Tumgik
#molto prima e in maniera peggiore
omarfor-orchestra · 10 months
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Posso dire una cosa
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ophelia-northwood · 17 days
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Ophelia&Helyas
chapter i
"il tetto si è bruciato, ora posso vedere la luna"
Era una notte buia quella che investiva Londra. La vita però non si era ancora, completamente, rintanata tra le mura domestiche, qualcuno si ostinava a bighellonare in qualche pub tra le note rimbombanti delle casse stereo ed i boccali di birra che tintinnavano tra loro come avevano già fatto la prima volta.
Ma la vita scorreva in tutta naturalezza, ignorando, forse deliberatamente, il respiro del male che pure strisciava nel medesimo buio.
Era un mondo, quello lì, diviso in maniera netta. Da una parte si ergeva il bene e dall'altra si annidava il male, le uniche zone grigie erano costituite dagli esseri umani che chiudevano gli occhi e si rifiutavano di vedere, intenti nella perenne oscillazione senza giungere ad una tregua.
Ophelia Northwood faceva parte di quella porzione di universo nascosto che combatteva l'oscurità giorno per giorno, scongiurando la morte e le atrocità che i demoni perpetravano sulla Terra.
Attendeva con le mani nelle tasche di un elegante cappotto azzurro pastello, i lunghi capelli biondi scendevano morbidamente sulle spalle in ordine impeccabile. Era lì da appena qualche minuto, le era stato spedito l'ordine per una nuova spedizione sebbene, in un certo senso, non si sentisse così entusiasta di prendervi parte.
La muoveva un motivo del tutto personale che aveva tentato di sopire con una puntualità assoluta. Quella missione avrebbe dovuto svolgerla insieme ad Helyas Baskerville e non ci sarebbe stato proprio nulla di strano, se solo non fosse stato che, quell'uomo sarebbe un giorno diventato il suo sposo.
Helyas e Ophelia si erano scambiati a stento qualche parola, non avevano mai avuto molto da condividere se non lo stupore per la notizia del loro fidanzamento ufficiale saltata fuori senza preavviso. Da lì in poi le occasioni per frequentarsi e scoprire reciprocamente qualcosa dell'altro si erano fatte via via più complesse da gestire ed era regnato sovrano un tacito silenzio come se, evitarsi avrebbe lenito ad Ophelia l'imbarazzo di trovarsi l'uno di fronte all'altro e forse chissà rendere sempre più intangibile quel futuro prossimo di cui né l'uno né l'altra aveva avuto facoltà di esprimere un'opinione.
Funzionava così nella società dei cacciatori, era essenziale proteggere i marchi e preservarli dai mutamenti del tempo affinché quella guerra perenne avesse ancora una chance di essere vinta. Persino uno sospeso nella zona grigia come quello che si portava lei addosso.
Ophelia mosse qualche passo solo quando riconobbe la figura di Helyas poco lontano. Si trovò, solo in quell'istante, a domandarsi se anche lui avesse vissuto con lo stesso disagio scoprire che sarebbe stato costretto in missione proprio con lei o se invece non gli fosse interessato affatto. E tra l'una e l'altra possibilità, Ophelia si scoprì a non saper decidere quale fosse la peggiore.
Ad ogni modo lo raggiunse e con la solita spontaneità, Ophelia si trovò a schiudere un sorriso leggero.
«Buonasera Helyas!»
 «Andiamo?»
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@ash-t0-ash
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rraskolnikovv · 10 months
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ogni volta che parliamo di qualcosa successo in passato mi dipingi in maniera molto peggiore rispetto a qualsiasi cosa io possa aver fatto. non so se questo sia un fattore di protezione tuo ma ti posso assicurare che sentendoti parlare non si evince nemmeno un motivo per cui tu dovresti voler stare con me. è pazzesco. prima pensavo mi idolatrassi senza fare attenzione al fatto che tu non stai portando me sul piedistallo, bensì il ruolo che io sto occupando. io merito tutte queste attenzioni, le carinerie, i regali e i favori solo perchè in questo momento ti sto affiancando come compagna. tu non apprezzi me, altrimenti non criticheresti cosi aspramente OGNI (e vi assicuro ogni, è a tratti inverosimile quanto io finisca per risultare a posteriori la stronza in ogni preciso momento) singola situazione in cui mi sono trovata / ci siamo trovati entrambi. decisamente amaro.
