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#il mestiere dello scrittore
ilmondodishioren · 1 year
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Pensieri da scrittore #12
Pensieri da scrittore #12
Ogni volta che vedo la foto di un tramonto sul mare, il mio pensiero e il mio cuore volano a Christopher ed Ann di Ritorno a Breuddwyd. Non vi nego che provo molta nostalgia nei confronti di questi personaggi e di tutto il mondo che ho faticosamente costruito intorno a loro. Breuddwyd non esiste se non nella mia testa e nel cuore di chi ha letto la mia storia e l’ha amata. Ma questo post non…
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gregor-samsung · 9 months
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“ Il dialetto gaddiano, il romanesco del Pasticciaccio tanto spesso avvicinato a quello pasoliniano, entra in un rapporto ludico complesso con la lingua, con i suoi differenti livelli, e nel gioco quello che conta è la scrittura, l'artificio della scrittura come suprema abilità di maneggiare (e magari di distruggere, ma dall'interno) il registro del simbolico, la comunicazione (e la tradizione) letteraria. Al contrario il romanesco pasoliniano vuole prima di tutto essere puro suono, nasce indifferente ai significati, esterno alla comunicazione, posto al servizio di un progetto di ipnosi, di trance. È un dialetto "brutto", rigorosamente privo di tensioni formali, tutto concentrato sulla propria noia. Se nei primi racconti di Alí l'artificio letterario tradizionale, inteso come abilità ed eccezionalità linguistica, era ancora ben presente, col dialetto dei romanzi passa in secondo piano e ci sembra di leggere semplici registrazioni vocali. La letterarietà dell'operazione si è spostata, ha cambiato scopo. L'« intervento dello scrittore in quanto tale »* non si indirizza piú al perfezionamento interno della scrittura, ad esibire gli artifici, le astute scelte, a molare e render "bello" il pezzo testuale; ma punta piuttosto all'effetto finale, pratico, del testo: non interessa la tenuta estetica ma il potenziale di fascinazione che il testo può produrre. Perciò i romanzi pasoliniani, nonostante le apparenze spesso alessandrine, possono anche mostrare rozzezze, e trascuratezze di scrittura. Il romanesco non è affatto un registro "d'arte", viene adottato e trascritto in una chiusa brutalità che lavora efficacemente come un suono addormentatore. Tale vistosa modifica della letterarietà testuale chiarisce le profonde differenze tra l'operazione dialettale romana e il precedente friulano. Nel Friuli il dialetto funzionava come metafora della dimensione immaginaria ma conservava tutti i segni "letterari" del gergo ermetico. L'immaginario era messo in gioco per via di metafora, proprio attraverso la strumentazione raffinata dell'artificio: la cantilena ipnotica del fantasma era prima di ogni altra cosa una scrittura, un'elaborazione testuale, e fingeva abilmente di essere il suo contrario, l'oralità liberata di un registro pre-linguistico. Ora invece l'esperimento pasoliniano è diverso, molto piú radicale. Ora il dialetto dei romanzi, appiattito nella ripetizione, è letteralmente quella oralità dell'immaginario. Se volessimo servirci di una sottile distinzione potremmo dire che il friulano era una « scrittura », il romanesco è invece una « trascrizione » del fantasma.** Certo, anche nel caso del romanesco il dialetto è prima di tutto linguaggio, quindi interno alla generale dimensione della comunicatività; ma Pasolini ne fa un uso così speciale, così limitato (fatto di formule, di indifferenza, quasi di cecità linguistica), che il salto dal dialetto-linguaggio al dialetto-fantasma è facilissimo. Il romanesco, così ridotto e impoverito, è una catena di significanti, senza semantica, e una tale catena non riesce neppure a localizzarsi come sistema di opposizioni, di simboli, di segnali riconoscibili e produttori di senso: insomma, il puro significante di questo dialetto non riesce a diventare organizzazione, griglia simbolica dentro la quale ordinare le cose. “
*Si veda la dichiarazione pasoliniana: « Per assumere nel romanzo il colloquio in dialetto occorre perciò un intervento dello scrittore in quanto tale molto piú accentuato e dichiarato che in una pagina scritta nell'italiano letterario ». Cfr. F. Camon, Il mestiere di scrittore, Milano, 1973, p. 107. **Ci serviamo di una distinzione enunciata da Lacan, a proposito dei suoi seminari, nella Postface a J. LACAN, Le séminaire livre Xl. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Paris 1969, pp. 251-254.
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Rinaldo Rinaldi, Pier Paolo Pasolini, Ugo Mursia Editore (collana Civiltà letteraria del Novecento - Profili N. 40), 1982¹; pp. 145-46.
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karenlojelo · 1 year
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IL MESTIERE DI SCRIVERE (2) Oriana Fallaci a tal proposito una volta invece ha detto: “Molti intellettuali credono che essere intellettuali significhi enunciare ideologie, o elaborarle, manipolarle, e poi sposarle per interpretare la vita secondo formule e verità assolute. Questo senza curarsi della realtà, dell’uomo, di loro stessi, cioè senza voler ammettere che essi stessi non sono fatti solo di cervello: hanno anche un cuore o qualcosa che assomiglia a un cuore, e un intestino e uno sfintere, quindi sentimenti e bisogni estranei all’intelligenza, non controllabili dall’intelligenza. Questi intellettuali non sono intelligenti, sono stupidi, e in ultima analisi non sono neanche intellettuali ma sacerdoti di una ideologia.” Aveva ragione Socrate a mio avviso: “saggio è colui che sa di non sapere”, nessuno di noi è in grado di scriver il libro perfetto, semplicemente perché non esiste, come non esiste una verità assoluta, tutto è assolutamente soggettivo, soggetto a gusti, mode, realtà sociali esistenti, stati d’animo e via discorrendo. Sicuramente però la dove c’è la propria verità, il proprio cuore molte persone possono ritrovarcisi. Ho selezionato alcune tra quelle che ritengo le più belle citazioni di Marcel Proust e a questo proposito ce n’è qualcuna che calza a pennello: Il libro essenziale, il solo libro vero, un grande scrittore non deve, nel senso corrente, inventarlo, poiché esiste già in ciascuno di noi, ma tradurlo. Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli di un traduttore. (da Il tempo ritrovato) Non si riceve la saggezza, bisogna scoprirla da sé, dopo un tragitto che nessuno può fare per noi, nè può risparmiarci, perché essa è una visuale sulle cose. (da Alla ricerca del tempo perduto) Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da Il tempo ritrovato)#karenlojelo #ioscrivo #scrivere #writing #scrittura #scritturacreativa #marcelproust #iltemporitrovato #citazioni #quotes (presso Every Where) https://www.instagram.com/p/CqZ0rKBoZzp/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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In Biblioteca puoi scoprire autori e opere che non conoscevi o di cui avevi sentito parlare ma che ancora non avevi avuto modo di leggere. Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare un angolo alla scoperta di questi "tesori nascosti".
