Tumgik
#colpire duro
libro-dimenticato · 2 years
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“e quando è arrivato il momento per te di diventare un uomo di affrontare il mondo…lo hai fatto, ma qualcosa lungo il tragitto ti ha fatto cambiare, non sei esistito più, hai permesso al primo fesso che arrivava di farti dire che non eri bravo, sono cresciute le difficoltà, ti sei messo alla ricerca del colpevole, e l’hai trovato in un’ ombra…eh… Ora ti dirò una cosa scontata: guarda che il mondo non è tutto rose e fiori, è davvero un postaccio misero e sporco e per quanto forte tu possa essere, se glielo permetti ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre. Né io, né tu, nessuno può colpire duro come fa la vita, perciò andando avanti non è importante come colpisci, l’importante è come sai resistere ai colpi, come incassi e se finisci al tappeto hai la forza di rialzarti… così sei un vincente! E se credi di essere forte lo devi dimostrare che sei forte! Perché un uomo vince solo se sa resistere! Non se ne va in giro a puntare il dito contro chi non c’entra, accusando prima questo e poi quell’altro di quanto sbaglia! I vigliacchi fanno così e tu non lo sei! Non lo sei affatto! Comunque io ti vorrò sempre bene Robert, non può essere altrimenti, tu sei mio figlio, sei il mio sangue, sei la cosa migliore che ho al mondo ma finché non avrai fiducia in te stesso, la tua non sarà vita“
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libero-de-mente · 1 month
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Mi sento padre
Credo di essere diventato padre prima, intendo prima di diventarlo biologicamente.
Ho vissuto un prologo o, per usare un neologismo moderno, un prequel.
Sono convinto che divenni padre di me stesso il giorno in cui, sempre biologicamente, non fui più figlio di un uomo.
Quando mio padre morì rimasi orfano di una figura paterna che, nonostante i suoi umani limiti, era nel mio immaginario qualcosa di più grande e rassicurante. Ne avevo maledettamente bisogno, ma il destino me lo portò via.
Così dopo un percorso con uno davvero bravo divenni "papà" di me stesso. Non avevo alternative, meglio dire non avevo nessuno.
Nonni morti da tempo e zii, quelli a portata di mano e in vita, ostici ed egoisti da sempre.
Poi divenni padre. Non solo biologicamente, ma qualcosa si squarciò in me. Mille motivi per sentirsi padre.
Quando divenni padre per la seconda volta lo squarcio con i "mille" motivi raddoppiarono
Mi sento padre ogni volta che sento ridere i miei figli,
quando percepisco la loro forza d'animo,
quando mi abbracciano per rassicurarmi,
quando li abbraccio per dare loro forza,
quando mi rendo conto di come i miei figli siano migliori di me,
quando ripenso al fatto che appena nati mi vennero affidati, tra le mie mani che inaspettatamente divennero ferme e solide. Io che credevo che avrei tremato per tutto il tempo.
Mi sento padre quando mi raccontano i loro pensieri, i loro desideri,
quando uscendo di casa, dalla strada, si girano per vedere se sono alla finestra per salutarli ancora. E io ci sono.
Mi sento padre ogni volta che li sprono a lottare per i loro obiettivi,
lo sono di più quando mi scopro a nascondere le lacrime per i loro traguardi raggiunti.
Mi sento padre quando discutiamo,
quando li ascolto e do loro ragione,
quando gli esprimo il mio punto di vista e loro annuiscono,
quando mi spiegano e io capisco che quello in errore sono io.
Mi sento padre ogni volta che loro si sentono miei figli,
quando mi permettono di lenire i graffi metaforici che la vita gli lascia sulla pelle,
ogni volta che predico il rispetto per il prossimo,
a non fare mai del male a nessuno.
Così capita spesso che loro, abbracciandomi con le lunghe braccia, mi fanno sentire figlio a mia volta. Per qualche istante.
Mi sono sentito orgogliosamente padre, in passato, quando durante le competizioni sportive a cui i miei figli partecipavano, dagli spalti, non ero tra i padri che istigavano i figli a "colpire duro" per vincere sull'avversario.
Oppure quando ho rinunciato ai miei desideri, alle mie passioni, per proteggerli per stare loro vicino. Concedendo il mio cuore solo a loro.
Mi sento padre ogni giorno che mi appare una nuova ruga, un capello bianco, un fardello in più sulle spalle che la vita mi lascia "generosamente". Per ogni livido sulla pelle, per ogni ferita nell'anima, per ogni sussulto del cuore strozzato sul nascere.
Sono un padre nel momento che lotto per il benessere della mia famiglia,
quando cado miseramente per un mio errore,
quando mi rialzo stoicamente, con la determinazione di chi non vuole deludere i propri figli.
Mi sarei già lasciato andare da tanto se non fossi padre.
Sono un padre perché soffro, gioisco, li sento, li ascolto e cerco di essere un punto di riferimento per loro,
per poi accorgermi che essi sono per me un punto di riferimento.
Mi sento padre quando mi prendo cura di una madre anziana e ammalata, come se fosse mia figlia. Lei che mi cerca e mi chiede sicurezza. Come una bimba.
Sono un padre fragile, quando ogni sera goccia dopo goccia cerco di chiudere la giornata.
Quest'anno mi faccio gli auguri, per il padre che sono e per come sopravvivo in questo importante ruolo.
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pettirosso1959 · 1 month
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MA CHI ERA VERAMENTE KARL MARX?
Da Barbara Costa per Dagospia:
Karl Marx era un mantenuto. Lui, la moglie, i figli, addirittura l’amante, vivevano tutti sulle spalle di Friedrich Engels, compagno comunista ricchissimo, rampollo di facoltosi industriali.
In nome del proletariato, Marx non ha lavorato un giorno in vita sua. In nome del proletariato, Marx sdegnava i proletari, non ne ha mai frequentato uno, tranne le prostitute dei bordelli con cui andava a spassarsela con Engels, che pagava per tutti e due. Lo stesso Engels, accusato di stupro da una cameriera, disse che si era trattato di amore non ricambiato.
Karl Marx, piccolo borghese, sposò un’aristocratica, Jenny von Westphalen, una baronessa anglo-tedesca. Jenny e Marx fecero sesso prima del matrimonio, lei felicissima di aver perso con lui la verginità, gioia sparita subito dopo le nozze: Marx si rivelò un marito egoista e fannullone, dedito solo a teorizzare la rivoluzione che avrebbe cambiato i destini del mondo, quel comunismo che nel ‘900 rovinò la vita a popoli interi.