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staipa · 6 months
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Un nuovo post è stato pubblicato su https://www.staipa.it/blog/sul-conflitto-israelo-palestinese/?feed_id=1093&_unique_id=654e18cb126e3 %TITLE% Un tempo questo blog si chiamava "Staipa's Blog - PoesiPolemiPolitica", lo premetto per chi mi conoscesse o seguisse da poco, e invito anche a leggere la pagina Questo è un blog politico apartitico (https://short.staipa.it/politico), per chi avesse qualche dubbio. Il tema è già divisivo per partito preso, lo era ben prima di questo conflitto, ben prima della risoluzione Onu del 1948 (https://short.staipa.it/tkey9) e dell'olocausto della Seconda Guerra Mondiale, non sono uno storico, non sono un geopolitico e non ho nessuna intenzione di fare un riassunto tecnico di quanto accaduto, per questo posso rimandare a un video di GeoPop in cui il tutto viene spiegato in maniera chiara e senza troppe prese di posizione (https://youtu.be/hBImPpGnYKE) https://www.youtube.com/watch?v=hBImPpGnYKE Geopolitix: La questione Isreaelo-Palestinese raccontata bene Un mio obiettivo di vita è sempre quello di cercare non schierarmi a priori, e negli ultimi anni ho diminuito di molto il mio desiderio di discutere di determinati argomenti. Non perché non sia importante anzi, se posso scendo in piazza a manifestare ben più di quanto facessi un tempo, ma perché oramai internet e i social sono un guazzabuglio di litigi e di persone che sentono di poter dire qualunque cosa sempre e costantemente dalla parte della ragione e questo mi annoia terribilmente. Non c'è voglia di riflettere ma solo di attaccare e così il mio modo riflessivo e provocatorio di scrivere finisce per alimentare discussioni noiose e poco proficue. Lo stesso vale per voi ovviamente, se siete già annoiati di leggere questo articolo o se pensate già di sapere dove andrà a parare fatevi un favore: smettete pure di leggerlo. Ho comunque l'impressione che in determinati casi scrivere resti utile, se non altro lo è per me. In ogni modo il discorso è annidato, arrotolato e parte degli argomenti che tratto abitualmente in articoli come Quando siamo estremamente divisivi è probabile siamo vittime di Fake News (https://short.staipa.it/gsin5). Ma c'è una ragione più importante: sta morendo un sacco di gente e degli stronzi ci lucrano per ricevere consensi. Il riassunto lo farò a modo mio in ogni caso, due nazioni si odiano per motivi religiosi, politici, etnici, territoriali (tanto per cambiare) e non importa a nessuno chi dei due abbia ragione perché probabilmente nessuno ha mai una ragione completa. Il meccanismo è sempre lo stesso e può agire su ognuno di noi quando si semplifica troppo qualcosa di complesso, quando si cerca una ragione e un colpevole fuori e non ci si guarda dentro. Ne ho parlato anche in Perché odi gli immigrati. O gli omosessuali. O le donne. O i tossici. O… (https://short.staipa.it/ja0z9). Succede ovunque, in grande come in questo caso o nel piccolo dei continui stupidi scontri di "opinione" sui social. In questo caso, nello specifico si promette alla più debole delle due nazioni un'autonomia e non si fa nulla per portarla avanti perché gli interessi economici e culturali sono legati all'altra. La più debole decide di farsi sentire per smuovere la situazione, lo fa nel peggiore dei modi, con un atto terroristico assolutamente inaccettabile e vile, sì. Ma davvero così incomprensibile? La risposta dall'altra è uno schieramento di potenza mostruoso e l'inizio di un genocidio di massa in cui sono coinvolti indistintamente adulti, uomini, donne e bambini, azioni altrettanto terroristiche, inaccettabili e vili. (Guterres, a Gaza numero bimbi morti supera qualunque guerra https://short.staipa.it/l5poi). Non credo che nessuno sano di mente riterrebbe nessuno dei due atti come non terroristico, non inaccettabile e non vile. Non importano quali siano le motivazioni e quanto queste possano essere comprensibili. Le azioni che ne conseguono non sono accettabili. Non è questione di tifoseria, eppure tutti si stanno schierando. Indipendentemente
dall'azione fatta dall'una o dall'altra parte si stanno schierando o perché una religione è meno peggio dell'altra, o perché con una nazione ci sono interessi economici e con l'altra meno, o perché una delle due nazioni è più filoccidentale e l'altra più filorientale. Gi stati stessi si stanno schierando decidendo per i loro cittadini, ma si stanno schierando con o contro altri governi, non pensando ai i loro cittadini, non alle persone. Quelle che stanno venendo ammazzate, trucidate, uccise e che non hanno scelto questa guerra. Si sa, siamo in una società in cui Il bullismo viene spacciato come valore (https://short.staipa.it/sdktc), in cui la gestione passiva del bullo è oramai interiorizzata (https://short.staipa.it/4bdv2): o ci si schiera con il più forte o si resta a guardare, rendendo il bullo più potente, dandogli un tifo e un pubblico, dando valore alle sue atrocità. Per questo è importante parlare, urlare, manifestare una visione quando questa non è allineata con chi prende le decisioni, ma c'è modo e modo di manifestare e c'è una forma di coerenza che non è quella di chi fino a pochi mesi fa dava del pacifinto ai pacifisti e ora predica una pace. UNA pace, non LA pace. In entrambi i casi difendendo il più forte ovviamente, sia quando si trattava di dare del pacifinto sia quando ora si dichiara pacifista. Ci vuole uno sguardo più ampio e privo di assoluzioni, quelle le dà la religione: sia le assoluzioni che le scuse per combattersi. Vanno guardate le persone, gli assassini, le vittime, le popolazioni soverchiate e le nazioni potenti. Non è con l'eccesso di legittima difesa, con io tengo in casa un fucile e se qualcuno entra lo ammazzo che si risolvono le cose. Chi entra è colpevole, -se non sono stato io in precedenza a spingere verso quella situazione- ma questo non assolve le mie colpe quando colgo l'occasione per sfogare i miei istinti ammazzando. Se Hamas fosse la mafia, non sarebbe comunque distruggendo la Sicilia, abbattendo tutti i suoi ospedali, bombardando ogni casa che si sospetta contenere un mafioso, ammazzando tutti i siciliani che si combatterebbe la mafia. Contro questo voglio protestare, e su questo ogni cittadino dovrebbe riflettere: quanto è giusto che la propria casa, la propria famiglia, la propria vita vengano distrutte da una bomba quando non si è fatto personalmente nulla per provocare quella reazione? Questa domanda dovrebbe essere indipendente dalla religione, dall'appartenenza etnica, dalla posizione politica, altrimenti stiamo disumanizzando una fetta di umanità al pari di chi considerava altre etnie come esseri inferiori e accettando lo stesso genere di barbarie che ci orripila quando pensiamo allo schiavismo, al 1945 o al Massacro di Srebrenica. Stiamo guardando il bullo che invece di offendere, o rubare la merendina ammazza migliaia di persone innocenti perché pochi del loro gruppo hanno fatto qualcosa di deprecabile e ingiustificabile, ma pur sempre non quelli che stanno subendo ora il massacro. In fondo, nonostante i secoli, il progresso e la storia restiamo pur sempre gli stessi umani. “Restiamo umani”? Ma anche no. (https://short.staipa.it/uadcm)
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inesistenzadellio · 2 years
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Leggendo "Alla ricerca del tempo perduto" (il primo libro), ritrovo nell'amore che Swann prova per Odette tutto il carico di sentimenti, emozioni, espedienti psicologici e di fatto che ho agito e mi hanno agito e che tutt'ora in buona parte agiscono su di me nel mio essere innamorato.