Oggi l'opera prescelta è "Il paradiso degli orchi" di Daniel Pennac.
Il libro narra la storia di Benjamin Malaussène, che di mestiere fa il capro espiatorio, mansione per la quale viene strigliato dai clienti per oggetti malfunzionanti. Anche se il lavoro è molto duro, Benjamin è costretto a svolgerlo poiché ha una famiglia molto numerosa alle spalle: Louna, Clara, Thérèse, Jérémy, il Piccolo e il cane Julius. La famiglia Malaussène vive nel quartiere di Belleville, accanto a un ristorante arabo gestito dalla mamma adottiva della famiglia, Yasmina, e da tutta la sua famiglia. Infatti, la vera madre dei Malaussène è uno spirito libero e molto spesso scompare per lunghissimi periodi, tornando incinta e abbandonata dal suo ennesimo grande amore. La storia ha inizio quando, nel Grande Magazzino dove Benjamin lavora, inizia ad esplodere una serie di bombe. L'uomo viene subito sospettato a causa del suo lavoro e per la sua presenza nell'edificio ad ogni esplosione.
Nonostante tutti questi inconvenienti, Ben riesce sempre a tenere di buon umore i suoi fratelli raccontando loro delle storie del libro che egli stesso ha scritto. Un giorno, a sorpresa, sua sorella Clara spedisce questo libro a undici case editrici. Per scoprire chi sia realmente il colpevole dello scoppio delle bombe, Ben, con i suoi fratelli e Theo, iniziano ad indagare sul caso. Si viene a scoprire che, durante la seconda guerra mondiale, proprio nel Grande Magazzino erano stati uccisi dei bambini per mano di alcuni anziani che attualmente vi lavoravano, da qui il nome "orchi". Grande aiuto viene dato da una giornalista, Julie, la quale ben presto s'innamora della disastrata famiglia Malaussène e dello stesso Benjamin. Infatti, nel finale, riesce a scrivere un articolo sul mestiere del capro espiatorio e, dopo che Benjamin è stato allontanato e assunto presso una nuova agenzia, le Edizioni del Taglione, i due si metteranno insieme.
È Stefano Benni che dobbiamo ringraziare se nel 1991  Pennac sbarca in Italia con la fortunatissima saga di Malaussène. Benni legge Pennac, rimane affascinato dalla sua scrittura e lo propone a Feltrinelli. Oggi, nel retro della copertina del Paradiso degli orchi  troviamo la sua bellissima introduzione nella quale lo definisce “uno scrittore d’invenzione, un talento fuori dalle scuole”.
Il protagonista, Benjamin Malaussène, nel grande Magazzino, svolge una professione a dir poco singolare, il capro espiatorio; la sua mansione è quella di muovere a compassione i clienti furiosi che presentano i più svariati reclami. Trasformare la rabbia in clemenza, l’indignazione in commiserazione, ecco il vero lavoro di Benjamin. Il risultato? Il ritiro di ogni denuncia e reclamo da parte di ogni cliente inferocito. Questo stato di cose verrà appunto turbato dalle inaspettate, incomprensibili e ripetute esplosioni all’interno del Grande Magazzino. Gli ingredienti di una detective story ci sono tutti: cadaveri, indagini della polizia, indiziati, ma la contaminazione di generi fa sì che il noir si sposi con toni comici e ironici, con trovate intelligenti e leggere. Pennac mescola il crudo realismo con il magico. Le brutture che si stanno consumando al Grande Magazzino vengono trasfigurate e esorcizzate dai racconti che, la sera, Benjamin fa alla nutrita banda dei fratelli e delle sorelle. Il racconto e il raccontare spazzano via ogni genere di preoccupazione sulla proprio sorte, sulla realtà opprimente. Le esplosioni tragiche vengono viste attraverso una lente fantastica, giocosa e il tutto diventa un’avventura.
La presentazione dell’intreccio non rende giustizia al romanzo, la cui forza sta soprattutto nella straordinaria capacità narrativa dell’autore, nel ritmo veloce della sua narrazione, nelle innumerevoli sorprese che scandiscono la successione di eventi pieni di suspense. Daniel Pennac, pseudonimo di Daniel Pennacchioni (1944), è uno scrittore francese. Pessimo allievo, solo verso la fine del liceo ottiene buoni voti, quando un suo insegnante, nonostante la sua dislessia, comprende la sua passione per la scrittura e, al posto dei temi tradizionali, gli chiede di scrivere un romanzo a puntate, con cadenza settimanale. Ottiene la laurea in lettere all'Università di Nizza nel 1968, diventando contemporaneamente insegnante e scrittore. La scelta di insegnare, professione svolta per ventotto anni, a partire dal 1970, gli serviva inizialmente per avere più tempo per scrivere, durante le lunghe vacanze estive. Pennac, però, si appassiona subito a questo suo ruolo. Scommettendo contro amici che lo ritenevano incapace di scrivere un romanzo giallo, nel 1985 pubblica “Il paradiso degli orchi” (Au bonheur des ogres), primo libro del ciclo di Malaussène. Comincia così la fortunata serie di romanzi che girano attorno a Benjamin Malaussène e a un quartiere di Parigi, Belleville. Nel 1992, pubblica il saggio “Come un romanzo”(Comme un roman, in francese), manifesto a favore della lettura. Il 26 marzo 2013 è stato insignito della Laurea ad Honorem per il suo impegno nella pedagogia presso l'Università di Bologna. Nella Lectio magistralis in occasione della Laurea honoris causa, Pennac si sofferma a lungo nella spiegazione della parola “passeur”(letteralmente: facilitatore) per poi nella parte finale definire il “passeur supremo” colui che non fa domande su cosa si pensa del libro appena finito di leggere perché le nostre ragioni di leggere sono strane quanto le nostre ragioni di vivere. E nessuno è autorizzato a chiederci conto di questa intimità.
