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#adagiata nel tuo cuore
la-scigghiu · 2 years
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Portami nelle tue giornate piene di specchi e di nuvole, e non avere paura delle mie sciocche poesie. La mia presenza è una bonaccia d'autunno. Portami dove ti pare, a raccogliere more, a seminare il vento, l'importante è che io sia con te, senza parlare, adagiata da un punto e l'altro del tuo cuore.
Antonio Ciminiera
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femmenoir-red · 1 year
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Il disegno dei tuoi  occhi provoca nel mio cuore un movimento di danza dolce e leggero.. aureola luminosa..rifugio sicuro e se  non ricordo più  tutto il tempo della mia vita precedente è perché non ti conoscevo. Foglie luminose e spuma leggera..come in balia del vento .. risa liete.. ali che inondano di luce il mondo..ma che solcano il mare e sembrano dirigersi pure verso il cielo.. ricerca di suoni e sorgenti dai colori.. profumi dischiusi da una nidiata di aurore.. sempre adagiata sul giallo come paglia degli astri..come la luce si nutre di purezza.. il mondo prende vita dalla trasparenza del tuo sguardo e tutto il mio sentimento si concentra in quegli occhi..❤️
©P.E. parafrasi poesia La curva dei tuoi occhi intorno al cuore..
@femmenoir-red
-emozioninoired 10*04*23
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In piedi davanti al tuo volto rivolto verso l'alto. Siamo in una distesa. Il profumo nell'aria. La luna splende in tutta la sua bellezza. Ti guardo e vedo i tuoi occhi chiusi. Il volto rilassato. Capelli sparsi intorno alla testa abbandonata sul suolo scuro. Le labbra schiuse. Mani abbandonate come un cristo crocefisso. Gambe rilassate. Una piegata e l'altra allungata. Cornice perfetta. 
Amore, caro amore mio. 
Non è finita. 
Apri gli occhi. Fuoco nelle pupille. La luna riflessa tra le nere ciglia lunghe. E' passione. Incredulità. Ti ho di nuovo ucciso. Una battaglia infinita. Non è un videogame. È la tua mente. La mia. I scherzi del destino. Mi guardi ed un lampo nei tuoi occhi mi fa venire un brivido lungo la schiena. La pelle diventa incendio. Bruciano i mobili e le foto appese al muro della casa che una volta era nostra. Sorrido. Hai perso. 
Ai miei piedi. Creatura indifesa. Le tue armi. Ora mie. Cerchi di parlare e la bocca è piena di sangue. Povera bestia. Povero essere. Cerchi di rialzarti, ma sei a pezzi. Vivisezionato posizionato secondo mio desiderio. A pezzi cerchi di rialzarti. Ricomponiti. Guerriero indifeso. La tua corazza ora è adagiata vicino al tuo corpo. La mia addosso. I capelli sciolti coprono metà del mio volto illuminato dalle stelle splendenti in una notte infinita. Non è finita. 
Amore, caro amore mio. 
Prova a salvarti. Scappare dal tuo destino ormai scritto da me. 
Non hai scampo. Leone in gabbia. 
Mi asciugo il sudore che colla giù dalla fronte. Pioggia che cade battendo sui finestrini dell'miei occhi non mettono a fuoco come una macchina fotografica con l'obbiettivo spaccato perché non l'hai coperta dall'urto improvviso. Un cuore frantumato, l'obbiettivo è un segno di domanda o uno esclamativo? Indirizzami, fammi strada, sussurrami all'orecchio la direzione. Sono persa in una vasta distesa di lavanda, il profumo mi stordisce, il respiro diventa sempre più pesante e le mani tremano. Hai paura dello schianto imminente o ti fidi? Dimmi amore, caro amore mio, è forse questa la fine di tutto? La morte avvolta dal dolce profumo dei fiore e del fumo della sigaretta che penzola dalle tue labbra. La cenere cade indisturbata sul sedile del passeggero. Non metti la cintura, non serve, tanto lo sai che è tutto nella tua testa. La mano fuori dal finestrino a seguire le onde del vento. Hai gli occhi persi. Dove sei? In che buio sei caduto di questa volta. Quale incubo ti circonda e che non riesci  a sconfiggere? Fammi entrare. Fammi guardare attraverso i tuoi scuri occhi quel che non vuoi che mi distrugga. Dimmi cosa pensi. Dimmi la musica che risuona incessante nel tuo corpo che ora si dimena dagli spasmi. Fammi toccare la tua guancia fredda. Fammi sussurrare al tuo orecchio che va tutto bene quando tutto va a rotoli. Tu non aver paura, non temere l'inevitabile. Non stringere i pugni e inchiodare i piedi al pavimento. Ti porto a casa. Dov'è la tua casa? In che luogo l'inadeguatezza lascia il posto alla calma? In che luogo non hai paura e non temi il cambio della brezza marina? Hai ancora paura del mostro sotto al letto? Hai ancora paura che io me ne vada? 
Amore, caro amore mio. 
Il mondo è cosi confuso, la mia testa non comprende, le mie mani non si muovono, i miei piedi non si schiodano dal posto in cui si trovano. Tienimi per mano. Tienimi vicina. 
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phedre-delunay · 1 year
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E cammini,
Nessuno lo sa...
Che porti in giro con Te l'Anima Addosso .
Lasci che ti guardino.
Che ti sfiorino con quel velo
Di curiosità,
Misto al pensiero impuro,
Di cui hai imparato il lessico
Ad immagine vista Mare.
Ti turba forse?
No , è solo un pizzico di vento ai tuoi piedi .
Perché Tu , lo sai .
Lo sai , che * ti portiaddosso
Un tesoro inestimabile ,
Un Danno subito che ti ha
Oltraggiato ,
Martirizzato, arsa viva sul talamo dei Sogni .
Tu lo Sai ,
Che il Tuo Dolore ,
è una perla adagiata all'interno di uno scrigno dalle Ali di Mare ,invisibile al mondo.
Lo Sai , che tremera' ancora,
Che
Quel* Tutto non era roba Tua, ti lacrimava sul costato,
Era un chiodo arrugginito.
Eh, lo sai , si ,
Che l'Anima Tua è una Fiamma di Drago ,
Un fiore di campo nascosto ,
Un Passo all 'indietro sulle Tue Impronte
Per sbagliare meglio
Correndo a mille,
Tra chi non sa, non vede ,
Non saprà.
Che importa?
Sei quel * Tu ,
Quell'Io ,
Che scardina ogni dubbio.
È un libro antico, alla luce di una candela innamorata ,
Che carezza ciglie annerite
Dalle fiamme impietose.
Ringrazio i miei Errori ,
L'utero del Boa che sempre ho saputo in silenzio .
Ringrazio il Male vestito a rigore di un Altare .
Il Cuore mio che mastica veleno
Rimanendo corona regale .
Sorrido in Me ,
Mi canto Dentro .
Esco , là fuori.
Là, dove il mondo che ho tra le mani chiuse a pugno ,
È un inchino al mio morire
Nascendo
Con un Cuore in più.
# Anomalie di Gente scolpita
Nel Sacro Vente di una Prece .
~~~~\
Opium@rougesoul ⚜️
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sciatu · 4 years
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BUON SAN VALENTINO - La maggior parte delle torte sono della pasticceria Irrera di Messina.
È molto triste dover dedicare tutto un solo giorno all’amore qual è il senso di festeggiare quel che è, la vita del cuore. “Oggi mi ricordo” vale a dire e domani poi tutto far sparire
basta, basta con i mazzi di fiori, la strage di povere rose rosse queste torte a forma di cuori basta! riempitene le fosse di queste vostre parole sdolcinate false, bugiarde e nel web rubate
starò solo qui a te abbracciato nel tuo profumo carnale immerso da te in silenzio qui coccolato nei tuoi dolci occhi per sempre perso nave nel gran cielo naufragata vita nel paradiso adagiata
resteremo così per come siamo senza ripetere frasi già dette o i banali soliti “ti amo” parole stupide e maledette! resteremo cosi terra e fiore cielo e luna, sole col suo calore.