Follia d'amore fatta di proiezioni estetiche e desideri estatici, capaci di annullare qualsiasi interesse per il mondo che non sia l'altra persona. Rabbia e gelosia, giustificate solo alle volte, che portano pensieri cattivi, salvo poi razionalizzare immedesimandosi in uno spettatore esterno al fine di ritrovare, in maniera semi-consapevole, un sentimento di bontà e affetto verso l'amata che si tramuta presto nel bisogno fisiologico di vederla. Imposizione di distacco fisico ed emotivo al fine di auto-convincersi che si è sani di mente e non malati d'amore, non dipendenti come dei drogati, che finiscono molto prima del tempo per una scusa banale qualsiasi che ha il solo scopo di fortificare l'idea di indipendenza motivandola con il fatto che comunque per quel breve periodo non si è sentito il bisogno dell'amata. Tutto pensando di aver sortito in lei qualche dubbio o desiderio verso noi, quando nel migliore dei casi state giocando da soli, nel peggiore lei sa benissimo che tornerete e si può permettere di fare quel che vuole. Ed infine la stanchezza cronica del ripetersi di tutto questo, della continua ansia per ogni sua azione e inazione, fino a desiderare un cataclisma, una tragedia, la propria morte, come la pace agognata, cosicché non si debba soffrire più.
Tutti i libri di psicanalisi letti non valgono 50 pagine di Proust a quanto pare.
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libero-de-mente · 1 year
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8 dicembre 2022
Dovrei secondo la tradizione mettere gli addobbi natalizi, albero di Natale compreso, in casa.
Sono svogliato, quest'anno per me è davvero dura.
Mi siedo sul divano e penso.
Io sono nato e vivo in una di quelle parti del mondo che, da moltissimi abitanti della Terra, viene definita: la parte giusta.
Se esiste una parte giusta allora c'è anche una parte sbagliata.
Chi nasce in una piuttosto che nell'altra non lo fa per merito o demerito, ma per pura fortuna. Casualità.
Penso anche a un altro aspetto della natura umana, credere che esista chi nasce con l'aspetto giusto e chi con quello sbagliato.
Anche questo comunque, non per merito o demerito, ma per combinazioni.
L'uomo giudica e crede che ci siano posti migliori e posti peggiori, aspetti migliori e aspetti peggiori. Spesso il lato peggiore di qualsiasi cosa è un prodotto, come uno scarto, del lato che si reputa migliore.
E poi ancora.
Esistono persone che nascono nella "parte giusta del mondo", magari anche con "l'aspetto giusto" ma che di fondo hanno un grosso problema.
Quello di nascere con un cervello "non giusto" per la parte giusta in cui si vive con l'aspetto giusto che si ha.
Sembra una battuta, ma non lo è.
Questo post farà sorridere in maniera acida chi mi conosce dal vivo, coloro che mi seguono solo per curiosare. Quelli che hanno visto chi ero anni e anni fa. Quelli che scuotono la testa e mi reputano uno scemo patentato.
Avevo molti difetti. Non avevo "sapore", non avevo conoscenza di cosa fossi, un essere vivente mediocre e insulso. La classica persona che passa del tutto inosservata. Sapevo sorridere come un ebete, mi facevo andar bene tutto. Le situazioni, le cose e le vite degli altri scivolavano su di me. Opprimendomi o condizionandomi.
Eppure esistevo. Ho superato due eventi nella vita, non vado nei dettagli, che se dovessi riviverli mille volte per mille volte non ne uscirei vivo. Nel senso che sarei dovuto morire. Sul serio.
Invece qualche cosa è andato storto, magari Dio si è distratto un attimo e tac, sono passato indenne sia dall'utero di mia madre che davanti a quell'auto che sfrecciava veloce.
Sono accaduti, molti anni dopo, alcuni avvenimenti nella mia vita che hanno fatto uscire una crisalide, che si stava sviluppando dentro il mio contenitore esterno.
Un bozzolo insulso.
Ne uscì una personalità completamente diversa. Meno fredda, egoista e immatura. Anzi. Tutt'altro.
Va beh cari "amici e parenti", parole grosse, fatevi tranquillamente le vostre risate. Non m'interessa.
Io vivo con una testa "sbagliata" per la parte "giusta" del mondo che vivo.
E sono molto stanco di soffrire la vita difficile che si ha se non si è portati alla competizione, al volere emergere mettendo i piedi in testa a qualcun'altro, a spintonare per farsi spazio o schiacciare per annientare chi si reputa "uno scomodo antagonista".
DSA, Asperger, PAS ed empatia sono uscite tutte insieme. Troppe per reggerle.
Chi invece mi ha conosciuto in questa mia seconda parte di vita ha altri giudizi su di me. Migliori sicuramente. Agli altri lascio ancora la possibilità di ritenermi un semplice idiota.
Eppure dal vederli felici e sicuri, oggi con i miei nuovi occhi e il cervello sbagliato, li vedo recitare e vedo cose che loro non vedono o fanno finta di non vedere. Per poter vivere senza impazzire.
Io li vedo quando sono soli, appartati e sicuri di non essere osservati. I loro volti non mentono. Ho notato molta miseria in loro, di sentimenti e di azioni.
