizioni
MOSTRE:
Thierry Mugler: Couturissime, Musée des Arts Décoratifs di Parigi (fino al 24 aprile 2022).
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pleaseminddgap · 2 years
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Mancanza di gusto
Ho sempre pensato che il mio amore per la buona cucina sia, in larga parte, legato all'appagamento di tutti i miei sensi: in particolare gusto, olfatto e tatto. Quando sentivo parlare del Covid ciò che, irrazionalmente, mi terrorizzava di più era la prospettiva della perdita del gusto (fenomeno, tra l'altro, del quale non ho ancora compreso il meccanismo). Da contagiata, ho scoperto che anche Omicron può compromettere il senso del gusto, attraverso quello dell'olfatto. Intendiamoci: non è che non riesca a distinguere fra dolce e salato, acido e amaro, o "umami". Al contrario: ora ciò che avverto è esattamente quello, con un vago retrogusto di sapore. Che ora è come offuscato. Ecco: questo è l'aspetto di questa anomala influenza che mi deprime maggiormente. Non avvertire con esattezza i sapori ti fa sentire come se nutrirti fosse meno utile. Riducendo il tutto al semplice, meccanico gesto di portare cibo alla bocca.
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pleaseminddgap · 2 years
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Ascoltare, ascoltarsi
Scrivo questo post dal mio letto, nel quale sono confinata perché sono risultata positiva al Covid. Versione Omicron, quella che si confonde con la comune influenza stagionale. Per uno strano caso del destino proprio pochi giorni fa avevo iniziato a leggere un nuovo libro, Storia del mio corpo di Daniel Pennac: si tratta del diario fittizio del corpo di un uomo tenuto dai suoi 13 anni fino alla morte. In questa fase della mia vita sto imparando soprattutto ad ascoltare il mio corpo: i suoi piaceri e le sue ribellioni, ciò che cerca di comunicarmi ma anche ciò che cerca di nascondermi. Sto portando avanti questo percorso anche attraverso l'hatha yoga. Ascolto il mio respiro, i miei scricchiolii, il modo in cui le mie ossa resistono ai movimenti, i potenti raggiri del mio cervello, sempre troppo vigile e presente. Cerco di fare silenzio e restare in ascolto. Essere malati, da questo punto di vista, è terapeutico: ti obbliga a contemplarti.
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pleaseminddgap · 2 years
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Details from Jean Clair’s #exibition “Inferno”, still opened in #Rome (until January 23th). . . . #inferno #hell #skull #mobilephotography #xiaomi9tpro https://www.instagram.com/p/CY045M5qgZK/?utm_medium=tumblr
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pleaseminddgap · 2 years
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Findings in my garden: bau. . . . #cane #dog #teschio #skull #tempusfugit #mobilephotography (presso Santa Marinella) https://www.instagram.com/p/CYyeeM1KGXu/?utm_medium=tumblr
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pleaseminddgap · 2 years
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Juan Manuel Castro Prieto -  Cespedosa Highway, 1987
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pleaseminddgap · 2 years
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Edward Steichen per Camera Work (1903)
Fotoincisioni.
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