It is very sad to have to dedicate, all one day to love, what is the meaning of celebrating, what is the life of the heart. “Today I remember” that is, and tomorrow then everything will disappear Stop, stop with the bouquets of flowers, the massacre of poor red roses, these cakes in the shape of hearts, that’s enough! fill the pits with these sweet, false, lying and stolen words from your web I will be alone here embraced, in your carnal perfume immersed in you, pampered here in silence, in your sweet eyes forever lost like ship in the great shipwrecked sky, like life reclining in the paradise we will remain as we are, without repeating already said sentences or the usual banal “I love you”, stupid and cursed words!, we will remain earth and flower, sky and moon, sun with its heat
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cara nonna,
sono diversi giorni che il vento di questa città fa risuonare nelle mie orecchie il tuo nome, e non trovo il coraggio di scriverti, come se fossi qui. penso che, se tu fossi ancora viva, ti spedirei davvero questa lettera, immaginandomi il tuo sorriso quando l’avresti vista nella posta, raccogliendo quel brandello di carta, parlando da sola, scartandola con la voracità di sapere tutto che ti contraddistingueva. invece scrivo al computer indirizzando le mie parole alla matassa di internet, sperando che la connessione via caso riesca a sciogliere un po’ i nodi dei miei pensieri, sperando che in qualche modo metafisico, i tasti che scricchiolano sotto le mie dita possano arrivare fino al tuo orecchio, che tu apra il computer di Dio e rimanga appesa all’altro capo, leggendomi come sulla carta da lettera coi fiori che usavo solo per scrivere a te. mi manca, in effetti, affidarti me stessa tramite le parole: era un nostro momento intimo, quando ti scrivevo qualcosa, un attimo solo tra me e te, una specie di parentesi che ci ritagliavamo occasionalmente, ma che ci dava un po’ di pace. a me, a dire la verità, svuotava l’anima del tutto, come se vomitandoti addosso la mia anima, potessi davvero sentire il mondo un po’ meno sulle spalle. ed ore che, invece, non posso più farlo, sento che mi va tutto un po’ più stretto, che non ho modo di poter comunicare, anche solo con carta e penna, il mondo che mi lascia appiccicato il suo dolore. te ne sei andata quattro mesi fa, più o meno, e questa foto l’ho scattata in preda al terrore che te ne andassi senza salutarmi: un atto egoistico, per avere un’immagine del nostro amore sullo schermo del telefono. come se tutto ciò che ci rappresentava potesse essere ridotto a questi minimi termini, quattro pixel di un telefono che congela istanti, ma che non può riportarli indietro. l’ultimo ricordo che ho di te, le labbra violacee, gli occhi sbarrati, senza forza negli occhi grigi che ti rendevano le palpebre stanche un po’ meno spente, mi sta balzando in testa proprio adesso, ricordandomi quando ho schiacciato quel pallino bianco sullo schermo, per averti con me anche virtualmente. tornassi indietro, lancerei il telefono giù dalla finestra di quello stanzone disinfettato e ti stringerei la mano, forte come se potesse staccare andarsene via per i fatti suoi, e poi mi accoccolerei accanto a te, piangendo silenziosamente, ma sentendo il tuo cuore battere ancora. invece ho avuto paura di te, nonna, di quello che eri diventata, del tuo viso irriconoscibilmente sofferente, della morte che sceglieva i vestiti nel tuo armadio. maledettamente codarda, ecco come mi definisco, perché mi sono rinchiusa dietro a uno schermo per difendermi dal dolore: non capivo che quello sarebbe arrivato comunque, dopo, e avrebbe martellato la mia coscienza brandendo la stessa arma che credevo fosse un porto sicuro. eccomi qui, col mio macabro trofeo, a brandire l’immagine che dovrebbe rappresentare un’aere così grande e che invece rimane solo un insieme di colori scuri, indefiniti, di due arti incrociati, lembi di pelle definiti dalla paura di non tornare più. mi manchi, nonna, tanto. ecco cosa voglio dirti, che senza te il corso del Brembo non è più lo stesso, che la tua casa ha perso colore, che la mamma sembra triste, che nessuno parla più del vaso con le ceneri del nonno, che il massimo che si possa fare è andare al cimitero e lasciarti un fiore accanto alla foto che avevo accuratamente scelto, in modo da poter gestire la tua vita anche dopo morta. ecco, era parte di te, come lo è di me, questa mania malsana di dover gestire tutto dall’alto, come un faraone che. non delega nulla, e sorveglia tutto: l’ho anch’io nel sangue, questo capriccio autodistruttivo. senza di te nemmeno programmare ha più lo stesso sapore: è insipido, avere la capacità di aver poter aleggiare sopra ogni cosa, se non c’è chi lo fa meglio di te. eri la migliore, nonna, a controllare maniacalmente che il mondo andasse nella direzione che volevi tu: battevi la strada al caso con veemenza, in modo tale che non potesse accadere il contrario. purtroppo hai tenuto duro fino alla fine, quando hai mollato la presa e ti sei abbandonata all’idea che c’era solo una cosa che non era in tuo potere: la tua fine. hai interrotto quella tua programmatica esistenza solo quando la tua vita ha finito te, nonna, e non hai potuto fare a meno di accettarlo. accettare che la vita faccia il suo corso era del tutto fuori discussione, prima di quel momento; poi hai capito che non avevi più forza di deviarla, ed allora sei rimasta inerme ad osservarti mentre ti dileguavi. l’hai fatto senza cerimonie, tra le braccia di un’infermiera: non volevi mostrarti incapace di gestirti, dovevi fare questa cosa lontano dagli occhi di chi ti aveva sempre guardata con ammirazione mista a incertezza. le tue figlie, i tuoi nipoti, chiunque conoscesse la vera te, sapeva come eri fatta, ed un fiume in piena fa paura, ma rimane uno spettacolo mozzafiato. eri un torrente straripante, e quando hai iniziato a soffrire la siccità, gli argini si sono alzati fino a nasconderti completamente. io sento di essermi adagiata lì, in quel limbo tra te e la donna che stava distesa sul letto automaticamente reclinabile del ricovero: una nicchia sul confine tra il ricordo di te e l’idea di perderti. una specie di embargo emotivo mai sciolto, come se fosse possibile, in qualche modo, filtrare gli attimi di vita vissuta sedendosi al bordo della vasca degli eventi, pescandoli a piacere. mi manchi, nonna, lo sai, vero? ovunque tu sia ora, vorrei che ti arrivasse questa roba che sto scrivendo. o forse vorrei che non ci fosse nemmeno bisogno di scriverla, e che tu potessi vedermi ed abbracciarmi: ti avrei di sicuro fatto una sorpresa tra una decina di giorni, dopo gli esami sarei di sicuro tornata a casa e sarei venuta da te senza avvisarti, suonando il campanello per sentire la tua voce squillare “Streghetta, sei qui!”, dall’altro capo del citofono, aspettando impaziente di raccontarti la mia nuova vita. mi avresti schioccato un bacio sulla guancia rimproverandomi di essere un po’ troppo magra, ma poi mi avresti subito fatto i complimenti per qualcos’altro, e poi una battuta su altro ancora. imprevedibile, nell’affetto, al contrario che nella vita: un fiume straripante, ma senza un colore ben preciso, perché il fondale sassoso ne mascherava il letto. 
mi manchi, nonna, mi manchi tantissimo.
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Lei sa?
A «Cosetta richiama il tuo ingegno, tesoro»
 Proferisce portandosi alle labbra il bicchiere colmo di succo di zucca e anche quando butta giù quel paio di sorsi gli occhi sono fissi a studiare la secondina, quasi ridenti nel vederla così palesemente in crisi. Nell`abbassare il bicchiere tornerà visibile quel sorriso furbastro. 
Ancora con gli occhi sgranati alle parole dell`altra le iridi passano dalla lettera alla quintina; vorrebbe dire qualcosa, ma semplicemente rimane a fissare Aconite con la fronte corrugata, sbigottita del tipo "Cos`è mi leggi nel pensiero?". Sposta nuovamente lo sguardo verso la lettera, poi sull`altra e di nuovo sulla pergamena.
A «Se non adempi al tuo dovere di Corvonero qualcuno potrebbe rimanere deluso» 
C  «Chi, scusa?» 
A  «Ah, Dimmelo un po` tu» 
Chi rimarebbe deluso? Poi osserva il sorrisetto dell`altra, il medesimo di quello che si era stampata in faccia la settimana scorsa durante il proprio compleanno, dopo quella domanda, dopo la sua risposta. Una strana sensazione si fa spazio lungo la sua colonna vertebrale, rilasciandole un sudore freddo che in realtà non esiste. Lei sa? Spalanca gli occhi, le guance si arrossano e per un secondo non riesce a frenare l`istinto: le iridi azzurre guizzano verso destra, verso il Prefetto, e il destino vuole che lui si volti verso di lei proprio in questo momento.
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Le sorride, con quel suo fare così naturale, tranquillo, dolce. Nathaniel.