I miei occhi vedono diverso, i miei occhi perdono lacrime che non interessano a nessuno.
Un mondo giusto vissuto con una testa sbagliata, forse mi sono salvato due volte la vita per vivere questo inferno. Non fu una distrazione di chissà quale Dio, ma un arcigno destino. Valeva la pena scomparire prima allora.
Vivere non sentendosi vivi. Questo è il punto cruciale.
Ho imparato ad amare senza possedere qualcuno, ora devo imparare a vivere senza dipendere da niente. Non è facile.
Ora devo solo trovare il coraggio per poter vivere la vita che ho sempre desiderato.
A costo di morire.
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Come scrivo i miei film Paolo Sorrentino e le conseguenze dell'immaginazione
“La cosa peggiore che può capitare ad un uomo che trascorre molto tempo da solo, è quella di non avere immaginazione. La vita, già di per sé noiosa e ripetitiva, diventa in mancanza di fantasia uno spettacolo mortale. Prendete questo individuo con il papillon: molte persone nel vederlo si divertirebbero a congetturare sulla sua professione, sul tipo di rapporti che intrattiene con queste donne; io invece, vedo davanti a me solo un uomo frivolo. Io non sono un uomo frivolo, l’unica cosa frivola che possiedo è il mio nome: Titta Di Girolamo”.
In questo monologo di Titta De Girolamo, il protagonista de Le Conseguenze dell’Amore, secondo film di Paolo Sorrentino, c’è forse tutto l’anti-Sorrentino, un uomo che non sa immaginare e che perciò non vede niente di interessante attorno a sé. Titta Di Girolamo è un uomo solo, che vive in un albergo, che lavora per la mafia essendone prigioniero e che decide di ribellarsi senza un vero perché. Ma sopratutto lo fa senza pensare alle conseguenze. Probabilmente perché non riesce a immaginarle.
Paolo Sorrentino invece, immagina tutto. Conseguenze e antecedenze, un prima e un dopo, digressioni e rimandi, cause ed effetti. In ogni suo film c’è tanto da vedere, sentire e percepire, e nonostante questo c’è anche la sensazione che ci sia dell’altro, che si intravede appena, si sospetta, si intuisce, e del quale se ne vorrebbe sapere di più.
Nicola Giuliano, suo primo produttore, racconta spesso ai corsisti di Tracce cosa ha pensato quando ha letto per la prima volta un soggetti di Sorrentino: “capisci che ha un mondo dentro”. Per cui non ti chiedi, come invece fai, rispetto ad altri autori, se sarà in grado, dopo aver scritto un bel soggetto, di scrivere anche una bella sceneggiatura.
“Almeno per me – ha detto Paolo Sorrentino – ogni film è un tentativo di svelare un mistero. Scrivere per il cinema significa anzitutto mettere in scena il proprio mondo. E prima di scrivere, bisogna capire se si ha questo universo da raccontare, che ovviamente abbia la sua originalità, che non sia convenzionale o banale”.
Ultimo di tre figli, nove anni di distanza dal fratello, e 14 dalla sorella, Paolo Sorrentino vive una infanzia e adolescenza come un figlio unico, a stretto contatto solo con i suoi genitori dei quali osserva la vita, le amicizie, gli incontri, le feste. Il passato è fonte di ricordi da elaborare per trasmetterli ai suoi personaggi.
“Da bambino ero quasi condannato a osservare, perché di persone della mia età con le quali interagire non ce n’erano poi molte. Stavo con i miei genitori e con i loro amici. Se i grandi mi rivolgevano la parola era per coccolarmi in maniera un po’ paternalistica. Ho trascorso un tempAlcune follie che nel20ricordappare infinito, a vedere mio padre giocare a carte seduto su uno sgabellino. Guardando una partita di poker tra adulti si impara tantissimo: le allusioni, gli sfottò, le dinamiche del gioco, le psicologie. Gli amici di mio padre erano estremamente simpatici. Il poker implica delle attese e l’attesa stimola il parto della follia degli esseri umani. Potrei parlarne per ore. Il passato è fonte di ricordi da elaborare per trasmetterli ai suoi personaggi.
Il cantante confidenziale del suo primo film, L’Uomo in più, quel Tony Pisapia interpretato da Toni Servillo e più tardi protagonista del primo romanzo di Sorrentino, Hanno tutti ragione con il nome di Tony Pagoda, viene in parte proprio da quelle serate tra cinquantenni con un ragazzino ad osservarli.
“Il sabato sera, i miei invitavano gli amici a casa, mettevano un disco di Califano o Sinatra e ballavano i lenti. Io, bambino, li guardavo incantato. Ho fatto il mio primo film, storia di un cantante confidenzia­le, perché mio padre ascoltava Califano. Ho trasfigurato mio padre o gli amici di mio padre, cosa che ho fatto anche nella Grande bellezza. Essere figlio di genitori molto grandi mi ha aiutato ad osservare. Mi ero creato un mio bacino di immagini, un mio bacino affettivo nei confronti di questi adulti che oltretutto avevano delle regole precisissime: le donne giocavano a conchè, gli uomini giocavano a poker. E tutto questo mi è servito”.