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Che consigli dai a un aspirante scrittore?
intanto scusami se ti rispondo solo ora, ieri sera mi sono completamente dimenticata.
premetto che non sono ancora una scrittrice a livelli alti per cui ti potranno magari sembrare consigli "banali".
un annetto fa ho comprato qualche librobdi scrittura creativa per capire come migliorarmi, quelli possono sicuramente essere utili(danno consigli molto interessanti)
ti lascio qui i titoli di quelli che ho, così se ti interessano puoi cercarli:
•Manuale di scrittura creativa di Nelson Ferrigno
•On writing di Stephen King
•Scrittori sulla scrittura di Serena Bedini
•Manuale di scrittura creativa di Ketty Magni
•Il mestiere dello scrittore di Murakami
ti posso consigliare anche di leggere tanto(lo consiglia anche Nostro Signore Stephen King) in modo da aprire la tua mente a vari metodi diversi di scrittura, ampliare il tuo lessico, aiutare ad affinare il tuo stile di scrittura e può aiutarti a capire come strutturare un romanzo che vale la pena leggere; ti consiglio di cercare di scrivere un po' tutti i giorni e metterti degli obbiettivi giornalieri a riguardo, in modo da riuscire ad essere sempre produttivi(anche quando magari non sai come strutturare un romanzo o farlo diventa un limite); un altro consiglio che posso darti è di fare ricerche sulla scrittura e su ciò di cui vuoi parlare, in questo modo ne saprai di più e questo potrebbe facilitati la scrittura, o farti trovare idee(a me è successo varie volte con le ricerche che ho fatto per questo libro); l'incipit è fondamentale, è la parte in cui introduci il lettore alla storia e lo trasporti all'interno del mondo narrativo creato, per questo va curato nei minimi dettagli. un incipit che funziona deve mostrare un'azione o mostrare un'assenza di azione, queste cose stimolano il desiderio e la necessità di conoscenza.
ti lascio anche gli errori da evitare sull'incipit, sono tre:
•l'incipit alla Manzoni, ovvero il primo capitolo dei promessi sposi: c'è una lunga figura retorica dove descrive attentamente il luogo in cui è ambientata la storia, risulta noioso e fa passare la voglia di continuare il romanzo;
•l'incipit di anticipazione, ovvero 5 righe che anticipano tutta la storia: questo incipit elimina pathos e suspense e, cosi facendo, fa perdere il desiderio di proseguire la lettura;
•l'incipit descrittivo, ovvero una descrizione minuziosa e insostenibile del protagonista: dare tutti questi dettagli non caratterizza il personaggio e annoia il lettore.
trovai anche gli errori da evitare quando si scrive un romanzo, ti lascio qui sotto la lista anche di quelli:
•non buttare niente è sbagliato, poi idee butti, più ne nasceranno di migliori(io ti direi di metterle da parte piuttosto che buttarle, possono sempre esserti utili, magari per altro)
•condividere "pensieri"e non un testo narrativo, in questo modo si sottovaluta la componente fiction, dimenticandosi del lettore
•non confrontarsi con estranei(questo è un consiglio di vita proprio, secondo il mio modesto parere)
•cercare errori nei libri dei nuovi esordienti è sbagliato perché entri nell'ottica sbagliata e non farai mai nulla(e poi che stronzo chi lo fa, se posso permettermi)
•far leggere il romanzo ad un amico è sbagliato perché dirà che è bellissimo e che sei un genio: non credergli, lo dice per confortarti(l'ho fatto con roba che avevo scritto e ti assicuro che non aiuta assolutamente)
•fare lo scrittore con il cuore degli altri, ovvero scrivere per arrivare agli altri e non per te stesso: non sarebbe credibile, devi cercare ricompensa nel piacere del tuo lavoro e non tenere conto di lode o biasimo, successo o fallimento
•considerare la prima bozza un lavoro finito
•sottovalutare refusi ed errori grammaticali
•non ridimensionare il proprio ego, è il testo che deve comunicare
•mancanza di costanza
•descrivere solo con la vista
•far portare avanti la trama attraverso i dialoghi, rendendoli stucchevoli e poco credibili
(spero ti siano utili)
mentre facevo le ricerche per il libro che sto scrivendo ho trovato su un sito i consigli di autori famosi, te li lascio qui sotto:
•Mai iniziare un libro parlando del tempo se è solo per creare atmosfera, il lettore salterà le pagine per cercare personaggi. -Elmore Leonard
•Portare sempre un taccuino: la memoria a breve termine trattiene un'informazione tre minuti, potresti perdere per sempre un'idea. -Will Self
•Metodo di scrittura a "timer da cucina": quando vuoi scrivere imposta un timer su un'ora(o mezz'ora); di solito, non appena il timer suona, sarai così coinvolto e divertito dal lavoro che continuerai. al posto del timer ai possono azionare elettrodomestici(lavatrice/asciugatrice o altro). -Chuck Palahniuk
•Scrivere ciò che si sente di dover scrivere e non scrivere ciò che è popolare o che pensi possa vendere. -P. D. James
•Il dialogo è cruciale nel definire i personaggi, deve essere reale e mai artificioso artefatto. un buon dialogo deve essere come una partita a tennis: botta e risposta. in poche righe deve dare l'idea precisa di una situazione: caratteri dei personaggi, la loro collocazione, il loro ambiente, le idee politiche e le loro inclinazioni; un buon dialogo deve anche essere veritiero, ascoltare dialoghi dove e quando puoi aiuta a creare un dialogo "reale". -Stephen King
•La prosa è architettura, non è decorazione di interni. -Ernest Hemingway
•Evitare frasi fatte: sono minestra riscaldata. -Umberto Eco
•Fai ciò che ti piace e fallo meglio che puoi: quasi tutte le storie profonde non hanno iniziato ad esserlo, hanno iniziato ad essere narrate. quando esistiamo a scrivere qualcosa che vogliamo e pensiamo a ciò che ci dirà la critica stiamo diventando insicuro nel nostro lavoro. scrivi la storia che vuoi raccontare, non sai dove ti porterà. -Joe Lansdale
•Cambia idea: le idee buone spesso vengono uccide da altre migliori. -Roddy Doyle
•Violate ognuna di queste regole piuttosto che scrivere qualcosa di barbaro. -George Orwell
spero di averti risposto in modo esaustivo e che tutto ciò possa esserti utile, mi auguro che la scrittura possa aiutarti e farti vivere al meglio.