Alla sua famiglia riservò una vita di stenti: più di un figlio morì di malattie e denutrizione. Un’esistenza misera, piena di debiti, una vita a scrocco di Engels, che passava a Marx tre quarti del suo stipendio, e una volta per lui addirittura rubò. Engels gli trovava editori per libri che Marx non consegnava mai (Il Capitale ci mise 23 anni a scriverlo).
Marx fece fallire quasi tutti i giornali cui collaborava o che avevano la sventura di finire sotto la sua direzione. Fogli finanziati da quei borghesi tanto disprezzati, ma che coi loro soldi gli hanno sempre permesso di portare avanti le sue idee. Il suo non era disprezzo, ma rancore per non essere come loro.
Marx parlava male le lingue, il suo accento tedesco era insopportabile e insopprimibile, nemmeno il suo aspetto fisico affascinava: accurate biografie parlano della sua barba ispida e mal curata, del suo odore sgradevole, i suoi modi aspri e aggressivi, le sue unghie lunghe e nere. L’amico dei proletari non era invitato nei lussuosi salotti parigini, e se ne rodeva. I Marx avevano una domestica, Lenchen, che dormiva in un cantuccio nello studio del gran pensatore.
Marx non la pagava ma se la scopava (lo facevano pure per strada). Quando Lenchen rimase incinta Marx, terrorizzato della reazione di Jenny, piagnucolò soldi e aiuto da Engels, il quale accettò di riconoscere lui il bambino e di prendersi in casa Lenchen, pur di salvare il matrimonio al suo amico. Engels gli si ribellò una volta sola, quando rimase vedovo e Marx, invece di confortarlo, gli chiese soldi per comprare un paio di scarpe. Engels s’incazzò, ma gli diede lo stesso 5 sterline.
Marx sosteneva che tutto è determinato dall’economia, anche il sesso, i sentimenti, le passioni: per le sue necessità, lui usava i soldi degli altri. Marx andava avanti a furia di prestiti pur di non mettersi a lavorare per mantenere la sua famiglia: a Londra il poco che avevano finì pignorato. Buttati fuori da ogni tugurio di cui non pagavano l’affitto, alla loro porta bussavano i creditori che Marx chiamava avidi borghesi, ed erano macellai, lattai, farmacisti, gente che viveva di onesto e duro lavoro, quello che Marx non ha mai conosciuto, semmai schifato.
Marx non aveva rapporti con la famiglia d’origine, ma era contento quando un parente moriva e gli lasciava qualche eredità. Rivide sua madre dopo 20 anni e solo per chiederle soldi: la donna rifiutò e Marx ci litigò a morte. Si fece di ogni amico un nemico, scrivendo su chi aveva successo articoli rosari di insulti. Il filosofo Moses Hess, che aveva organizzato collette per aiutarlo, negli scritti di Marx è solo il marito di una prostituta che gli ha attaccato la gonorrea, e altri sono denigrati come pazzi sifilitici per identici motivi. Marx metteva in giro fake-news di sua invenzione per colpire chi era migliore di lui. Invidioso marcio, gli lanciava contro le più infami calunnie.
Marx da ragazzo voleva fare il poeta, non c’era riuscito, per questo odiava gli scrittori affermati e gioiva delle loro disgrazie: come fu contento quando Ferdinand Lassalle venne sfidato a duello e ucciso dal marito della donna che si era portato a letto!
Lassalle morto non poteva più scrivere libri migliori di Marx, non gli intralciava più il comando della causa comunista, soprattutto era uno a cui non doveva più soldi. Marx non perse mai l’amicizia di Engels, il quale assicurò la dote alle figlie di Marx: il padre coi soldi altrui si sentì in dovere di garantirgli “vantaggiosi matrimoni, perché una vita proletaria non fa certo per loro”. Tussi e Laura Marx, sposate a uomini ricchissimi i cui soldi mantennero lo stesso Marx, morirono suicide, disperate per tutte le corna ricevute dai loro mariti.
Andare a letto con Marx doveva essere un vero sacrificio. Si lavava poco, l’igiene gli era sconosciuta. Ferdinand von Westphalen, suo cognato e ministro degli interni di Bismark, gli mise alla calcagna un agente segreto, che stilò questo bel ritrattino: “Uomo disordinato, per Karl Marx lavarsi, prendersi cura della sua persona, cambiare la biancheria, sono eventi piuttosto rari. Spesso è ubriaco, dorme tutto il giorno vestito sul sofà, incurante di tutto”.
Ha ragione Montanelli: cosa non ha detto e scritto Karl Marx? Tutto e il contrario di tutto, tranne la giusta profezia di un fatto storico che si sia poi realizzato. L’era capitalistica finirà con l’esaurimento dei mezzi di produzione che l’hanno determinata, questa e altre cazzate Marx le sosteneva più d’un secolo e mezzo fa, e stiamo ancora aspettando il sol dell’avvenire, l’abolizione della proprietà privata e tutto il potere al popolo, per un’insensata società di individui tutti uguali, immobili come statuine del presepe, senza problemi, tantomeno sessuali, appagati da chissà quale felicità.
#KarlMarx
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stephaniievaccablog · 4 months
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Quest'anno mi ha fatto capire e imparare tante cose.
Molte amicizie possono mantenersi nonostante gli anni e nonostante la distanza.
Non conta da quanto tempo conosci una persona, quello che conta davvero è cosa ti ha lasciato dentro, fosse anche lo spazio di un attimo. Quell'attimo puo diventare l'inizio di una bella avventura o di un'amicizia che non finirá mai.
Quest'anno sto vivendo a pieno lamore dei miei genitori. Il sostegno di mia mamma che continua a darmi e anche quello di papà nonostante ogni tanto ci sono ricadute, ma si sa non è facile essere genitori e non siamo tutti perfetti.
Sto combattendo una battaglia grossissima, ma ho la fortuna di avere persone che mi vogliono veramente bene al mio fianco. Che mi sostengono e credono in me.
Molte volte sento che il mondo mi voglia schiacciare ma poi mi ricordo di tutta la bellezza che ho attorno.
E vero ,ho incontrato anche persone che hanno cercato di mttermi i bastoni tra le ruote.
Persone che hanno cercato di distruggermi.