 Il cuore si ferma, lo stomaco non è più succube della legge di gravitazione, un brivido sotto il seno sinistro le fa perdere la cognizione del tempo, del luogo, di tutto. Le guance prendono fuoco e si volta di scatto verso Aconite. E` passato solo un secondo, un maledettissimo secondo, ma è bastato. Priva d`audacia per guardare l`altra negli occhi, le mani stringono con forza la pergamena sopra le cosce.
Un paio di silenziosi minuti in cui risparmia il proprio sguardo indagatore a Corine: lei lo sa già che sei arrossita, lo fiuta quel battito cardiaco accelerato che tifa tremare le budella.
Respira velocemente, ma in silenzio, e con ritrovato coraggio le iridi vanno a puntare dritto verso quelle dell`altra 
C «Io non voglio partecipare» 
A «Ah davvero?»
Adesso si che la fissità delle pupille nere si farà pesante , forse rese ancora più creepy dal contrasto col sorriso di miele che le rivolge. 
A «Non ti ritieni forse capace?»
Rimane in silenzio, fissando il porridge. Forse, si, o semplicemente per altri motivi che le stanno rimbalzando in testa come echi lontani, ma che non lascia fuoriuscire dalla labbra.
C «perchè continuate a votarmi se io neanche mi propongo?»
A «Perché a quanto pare chi ti ha votato è di tutt`altro avviso» 
anche tu mi hai votato, McNiadh? Sospira, riposando gli occhi sulla lettera che adesso è semplicemente adagiata sui propri palmi. 
.A «Fossi in te io inizierei a studiare.»
Tono mellifluo ma fermo, di chi ha preso una decisione per te e non promette di essere uno zuccherino, qualora venisse contraddetto. E` così che scavalcherebbe con le gambe la panca, allunga la destra a recuperare lo zainetto nero ai propri piedi e si alza,voltandole le spalle.
A «Sai dove trovarmi, se hai bisogno di aiuto» 
Segue con le iridi ogni suo movimento, alle parole dell`altra non risponde, ma semplicemente l`accompagna con lo sguardo fino all`uscita. Solo dopo che Aconite sarà sparita dalla sua vista riposerà lo sguardo sulla lettera 
C «Accidenti»
Sono penna, pergamena ed inchiostro quelli che va a recuperare dalla cartella alla sua sinistra, gli oggetti che andrà subito ad adoperare per scrivere poche righe ai genitori; le stesse che saranno allegate alla lettera del professore, le stesse che richiederanno solo una compilazione e una firma di consenso. 
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Maledetta McNiadh.
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.             ╰ 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐢𝐞𝐯𝐞!
              📍 urmillan's               📅 june 24, 2023               🔗 #𝖽𝖺𝗇𝗀𝖾𝗋𝗈𝗎𝗌𝗁𝗉𝗋𝗉𝗀                         ・・・    Bella l'estate, con i bagni al mare o in piscina, i drink ghiacciati, gli abiti colorati, i fiori, il sole, l'abbronzatura, il caldo. Bellissimo il caldo, specialmente nel primo pomeriggio, quando hai appena finito di pranzare e la voglia di non fare niente ti assale nemmeno tu fossi una popstar mondiale e lei a capo del tuo fanbase ufficiale. Bellissimo il caldo quando non soltanto è primo pomeriggio e il sole batte forte rendendo la tua stanza un forno, ma quell'aggeggio babbano attira-fresco affisso al muro ha magicamente deciso di non funzionare e ti è stato detto che, per il momento, dovrai purtroppo accontentarti della girandola in gabbia che sembra produrre più rumore, e quindi mal di testa, che freddo. Bellissimo il caldo quando allora decidi di sdraiarti sul letto perché "sono ferma, lo soffrirò di meno", ma la pelle a contatto con le lenzuola sembra diventare fuoco e, sebbene tu sia letteralmente immobile, puoi percepire il sudore che si fa spazio attraverso i tuoi pori, con l'intento di salire in superficie per dimostrare a chissà chi che no, non lo annienterai, l'estate è la sua stagione e col cazzo che te ne libererai.  Insomma, bella l'estate, ma vuoi mettere che, mentre versi in queste 𝘢𝘮𝘢𝘣𝘪𝘭𝘪 condizioni e vorresti soltanto urlare (menomale che non ci siano forze a sufficienza per farlo), qualcuno apra la porta 𝚍̶𝚎̶𝚕̶ 𝚏̶𝚘̶𝚛̶𝚗̶𝚘̶ della stanza e si riveli essere proprio la persona che meno avresti voluto vedere?! Insomma, a dir poco 𝘪𝘥𝘪𝘭𝘭𝘪𝘢𝘤𝘰.  Logos Alistair Urquhart porta con sé un'elegante scatola sui toni del rosso ornata da un grosso fiocco e, sebbene alla sua vista rotei gli occhi al soffitto, devi ammettere che la presentazione sia buona: i sacchetti del negozio dove si è comprato un regalo sono così cheap e poco sentimentali, sempre meglio un tocco che riveli quanto il tutto sia pensato e fatto col cuore. 𝘍𝘪𝘨𝘭𝘪𝘰 𝘥𝘪 𝘶𝘯𝘢 𝘣𝘶𝘰𝘯𝘢 𝘥𝘰𝘯𝘯𝘢, qualcuno deve averlo sicuramente indirizzato. L'uomo, notando che la figlia non gli abbia detto nulla, batte le nocche sulla porta per attirare nuovamente la sua attenzione.  « Disturbo? » non riceve altro che non sia un verso contrariato. « Suppongo sia un sì, ma ti prego di lasciarmi parlare: so di aver sbagliato tanto con te, Agape, e per riuscire a venire a patti con questa idea ho dovuto faticare non poco. Non ti nego che siano stati fondamentali l'aiuto di tua madre e di Coline, ma alla fine ho capito e sono riuscito a superare questo blocco imposto dal mio essere — com'è che dice Adela? 𝘎𝘪𝘭𝘪𝘱𝘰𝘭𝘭𝘢𝘴?! »  Sta cercando di farti sorridere? Dannato, menomale che hai la faccia di bronzo e riesci a trattenerti, limitandoti a un debole cenno di assenso. Lui comunque entra e si siede ai piedi del letto, la scatola adesso adagiata sul materasso.  « Insomma, sono qui per chiederti scusa nel modo più sincero che io conosca e per dirti che sono pronto a instaurare con te un sano rapporto genitore-figlia, fatto di dialogo, supporto, presenza. Mi dispiace che tu abbia dovuto aspettare tanto per ottenere un riscontro positivo da parte mia, spero tu possa afferrare la mia mano e aiutarmi ad essere una persona, 𝘶𝘯 𝘱𝘢𝘥𝘳𝘦, migliore. Io voglio mettercela tutta. »  Gliela allunga letteralmente, la mano: la fissi, il tuo volto è ancora modulato in un'espressione contrariata, quella di chi forse non crede totalmente alle parole appena ascoltate. O teme di soffrire nuovamente, chissà.  « Portandomi un regalo hai dimostrato di non aver capito niente, però. » niente, non ce la fai proprio a scioglierti e ad apprezzare il discorso, i passi avanti. « Il perdono non te lo devi comprare, te lo devi guadagnare. »  Logos sospira.  « Lo so. » sussurra appena, alzandosi. « Volevo soltanto cominciare questo nuovo percorso facendoti capire che ho tutta l'intenzione di ascoltarti. »  Non rispondi. La scatola si è appena mossa?! Ti tiri a sedere, poi ti stringi le gambe al petto e continui a fissarla: fa così caldo da avere addirittura i miraggi?!  « Adesso vado, immagino tu abbia bisogno di riflettere sul da farsi. Sappi soltanto che, fosse domani o tra dieci anni, sarò qui ad aspettarti. Figurativamente, rimanere sulla porta in eterno non mi sembra molto funzionale. »  Si gratta la testa e, finalmente, esce. Rimasta sola con la scatola, puoi finalmente avvicinarti: non è ben chiaro perché continui a fingerti vagamente disinteressata, ma tant'è. Il coperchio è bucherellato e il cuore comincia a rimbombarti nelle orecchie mentre colleghi gli indizi e lo sollevi. Un cagnolino minuscolo si mostra in tutta la sua allegra essenza scodinzolante, pronto a saltare fuori da quel recinto momentaneo che pare non essergli proprio piaciuto. Lo sollevi con delicatezza per sistemarlo sul letto — ops, sistemarla. Come al solito, sei travolta da troppi sentimenti per capire ciò che provi: gioia, perché un compagno a quattro zampe è 𝘦𝘴𝘢𝘵𝘵𝘢𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦 ciò che avevi chiesto per il tuo quarto compleanno e che ti era stato negato perché "non abbiamo tempo, ha bisogno di cure e tu sei troppo piccola"; rabbia, perché è arrivato soltanto affinché perdoni Logos. E col cazzo che ti fai comprare.  Bello il caldo che rende difficile pure ragionare.