💝💝💝
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lamilanomagazine · 1 month
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Siracusa. Legalità e lotta alla mafia, Fava racconta agli studenti l’esperienza de “I Siciliani”
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Siracusa. Legalità e lotta alla mafia, Fava racconta agli studenti l’esperienza de “I Siciliani”. «Fare quel giornale rispondeva all’esigenza di raccontare, dare nomi e volti a storie di cui tutti sapevano ma nessuno diceva». Ha parlato di mafia e dell’esperienza de “I Siciliani”, il giornalista (ed ex presidente della Commissione regionale antimafia) Claudio Fava, figlio di Pippo che di quella testata fu il fondatore e che pagò con la vita il suo lavoro di denuncia. Fava, che ne “I Siciliani” si è formato professionalmente, ieri mattina ha conversato con l’assessore alla Legalità, Fabio Granata. Il confronto è avvenuto nell’auditorium del liceo Einaudi nell’ambito del progetto “Educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva”, che rientra nel Piano dell’offerta formativa territoriale proposto a tutte le scuole siracusane dal Comune. L’evento si è svolto in occasione della “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie” ed è stato rivolto agli studenti delle scuole che hanno aderito al progetto. Il giornalista e scrittore ha detto di avere accolto l’invito per condividere un ricordo e una storia «che potrebbe essere anche la vostra» e ha lanciato ai giovani il messaggio di una «passione per la scrittura che diventa mestiere». Agli inizi degli anni Ottanta, quando fu fondato il giornale, «il racconto – ha detto Fava – era limitato alla superficie dei fatti. Con “I Siciliani”, un gruppo di giovani si mette in gioco. Una squadra che si trovò a doversi inventare il mestiere che avevano scelto di fare attraverso una narrazione, anche positiva, che non facesse però sconti a niente e nessuno. Era il racconto anche di una Sicilia “prigioniera”». La prima grande inchiesta de “I Siciliani” fu dedicata alla parabola del polo petrolchimico siracusano (titolo fu “Il sole nero”) che raccontava la «parabola iniziata con il miraggio dello sviluppo fino alle macerie poi rimaste sul terreno». Era il 1982 e si «avvertiva – ha proseguito il giornalista – la presenza condizionante della mafia, ormai non solo a Palermo. Nell’agosto Dalla Chiesa, arrivato da poco a Palermo come prefetto, in un’intervista rilasciata a Giorgio Bocca esplicita la presenza di un vero e proprio sistema di potere mafioso a Catania». Dunque, ha aggiunto Fava, c’era «una mafia diventata potere, che non sparava solamente e quella Sicilia, con quello sguardo e quella tragica consapevolezza» non era raccontata da siciliani. «La ricostruzione, appassionata e lucida, offerta oggi alle ragazze e ai ragazzi delle scuole siracusane, ha rappresentato – ha commentato l’assessore Granata – un momento formativo alto e coinvolgente che dà senso concreto ai progetti portati avanti dalla nostra Amministrazione. Ringrazio Claudio Fava per aver condiviso, con la sua presenza e le sue parole consapevoli, una giornata simbolica che dà inizio alla Primavera e che lascerà un segno nel cuore dei giovani». Finita la conversazione tra Fava e Granata, la mattinata è proseguita con la proiezione delle prime versioni di 12 cortometraggi realizzati dagli studenti che hanno aderito al progetto sulla legalità. Alla visione dei lavori hanno partecipato il giornalista Aldo Mantineo, il regista Giuseppe Landolina, il videomaker Giuseppe Migliara e il tecnico di riprese Carmelo Randazzo. L’evento, curato per il Comune da Giuseppe Prestifilippo, è iniziato con i saluti, anche a nome del sindaco Francesco Italia, portati da Teresella Celesti nella doppia veste di dirigente scolastica dell’Einaudi e assessore comunale all’Istruzione. Nella sala dell’auditorium presenti personalità ed esponenti degli enti partner del Comune nel progetto: Luisa Giliberto, dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale; Veronica Milone, presidente di sezione del tribunale di Siracusa; Alessandra Formisano, vice presidente dell’Ordine degli avvocati; Fabio Faraci, presidente del Rotary club Monti Climiti; il consigliere comunale Andrea Buccheri; l’avvocato Silvia Margherita e la dirigente dell’istituto.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Con Albert Camus e Andrea Renzi si chiude la trilogia "Scene del riconoscimento"
La poetica visionaria e filosofica di Albert Camus è il fulcro del progetto concepito da Rosario Diana. L'evento "Camus 2020. Note di lavoro", in programma l'8 Luglio al Teatro Dumas - Institut Français di Napoli, conclude la trilogia dal titolo "Scene del riconoscimento" e verrà rappresentata dall'attore e regista teatrale Andrea Renzi. Albert Camus Camus 2020. Note di lavoro L’assurdo, la morte, la saggezza, il concetto di rivolta, la giustizia, il nulla, il tempo, la felicità e l’assenza di Dio sono i cardini storico-intellettivi di Camus 2020. Il testo scritto da Rosario Diana propone un’interpretazione critica degli scritti di Camus e ad Andrea Renzi tocca lo spaesamento meta-teatrale arrivando a parlare anche in prima persona tramite argomenti "intimi" come, ad esempio, il suo mestiere di attore in consonanza con le idee dello scrittore francese.  