Persone che hanno saputo solo usarmi per la mia bontá per arrivare a qualcuno, qualcosa o a
secondi fini.
Ma come dice Rocky Balboa "Il mondo non è tutto rosa e fiori, è davvero un postaccio misero e sporco, e per quanto tu forte possa essere se glielo permetti, ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre.
Nessuno può colpire duro come fa la vita, perciò andando avanti l'importante non è come colpisci ma come sai resistere ai colpi, come incassi, e se vai al tappeto hai la forza di rialzarti, così sei un vincente. E se credi di essere forte, lo devi dimostrare, perchè un uomo che già solo sa resistere non se ne va in giro a puntare il dito contro chi non c'entra, accusando questo e quell'altro di quanto sbagliano, i vigliacchi fanno cosi e tu non lo sei, non lo sei affatto!
Ma finchè non avrai fiducia in te stesso, la tua non sarà vita."
Ho anche imparato che famiglia non é solo quella di sanguinia. Ma famiglia possono essere le persone piú vere che hai vicino.
Ho rafforzato alcuni rapporti famigliari e alcuni gli ho chiusi ma sono contenta cosi .
La fine dell'anno mi ha segnato profondamente,mia nonna voltata in cielo il 24/11 mi ha lasciato un vuoto immenso. Ma posso dire che la lezioni d'amore, di vita e di tutto le ho imparate bene.
Tutto ció che mi ha insegnato lo perteró sempre con me ,testa e cuoricino.
Ragazzi imparate ad aprezzare tutti i piccoli gesti che le persone fanno, imparate ad aprezzare tutte le cose (anche se magari piccole) che la vita vi offre.
"La mia forza mi appartiene, me la sono meritata.
L'ho pagata ogni volta che ho scelto di difendere il valore delle cose, la sostanza, non la convenienza."
Alla fine di tutto ció sono grata delle persone che ho incontrato e che ci sono e sono sempre
rimaste
Vi voglio bene
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der-papero · 1 year
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Chissà le persone come fanno a capire quando è il momento di colpire.
La mia diventa sempre più una curiosità, visto che adesso il mio ematoma è diventato talmente duro da comportare giusto un fastidio che un vero e proprio dolore di giorni, quindi prende il sopravvento la mia innata voglia di comprendere. Cioè, si capisce? E se sì, da cosa?
Del tipo, è calcolato, uno si apre e l'altra persona pensa "ecco, si sta aprendo, adesso è il momento!"? Oppure è istintivo? È magari unidirezionale, perché il mondo si divide tra quelli che le prendono e quelli che le danno?
Non so, vorrei capire i segreti di questa favolosa abilità, per poi dire a cuore sincero nun me ne fott 'nu cazz, perché francamente parlando fare il pugile non è proprio in cima alle mie aspettative di vita.
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unastanza · 1 year
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Il profumo degli ulivi a mezzanotte
Se solo avessi qualcosa con cui colpirla.
Forse dovrei allungarmi oltre il bordo del letto, a tastoni cercare la mia ciabatta, afferrarla e poi colpire duro, scagliarla, veloce come un dardo.
Ma rischierei di fare troppo rumore.
Vorrei davvero ridurla in brandelli, in pezzetti miseri, sparsi in giro per la camera da letto.
Rido di me stesso, di questa mia piccola, temporanea pazzia.
Opto per la decisione più equilibrata da vari punti di vista: mi alzo, a piedi scalzi mi avvicino a lei, la afferro e con mani capaci, abili, dalle lunga dita scure, la scuoto - odiosa. La giro, le tolgo le pile.
Ha smesso. Finalmente.
Tiro un sospiro di sollievo.
Le lancette della sveglia sono ferme a mezzanotte in punto; lo saranno per un bel po’, almeno fino a domani mattina.
Il suo preciso ticchettare mi dava ai nervi. Non aiuta la mia insonnia, anzi, ne aumenta il passo, ne scandisce la portata, l’aggrava e la dilata. La sforma, la scassa. Non è altro che lo scorrere incontrovertibile dei minuti e delle ore che non sto sfruttando, che mi tengono immobile, incapace, impotente.
A 34 anni, certe cose le senti di più. Non sei un vecchio, non sei un ragazzo, sei semplicemente più annoiato e più percettivo del solito.
Ho una teoria secondo la quale più si invecchia, più percepiamo gli stimoli esterni. La nostra corazza giovanile, che ci rende spietati e senza remore, si ammorbidisce; da acqua che penetra diventiamo spugna che assorbe. Lanterne per falene, elettricità pura nella gabbia di Tesla.
Me ne torno a letto. Un sospiro alla mia destra. Si è svegliato.
«Di nuovo la sveglia?» dice, la voce impastata dal sonno.
«Cos’altro, se no?»
«Marco» mi rimprovera.
«Lo so, lo so, Luigi.»
«Vai a fare due passi, fammi dormire.»
Si volta dall’altra parte, disteso su un fianco alza il ginocchio, quello sinistro, e nella sua posizione preferita per sonnecchiare, mi ignora e si addormenta. È incredibilmente svelto ad addormentarsi, quasi lo invidio e lo detesto.
Rimango di nuovo da solo.
Decido che andare a fare due passi non è poi il male peggiore, tanto più che ormai la camera da letto mi sembra solo una gabbia, si riduce e si stringe, collassa su se stessa, inglobandomi.
Il russare di Luigi che si beffa della mia insonnia.
Decisamente meglio fuori.
Così vado in bagno, rinfresco il viso. Per un attimo, mi guardo allo specchio. Le occhiaie, la barba incolta, qualche filo bianco tra i capelli che negli uomini della mia età è già diventato calvizie.
Tutto sommato, non mi è andata male.
Indosso il cappotto sopra il pigiama, le scarpe da ginnastica; una volta fuori, l’odore e la freschezza pungente della campagna pugliese mi investe il viso, mi rinvigorisce.
Un pipistrello vola in picchiata, sfreccia nella sua minuscola figura spettrale, un’ombra nera che si dilata nel raggio della torcia dello smartphone. Una fugace visione, sparisce poi tra gli alberi.
Ho percorso il vialetto che dal casolare porta al paesino centinaia di volte. Da quando ci siamo trasferiti qui, per gestire l’azienda di famiglia di Luigi – un oleificio abbastanza redditizio che conta oltre ottanta dipendenti – ho percorso questa stradina sterrata alla continua ricerca di ispirazione per la mia carriera, ormai morente.