Oltre alla memoria delle persone, c’è quella dei luoghi. Luoghi che a volte causano paure che ci porteremo dietro per tutta la vita.«Con i ragazzini del palazzo andammo a esplorare salgarianamente un palazzo davanti al nostro condominio. Dal piano terra iniziavano i normali appartamenti, ma il garage era da anni un cantiere semiabbandonato. Nel buio, dal nulla, all’improvviso uscì una donna vestita di nero e ci inseguì urlando con una scopa. Per me e per altri due bambini fu uno choc e trascorse tanto tempo perché riuscissi ad addormentarmi come prima. Ci dissero che erano tossicodipendenti, per me erano fantasmi. Per addormentarmi avevo bisogno che in casa ci fosse mio fratello. Sapevo che prima o poi mi avrebbe raggiunto in camera. Ma mio fratello era un grande nottambulo, uno che per gran parte della sua vita è tornato alle 5 del mattino, un uomo misterioso. Uno dei dibattiti più accesi, in casa, era imperniato su cosa facesse in giro ogni notte fino all’alba. Mia madre meditava di pedinarlo. Io lo aspettavo. Fino a quando non sentivo la chiave entrare nella toppa restavo con gli occhi sbarrati. Avevo dieci anni ed è allora che ho percepito la paura e la necessità di venire a patti con essa”.
Personaggi, azioni, luoghi, e anche suoni. “Quello del battere del coltello che mia madre usava per tagliare gli gnocchi. C’erano rumori rassicuranti e rumori misteriosi. Quello che tutte le sere alle 9 proveniva dal piano di sopra non si è mai capito da dove arrivasse. Era come una biglia che rimbalzava sul pavimento. Ma quando chiedevamo spiegazioni alla proprietaria dell’appartamento lei cadeva regolarmente dalle nuvole. ‘Biglie? Ma vi pare?’. L’inspiegabile ha alimentato la mia assoluta convinzione nell’esistenza dei fantasmi. Mia moglie mi prende sempre in giro per questa mia certezza”.
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Ma come si riesce a pescare dal proprio passato e ad estrapolarne gli elementi di un racconto odierno? “La malinconia è l’ideale per pescare le idee dal tempo dell’infanzia. Chi disse che ciò che accade di definitivo nella vita, succede entro gli undici anni? Per me è andata proprio così. Anche Il Divo è nato dalla suggestione di un ragazzino che vedeva continuamente Giulio Andreotti in tv. Quell’ uomo, evidentemente, aveva colpito molto il mio immaginario, forse perché per me coincideva con il lupo mannaro che, secondo quel che allora usavano dire magari scorrettamente i genitori, poteva comparire all’ improvviso in fondo al corridoio. Per Le conseguenza dell’ amore, andò allo stesso modo. Se ci si pensa bene,i bambini vivono ampi varchi di noia e di solitudine. E io ho capito che la solitudine di quando ero bambino si poteva trasferire a un uomo di cinquant’ anni. Quel film si sarebbe potuto chiamare Le conseguenze della solitudine“.
Pescare dalla propria infanzia ma anche dal passato recente. “Per La Grande bellezza ho fatto proprio questo. Questo film volevo farlo almeno vent’anni fa, quando da ragazzo venivo a Roma per lavorare e bazzicavo bar legati alla televisione e vedevo tutto il mondo che non esitava a frequentare quelle forme di squallore che io trovavo meravigliose e che mi hanno sempre suggestionato molto. Dirigenti che cercavano di abbordare le ragazze giovani, cose molto miserabili che su di me avevano una presa forte. Facevo un mio archivio di cose romane e di contesti per me misteriosi: la televisione, il Vaticano, la politica, queste feste mondane, tutte cose che non conoscevo venendo da Napoli, e che mi affascinavano e che ho voluto conoscere attraverso il film”.
Anche nel suo primo film americano, This must be the place,  ricorrono ricordi e immaginari: “Volevo misurarmi in maniera spudorata e spericolata con tutti i luoghi iconografici del cinema che mi hanno fatto amare questo lavoro sin da quando ero ragazzino: New York, il deserto americano, le stazioni di servizio, i bar bui coi banconi lunghissimi, gli orizzonti lontanissimi. I luoghi americani sono un sogno e, quando ci sei dentro, non diventano reali, ma continuano ad essere sogno. Questa stranissima condizione di continua sospensione dalla realtà mi è accaduta solo negli Stati Uniti”.
In quale momento tutti questi ricordi, frammenti di immagini, suoni, emozioni diventano scrittura? “La scrittura è un’altra cosa. Richiede, se non si vuole fare solo puro intrattenimento coi colpetti di scena, una moltitudine di sfaccettature, un’immersione nella vita passata e presente, insomma un complesso di coincidenze e talenti che potrebbero corrispondere all’intelligenza. Naturalmente, questa convergenza è rara e dunque si hanno sempre, a tutte le latitudini, molti bravi registi e pochi, capaci scrittori di cinema. Da sempre tengo da parte osservazioni, spunti, ritagli, cose che mi hanno raccontato. Per La Giovinezza ad esempio, in questa banca della memoria c’erano due reperti che hanno cominciato a lampeggiare. Uno era un fatto di cronaca: la regina Elisabetta aveva invitato Riccardo Muti a Buckingham Palace, ma non si erano messi d’accordo sul repertorio e lui non andò. La cosa mi colpì, perché da buon provinciale pensavo che alla regina non si potesse dire di no, ma Muti, napoletano come me, evidentemente si era sprovincializzato prima. La seconda era il ricordo di una cena con due uomini anziani che si erano messi a parlare di una ragazza di sessant’anni prima, ognuno voleva sapere se l’altro c’era stato. Non è che litigassero, ma si avvertiva una certa frizione”.
E quando i ricordi diventano un vero e proprio film? “Il film non nasce dallo studio di una materia, a me vengono in mente dei personaggi più che delle trame. Una volta che individuo un universo, intraprendo una fase di documentazione. È un lavoro che faccio in maniera molto ossessiva, ma non appena vedo che l’eccesso di conoscenza del tema del film va a impoverire la mia immaginazione mi fermo. Infatti, ho la conoscenza delle cose imprecisa e incompleta. Ad esempio per La Grande bellezza cominciai ad andare alle feste, ma dopo essere stato a tre feste non andai più perché stava diventando una routine. Preferisco idealizzare certi mondi e riproporli così. E sono anche convinto che questo mi avvicini alla verità molto di più. L’Italia è un paese meraviglioso, gravida di un campionario umano vastissimo, eterogeneo, intelligentissimo, cialtrone, ironico o estremamente serioso“.