Scene del riconoscimento La serata dell'8 Luglio va a concludere una trilogia di appuntamenti che ha avuto come protagonisti anche altri importantissimi nomi della filosofia: - il primo appuntamento è stato dedicato al “Paradiso perduto” di John Milton con l’attrice Valentina Acca - il secondo, invece, ha visto l’analisi delle “Diramazioni da Hegel” con l’attore-regista Lino Musella Tre eventi presso il Teatro Dumas - Institut Français di Napoli per raccontare come teatro e filosofia siano fortemente uniti. Intervista ad Andrea Renzi In occasione dell'evento dell'8 Luglio abbiamo potuto rivolgere qualche domanda a colui che salirà sul palco del Teatro Dumas, l'attore e registra teatrale Andrea Renzi: Albert Camus ed Andrea Renzi: come "vi siete incontrati"? Confesso di non essere un assiduo frequentatore dei testi di Camus. Mi fu regalato, molti anni fa, "Il mito di Sisifo" e mi lasciò un'impressione profonda, un senso necessario di ricerca continua e incessante.  Durante la pandemia ho preso parte al film di Francesco Patierno "La peste" (in qualche modo dettato dall'omonimo romanzo di Camus) e l'impatto con la scrittura di Camus riattraversata e condivisa con il regista e gli altri attori è stato molto coinvolgente. Mi sembra, per quel che vale il mio parere, un pensatore "controcorrente" rispetto all'atteggiamento più superficiale di questi anni. Uno scrittore di profondità. E in questo senso lo trovo un confronto fertile.  Rosario Diana Perché il nome “Scene del riconoscimento” per l'evento? L’idea di scrivere una trilogia di melologhi sul tema filosofico del riconoscimento – con la musica di Rosalba Quindici – è venuta a Rosario Diana (primo ricercatore di filosofia al Cnr e studioso di questo problema) dopo aver letto un saggio di Fiorinda Li Vigni (segretario generale dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici) dedicato a tale questione, esaminata criticamente in tre autori: Milton, Hegel, Camus.  Le prime due tappe della trilogia (Milton e Hegel) – interpretate da Valentina Acca e da Lino Musella, con Lucio Miele alle percussioni e Ciro Longobardi al piano – sono state rappresentate nel 2018 e nel 2019.  Questa è la puntata conclusiva, che vede in scena con me il chitarrista Ruben Mattia Santorsa a eseguire live alla chitarra classica le composizioni di Quindici. Qual è l'obiettivo dell'evento? Credo il nostro compito sia aprire questo dialogo "prismatico" tra le voci di Camus, dell'autore del copione (Diana, appunto) e dell'interprete al pubblico, cercando di creare un'empatia con gli spettatori su temi cruciali della vita di ognuno che spesso però vengono rimossi: l'assurdo, il senso della rivolta, il desiderio della felicità, il sentirsi stranieri anche a se stessi. Potremmo definire questo evento come un melologo meta-teatrale? Sì, c'è una componente meta-teatrale nell'invenzione di Rosario Diana, che ha plasmato un personaggio che è l'interprete stesso del testo, un Andrea Renzi che si rivela e si scopre mentre recita essendo un testimone di Camus. Teatro, cinema e televisione: secondo Andrea Renzi quanto, ancora oggi, sono legati? È un discorso molto complesso. Credo che in questo periodo non ci siano legami culturali forti tra i tre settori. Cinema e televisione sono di fronte alla necessità di ritrovare una modalità di fruizione che ridia loro identità.  Paradossalmente la disciplina con numeri più piccoli e più antica, il teatro, è quella che ha meno da temere in questa circostanza storica.  Read the full article
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danielemuzzarelli · 5 years
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In ogni caso l'autore, quando inizia a scrivere un romanzo, è solo. Scrivere è un fardello che lo scrittore si deve caricare senza fiatare
Murakami Haruki, Il mestiere dello scrittore
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ilmondodishioren · 2 years
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Pensiero da scrittore #11
Scrivere non è mai facile. Ogni parola scritta è pensata, studiata, mai lasciata al caso. Non so come sia per gli altri autori emergenti o famosi che siano, ma per me scrivere è tempo, cura, dedizione. Quando tenete tra le mani un mio romanzo, non state semplicemente leggendo un libro, state stringendo un frammento di vita che ho dedicato a qualcosa che amo, state guardando le mie speranze, i…
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iannozzigiuseppe · 2 years
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"Il Mestiere dello scrittore" di John Gardner: impossibile non leggerlo - di Iannozzi Giuseppe
“Il Mestiere dello scrittore” di John Gardner: impossibile non leggerlo – di Iannozzi Giuseppe
Il Mestiere dello scrittore John Gardner Impossibile non leggerlo di Iannozzi Giuseppe Pubblicato da Marietti 1820 nella collana Le Lampare, Il mestiere dello scrittore di John Gardner è un libro adatto a ogni scrittore, provetto o in erba, tenendo però conto che Gardner parla soprattutto della realtà editoriale americana, quella degli anni settanta e ottanta. Ciò non toglie che anche oggi uno…
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In Biblioteca puoi scoprire autori e opere che non conoscevi o di cui avevi sentito parlare ma che ancora non avevi avuto modo di leggere. Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare un angolo alla scoperta di questi "tesori nascosti".