Mi sono trascinato fin qui la carcassa già parzialmente sventrata del mio fallito destino da scrittore, alla ricerca di un posto dove seppellirla.
Avanzo tra gli ulivi, assopiti nel gelo invernale, le piccole foglie pallide, cullate dalla calma notturna.
Questi ritagli solitari mi piacciono, piccoli scampoli di tempo sbiadito che strappo alla solita routine.
Dover gestire l’azienda di famiglia dopo la scomparsa del padre di Luigi, mi porta via energie che non credevo neanche di possedere.
Sempre assorto tra conti, persone, scadenze, fornitori, spremiture biennali da programmare, raccolta di olive.
Mentre qui, tra gli alberi, sono senza preoccupazioni. Senza numeri in testa, piacevolmente svuotato, privo di caos.
Le scarpe scricchiolano sull’acciottolato, cammino tenendomi a lato strada, il fascio di luce proiettato davanti a me. Raggiungo il bivio che a destra porta in paese, e a sinistra conduce verso altri, immensi campi, arati, destinati all'agricoltura.
Proseguo verso destra. Le prime villette isolate spuntano dal terreno come funghi di cemento e sabbia un po’ troppo cresciuti; i muri a buccia d’arancia intonacati di bianco, sporco al livello delle grondaie e delle inferriate sulle porte e finestre chiuse. Buchi scuri nell’oscurità. Case tutte uguali, di grandezza uguale, a tre piani, giardino, cortile, garage. La copia di una copia, il destino di un paesino sperduto in una cava erbosa.
Qualche metro più avanti, i primi lampioni mi indicano la via, così spengo la torcia.
I miei passi non si arrestano, raggiungono la prima fermata del bus, proprio davanti il piccolo negozio di alimentari del paese, tra un ferramenta dall’insegna sbiadita – non è necessario cambiarla, qui tutti conoscono tutti – e la macelleria qualche metro più indietro.
Sotto, con il peso spostato sul piede sinistro, la sagoma di un uomo in trench grigio, alto e magro. L’ombra di quello che sembra uno sformato borsalino nero gli cela parte del viso.
Per un vizio tutto italiano, lo saluto con un piccolo cenno del capo pur senza conoscerlo. Ricambia, lo supero, continuo a camminare. Sento i suoi occhi sulla mia schiena, voglio voltarmi, ma è notte fonda, i pericoli loschi sono in agguato, pronti a balzare come le fiere delle savane africane. Meglio di no, meglio non giocare troppo con gli sguardi.
L’aria è silenziosa ed immobile, abbandonata a se stessa, arresa nel notturno grigiore dell’inverno.
Non un latrato di animali, non un fruscio di ali minuscole.
Tutto è immobile, tutto è statico, fermo, come bloccato.
Il forte profumo degli ulivi permea ogni cosa. Ulivi che, intorpiditi, istupiditi ma vivi, respirano. Ulivi sgualciti e striminziti dal gelido rigore, che resistono sulle colline che abbracciano il paesino, nelle vallate che lo sorreggono, nelle pianure, nei campi.
Profumo intenso, fresca spremitura.
Sono al centro del paese, nel suo punto più sviluppato, e l’odore degli ulivi non è mai stato così presente, così arrogante.
È un odore sbagliato, nel posto sbagliato.
Come sbagliata è la nebbiolina azzurra che mi avviluppa, che delicatamente mi avvolge.
Per un breve, intenso momento, penso di avere le traveggole; l’insonnia allucinatoria gioca con me.
Forse mi sono addormentato e sto sognando?
Mi do un pizzicotto sul fianco destro, mordo l’interno del mio braccio, sento dolore, sono sveglio e sono vigile e sono qui.
La nebbia mi intorpidisce gli arti. Sono leggero, sono forma, sono slegato dall’infernale materia di carne e muscoli che mi compone, che mi tiene legato alla terra, come un’appendice distorta e fragile.
Sarebbe così facile adesso spiccare il volo; con un balzo, con un salto, arrivare in alto.
La foschia azzurrognola e profumata si spande, liquida, veloce, come inchiostro su carta. Abbasso lo sguardo, quasi ne fossi io la fonte, parte dai miei piedi e si allarga sulle panchine della piazzetta, sulle aiuole secche e morte che la fiancheggiano; sull’insegna sbiadita, sulle case basse e – a differenza delle loro sorelle villette – tutte diverse, tutte colorate. Si alza verso l’alto, un muro lattiginoso e freddo, che penetro di passo in passo. Cammino lentamente, senza conoscere la mia destinazione, e l’azzurro si fa più intenso.
Mi accorgo del silenzio. È tutto troppo silenzioso. Le orecchie tappate, ovattate, di testa che galleggia sott’acqua.
Percepisco lo scorrere del sangue nelle mie stesse vene, il tumultuoso ruscello cremisi che mi tiene vivo dall’interno. Il cuore che pompa, una macchina perfetta, a ritmi regolari ma forti.
Solo questo, solo la consapevolezza del mio corpo, e nient’altro.
Poi, d’improvviso, una voce roca, baritona, si spinge fin dentro il mio bozzolo. Lo sbriciola. Mi scuote.
Anche questo è sbagliato.
«Ti stavo aspettando», dice.
Mi volto, è da lì che proviene la voce, dalle mie spalle. L’uomo in trench e borsalino sta di fronte a me, incredibilmente alto, gli arti superiori ed inferiori lunghi e sottili. Non mi ero accorto della sua figura slanciata da gigante, prima.
Devo alzare il viso per potergli parlare, per poterlo vedere.
Le domande inciampano sulla lingua, le cose che vorrei dirgli seguono un flusso per me impossibile da arginare e tenere a bada.
Sono intorpidito, raggelato, un corpo immobile.
«Lei stava aspettando me?» è l’unica frase di senso compiuto che riesco a pronunciare, a fatica, con il fiatone.
Annuisce e un sorriso storto, obliquo gli piega in due il viso. Sotto l’ombra del borsalino, il suo naso è stretto e lungo, quasi fosse un becco; mentre la bocca è sprovvista di labbra: al loro posto, due cicatrici giallastre, spesse e rugose, lasciano intravedere i denti regolari e bianchi.
«Devo mostrarti una cosa.»