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Tour in bici da Rapolano Terme a Siena
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Livello di sfida: 50km.- terreno in salita con alcune salite impegnative. Il tour Rapolano Terme - Siena inizia da RAPOLANO TERME. Seguiamo la strada per CASTELNUOVO BERARDENGA. Partiamo in salita, attraversiamo la zona del Chianti circondata da uliveti e vigneti . Raggiungiamo Siena, famosa per il "Palio", una delle città più belle della Toscana. Adagiata su tre colline, la città è formata da vicoli tortuosi e ripidi gradini, mentre la Piazza del Campo si erge nel suo cuore,  il Duomo e Santa Maria della Scala servono come punti di riferimento culturali aggiuntivi.
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Bicicletta Siena Info PREZZI Pacchetto 1 notte con prima colazione, Noleggio bici ibrida, gara o gravel bike e attrezzatura guida, bici van service per trasferimento e supporto, acqua fresca disponibile: Minimo 3-4 persone: 115 euro a persona, se avete la vostra bici 75 euro. Se siete numerosi i prezzi diminuiscono. Nota: se vuoi modificare il tuo tour per varie esigenze non esitare a chiederci un itinerario su misura per soddisfare i tuoi gusti. Possiamo raggiungere Montalcino su strade diverse. Le gite con Van al seguito sono organizzate per un minimo di 3 persone, se siete in 2 possiamo organizzare un giro da Rapolano Terme, nessun servizio di Van al seguito ma con noleggio bici e attrezzatura + guida. Read the full article
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jekad · 4 years
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┊   (  𝐇𝐄𝐀𝐃𝐂𝐀𝐍𝐎𝐍 𝐇𝐀𝐋𝐋𝐎𝐖𝐄𝐄𝐍 #𝗇𝗒𝖺𝗂𝗋𝗋𝗉𝗀 )         
          𝕴𝖑 𝖗𝖆𝖕𝖕𝖔𝖗𝖙𝖔 𝖉𝖊𝖑 𝖕𝖌 𝖈𝖔𝖓 𝖑'𝕰𝖘𝖔𝖙𝖊𝖗𝖎𝖘𝖒𝖔  
    𝕴𝖑 𝖗𝖆𝖕𝖕𝖔𝖗𝖙𝖔 𝖉𝖊𝖑 𝖙𝖚𝖔 𝖕𝖌 𝖈𝖔𝖓 𝖑𝖆 𝖒𝖆𝖌𝖎𝖆 𝖊 𝖎𝖑 𝖘𝖔𝖕𝖗𝖆𝖓𝖓𝖆𝖙𝖚𝖗𝖆𝖑𝖊                                            𝖳𝖾𝗇𝗇𝖾𝗌𝗌𝖾𝖾, 𝟤𝟢𝟢𝟫 
Il solo rumore della porta che viene aperta produce un eco per tutto l'edificio in disuso, senza contare la polvere che leggera viene smossa e il rumore dei detriti sul pavimento che vengono calpestati.  Lo scenario accoglie le tre ragazze munite di torce, con i loro zaini ben organizzati per la serata; una serata per niente innocua e semplice.
𝗠𝘆𝗮: Non potevamo farlo a casa? In tanti film fanno così... 𝗞𝗶𝗺𝗯𝗲𝗿𝗹𝘆: E' solo un vecchio manicomio... 𝗠𝘆𝗮: Il dettaglio dovrebbe rendere meno inquietante la cosa? 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Mya, non iniziare. Non penso di avere qualche entità demoniaca in casa, ne avevo voglia di parlare a mia nonna. 𝗞𝗶𝗺𝗯𝗲𝗿𝗹𝘆: E poi un cazzo di Demone non voglio invitarlo in casa. 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Kim... 𝗠𝘆𝗮: Non doveva essere solo una seduta spiritica? Due domande e basta? 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Nei tuoi film, anche solo una seduta, non lascia passare entità demoniache? 𝗠𝘆𝗮: Ma parlate di entità demoniache come se le steste cercando. 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: E' questo quello che accade facendo delle sedute.. e poi che palle, si Mya. Siamo intenzionate ad evocare qual-
Ed è il suono di un sassolino che cade arresta quella pseudo discussione appena nata, come se parte della parete si fosse distaccata e abbandonata sul pavimento.
Le tre ragazze si zittiscono e puntano le loro torce in direzioni diverse l'una dall'altra, aspettando forse di sentire qualche altro rumore ma un silenzio assordante sembra calare e divorare l'intero edificio.
Il sorriso che nasce sul viso della bionda Stephanie ha un che d'inquietante, un esaltazione per niente salutare. Al centro, come al comando del trio, punta la torcia prima sul viso afroamericano di Kimberly e poi su quello di Mya, di un colore ancor più bianco del solito.
𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲:  Possibile tu abbia più paura di queste cose che dell'essere umano? Qualcuno può ammazzarti e non ti spaventa, ma qualcosa di surreale si? 𝗠𝘆𝗮: Un essere umano puoi sempre fermarlo...come fermi qualcosa che non vedi? 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Non esiste niente di tutto questo, Mya. Nessun fantasma e nessun demone. 𝗠𝘆𝗮: Quindi perché siamo venute a farlo qui? Perché lo stiamo facendo? 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Perché mi annoiavo e l'ho trovato divertente. Prenditela con Kimberly, sono state le sue storie a mettermi in testa la cosa. 𝗞𝗶𝗺𝗯𝗲𝗿𝗹𝘆: Ho solo raccontato le storielle di mia nonna! Non datemi la colpa. 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Muovetevi, sento da qui la puzza del vostro farvela addosso.
L'entrata principale viene così abbandonata e le tre ragazze s'incamminano per quelle ampie stanze abbandonate, con vari oggetti del passato ancora lì presenti come se fossero stati abbandonati lì per la fretta.
Sulle pareti si trovano alcuni disegni lasciati da altri visitatori, varie scritte come vari murales e vari simboli sconosciuti agli occhi delle giovani.
Si preparano quando trovano una stanza che le soddisfi, preferendo rimanere al piano inferiore sotto suggerimento di Mya, perché se ci fosse stato bisogno di scappare nessuna scala le avrebbe ostacolate.
La tavola ouja è adagiata sul pavimento mentre loro sono posizionate attorno ad essa quasi a formare un triangolo, sedute all'indiana su di una coperta.Una candela tra l'una e l'altra non solo per l'illuminazione ma per poter rendere l'atmosfera ancor più tetra.
Stephanie è al comando e invita le altre a prendersi per mano, aumentando così quella figura triangolare attorno alla tavola.
𝗠𝘆𝗮: Non dovremmo toccare la planchette? 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Sh! Kim com'era? 𝗞𝗶𝗺𝗯𝗲𝗿𝗹𝘆: Dal tuo impero il mio sangue possa indicarti il sentiero, vieni a me e conducimi verso ogni mio desiderio. Che niente ci divida finché esso scorre, la mia anima è il pegno di questo favore. 𝗠𝘆𝗮: Cosa devi fare con il coltellino? 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Hai sentito la parte del sangue? 𝗠𝘆𝗮: Io non voglio che il mio sangue faccia da sentiero a nessuno. 𝗞𝗶𝗺𝗯𝗲𝗿𝗹𝘆: Avanti Mya, dobbiamo farlo insieme. 𝗠𝘆𝗮: Allora fatelo prima voi...
Ancor prima che Stephanie possa poggiare la lama sul proprio palmo, dei rumori dall'altro lato dell'edificio le interrompe. Una bassa cantilena, un lento coro nato dal nulla e che avanza verso la loro direzione. Un occhiata veloce nelle iridi delle giovani prima di soffiare insieme sulle candele e precipitare nell'oscurità, invisibili adesso al lento passaggio di persone nascoste sotto ai cappucci delle loro tuniche, fiaccole nelle loro mani e maschere ai loro volti. Proseguono lungo il corridoio come in una processione, superando la stanza delle ragazze che assistono a quel passaggio con il respiro bloccato nelle loro gole, una paralisi che viene accentuata quando gli ultimi uomini sono in compagnia di due piccoli capretti che passano davanti ai loro occhi, condotti da una corda a sparire dietro la parete che va a nasconderli.
Le ragazze si cercano l'un l'altra con le loro mani, riprendendosi a muovere quando sentono quella lauda che sembra calare e ovattarsi in lontananza, una lode che non ha sicuramente niente a che vedere con nessun Dio.
Senza proferire parola si alzano in piedi, afferrando solo i loro zaini per potersene andare il prima possibile.