Oggi l'opera prescelta è "Verdi colline d'Africa" di Ernest Hemingway.
È l’inizio degli anni Trenta, il 1933 precisamente, quando Ernest Hemingway e sua moglie, Pauline Pfeiffer, compiono un safari in Africa fra Kenya, Tanzania e Rhodesia. Lì la caccia rende le giornate dello scrittore entusiasmanti. Ci sono i kudù, animali a cui egli sta dando la caccia invano da almeno dieci giorni, e di cui non ne fa mistero parlandone con Kandisky, un austriaco che incontra al ritorno da una battuta di caccia a venti miglia dal suo villaggio. L’incontro è frutto di un’interessante divagare letterario da Joyce a Heinrich Mann a Rilke. C’è poi Mr. Jackson Phillips, un cacciatore bianco, una guida di professione, che accompagna Hemingway e signora ed insegna loro “i trucchi del mestiere”. Così passano le giornate tra la caccia alle antilopi e le varie digressioni letterarie, all’apparenza niente sembra accadere, ma... Verdi colline d’Africa non rientra tra le opere più rinomate di Ernest Hemingway: esso è un romanzo autobiografico che comincia con un’avvertenza del tutto singolare “nessuno dei personaggi e degli avvenimenti contenuti in questo libro è immaginario […] L’autore ha cercato di scrivere un libro completamente vero per vedere se il profilo di una regione e l’esempio di un mese di vita descritti con fedeltà possano competere con un’opera di fantasia”.
In "Verdi colline d’Africa" Hemingway lascia il lettore incollato alle pagine che scorrono tra descrizioni di paesaggi e battute di caccia – argomenti che potrebbero anche non appassionare tutti i lettori – e lo fa perché ciò che principalmente mette in luce sono le sue emozioni e i suoi stati d’animo e perché persino narrando di un viaggio – un safari – riesce comunque a collegare temi a lui cari come la letteratura americana e quelli che lui ritiene esserne i maestri: Mark Twain, Stephen Crane e Henry James.
Lo stile di Hemingway non conosce fronzoli, si sa, è semplice ed asciutto ma sempre brioso, disinvolto, coinvolgente. Le descrizioni degli animali sono perfette, quelle dei paesaggi meno curate ma riescono tuttavia a trasmettere la maestosità, la bellezza ed il fascino di un continente impareggiabile. Hemingway porta il lettore sotto il sole cocente di un'Africa selvaggia, incontaminata, dura ed affascinante, lo arma di carabina e installa in lui il piacere non tanto della caccia indirizzata all'uccisione, quanto quello della preparazione, della tattica, dell'attesa. Lunghe giornate acquattati ai limiti di un lick in attesa di un animale che forse non verrà mai, oppure ore di marcia attraverso erbe alte, cespugli, intrichi vegetali, a combattere con il caldo, gli insetti e con se stessi, con la propria smania, le proprie ambizioni, le proprie paure. Poi cala il sole, la caccia termina, si accende il fuoco e tra un pezzo di carne arrostita su un falò crepitante e un sorso rigenerante di alcool, ci si gode il fresco della sera. Illuminati dal chiarore delle stelle che tempestano gli sconfinati cieli africani, ci si lascia andare ai ricordi, ai commenti e ai programmi per il giorno successivo. Ma ci sono anche il tempo e la voglia di staccare, di pensare ad altro. Allora ci si abbandona ad interessanti dissertazioni riguardanti la vita e l'arte, ovviamente con particolare attenzione alla letteratura e a ciò che ci gira intorno, a scrittori più o meno bravi e a critici che sembrano assomigliare sempre più a pidocchi.
Se la caccia, oggi, è un argomento che può infastidire qualcuno, bisogna considerare che ogni cosa va rapportata con il suo tempo e come è noto a tutti in quegli anni non c'era la sensibilità attuale riguardo al rispetto per gli ecosistemi e al rapporto tra uomini ed animali. Spesso non c'era neanche (e forse neppure oggi c’è) la capacità di rapportarsi ad altre culture "meno sviluppate" senza arroganza e senza porsi in posizione di superiorità, come troppe volte e con grande naturalezza sembra fare il protagonista-scrittore con i suoi compagni nei confronti degli indigeni di cui si circonda e dei quali si serve come portatori, autisti e guide. Forse il – sensibile – lettore moderno gradirebbe che ogni tanto il dito non schiacciasse il grilletto e sicuramente preferirebbe una maggiore commistione tra diverse culture e l'instaurazione di una sincera amicizia tra cacciatori occidentali e aiutanti (non schiavi) Masai.
Insomma, un'opera dai due volti di cui è difficile criticare l'innegabile valore letterario ma che, per il resto, ognuno può giudicare, tenendo presente il momento storico in cui i fatti sono accaduti, in base alla propria sensibilità a certi argomenti, alla propria maturità e a ciò che cerca quando si imbarca in una nuova lettura.
Ernest Miller Hemingway (1899 – 1961) è stato uno scrittore e giornalista statunitense. È stato un autore di romanzi e di racconti. Soprannominato Papa, fece parte della comunità di espatriati americani a Parigi durante gli anni 1920, conosciuta come la "Generazione perduta" (Lost Generation, che include le persone nate tra il 1883 ed il 1900, in particolare i Ragazzi del 99, che compirono 18 anni sul fronte della Prima guerra mondiale) e da lui stesso così chiamata nel suo libro di memorie “Festa mobile”, ispirato da una frase di Gertrude Stein. Condusse una vita sociale turbolenta, si sposò quattro volte e gli furono attribuite varie relazioni sentimentali. Raggiunse già in vita una non comune popolarità e fama che lo elevarono a mito delle nuove generazioni. Hemingway ricevette il Premio Pulitzer nel 1953 per Il vecchio e il mare e vinse il premio Nobel per la letteratura nel 1954. Lo stile letterario di Hemingway, caratterizzato dall'essenzialità e asciuttezza paratattiche del linguaggio, e dall'ipòbole, ebbe una significativa influenza sullo sviluppo del romanzo nel XX secolo. I suoi protagonisti sono tipicamente uomini dall'indole stoica, i quali vengono chiamati a mostrare "grazia" in situazioni di disagio (grace under pressure). Molte delle sue opere sono considerate pietre miliari della letteratura statunitense.