Attraverso lo spesso strato di nebbia azzurra che vortica attorno, mi offre la sua mano: un invito a seguirlo, a fidarmi di lui.
L’istinto di sopravvivenza e la repulsione nei confronti del mio strambo interlocutore, rompono l’incantesimo in cui mi trovo.
Il torpore abbandona il mio corpo.
Voglio tornare a casa, sono pronto per tornare a casa.
Faccio per superarlo, mi muovo, vedo i piedi marciare… eppure resto fermo qui.
Davanti a lui.
«Che cosa mi sta facendo?» la mia voce tradisce un certo nervosismo isterico. «Mi lasci andare!»
«Non sto facendo niente.»
Gli rivolgo un’occhiata rabbiosa. Ma, mio malgrado, è vero ciò che dice. Le sue mani sono sospese a mezz’aria, ancora in attesa riempiono lo spazio che ci divide. Non mi toccano. Non mi sfiorano neppure.
«Cosa mi sta succedendo? Non riesco a muovermi!» ripeto, come se la ripetizione stessa potesse aggiustare la situazione.
«Devo mostrarti una cosa.»
«Ma non riesco a muovermi!»
«Devo mostrarti una cosa.»
E poi, capisco. Sono queste, quindi, le condizioni? Riuscirò a muovermi soltanto se pronto a seguire la sua volontà?
Chi è l’uomo alto e lungo che sta condizionando i miei movimenti senza neppure toccarmi?
Mi domando, ancora una volta, se questo non sia un sogno; se non sia un paesaggio onirico, questo: la nebbia azzurra, il paese, il profumo degli ulivi, il gigante, tutto.
Mentalmente, cerco di riafferrare i lembi di questa realtà sgualcita. Ero sveglio quando ho indossato il cappotto e sono uscito in strada, di questo sono sicuro. Ero sveglio quando ho scelto se svoltare a destra o verso sinistra. Ero sveglio quando l’ho incontrato la prima volta.
Ero sveglio, sono sveglio.
Lo so, lo sento.
Ma allora cosa mi succede?
Seguire l’uomo in trench e borsalino sarebbe da pazzi.
Rimanere qui – il tempo che scorre lento, ogni secondo prolungato – è impossibile.
Mi fanno male le gambe, le braccia, il mio intero corpo è tramortito.
«No» sussurro.
Faccio per muovere un piede, e quasi mi sembra di riuscirci.
Esulto troppo presto.
Con una sferzata di mano, facendo schioccare le dita mostrandomene il dorso, l’uomo mi blocca, ancora una volta.
«Non funziona così» ridacchia, una risata grottesca, di unghie che grattano sulla lavagna, sulla lavagna nera e rigata della mia scuola elementare.
Mi rivedo, piccolo, sfocato, le gambette arcuate al centro, i calzoni marroni macchiati, non ricordo di cosa.
Un’antica consapevolezza si sveglia dentro di me, un presentimento, un richiamo.
Sono nel cortile della scuola, nessuno vuole giocare con me, perché tutti preferiscono giocare col pallone, mentre io voglio disegnare. Disegno ogni cosa, alberi, cani, case, i miei compagni.
Sono linee sottili, rozze, volgari, di piccola mano inesperta; disarmonici bozzetti, sbuffi di matita, di colori, gomma che cancella male, che sporca, allunga i tratti della mia 2B.
Sfoglio le pagine, una dopo l’altra.
I disegni normali di un bambino normale.
E poi, all’ultima pagina, eccolo. Uno scarabocchio, un buco nero nella pagina bianca, i bordi frastagliati, irriconoscibile se non fosse per il piccolo dettaglio marrone. Un cappello, la bozza di un borsalino gonfio e sproporzionato.
È lui. Ci siamo già incontrati. Avrei dovuto ricordarmene, e invece mi ritrovo stupito e atterrito.
Come ho potuto dimenticarlo? Così alto, slanciato, nella scia dell’orribile inquietudine affannosa che lascia dietro di sé.
Avrei dovuto ricordarmi dell’orrore, implicito nella sua forma.
Lo sento di nuovo, l’odore forte dell’olio, degli ulivi. Strofino un ditino sulla pagina, lo porto al naso.
Niente.
È un odore fantasma; me lo immagino, o forse bisogna essere fortunati per coglierne l’improvvisa, passeggera, effimera presenza.
Sono fortunato, penso questo di me, mentre richiudo il mio blocco dei disegni sgualcito e puntellato di sbavature e di colori.
Sono fortunato: riesco a sentirlo, riesco a sentire l’odore.
Ritorno al presente, la pura nebulosa del passato si accartoccia su se stessa, svanisce in un rapido lampo di luce, e sono di nuovo nell’oscurità, nella foschia azzurra, contemporaneamente spettatore e protagonista.
«Ci siamo già visti?»
Alla mia domanda, l’uomo in trench grigio e borsalino marrone annuisce, soddisfatto; le cicatrici sul viso si allargano, la pelle bianca tesa, schiumosa.
«Non lo ricordavo.»
«Quasi nessuno lo ricorda» raschia la sua voce, roca; «coloro che ricordano, impazziscono. Li chiamate pazzi.»
Tento di fissare un punto nello spazio e nel tempo, per ricordare meglio. Dentro di me, sento riaffiorare un ricordo che credevo di aver sepolto, che il mio animo terrorizzato da bambino aveva seppellito in profondità, dentro il mio subconscio atterrito, avvilito.
Di nuovo, l’uomo schiocca le dita; di nuovo, il suo sorriso cicatrizzato e purulento.
Le mie gambette piccole, storte; il profilo di mio padre che si accascia in cucina, sulle costolette unte e grasse della cena; l’uomo dietro la finestra, stesso cappello, ancora più grande, altissimo; il messaggero della morte.
Un susseguirsi di schiocchi, scatti e visioni; la pellicola del mio film che si srotola, diapositiva dopo diapositiva.
Ogni dolore, ogni sofferenza, e lui come costante.
In bella vista, palese, eppure dimenticato, di volta in volta; un rituale morboso e macabro che si ripete.
Mio padre; mia madre e le sue malattie che l’hanno consumata e scarnificata, prosciugata dall’interno, secca, svuotata; il padre di Luigi, una mattina d’agosto, impensabile, le lamiere di un auto che lo attraversano da parte a parte, scomposto, disordinato ammasso di carne, ossa sull’asfalto.
Sempre lui, sempre dimenticato.
Lo dimenticherò anche questa volta?