E alla fine ogni film è una sorta di terapia psicologica, un andare a ritroso per ritrovare sé stessi. “Io credo che sapere troppo di sé stessi sia pericoloso. E anche un po’ inutile. In fondo all’anima, rischi sempre di trovare un essere umano bolso e appesantito. E non ci sono diete per migliorare il sé. Sì, probabilmente avrei avuto bisogno, come tanti, di andare in analisi, ma ho sempre evitato. Non è detto che poi ci trovi chissà quale rivelazione su di te. Potresti anche rischiare di non trovare niente”.
Articolo preso dal sito www.traccesnc.it
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tempi-dispari · 1 year
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Megaride, schiaffi in formato stoner
L’Italia, da nord a sud, è una fucina di talenti. Tra questi possiamo annoverare i partenopei Megaride. A poca distanza dall’uscita ufficiale, prossimo 26 marzo, il loro disco d’esordio, Mò, è un uragano nel deserto. Polveroso, potente, distruttivo. Per avere un’idea si devono prendere diverse influenze e miscelarle a modo di composto esplosivo. La base del nostro tnt è lo stoner. Aggiungiamo poi una forte dose di doom, southern, riff Black Society style, un pizzico di grunge, testi urticanti in italiano e dialetto e il gioco, più o meno, è fatto.
Più o meno perché la descrizione non è ancora esauriente. I suoni sono pesanti, i riff pachidermici, le distorsioni ultrasature. È un po’ come andare a cozzare distrattamente contro un muro di cemento armato. La prima reazione è lo stordimento. Non si capisce da dove sia arrivato il colpo. Mentre si rialza ci si accorge che il muro è davvero imponente. Improvvisamente dalle crepe dell’ostacolo emerge, a mo di Golem, una figura che inizia a darci schiaffi fortissimi. Ci tramortisce. La mente vacilla. Cerca un rifugio al crescente dolore. Attorno tutto cambia.
Diventa fluido, impalpabile. Le mazzate continuano ad arrivare senza che si possa reagire. Non ci si può quasi neanche alzare. I frangenti più lenti dei brani sono le mani pesanti del Golem che si poggiano violentemente sulla nostro faccia. Mentre andiamo al tappeto per l’ennesima volta, il cervello scava un anfratto dove potersi rifugiare. Sono i passaggi più psichedelici. Space quasi. Sempre pesanti, claustrofobici. Il nostro aggressore non ci permette di vedere più il cielo. Le parole dei testi sono i graffi che ci torturano la faccia, i lividi che piano piano iniziano a formarsi. Bruciano, sanguinano. Sono le chitarre a guidare l’intensità del dolore.
Sono i passaggi più grunge, Alice in chains style, ad ampliare la sensazione di sofferenza. Pur se lentamente il nostro aggressore su muove inesorabilmente. Non abbiamo ancora la forza e la lucidità per poter scappare. La nostra mente nel frattempo è riuscita a trovare un modo per sopravvivere. Gli schiaffi iniziano a non fare più così tanto male. Cominciamo a prendere coscienza che quel muro, quella statua semovente, lo abbiamo creato noi. Noi con i nostri falsi impegni, la nostra vita asservita, il tempo buttato sui social, la nostra vita venduta al miglior sfruttatore. O al peggiore.
Le sferzate di basso e batteria sono iceberg impenetrabili. Uno dei brani più interessanti del disco è sicuramente Cascate. Una lunga cavalcata lisergica. L’inizio è lento, affidato ad un riff leggero, in pulito. Battito di mani accompagna l’ingresso del basso. Il suo intervento è minimale. Pochissime note lunghe. Con l’arrivo della voce il brano aumenta di velocità. Il basso si fa pieno. Entra la batteria, anche se in maniera molto leggera. Il tempo è tenuto sul bordo del rullante e sul charleston. Lentamente la canzone si alza di intensità. Le chitarre si fanno distorte. Il basso pesante assieme alla batteria.
L’atmosfera si incupisce. Non c’è aria. È come se il golem di pocanzi ci avesse presi improvvisamente per la gola. Il colpo di grazia il nostro aggressore lo dà con Viaggeremo, ultimo brano del disco. Più che un colpo di grazia la canzone ci raffigura mentre ci alziamo da terra sanguinolenti. Guardandoci attorno ci rendiamo conto di essere soli. In testa una nuova consapevolezza. L’andamento lento della canzone fa da levatrice a nuovi pensieri. Le parole del testo gli danno voce. È la definita presa di coscienza di essere noi stessi i protagonisti della storia. Musicalmente è un momento per il grunge più oscure e pesante. Quello meno alla ribalta delle cronache. Il grunge marcio, sporco, urticante, intimo.
Concludendo. Ottimo esordio per i Megaride. Disco complesso, pesante, monolitico. Un lavoro che non si liquida dopo un ascolto. Anzi. Il cd riserverà sempre nuove soprese ad ogni passaggio. Disco ‘scomodo’, che entra nella parte più oscura della nostra anima sia di essere umani sia di cittadini per mettere a nudo le carenze, i compromessi, le rinunce. Parole per rendersi conto di quanto e come il nostro vivere troppo spesso non ci tiene nella giusta considerazione pensandoci come semplici numeri.
Un lavoro raccomandato a tutti ma che potrebbero apprezzare in nodo più rapido coloro i quali sono già abituati a certi suoni, a determinati andamenti.
Da non lasciarsi scappare.