Controllano il corridoio per potersi accertare di proseguire, abbandonando così la stanza e ripercorrere la strada a ritroso, il più silenziosamente possibile, bloccandosi non appena urtano una sedia a rotelle che le ha ostacolate.
𝗞𝗶𝗺𝗯𝗲𝗿𝗹𝘆: Accendete le torce. Accendete le torce! Non riesco a trovare la mia! 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Voi sentite niente? 𝗠𝘆𝗮: E' peggio se sentiamo qualcosa...o che si siano zittiti tutti? 𝗞𝗶𝗺𝗯𝗲𝗿𝗹𝘆: Non me ne frega un cazzo, io corro! 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Kim!
Corrono, ignorando che la loro folle corsa stia facendo rumore. Ignorano gli oggetti che spostano, o ciò che calpestano, l'importante è aumentare e allinearsi al ritmo frenetico del loro cuore, che oltre a battere nel petto sopraggiunge alle loro orecchie.
L'entrata principale è ormai vicina, un ultima spinta e ci sono, un ultimo sforzo e possono raggiungere la salvezza.Kimberly sparisce all'esterno prima ancora che le altre due la raggiungano. L'urlo che ne consegue accompagna l'uscita di Stephanie che si blocca alla vista dell'amica catturata da uno degli incappucciati, risvegliata poi da Mya che la urta al suo arrivo.Succede tutto in successione, così veloce che nessuna delle tre elabora perfettamente ciò che accade.
La bionda va in soccorso dell'amica mentre la mora afferra ciò che trova di più vicino, munendosi così di un pezzo di legno.Un colpo, uno soltanto, dietro la nuca dell'uomo che lascia andare la ragazza per il dolore. Lei sfugge di lato e l'altra presa dall'impeto, da un istinto di sopravvivenza, va incontro alla figura coperta senza ragionare, conficcando nel suo addome quella piccola lama che avrebbe dovuto essere usata diversamente in quella nottata.Una volta e poi due.Il tempo sembra fermarsi, le ragazze si guardano negli occhi dopo che Stephanie ha gettato a terra il coltellino insanguinato, cercando l'una nello sguardo dell'altra una risposta, un da farsi, ma altri rumori all'interno dell'edificio le portano a correre poco dopo, scappando via dallo scenario, dalla colpevolezza, da quello che potrebbe trasformarsi in omicidio.
Corrono fino a raggiungere l'auto nella quale si rifugiano senza troppi ripensamenti.
𝗞𝗶𝗺𝗯𝗲𝗿𝗹𝘆: Non è successo niente, ci penseranno gli altri. 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Mya che diavolo hai fatto? Perché lo hai ripreso?! 𝗠𝘆𝗮: Lo hai lasciato lì, ci sono sopra le tue impronte! 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Adesso anche le tue, stupida! 𝗠𝘆𝗮: Non possono arrivare a noi, non possono arrivare a niente perché non c'è niente che possono trovare. 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Se lo avessi lasciato lì non c'era niente da trovare, adesso abbiamo l'arma del delitto con noi! Cosa pensavi? Che denunceranno qualcosa? Sono dei fottuti quelli lì dentro, non voglio neppure pensare a cosa cazzo stavano facendo, ma sono certa che non andranno dalla polizia! 𝗞𝗶𝗺𝗯𝗲𝗿𝗹𝘆: Non c'è nessun cazzo di delitto! Ok? Andiamocene! 𝗠𝘆𝗮: Avrebbero potuto usarlo anche per altro... qualche loro rito o per qualche sacrificio, in quel caso avrebbero incolpato te e maledetta in qualche modo. 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Non esistono queste cose, Mya. 𝗠𝘆𝗮: Tu non ci credi, ma io si. Quelli lì ci credono ancor più di me, quindi lasciami in pace! Ho più paura di tutta questa storia che di finire in galera. 𝗦𝘁𝗲𝗽𝗵𝗮𝗻𝗶𝗲: Io l'ho ucciso, capisci?! Io ci finisco! Voi due non c'eravate neppure. 𝗞𝗶𝗺𝗯𝗲𝗿𝗹𝘆: Non dire cazzate e andiamo a liberarci di questa stronzata. Buttiamolo nel Melton. 𝗠𝘆𝗮: Sei sicura? E' nei pressi dell' Haw Ridge, se lo ritrovassero? 𝗞𝗶𝗺𝗯𝗲𝗿𝗹𝘆: Direi che l'acqua farà il suo compito fino a quel momento.
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ellmick · 7 years
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Perchè guardi sempre i binari?
Qualche giorno fa Ludovica passeggiava per il parco, come sempre fa di sera, al ritorno dal lavoro. Era una calda giornata di inizio Settembre, una di quelle giornate che probabilmente sarebbero passate inosservate, insieme a tutte le altre calde giornate che si susseguono nella mente di tutte le persone. Una di quelle giornate prive di significato straordinario, i cui eventi si sarebbero mescolati a quelli dei giorni che l’avevano preceduta e seguita.
Ludovica camminava, osservando il pulviscolo nell’aria che gli vorticava intorno come in una danza. I cani scorrazzavano in giro, liberi dal guinzaglio; ai suoi occhi erano un po’ la metafora della suo stato d’animo, si sentiva finalmete libera dalle briglie del lavoro quotidiano.
I suoi occhi erano presi da mille scenette: due bambini in fondo che si contendevano il posto sull’altalena, una mamma più attenta al suo cellulare che al suo piccolino che mangiava la terra, ragazzi affannati che facevano jogging...
In questo girotondo di vite il suo sguardo si soffermò su una pagina bianca ripiegata più volte, adagiata sul ciglio della strada. Naturalmente incuriosita, si avvicinò, prese il foglio e lo aprì:
“Mi capita spesso di rimanere incantato lì, davanti ad un percorso solitario, che magari faccia intravedere la sua direzione, ma che non sveli più del dovuto.
Immagino spesso queste rosse foglie autunnali a fargli da cornice.
Autunnali, non estive, nè primaverili. Probabilmente perchè è questo il periodo in cui ho sempre voglia di scappare via. Vorrei scappare via da te, da questo mondo che non mi comprende, da questa vita che mi sono scelto per far felice gli altri e non me.
Lo so, me lo hai detto mille volte di cambiare il mio atteggiamento, di essere più inflessibile. Sento ancora la tua voce nella testa che mi dice di non dare agli altri più di quello che ricevo. Ma non ce l’ho fatta. E così ho deluso te, e me stesso.
La mia vita ha preso una brutta piega, mi ha incastrato in un posto di lavoro che non volevo, che ho ricevuto solo perchè ero troppo occupato a far felice mio padre. Una ragazza che ho amato per far felice mia madre. Degli amici che ho cambiato per far felice lei.
Ma poi sei arrivata tu. Sembra una canzone, lo so, ma è così che mi sento con te, mi sento in una canzone scritta apposta per me. Tu mi conosci, anticipi le mie frasi, dei miei gesti conosci la natura prima che io stesso capisca il motivo per cui li ho fatti.
Ho davanti ai miei occhi questo binario, e vorrei solo scappare via da te.
PERCHE’ MI HAI FATTO CONOSCERE L’AMORE? Oh Clara, tu sei l’amore, tu sei la vita, ed io vorrei solo lasciarti andar via, ritornare nella penombra del mondo. E invece no, quando sono al tuo fianco, una tale voglia di urlare al mondo il mio amore per te mi assale. Tanto forte, tanto potente. Mi fai sentire vivo! Ed ora che la vita mi abbandonerà avrò ancora più bisogno di te. Quando il mio gelido corpo sarà privo di linfa, la mia anima raggiungerà te. Così che io possa starti accanto, se non da vivo, almeno da morto.
Io non sono stato capace di essere tuo, non potrò mai esserlo. Ho trascorso la mia vita in nome della vigliaccheria e così morirò. Sono così vigliacco che non so ammettere i miei sbagli nemmeno con me stesso, nemmeno quando il sipario sta per chiudersi.
Perdonami, mia amata. Perdona il mio frivolo e inconsistente carattere.
La tua nobile essenza meriterebbe un migliore punto d’approdo. Una terra fertile, dove poter far sbocciare tutto il tuo amore, non un arido terreno instabile, un’argilla priva gioia.
Così ti lascio il mio ricordo, così la mia vita.
Eternamente tuo,
Marco”
Il cuore le palpitava furiosamente, le mani le tremavano in modo incontrollabile. Ludovica era rimasta impietrita. Quella straziante lettera d’addio l’aveva colpita nel profondo.