La risposta è ovvia, com’è ovvio il motivo per cui è qui.
Eccola, la realizzazione. Mi sale addosso in spilli che mi pungono le gambe, le dita; un brulicare sotto pelle che mi atterrisce.
Tremo.
«Perchè sei qui?» chiedo. So già la risposta, ma voglio sentirla. Sperare che sia falsa, prepararmi al disastro qualora fosse il contrario.
«Sta succedendo di nuovo.»
«Chi?»
Due dita, uno schiocco, nebbia azzurra.
Una macchia indistinta nell’erba, rosso brillante nella grigiastra luce dell’inverno. Si raggruma, ancora calda, ribolle da sotto il panciuto gonfiore pallido di un ragazzo – no, un uomo! - dai capelli bruni e gli occhi cerulei, rimasti spalancati nell’immobilità della morte.
Lo riconosco, ma faccio fatica ad accettarlo. Voglio che finisca, voglio smettere di guardare, ma non importa quanto io distolga lo sguardo: non smette. È ovunque, sta succedendo ora, è attorno a me, dietro, davanti, da ogni lato mi perseguita. La morte e il suo sorriso sbilenco, cicatrizzato.
«Fallo smettere, ti prego», rantolo, appena un sussurro.
«È per questo che dimenticano. Non sopportano il peso.»
Uno schiocco. L’ultimo.
Oblio.
Sono in paese e non so perché. Torno a casa, svelto, a passo febbrile, spaventato, e non so perché.
Sono a casa, sono sempre stato qui, anche se una parte di me è convinta del contrario.
Sono davanti alla porta, e non so perché.
La notte sta svanendo fuori dalle finestre, l’arancione dell’alba fa capolino tra gli alberi.
Mi guardo attorno, spaesato, spodestato di una convinzione, dimentico di qualcosa di importante, ma non so cosa.
Sconfitto. Sopraffatto.
Sono stanco, veramente stanco, vorrei solo dormire.
«Che ci fai lì imbambolato?»
«Volevo uscire» mento, senza una ragione precisa. Sento di dover mentire, nascondere ciò che neppure rimembro.
«Ma sei stato fuori tutta la notte.»
Preoccupazione nella sua voce.
«Mi hai detto tu di fare due passi.»
Questo lo ricordo. Ma dopo? Cos’è successo dopo?
Mi guarda fisso, gli occhi cisposi, i capelli disordinati, il pigiama sghembo sul petto e sui polpacci ben definiti, muscolosi. «Devo preoccuparmi? Dovrei forse essere geloso?» ridacchia.
«Ho fatto solo due passi, ho perso la cognizione del tempo, tutto qui.»
Liquido la questione con un bacio sulla bocca, il sapore caldo e acre del primo mattino stampato sulle sue labbra.
«Cosa ti succede?» insiste, non desiste. «Sembri molto stanco.»
«Lo sono.»
«Vai a dormire.»
Sì. Penso che lo farò.
Una telefonata mi sveglia.
Sono le tre del pomeriggio, ed io rispondo con estremo disagio.
Poche parole, un’informazione lacerante che arriva alle mie orecchie, che percepisco con incredula rassegnazione.
Quasi come se una parte di me lo stesse aspettando.
La stesse aspettando.
Quando arrivo sul posto, faccio fatica a camminare. Le gambe sono immerse in un fango fantasma, la melma della paura che avviluppa le anche e le caviglie.
Una macchia indistinta nell’erba, brillante, rossa.
Capelli bruni, occhi cerulei.
Luigi.
Ferito a morte da un attrezzo agricolo, una grossa bestia di metallo che lo ha tranciato, diviso; gli ha maciullato il ventre, le interiora sparse sulla paglia secca ai piedi degli ulivi.
Vomito, cado a terra, mi odio: non mi piacciono queste scenate.
Al funerale partecipano in tanti: odio anche questo.
Voglio rimanere solo, voglio restare solo.
Il senso di colpa che mi assale è tremendo e forse anche stupido, ma non posso fare a meno di pensarci: se fossi andato io al suo posto? Se non avessi dormito tutto il giorno, se gli fossi rimasto accanto nel letto la notte precedente?
È colpa mia.
Sono molte le persone che mi salutano, solenni, che offrono rispetti e condoglianze alla madre di Luigi – da oggi in poi saremo solo io e lei. E lo vedo arrivare, uno sconosciuto, lontano eppure familiare, in qualche modo.
L’ho già incontrato, non ricordo dove, le circostanze, ma la certezza è vera, ed è confermata dal sorriso storto, cicatrizzato, secco. Trench e borsalino, altissimo, sovrasta tutti.
Contenuto nel cielo, più grande di esso.
Incombe, imperturbabile.
«È successo di nuovo» dice, un bisbiglio, blando, posso udirlo solo io.
Lo guardo spaventato, confuso, troppo stanco, troppo in pena, immerso nel dolore che è solo mio, il dolore di aver perso la mia parte preferita mentre io dormivo come un cazzone, per chiedergli spiegazioni, per interrogarlo sul senso delle sue parole sinistre, troppo spento per fregarmene poi effettivamente qualcosa.
Se ne va con passo zoppo, claudicante.
L’auto scura procede, con il feretro di Luigi dentro, chiuso. Lui sempre così claustrofobico, con l’amore e la necessità viscerale per gli spazi aperti, per i suoi ulivi, per sua madre, ora costretto, sigillato, tumulato dietro un lastrone di pietra fredda.
Un nome qualunque, due date qualunque, nascita e morte, una foto qualunque, che col tempo sbiadirà, darà al mio Luigi falsi connotati, ne sgranerà gli angoli, i suoi occhi cerulei saranno privi di colori, di profondità, due buchi inespressivi che non renderanno giustizia alla forte potenza del suo sguardo; mentre il suo corpo, da dentro, si svuoterà, si gonfierà, liquidi e miasmi coleranno attraverso il legno e nessuno lo noterà.
È tutta colpa mia. Non è delirio di onnipotenza, non è credermi migliore, non è credermi forte come la morte, come il fato: è semplice realizzazione.
È colpa mia, ne ho preso atto.
Dormivo, sognavo, ero stanco. Lui moriva.
Sarebbe successo comunque, mi dico. È poco conforto.
«Sarebbe successo comunque», mi dice.
È lui, l’uomo in trench e borsalino, dietro di me, non ho bisogno di voltarmi per capirlo.