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DEPRESSIONE, BORDERLINE, ANSIA
pensavo,
davvero sto così male da andare da uno psichiatra? Cioè pure la sallustio me l’ha consigliato oggi pure mia madre che non mi ha mai chiesto nemmeno che sto bene? Sto facendo come i tagli che nel giro di qualche mese mi sono guardata il polso e mi sono spaventata perché non capivo come potessi essere arrivata fino a quel punto. Io ora non mi rendo conto di stare male perché mi sono abituata e questa è la cosa peggiore che possa succedere, abituarsi al dolore, perché ti convinci che non sei demoressa, che quella è la normalità, stare male diventa automaticamente la comfort zone e ti ritrovi a toccare il fondo nel giro di pochissimo e non sai più come uscirne. Non ti ricordi più come stavi prima, come di sta bene, cosa voglia dire stare bene. Ti distacchi completamente dalla realtà e quando succede tornare su è un’impresa impossibile, se ti abitui al dolore poi non ne esci mai del tutto, perché stare male diventa stare bene e stare bene ti dimentichi cos è. Io ora sto precipitando e tutti intorno a me se ne rendono conto è questa è la cosa più grave, perché finché riesci a nasconderlo è gestibile ma quando non te ne rendi conto neanche tu di quanto cazzo sei in fondo ti sei allontanata così tanto dalla normalità e dalla felicità che non hai più idea di cosa sia. Io non voglio essere una di quelle persone che va dallo psichiatra e che è schiava dei farmaci per restare a galla, non voglio camminare tutta la vita su una lama di rasoio in cui il minimo squilibrio mi porta a cadere giù sempre più in fondo. Wuando ti abitui al a stare male diventi tu stesso il male che di divora da dentro e non te lo so spiegare meglio di così quello che provo. Ma già il fatto che penso che io non sia mai stata bene mi fa capire quanto mi sia abituata a stare male e non me ne rendo conto cazzo non so come fare non so come uscirne e a parole sembra molto più leggero credo. Ma cazzo oggi sembra tutto così fottutamente reale, ho un disturbo di personalità, ciò vuol dire che per non uccidermi il mio cervello ha creato più versioni di me perché una sola non sarebbe riuscita ad affrontare la mia vita, essere borderline vuol dire vivere grandi periodi dissociata completamente, essere dissociata vuol dire che io sto in un posto ma in realtà non ci sono, vuol dire chiedermi se le cose che sono successe nel corso della giornata sono successe davvero perché sono solo ricordi sfocati, vivo interi periodi della mia vita non sentendo nessuna emozione NESSUNA e non come quando una persona ti ferisce e dopo un po’ tu ti senti forte e pensi che niente possa farti male, no non sento un cazzo tranne il dolore fisico che mi provoco e cazzo se è bello sentire qualcosa, sentire di essere vivi, dj non essere solo un contenitore vuoto e il dolore che mi faccio diventa una salvezza perché mi ricorda che esisto che sono reale. Essere borderline vuol dire guardarmi allo specchio e vedere il mio corpo ogni volta in maniera diverso sembra un circo degli orrori nella giostra degli specchi in cui ogni volta che ti guardi vedi un mostro diverso. Io dovrò davvero combattere così tutti i giorni della mia vita contro me stessa? È una lotta continua ed è straziante sempre e solo io e me stessa
-Rachele
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allecram-me · 2 years
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Inizierei più o meno così la seduta
La realtà ha i contorni inquieti, ogni tanto sfrigola come faceva quel vecchio televisore che avevamo nel salone, almeno tre case fa. È una brutta ingiustizia che non si spiega perché ho smesso di fumare erba e non riesco nemmeno più a bere, soprattutto da sola. Non solo da sola, a mia discolpa, ma di certo soprattutto. L’erba non l’ho eliminata perché sono salutista, e nemmeno per questioni ideologiche. A volte mi racconto di averlo fatto perché non c’è più molto per cui valga la pena di viaggiare, ma alla fine la versione più onesta è che mi fa stare male, e allora è meglio lasciar perdere. Inizialmente non ci ho fatto troppo caso, poi ho semplicemente accettato che fosse così, devo dire con una tranquillità insperata. Non ho molti desideri, in effetti. Le uniche cose che mi tentano davvero sono inutili oggetti per rendere un po’ meno infelici i miei gatti, e materiali creativi che tanto userei ben poco. Mi concedo un qualche acquisto di questo genere ogni tanto, ma in maniera molto controllata. Ecco l’inciampo, potrebbe allora esordire l’interlocutore, avvezzo a quella storia delle pulsioni e delle difese, ma io ho salvato sul cellulare il numero della psicologa designata da circa 150 giorni, e non ci ho mai premuto su. Il fatto è che ora lo so, l’ho capito lentamente, ma in maniera naturale. In particolare, è successo quando ho realizzato che non ascolto più musica, proprio per niente - un sacco di contenuti video, ma tutti parlati. Ho iniziato anche con gli audiolibri, che sono un po’ una novità, ma restano persone che parlano in maniera serrata, senza grandi spazi vuoti. A dire il vero avevo presagito tutto all’inizio di questa nostra tragica vicenda, quando mi sono divertita per la primissima volta dal giorno del mio peggiore compleanno, e per punirmi qualcosa mi ha fatto scivolare il sesto bicchiere di mano, che è andato in frantumi. Sono rimasta tutta sola, come ero anche prima, ma ho dovuto raccogliere i cocci, aspirare via le schegge di vetro e le lacrime che rischiavano di mischiarsi al resto del disastro. Il bicchiere è stato un eroe di guerra, si è sacrificato affinché si stabilisse una nuova convenzione, un preciso accordo di pace. Meglio che ad un tavolo di trattative, fissando il pavimento macchiato ho realizzato davvero quello che potevo o non potevo fare, e quello che rischiavo lì sul piatto. Molto banalmente, se perdessi ancora una volta il controllo i cocci si moltiplicherebbero. Vivo da sola da ~ 270 giorni, e ho sempre fatto del mio meglio per non sporcare troppo: attraversata una certa soglia di sporco mi diventa letteralmente impossibile riuscire a governare gli ambienti. Non sono affatto una perfettina o un’igenista, è che non lo so gestire, né tantomeno ho volontà di imparare a farlo.