Tante domande le giravano nella testa: Un uomo era morto, o era ancora in tempo da impedirlo? Clara aveva letto questa lettera? Se no, cosa aveva impedito a Marco di recapitarla? Perché era finita qui? E come poteva cercare di aggiustare le cose?
Non riusciva a spiegarselo, ma si sentiva assolutamente in dovere di fare qualcosa. Doveva trovare Clara, doveva farle recapitare la lettera, doveva impedire che questa vita si sgretolasse.”Sì, ma come?”
Pensò, pensò tanto. Ecco! Poteva chiedere a Claudio, in fondo quella era una piccola città e quello di un giornalista era di certo il migliore aiuto che avrebbe potuto sperare.
Quel giorno non fu più solo una calda giornata di inizio Settembre. Ma Ludovica sapeva, nonostante non riuscisse a spiegarselo, che da quel giorno la sua vita non sarebbe stata più la stessa.
-Ellmick.
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pangeanews · 4 years
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Piccolo discorso su Michele Serra, un bluff (lo dice lui stesso). La coscienza critica della sinistra è rimasta sull’amaca – e si scopre classista
«Il popolo è più debole della borghesia, e quando è violento è perché cerca di mascherare la propria debolezza, come i ragazzini tracotanti e imbarazzanti che fanno la voce grossa con i professori per imitazione di padri e madri ignoranti, aggressivi, impreparati alla vita» (Michele Serra, da “L’Amaca”, 20 aprile 2018).
*
Se oggi vogliamo parlare di Michele Serra, considerato da molti la coscienza critica della Sinistra italiana, giornalista, scrittore, umorista, autore televisivo eccetera, è bene partire da questa epigrafe tratta dell’elzeviro uscito su la Repubblica un paio d’anni fa, in cui si affermava con nettezza che gli episodi di violenza nelle nostre scuole riguardano solo gli istituti tecnici e professionali, perché i figli della borghesia – che è più dotata e civile – studiano nei licei già frequentati dai genitori, mentre il popolo – in questo caso il popolaccio – essendo ignorante manda i figli nelle scuole di classe inferiore, che diventano focolaio di soprusi e incivile aggressività. Qui Serra usò argomentazioni così approssimative e scadenti, con un tono talmente classista da scatenare una forte discussione sui social, che coinvolse molti insegnanti e quasi lo travolse. Al punto che fu costretto a scrivere una risposta su Rep, in cui sostanzialmente affermava che: a) non intendeva dire quello che gli si imputava; b) i lettori non erano stati in grado di coglierne il vero significato; c) non intendeva dare spiegazioni perché lui col pubblico della Rete non ci discute, in quanto massa di esseri sotto-dotati. Esemplare questo passo: «Il testo (i 1500 caratteri della mia Amaca, insomma le mie parole) quasi non vale più. Quasi nessuno lo legge fino in fondo e lo analizza. Vale il caotico, per certi versi mostruoso contesto del chattismo compulsivo, così compulsivo che perde il filo del discorso già in partenza». Capito? Chi in Rete mette in discussione Michele Serra è vittima del chattismo compulsivo, che ovviamente è caotico e mostruoso, e non è nemmeno capace di leggere e “analizzare” le sue Amache, che in realtà sono talmente brevi da leggersi in un soffio. Come dire che chi lo critica non ha le doti intellettive per arrivare fino in fondo alle sue misere 1500 battute, come se si trattasse di un testo lungo e complesso, mentre invece è solo un quadretto di parole.
*
Questo episodio paradigmatico aiuta a fare chiarezza su cosa è diventato il complesso di superiorità della sinistra, che si eleva al cubo quando riguarda personaggi come Michele Serra, la cui cifra elitaria rimane permanente e inscalfibile. «Il populismo è prima di tutto un’operazione consolatoria, perché evita di prendere coscienza della subalternità sociale e della debolezza culturale dei ceti popolari», insisteva nel suo elzeviro classista. Evidentemente, a Serra non è bastato l’impegno trentennale nella cultura del Paese, non sono bastate le grandi avventure della rivista Cuore sul finire del secolo scorso. La sua attività satirica si è via via ripiegata nella forma tipica dell’esercizio moralistico di sinistra, con lo stillicidio quotidiano nella rubrica “L’Amaca” di Repubblica e con l’uscita in volume di articoli comparsi precedentemente, come il Breviario comico (Feltrinelli 2008), che voleva riprodurre in forma aggiornata i fasti di Sette anni di desiderio di Umberto Eco, pubblicato nel 1983 da Bompiani. Là il grande semiologo analizzava il quotidiano a modo suo, attraverso gli articoli apparsi su L’Espresso e altre riviste a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, con quella miscela di attenzione erudita e arguzia moralistico-satirica che ha caratterizzato buona parte dell’identità culturale italiana di fine Novecento. All’incirca il periodo in cui Michele Serra iniziava a dare il meglio di sé, in cui la Sinistra navigava ancora su una rotta precisa – e non alla deriva – mantenendo un ruolo di preminenza nel panorama politico.
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Sono lontani gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, dove gli intellettuali come Michele Serra avevano un ruolo eminente nella rappresentazione della vita e del malcostume politici. Prima Tango e poi Cuore, e L’Unità di Walter Veltroni, e la satira intelligente e ineffabile, quella che non si poteva denigrare o delegittimare perché essa sola sembrava deputata alla lettura critica della crisi italiana. Crisi che non è finita e che – invece di attenuarsi o riassorbirsi – ha proseguito la sua corsa fino a travolgere quasi tutto, anche gli autorevoli esegeti e dispensatori del pensiero “retto” come Serra, insieme agli uomini politici della sinistra nobile, che oggi non trovano più un orizzonte.
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Ma è nel suo romanzo più famoso, Gli sdraiati (Feltrinelli 2013, ovviamente trasposto al cinema), che Michele Serra peggiora il già declinante orizzonte critico, andando ad avvitarsi in un inutile repertorio di lamentazioni e ammonimenti sulla pericolosa deriva che sta portando il Paese verso un fatale punto di non-ritorno: «Vedo motorini schiantati, risse sanguinose, overdosi fatali, forze dell’ordine impegnate a reprimere qualche baldoria illegale. Leggo con avidità masochistica le cronache esiziali del tuo branco, quelli schiacciati nella calca dei rave-party, quelli fulminati dagli intrugli chimici, quelli sgozzati in una rissa notturna in qualche anonimo parcheggio in discoteca, quelli pestati a morte da gendarmi indegni della loro divisa».
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Oltre a elencare le cose peggiori che possono capitare a un adolescente, condensandole in poche righe, Serra si mette a osservare al microscopio il giovane figlio, classificandolo nel tipo antropologico che dorme quando il mondo è sveglio, e sta sveglio quando il resto del mondo dorme. Da qui il titolo, evocativo, Gli sdraiati. L’autore s’interroga su cosa non ha funzionato, su quale veleno ha intossicato – forse irrimediabilmente – questa giovanissima generazione, così lontana da com’era il mondo fino all’altro ieri, quando L’Unità era l’organo di un partito che poteva guidare l’Italia, quando la scuola ancora funzionava, quando l’analfabetismo di ritorno non aveva esteso la sua infezione, quando era importante ridere leggendo Tango prima e Cuore dopo, quando chi era intellettuale ed era di sinistra poteva ancora contare qualcosa.
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«Le tracce della tua presenza sono inconfondibili. Il tappeto kilim davanti all’ingresso è una piccola cordigliera di pieghe e avvallamenti. (…) Secoli di manualità di decine di popoli, caucasici maghrebini persiani indostani, sono rivoltati da ogni tuo singolo passo».
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Questa sequenza, tratta dalle prime pagine, mostra in modo esemplare la vocazione radical-chic (“il tappeto kilim”) di molta sinistra italiana, nella sua declinazione operaista, terzomondista e mondialista (“Secoli di manualità di decine di popoli, caucasici maghrebini persiani indostani”); ma richiama anche l’incipit del celebre film dei fratelli Coen Il grande Lebowski, dove il protagonista torna a casa e trova due energumeni che lo prendono a botte e gli infilano la testa nel water, e prima di andarsene uno dei due si sbottona la patta e orina sul tappeto del soggiorno: la precisa immagine icastica dello stato di violazione personale per il tappeto kilim perennemente gualcito. Il figlio, rappresentante della categoria antropologica “sdraiata”, quando si muove e agisce nel mondo sembra deformarne e danneggiarne i profili e le superfici, senza alcun riguardo verso coloro che i contorni di quel mondo hanno tanto faticato a definire. E Serra guarda questa “evoluzione” della sua specie con costernata mestizia, che nasconde a malapena la rabbia nei confronti delle forze che ne hanno gradualmente sgretolato il terreno di coltura.