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stilouniverse · 2 years
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John Gardner "Il mestiere dello scrittore", introduzione di Raymond Carver, premessa di Davide Rondoni, Marietti Editore
John Gardner “Il mestiere dello scrittore”, introduzione di Raymond Carver, premessa di Davide Rondoni, Marietti Editore
Collana: Le lampare. Pagine: 264. Prezzo: 22 euro. Non si tratta né di imparare l’ispirazione, né di insegnare l’arte e neppure di scegliere tra i corsi di scrittura e i corsi di lettura. In uno stile diretto, Gardner affronta i problemi del mestiere di scrittore e non quelli del talento, le nevrosi quotidiane e non quelle del genio. Con esempi, citazioni e suggerimenti affronta i problemi…
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lamilanomagazine · 2 years
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Campobasso, "Ti racconto un libro" presenta “Nova” di Fabio Bacà
Campobasso, "Ti racconto un libro" presenta “Nova” di Fabio Bacà. “Nova, un libro diverso, letterario nel senso più seducente del termine, che racconta a scopo di riflessione. Parla di violenza e di vigliaccheria. A queste due categorie inflazionate dall'etica restituisce un senso culturale molto più autentico e comunemente sottostimato. La scrittura ha una puntualità e un'esattezza che mi hanno confermato il valore di un autore che oggi trovo ancora più forte di quando l'ho conosciuto. Presentarlo allo Strega è un vero motivo di orgoglio.” Queste le parole dello scrittore Diego De Silva per descrivere l’opera di Fabio Bacà, scrittore marchigiano che nel 2022 è stato finalista ai premi Strega e Campiello. Torna "Ti racconto un libro 2022" Reduce dalle due prestigiose competizioni italiane, Bacà farà tappa a Campobasso per presentare il suo ultimo romanzo Nova al pubblico di Ti racconto un libro 2022, il laboratorio permanente sulla lettura e sulla narrazione - promosso e sostenuto dal Comune di Campobasso e realizzato dall’Unione Lettori Italiani, con la direzione artistica e organizzativa di Brunella Santoli e il patrocinio della Provincia di Campobasso.  Il romanzo Nova è un romanzo cha ha come protagonista il terrore più inquietante, quello nascosto in una vita qualsiasi. «A cosa pensa un uomo appena si sveglia? Cosa gli recapita la connivenza d'inconscio e realtà? Qual è l'oggetto delle sue prime, confuse meditazioni mentre tenta di recuperare la potestà sul vero? Quali le immagini, i suoni, i bisbigli, i tumulti nella sua testa?» Del cervello umano, Davide sa quanto ha imparato all'università, e usa nel suo mestiere di neurochirurgo. Finora gli è bastato a neutralizzare i fastidiosi rumori di fondo e le modeste minacce della vita non elettrizzante che conduce nella Lucca suburbana: l'estremismo vegano di sua moglie, ad esempio, o l'inspiegabile atterraggio in giardino di un boomerang aborigeno in arrivo dal nulla. Ma in quei suoni familiari e sedati si nasconde una vibrazione più sinistra, che all'improvviso un pretesto qualsiasi – una discussione al semaforo, una bega di decibel con un vicino di casa – rischia di rendere insopportabile. È quello che tenta di far capire a Davide il suo nuovo, enigmatico maestro, Diego: a contare, e spesso a esplodere nel modo più feroce, è quanto del cervello, qualunque cosa sia, non si sa. O si preferisce non sapere. Appuntamento con l'autore L’incontro con lo scrittore marchigiano, organizzato in collaborazione con la INCAS Produzioni di Campobasso, è il primo dopo la pausa estiva che dà il via a una lunga serie di appuntamenti di questa ventesima edizione che ci accompagnerà fino alla fine dell’anno. L’appuntamento è per venerdì 16 settembre, alle ore 18.30 nella Sala del Cinema Alphaville in via Muricchio a Campobasso, e al suo fianco ci sarà la scrittrice e giornalista Tiziana Cucaro.   Il prossimo incontro con Ti racconto un libro è in programma giovedì 6 ottobre, alle ore 18.30 nella Circolo Sannitico di Campobasso, con Francesco Battistini inviato de Il Corriere della Sera, che in Fronte Ucraina-dentro la guerra che minaccia l’Europa racconta l’assurdità della guerra nel cuore del vecchio continente, una catastrofe inattesa che stravolge la nostra vita quotidiana e segnerà la storia dei prossimi anni. Read the full article
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pedrop61 · 4 years
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IL GATTOPARDO
Giuseppe Tomasi di Lampedusa nasce a Palermo il 23 dicembre 1896. Una Palermo dove si incontravano i Florio, i Bordonaro, gli imprenditori inglesi del marsala Whitaker, gli ultimi baroni che avevano acquistato i feudi ecclesiastici dopo la secolarizzzazione del 1866 e realizzavano l’espansione edilizia lungo l’asse della via Libertà. La Palermo dei Lanza di Trabia, degli Alliata di Villafranca, dei Ventimiglia di Belmonte, tutti nobili proprietari di meravigliosi palazzi simili ai castelli della bella addormentata, un mondo incantato dal quale Giuseppe Tomasi non si sarebbe più staccato, un mondo condannato ad essere superato dalla volgarità dei tempi nuovi.
Consegue la maturità classica nel 1914 e l’anno dopo viene chiamato alle armi. Nel settembre 1917 viene inviato sull’altopiano di Asiago. Due mesi dopo viene fatto prigioniero. Nel 1918 evade, dopo un tentativo fallito, dal campo di prigionia Szombathely in Ungheria e nel novembre ritorna a Palermo.