Il profumo degli ulivi della valle lontana, casa ed essenza di Luigi, è forte, giunge fino a qui, nel cimitero. È fuori luogo, è strano, amaro.
L’ho già sentito, non ricordo dove. È come assaggiare qualcosa di nuovo per la prima volta, e riscoprire poi con il primo boccone un sapore familiare, qualcosa già mangiato, già sperimentato.
La memoria della bocca, delle papille gustative, la memoria dell’olfatto.
«Già. Sarebbe successo comunque. Ma forse sarebbe stato meglio se non fosse successo niente.»
Sorride, sguincio, sfuggente, un viso difficile da afferrare, da capire. Disarmonico e violento, rassicurante e raccapricciante.
Mi volto e non c’è più. L’odore è sparito, ogni cosa è al proprio posto.
Tranne me. Tranne Luigi.
Sono sicuro che lo rivedrò, in trench e borsalino.
Sorriso sghembo e cicatrici.
Lo rivedrò.
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“È un periodo duro, Lloyd”
“Questo è un problema se ci si fa colpire, ma un’opportunità se lo si sa scolpire”
“Dipende da come lo si prende, Lloyd...”
“Per l'occasione, suggerirei ad artistiche martellate, sir”
“Un pensiero ben cesellato, Lloyd”
“Molto gentile, sir."
[Di Lloyd, di sir e di un viaggio a Taranto per vederci tutti insieme]
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fiammarock · 2 years
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Hai permesso al primo fesso che arrivava di farti dire che non eri bravo. Sono cresciute le difficoltà, ti sei messo alla ricerca del colpevole e l'hai trovato in un'ombra... Ora ti dirò una cosa scontata: guarda che il mondo non è tutto rose e fiori, è davvero un postaccio misero e sporco e per quanto forte tu possa essere, se glielo permetti ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre. Né io, né tu, nessuno può colpire duro come fa la vita, perciò andando avanti non è importante come colpisci, l'importante è come sai resistere ai colpi, come incassi e se finisci al tappeto hai la forza di rialzarti... così sei un vincente!
Tratto dal film Rocky
Ma si applica in ogni situazione della nostra vita... consapevoli di questo mondo che a volte ci mette a "tappeto"... ma cerchiamo di avere la forza di rialzarci sempre 💪🔥
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.... come una fenice... 😉🔥
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anaromantico · 2 years
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“È un periodo duro, Lloyd”
“Questo è un problema se ci si fa colpire, ma un’opportunità se lo si sa scolpire”
“Dipende da come lo si prende, Lloyd...”
“Per l'occasione, suggerirei ad artistiche martellate, sir”
“Un pensiero ben cesellato, Lloyd”
“Molto gentile, sir."
[Di Lloyd, di sir e di un viaggio a Taranto per vederci tutti insieme]
🦖
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cinquecolonnemagazine · 2 months
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Il Gianduiotto di Torino diventerà IGP?
Riuscirà il Gianduiotto di Torino a diventare un prodotto IGP? La strada è lunga e non priva di ostacoli. Al momento uno dei principali veti è stato abbattuto e la macchina della burocrazia può riprendere il suo percorso. Oggi vi parliamo di una delle prelibatezze del nostro Paese, il Gianduiotto, che da quasi 160 anni mette d'accordo tutti i palati. Napoleone e Michele Prochet Quando nel 1806 Napoleone impose il blocco continentale, il suo scopo non era solo render pan per focaccia alla Gran Bretagna, sua acerrima nemica, ma anche colpire la sua economia. L'imperatore di Francia sembrò non considerare, però, il dettaglio che a risentire di tale blocco sarebbero stati anche i Paesi al di qua della Manica. In Italia, all'epoca, la passione per il cioccolato era già diventata irrefrenabile e le quantità di cacao, che arrivavano in Europa proprio grazie alle navi bloccate, iniziavano a diminuire sempre di più e a costare sempre più care. Fu così che il maître chocolatier Michele Prochet ebbe l'idea di creare un impasto con cacao, zucchero e nocciole. La tonda gentile è una variante di nocciola tipica del Piemonte; gli oli presenti nel frutto consentono la creazione di una crema una volta tritato. La crema di nocciola unita a cacao e zucchero ha dato vita alla pasta gianduia, un'eccellenza del Piemonte. Da qui il passo per la nascita del gianduiotto, il primo cioccolatino confezionato singolarmente, fu davvero breve. All'epoca venivano tagliati a mano mentre oggi, per ottenere l'originale forma a barchetta rovesciata, si utilizzano due tecniche: l'estrusione e il colaggio. L'estrusione prevede che l'impasto coli su piastre e l'utilizzo di macchine progettate ad hoc che permettono di produrre un cioccolatino dalla giusta consistenza. Il colaggio, invece, che si serve di appositi stampi, vuole un impasto più duro. Il primo gianduiotto fu prodotto, nel 1865, con la ricetta di Prochet, dall'industria dolciaria Caffarel, nello stabilimento torinese di Borgo San Donato. Fu presentato in occasione del Carnevale associato a Gianduia. La famosa maschera locale andò in giro per la città a distribuire i fantastici gianduiotti. Il Gianduiotto di Torino: un simbolo della città da tutelare e valorizzare Le cronache ci raccontano che l'alleanza tra Prochet e la Caffarel portò il celebre maître chocolatier a essere via via dimenticato mentre l'industria dolciaria, che ha regolarmente depositato il marchio “Gianduia 1865. L’autentico gianduiotto di Torino”, è tuttora l'unica autorizzata a riproporre la maschera di Gianduia sugli incarti. La storia ci dice anche che nel 1997, la Caffarel è stata acquisita dalla casa dolciaria Lindt & Sprüngli che oggi produce gli iconici cioccolatini torinesi su scala industriale. Nel 2017 nasce a Torino il Comitato del Giandujotto di Torino Igp. L'obiettivo è quello di ottenere l'Indicazione geografica protetta riconosciuta dall'Unione europea per i prodotti d'eccellenza la cui produzione è legata al territorio sia per le materie utilizzate sia per il luogo di lavorazione. L'iter è presto iniziato: viene fatta regolare richiesta alla Regione Piemonte che accetta e la presenta a sua volta al ministero dell'Agricoltura. Il sì del ministero avvia le consultazioni tra tutti gli attori in gioco: associazioni di categoria e produttori. Tra questi c'è anche la Caffarel, o meglio la Lindt, che ha opposto non poche remore sull'eventuale riconoscimento. Caffarel vs Comitato: pace fatta? L'azienda, inventrice del cioccolatino, temeva, infatti, che il marchio "Gianduiotto di Torino IGP" avrebbe oscurato quello di cui si fregiano da quasi 160 anni: "Gianduia 1865. L’autentico gianduiotto di Torino". In più, aveva proposto di modificare la ricetta introducendo il latte in polvere (largamente utilizzato nel settore) e riducendo la percentuale di nocciole dal 30% al 28%. Proposta, neanche a dirlo, rigettata. Dopo mesi di diatribe, che erano arrivate fino in Europa, il Comitato e la Lindt sono giunti a un accordo. La Lindt potrà continuare a produrre i suoi gianduiotti utilizzando lo storico marchio e la ricetta personale. Di contro gli artigiani utilizzeranno la ricetta originale e, quando il marchio IGP sarà riconosciuto, potranno inserirlo. Cosa, quest'ultima, che invece sarà negata alla Lindt. L'accordo, che ha bisogno di ulteriori limature, se non altro, ha sbloccato l'iter per la richiesta del riconoscimento che ora andrà al ministero dell'Agricoltura e della Sovranità Alimentare e poi alla Commissione Europea. Read the full article
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olitaly · 3 months
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lamilanomagazine · 4 months
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Boxe, Francesco Paparo batte Andrea Sito entusiasmando il pubblico di Milano
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Boxe, Francesco Paparo batte Andrea Sito entusiasmando il pubblico di Milano. Venerdì 15 dicembre, allo storico PalaLido-Allianz Cloud a Milano, l'ex campione d'Italia Under 22 di Boxe Francesco Paparo ha superato ai punti Andrea Sito al termine di sei spettacolari riprese che hanno entusiasmato il pubblico milanese, accorso numeroso alla manifestazione The Art of Fighting 4. «È stato un match duro, come ci aspettavamo - ha commentato Francis Rizzo, fondatore del Francis Boxing Team di Rho nonché allenatore di Paparo (che è anche suo nipote) – perché Andrea Sito è un ottimo pugile e lo ha dimostrato anche all'Allianz Cloud combattendo per vincere fino all'ultimo secondo. Nello scambio finale, a pochi secondi dal suono del gong ha centrato Francesco alla mascella e quest'ultimo ha assorbito agevolmente il pugno dimostrando di possedere anche doti di incassatore». Ora il record professionistico di Francesco Paparo è di 6 vittorie e 1 pari, mentre quello di Andrea Sito è di 7 vittorie, 3 sconfitte e 3 pari. All'Allianz Cloud era presente anche l'ex campione del mondo dei pesi superpiuma WBO Kamel Bou Ali che ha commentato in questo modo la sfida tra Francesco Paparo ed Andrea Sito: «Francesco Paparo ha combattuto bene, ma ha tirato troppi ganci larghi che Andrea Sito vedeva arrivare. Paparo avrebbe dovuto usare più spesso il diretto ed il jab, stare più vicino a Sito, mettergli pressione. In ogni caso, Paparo ha meritato la vittoria». Durante il match, Paparo ha fatto sfoggio della sua abilità tecnica, che gli è valsa il soprannome di King Papachenko perché è simile a quella del fuoriclasse ucraino Vasily Lomachenko (campione olimpico e mondiale da professionista), ma ha fatto spaventare i suoi numerosi fans quando ha preso quel gancio alla mascella nello scambio finale. «Non darei troppa importanza a quel pugno – spiega Paparo – perché non è stato potente. Non avrei dovuto rischiare di farmi colpire accettando di scambiare pugni a viso aperto quando mancavano pochi secondi alla fine del combattimento, ma anche questo serve per fare esperienza». Grazie a questa vittoria, Francesco Paparo è più vicino al suo obiettivo di disputare un match per il titolo italiano. «Potrebbe combattere per il tricolore sia nei pesi leggeri che nei superpiuma – specifica Francis Rizzo – perché non ha problemi a scendere di peso. Decideremo in quale categoria combattere quando avremo un'offerta seria. L'avversario, chiunque sia, conta relativamente: Francesco ha talento, è motivato e dedica tutto il suo tempo libero alla boxe. Sono sicuro che diventerà campione d’Italia».... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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davidecitton · 5 months
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Il mondo non è tutto rose e fiori, è davvero un postaccio misero e sporco e per quanto forte tu possa essere se gli è lo permetti, ti mette in ginocchio e ti lascia senza niente per sempre. Ne io, ne tu, nessuno può colpire duro come fa la vita.
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enkeynetwork · 5 months
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bordoring · 5 months
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Bel ritorno di Rigoldi che batte Millan al termine di un gran match
Gran bel ritorno di Luca RIGOLDI (31-2-2) sul ring di Sarnico al limite dei pesi piuma. In palio il titolino WBC International. L'ex campione europeo dei pesi gallo e supergallo, senza ombra di dubbio tra i migliori pugili italiani dell'ultima decade, ha sconfitto il venezuelano Luis MILLAN (25-7) il quale, seppur arrivato in Italia da perfetto sconosciuto, tra le sedici corde si dimostrava invece avversario duro e difficile.
Il nostro partiva un pò contratto per poi sciogliersi e colpire d'anticipo un Millan che dava sensazione di mobilità e pugno pesante. Infatti il colombiano riusciva a frenare l'azione del pugile vicentino piazzando proprio diversi montanti al corpo apparsi abbastanza pesanti. Rigoldi, però, pur non possedendo il pugno da ko, è combattente preparato e, passata la buriana, grazie anche ai consigli del maestro Gino Freo, riusciva a colpire il venezuelano con serie a due mani sia sotto sia sopra nell'ultima parte del combattimento.
Così, nonostante Millan non sia arretrato di un centimetro, il verdetto, forse un pò troppo largo con 117-111 due volte e 116-112, dichiarava giustamente vincitore Rigoldi.
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alonewolfr · 6 months
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Essere pugile non significa soltanto colpire, ma, prima di tutto, imparare a ricevere i colpi. A incassare. A fare in modo che quei colpi facciano meno male possibile. La vita non è altro che un succedersi di round. Incassare, incassare. Tenere duro, non cedere. E colpire al posto giusto, nel momento giusto.
|| J. C. Izzo
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