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«Tu sei il consumatore perfetto. Il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda, mangi più di quanto lo nutre, illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo soddisfa».
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Qui è evidente l’identificazione del nemico con l’Occidente capitalista, che sarebbe alla base del disfacimento socio-economico a cui siamo arrivati. Cosa che secondo noi può essere vera solo in parte, perché non bisogna trascurare il peso che ha avuto l’atteggiamento di ripiego tenuto negli ultimi decenni dall’intellighenzia di stirpe sinistro-comunista, adagiata sul proprio compiacimento elitario. Se si aveva di fronte un nemico tanto pericoloso come il capitalismo, si rendeva necessario applicare gli strumenti e la mentalità più adatti a combatterlo; invece, ci si è lasciati guidare dai calchi culturali consolidati in cui si stava protetti, senza decidersi a metterne in discussione l’impianto, lasciando che i valori e l’identità si erodessero in un processo lungo e micidiale. Inutile, ora, liberare le proprie geremiadi nello stile dell’antico profeta biblico. E risulta anche ridicola la visione fantasiosamente epica di un futuro di guerra generazionale: «Questa spettacolare pagina bellica, qui appena accennata, è solo uno dei tanti, appassionanti episodi della Grande Guerra Finale, quella tra Vecchi e Giovani, che dà il titolo a un romanzo grandioso e definitivo al quale sto lavorando da parecchio tempo: “La Grande Guerra Finale”. Almeno un paio di volumi. Di ampiezza tolstojana, come minimo».
*
Qui, invece, il romanzo è di sole cento pagine, ottenute con l’ausilio degli spazi bianchi: una misura di brevissimo respiro (il furbo Erri De Luca fa scuola) che delude anche per la scarsa incisività dei contenuti. In sostanza, ciò che emerge è lo smarrimento di un’identità che vede evaporare i valori e le convinzioni su cui ha basato gran parte della propria esistenza e, sentendosi inerme, cerca appigli nella rassicurante familiarità delle pratiche virtuose. Come quando il protagonista cerca di convincere il figlio riluttante a scalare un monte: «Tu non hai idea di come ti farebbe bene, sono sei ore di cammino: non troppe, non troppo poche. Si sale, si sale, si sale lungo il sentiero… Poi ancora si sale, si sale sopra i duemila, nella pietraia interminabile…».
*
Basta un passo come questo per intuire il senso di sconfitta che pervade l’intera “poetica” messa in campo dall’autore. Un effetto che sfiora il patetismo, via via più definito nel successivo sviluppo:
«Quando ti vedo così pallido, penso ti farebbe molto bene venire con me al Colle della Nasca». «Se non vieni con me al Colle della Nasca non fai un dispetto a me, lo fai a te stesso». «Se vieni con me al Colle della Nasca ti pago». «Di’ la verità, tu muori dalla voglia di venire con me al Colle della Nasca. Ma pur di non darmi soddisfazione ti ostini a fingere di non averne voglia».
*
Questa successione di frammenti, che vorrebbe evocare un effetto comico, in realtà è un ricalco di schemi tipici di molti film e sit-com televisive, e la sua mancanza di originalità appesantisce il tutto, declinandolo verso il ridicolo. Qui Serra vorrebbe simulare un atteggiamento da perdente, per valorizzare la propria superiore diversità, ma finisce per dare un’ulteriore dimostrazione della propria incapacità di affrontare uno scenario nuovo e a sé estraneo. Un atteggiamento che sembra configurare l’ormai proverbiale immobilismo della sinistra italiana, al quale ancora non si trova rimedio. E proprio per questo, l’epiteto di “sdraiati” che Michele Serra affibbia agli esponenti delle nuove generazioni finisce per attagliarsi alla categoria a cui egli stesso appartiene. Le sue lamentazioni tradiscono il disagio di chi, non comprendendo e non sapendo come affrontare la barbarie che avanza, resta ai margini senza offrire una scintilla di efficace senso propositivo, limitandosi a un sobbollire critico e ripiegante. Restandone, così, travolto e “sdraiato” come sotto un rullo compressore. Ecco allora l’atteggiamento regressivo di chi cerca di rimettere al centro le proprie passioni – la scalata del monte, che qui si tenta d’imporre come modello – per ritirarvisi come in un grembo materno, alla ricerca della realizzazione perduta.
*
Come spiega il linguista Edoardo Lombardi Vallauri, «è molto più facile vedere ciò che manca agli altri e che noi abbiamo, piuttosto che individuare ciò che manca a noi e gli altri hanno. Ad esempio, se io conosco il greco classico e mio figlio no, io sono bravissimo ad accorgermi dell’importanza di ciò che lui ignora perché io so che il greco esiste e so a cosa serve; allora in lui cerco il greco classico: non ce lo trovo, e allora dirò che lui è un ignorante perché non lo conosce. Invece se è mio figlio a sapere una cosa che io non so, a meno che lui venga a sbandierarmela, io non lo saprò».
Infatti, vedere ciò che manca agli altri sembra la specialità di Michele Serra, che dalla sua “Amaca” quotidiana – dove, per definizione, si sta sdraiati – insiste a dispensare pillole della sapienza codificata dalla tradizione di sinistra. «Dunque, una generazione vede facilmente nelle altre generazioni la mancanza di ciò che sa, mentre non vede nelle stesse generazioni la presenza di ciò che ignora. Per questo motivo, l’abitudine a dire “la nuova generazione è più ignorante della mia”, in realtà non è tipica di chi sa di più, ma proprio dell’ignorante; cioè di colui che riesce a ri-conoscere solo le poche cose che conosce già, mentre non sa accorgersi della presenza di saperi che non possiede» (E. Lombardi Vallauri, Semplificare. Microfilosofie del quotidiano, Academia Universa Press).
*
Ora, lasciando lo “sdraiatismo” del versante romanzesco, vediamo che l’atteggiamento regressivo di Michele Serra culmina nell’assurda, sconclusionata “Amaca” del 22 gennaio 2017, all’indomani dell’avvicendamento alla Casa Bianca fra Barack Obama e Donald Trump.
«Mai cambio della guardia fu più carico di significati. Il pronipote di schiavi sembrava un principe. Il miliardario americano sembrava un miliardario americano, prototipo umano che specialmente nella versione di Trump — decisamente estrema — è la cosa meno simile a un principe mai vista sotto il cielo. Il suprematismo bianco ne usciva a pezzi, il nuovo presidente ne è il peggior testimonial possibile. Si poteva intuire, risalendo per li rami, che il cow-boy bisavolo di Trump, quando entrava nel saloon con lo stuzzicadenti in bocca, non era molto più chic del bisavolo di Obama nei campi di cotone. E almeno gli avi di Obama cantavano il blues, e non quel terribile country con la giacca bianca piena di frange. Per fortuna la cerimonia è stata un unicum, e non è previsto che i due si facciano vedere assieme altre volte: rischierebbe di nascerne un deplorevole quanto inevitabile suprematismo nero. Interverrebbe, per rimediare, il politically correct: «Non chiamateli “bianchi”, poverini, non sta bene definire una persona dal colore della pelle. Chiamateli euroamericani». Se euroamericani non è abbastanza patriottico, si può provare con “americani di mezzo”, o medioamericani: quelli che sono arrivati lì dopo i Sioux e prima dei cinesi».
*
Avete capito bene: abbiamo il pronipote di schiavi e il cow-boy bisavolo di Trump. In pratica, siccome quel giorno Serra aveva tanta voglia di pittoresco e niente voglia di applicarsi, per raccontare come il rozzo Trump sfigurava accanto all’impeccabile Obama non ha trovato di meglio che andare a casaccio inventandosi due alberi genealogici inesistenti, senza compiere nemmeno le verifiche più elementari. Il nonno di Donald Trump è nato in Baviera e sua nonna in Scozia; nessuno è stato cow-boy e tutti sono vissuti nella costa Est, a New York, che è tutto un altro mondo. E pure l’immagine del bisavolo di Obama è fantasiosa, perché la madre di Obama è bianca ed è originaria del Kansas (lei sì che è accostabile ai cow-boys), mentre suo padre è nato e vissuto in Kenya, quindi non può discendere da schiavi portati in America.