Iscritto alla facoltà di legge prima a Palermo, poi a Genova, darà soltanto l’esame di diritto costituzionale. Tra il 1920 e il 30 viaggia per mezza Europa e nel 1932 si sposa con Licy Wolff Stomersee a Riga, in una chiesa ortodossa. La coppia si stabilisce a Palermo a palazzo Lampedusa. Nel 1934 muore suo padre e lui diviene principe di Lampedusa. Nel 1942, a causa dei bombardamenti su Palermo, si trasferisce nella villa dei suoi parenti Piccolo a Capo d’Orlando.
Nel 1957, tramite il libraio editore Flaccovio, “Il Gattopardo” viene inviato a Vittorini, direttore della collana I Gettoni della Einaudi. Una copia del romanzo viene consegnata ad Elena Croce. Il 23 luglio 1957 lo scrittore muore a causa di un carcinoma. La salma viene inumata a Palermo al cimitero dei Cappuccini. L’11 novembre 1958 il romanzo viene pubblicato da Feltrinelli a cura di Giorgio Bassani. Nel 1959 vince il Premio Strega.
Romanzo di rara bellezza, un autentico gioiello di cultura, saggezza, tristezza, consapevolezza, nostalgia di un mondo perduto. Come tutto ciò che è grande, sommo, alto, non viene compreso da molti e ancora oggi viene citato a sproposito da pessimi giornalisti e da pseudo politici da strapazzo.
“il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di “fare”. […] il sonno è ciò che i Siciliani vogliono… da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento […] ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio… questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; […] questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; […] questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo…”
Non è un semplice romanzo storico ma casomai antistorico dove non si respira l’ottimismo di una concezione storicista e teleologica ma, al contrario, spicca la dolorosa consapevolezza che la storia degli uomini non procede verso il compimento delle magnifiche sorti e progressive. Si dice in modo chiaro e netto che il diritto alla felicità è una solenne sciocchezza. L’esistenza è durissima e la natura umana e gli uomini sono gettati in un mondo di inaudita violenza. Soltanto le arti e la conoscenza possono mitigare il dolore ma l’esito è comunque terribile: più comprendi e più resti isolato. L’influenza di Stendhal è molto forte, la delusione esistenziale e la consapevolezza del fallimento e dello scacco permeano tutto il romanzo.
In questa visione il Risorgimento diventa una rumorosa e romantica commedia e la Sicilia, resta una categoria astratta, immutabile metafisica. Il fluire del tempo, la decadenza e la morte (Marcel Proust e Thomas Mann) vengono esemplificati nella morte di una classe, quella nobiliare dei Gattopardi che viene sostituita dalla scaltra borghesia senza scrupoli dei Sedara, ma che permea di sé tutta l’opera: la descrizione del ballo, la morte di don Fabrizio, la polvere del tempo che si accumula sulle sue tre figlie e sui loro beni.
Un romanzo sicuramente decadente e struggente dove il vero protagonista è la nostalgia. Non mi stupisce che Vittorini non lo abbia compreso. Ancora oggi non viene compreso da quanti, assecondando logori luoghi comuni, lo interpretano esclusivamente in chiave politica.
Non è un caso che un grande intellettuale fin de race come Luchino Visconti ne abbia afferrato lo spirito traducendolo, caso raro di grande film tratto da grande libro, in un film sontuoso e affascinante.
Scandito dalla musica di Nino Rota il lavoro di Visconti offre quadri e dialoghi di rara suggestione. Don Fabrizio, il principe Salina, è un Bart Lancaster strepitoso affiancato dal nipote Tancredi (un giovanissimo e stupendo Alain Delon), da Angelica, di nome e di fatto (meravigliosa Claudia Cardinale) e da attori di consumata esperienza e bravura quali Paolo Stoppa (Calogero Sedara), Rina Morelli e Serge Reggiani.
Alcune citazioni da Tomasi di Lampedusa:
Io penso spesso alla morte. Vedi, l’idea non mi spaventa certo. Voi giovani queste cose non le potete capire, perché per voi la morte non esiste, è qualcosa ad uso degli altri.”[… ] In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.”
“Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto.”
Ho letto il romanzo la prima volta a 18 anni e ne sono rimasto affascinato al punto che esso ha permeato la mia vita nel bene e nel male. Ogni tanto lo rileggo e ne cavo fuori insegnamenti e riflessioni. Il Principe Salina, inconsapevolmente, è stato il mio modello (alla sua aristocrazia per nascita che mi interessa ben poco, ho tentato di sostituire l’unica forma di aristocrazia che mi convince, quella culturale ed educativa) e sino a quando mi sono attenuto ai suoi insegnamenti stoici e sensati ho vissuto con dignità, onore e, perché no, momenti di felicità. Posso essere accusato di non aver fiducia nelle umane sorti e progressive ma questo non mi ha impedito di aiutare chiunque abbia incontrato nella mia vita. Anche io ho pensato per lunghi anni di poter migliorare il mondo aiutando gli altri e l’ho fatto insegnando e col mestiere di professore e preside. Malgrado tutto continuo a pensare che l’insegnamento, la scuola seria e per tutti siano l’unica forma di crescita per un popolo. La cultura non elimina la sofferenza esistenziale ma ci consente di soffrire ad un livello più alto e di provare solidarietà leopardiana per il dolore altrui.
“Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.”
J.V.
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plutonialab · 5 years
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Il peso della solitudine è variabile
Il peso della solitudine è variabile
“Il peso della solitudine è variabile” è una citazione da Attraversami il cuore, una delle mie canzoni preferite di Paola Turci. Paola che vedrò prestissimo in concerto, con buona pace degli stereotipi che vogliono di scrittori del fantastico come trucidi appassionati di death metal, o qualcosa del genere. Questa citazione mi dà lo spunto per una semplice riflessione sul mestiere dello scrittore. Mi…
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