*
Rendiamoci conto: questa roba è uscita su Repubblica, che si è sempre vantato di essere il miglior giornale italiano, prima di finire nel precipizio di oggi. Sarebbero bastati pochi clic per evitare una figuraccia e avere un minimo di rispetto per i lettori, ma Michele Serra prova tanto fastidio e sfiducia verso le informazioni disponibili in Rete – considerata un ricettacolo di orrori – che ha preferito inanellare una serie di falsità tanto clamorose quanto stupide. È un problema noto: quando certi personaggi alloggiano nel sistema mediatico nazionale e ci restano per decenni, protetti come in una culla, al riparo da ogni turbolenza o mutamento epocale, finiscono per non capire più il contesto esterno, perché restando sempre fra loro, nel proprio cortile protetto, non hanno mai dovuto competere davvero con la società e i suoi cambiamenti, e con l’evo-involuzione del sistema culturale.
*
L’Amaca è il suo giocattolo sacro, e nessuno sembra volerglielo togliere. Ma è lo stesso Serra, in uno degli ultimi libercoli, a fare qualche ammissione: «Nei momenti di minore amor proprio la parola che mi viene in mente, a proposito della mia capacità di dare buona forma grafica a pensieri esili, è bluff» (La sinistra e altre parole strane, Feltrinelli 2017, pag. 32).
Paolo Ferrucci
*In copertina: Michele Serra (la fotografia è tratta da qui)
L'articolo Piccolo discorso su Michele Serra, un bluff (lo dice lui stesso). La coscienza critica della sinistra è rimasta sull’amaca – e si scopre classista proviene da Pangea.
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invinciblefragility · 5 years
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Orme di un individuo
Percepisco una corazza attorno il mio corpo.
Percepisco una veste sottile adagiata su di me.
Percepisco la sua pesantezza, la mole di peso.
Percepisco il suo profumo, la sua fragranza.
Percepisco la paura di saltare, la paura di volare.
Percepisco la leggerezza, la fresca brezza.
Eppure crollo.
Eppure mi rialzo.
Mi impegno e non vinco mai.
Mi impegno e penso "ce la fai".
Poi di nuovo a terra, a baciare l'asfalto.
Poi di nuovo in aria, mi preparo allo schianto.
Come potrei mai resistere a tanto?
Come potrei vivere sempre in questo modo?
Ed ecco che corazza e veste si sovrappongono. Sensazioni contrastanti che avvolgono la stessa persona.
Chi vedrà tanta profondità con occhi umani? Quale individuo è in grado di notare che sono guerriero e donzella? Un forte e maestoso e spavaldo guerriero, una delicata e speranzosa e romantica donzella? Razionalità pura, indole impulsiva, passione bruciante. Irrazionalità incontrollata, senso di gioia, sensibilità da vendere.
Se mai qualcuno riuscirà a vedere tutto ciò, apprezzare tutto ciò e a modo suo amare ciò, io vivrò la mia vita al fianco di quella persona in tutti i modi che mi permetterà. Sarebbe certamente un folle. Un individuo perso in questo mondo, nel quale cerca di continuo un posto. Come me, come faccio io.
Quel qualcuno sarà la persona che sarà al mio fianco per il resto della mia vita.
Ciò è vero ed è tanto vero anche altro: tu mi hai conosciuto. E non hai conosciuto aspetti di me che chiunque ha avuto il piacere di vedere. Non so cosa mi abbia spinto ad aprirmi tanto, con te. Così tanto da sentirmi vulnerabile, così tanto da temere di perderti, nel senso più profondo: quando prendi quelle chiavi che aprono quelle porte che nascondono quei segreti che trattengono quei pensieri che sono correlati a quelle emozioni, beh, in quel momento capisci che sei arrivato al punto di non ritorno. Capisci che da lì in poi o va bene o va male, non esistono sfumature. Quelle emozioni escono e se ne creano di nuove. Ed io, in cuore mio, so che così deve andare. Ma mi crea timore. Ho una difficoltà a fidarmi delle persone che solo ora focalizzo. Tu sei tra le pochissime persone a sapere la verità, la mia più oscura verità ed alcune delle storie che ci sono dietro. Per qualche strano motivo della ragione che non mi riesco a spiegare, tu sei qui. Per me. Ogni giorno. Capii subito che eri una persona speciale ed ora, che mi hai dimostrato quanto lo sei, tra l'altro in minima parte ancora, io già gioisco. Ciò che più mi fa sentire bene è che non mi interessa essere l'unico: data la mia invincibile fragilità sento la necessità di essere l'unico o il migliore, è come se fosse lo sblocco mentale che mi fa stare tranquillo. Sapere di esserlo per qualcuno mi leva ogni insicurezza perché è per me la più grande motivazione nei momenti di sconforto. Ma è sbagliato, in parte. E voglio migliorare. E questo è molto grazie a te. Quindi, grazie. Per avermi capito, apprezzato e a modo tuo amato.
Forse non sarai al mio fianco tutta la vita, almeno non fisicamente. Ci tenevo però a dirti che il tuo ricordo per me, non importa cosa ne sarà di noi, sarà con me ogni attimo, più splendente degli altri, perché tu sei per me la causa più grande di sensazioni che non ho mai più provato con altre persone. Mi fai sentire, non chiedermi il perché, come chi anni fa mi ha salvato dal mio abisso e poi se n'è andato lasciandomi cadere esanime. Questa volta non mi spaventa, in quell'abisso c'ho preso casa. Questa volta voglio volare, con le mie ali, spiegarle di nuovo come un tempo e ricordarmi quanto è bella la vita. E ricordarti, ogni attimo, come una piuma nel cielo, come un raggio di sole, come una goccia di pioggia, come una folata di vento, come un dolce profumo. Come una compagnia di viaggio che mi ha preso per mano e mi ha guardato e mi ha dato la voglia quando non ne avevo di ritrovare la forza per continuare a lottare.
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reinadelbaile · 7 years
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     ❛ ❛  𝘐'𝘮 𝘴𝘵𝘪𝘭𝘭 𝘵𝘳𝘺𝘪𝘯𝘨, 𝘵𝘰 𝘸𝘢𝘬𝘦 𝘶𝘱 𝘧𝘳𝘰𝘮 𝘵𝘩𝘪𝘴 𝘯𝘪𝘨𝘩𝘵𝘮𝘢𝘳𝘦,
          𝘞𝘩𝘦𝘳𝘦 𝘦𝘷𝘦𝘳𝘺𝘵𝘩𝘪𝘯𝘨 𝘪𝘴 𝘪𝘯 𝘪𝘵𝘴 𝘳𝘪𝘨𝘩𝘵 𝘱𝘭𝘢𝘤𝘦
               𝘽𝙪𝙩 𝙮𝙤𝙪'𝙧𝙚 𝙣𝙤𝙩 𝙩𝙝𝙚𝙧𝙚.  ❜ ❜
       「  4 AM Nightmare.  ─ ─ NEW YORK  」
                _____
    (...) Con la stessa delicatezza con cui la brezza mattutina sfiora I sottili petali di un fiore, il dorso della mano di Juan Hernandez libera la fronte di sua figlia da alcune ciocche ribelli. Le profonde iridi color cioccolato di Nerea Hernandez fanno capolino dietro le ciglia scure, nel momento in cui le palpebre si schiudono. Lo sguardo incontra quello di suo padre.
  ‹  È stata una lunga giornata.   › La voce di lui è bassa, calma, rassicurante; giunge all'udito della giovane, adagiata tra le candide lenzuola, la guancia posata sul cuscino affinché il viso sia rivolto verso suo padre. Nerea annuisce, I lineamenti rilassati, le iridi scure velate di stanchezza, mentre le palpebre accennano a chiudersi nuovamente.
  ‹  Domani sarà un nuovo giorno. Faremo un giro in città, io e te, come ai vecchi tempi.   ›
  ‹  No, no, papà, l'ultima volt─   › Nerea si agita, gli occhi si sbarrano, mentre tenta di sollevarsi a sedere, per fronteggiare suo padre. La stanchezza, però, la sovrasta, le impedisce di compiere il seppur minimo movimento. Un soffio a denti stretti le intima di far silenzio, quindi la giovane rinuncia ad ogni protesta e lascia che I suoi muscoli si rilassino, che le sue palpebre si chiudano nuovamente. Una lacrima bollente sfugge tra le ciglia, tuffandosi fino a sparire nella trama del bianco cotone che ricopre il cuscino. ‹  ─l'ultima volta ti ho perso.   ›
  ‹  Non mi hai perso. Tu sai che io sono con te, in ogni momento della tua giornata. Nel tuo cuore, siempre, mi Reina.   › Un mugugno rilassato sfugge alle labbra schiuse di Nerea, mentre avverte le proprie membra farsi pesanti, il sonno prendere il sopravvento su ogni intenzione.
È proprio in quell'attimo, prima che il mondo diventi un enorme spazio nero e ogni suono si spenga, che risuona: più forte di un esplosione, più impattante di un'onda durante l'alta marea. Il rimbombo di un colpo di pistola.
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