A me proprio non va di pulire, né di spendere soldi inutili, ma se li ritrovassi comprerei un’altra confezione da sei dei bicchieri che avevamo scelto per questa casa. Ne aggiungerei uno ai precedenti cinque riposti nella credenza, e metterei il resto del pacco da parte, su uno degli scaffali alti. Sarebbe bello, bellissimo avere un esercito di riserva. Sarebbe meraviglioso saper mollare la presa senza restare annichilita dalle possibili conseguenze. Sarebbe quantomeno utile schiacciare il dito su quel numero, quantomeno per riuscire a ritornare a farmi le canne in pace prima di andare a letto.
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corallorosso · 3 years
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Seid Visin non si è tolto la vita per via del razzismo che ha subito, dice il padre. E senza dubbio sarà così. Ci sono cose delle quali non si dovrebbe mai scrivete, sui social network, se non si conoscono bene le situazioni. Una di queste è senz’altro il suicidio di un ragazzo di vent’anni, tanto è vero che ho aspettato a parlarne, perché non volevo scrivere qualche stupidaggine. Quello che è sicuro è che il razzismo, di sicuro, Seid lo aveva provato sulla sua pelle. E ne soffriva molto, come aveva scritto in una lettera di venti mesi fa, dove aveva fotografato in maniera implacabile il declino della nostra società. Aveva parlato del cambiamento di atteggiamento della gente nei suoi confronti negli ultimi anni, aveva confessato che lui stesso, nel tempo, aveva iniziato a fingere di essere razzista verso i neri e gli immigrati. Aveva iniziato, lui, ragazzo adottato, a fingere di “essere bianco”. Come un Toni Iwobi qualsiasi. Come quelli che Malcolm X chiamava “ne*ri da cortile”. Che è una cosa che accade molto spesso, in situazioni del genere. Un po’ come gli italiani del sud emigrati al nord che, dopo qualche anno, iniziavano a diventare leghisti e ferocemente intolleranti nei confronti degli altri meridionali. E ha fatto i nomi, nella sua lettera, Seid. Ha parlato di amici e parenti che, prima, erano orgogliosamente fascisti e che ultimamente chiamavano “capitano” Salvini. Ha parlato di un amico, anche lui adottato, che si era visto avvicinare da tre signore, mentre giocava a pallone, che gli avevano detto: “goditi questo tuo tempo, perché tra un po’ verranno a prenderti per riportarti al tuo paese”. Ora, se vogliamo possiamo far finta che quella lettera non esista, come ha fatto Salvini, che è riuscito a sciacallare anche sulla morte di Seid senza vergognarsi, parlando di un ragazzo che, in vita, indicava in lui una delle cause del suo malessere e del razzismo dilagante. Se vogliamo possiamo fingere di non aver letto, possiamo dire che il razzismo non c’entra nulla col suo suicidio (e probabilmente sarà così, lo ripeto) e sentirci legittimati a dimenticare quello che aveva scritto qualche mese prima. Possiamo scrivere che il razzismo, in Italia, non esiste, possiamo raccontarci che non c’entra niente Salvini, non c’entra niente la Meloni, che Seid si sbagliava perché noi siamo brava gente, anche quando gioiamo per dei bambini morti in mare. Assolviamoci un’altra volta, poi un’altra, e poi un’altra ancora. Non è colpa di una destra che ha legittimato la xenofobia, Seid non si è ucciso per questo. Noi siamo buoni, sono loro i cattivi. Se fossero buoni, se ne resterebbero a morire di fame a casa loro, senza invadere le nostre città, costringendoci a vederli. Ripetiamolo ancora, seguitiamo a far finta di niente. Che se la ripeti abbastanza volte, con abbastanza convinzione, anche la peggiore cazzata, alla fine, diventa vera. Emiliano Rubbi
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emozioniamplificate · 4 years
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Caro Narcisista,
cosa vuoi che ti dica? Complimenti. Mi devo proprio complimentare per la tua recita perfetta. Hai totalmente fatto vivere in un illusione, hai preso in giro, e hai giocato con i sentimenti e le ferite di una ragazza che ci teneva da morire a te, che ti considerava come un diamante che mai avrebbe abbandonato; e invece, sei tutto tranne un diamante.
Insomma, un applauso per aver trovato la mia ferita dolente originaria, fingendoti un angelo, e averla riproposta, solamente in maniera peggiore, dal momento che, per me, era impensabile che te fossi esattamente l'opposto di quello che mi hai mostrato, e che, in più, potesse qualcuno fare qualcosa del genere.
L'empatia, la comprensione, gli occhi sinceri iniziali, l'interesse, le lusinghe e i complimenti si sono trasformati nell'insensibilità più inimaginabile, in una inspiegabile cattiveria mascherata, in un egoismo e in un trattamento del silenzio devastante, buttandomi come se fossi spazzatura, come se fossi niente, esattamente quel niente che mi avevi detto, abbracciandomi, che non ero.
Con un battito di ciglia hai eliminato la mia esistenza dalla tua vita, dopo esserti presentato in modo perfetto, come tutto quello di cui avevo bisogno. Mi hai studiata, hai capito esattamente, in modo impressionante, come dovevi essere per farmi cadere ai tuoi piedi. La chimica che c'è stata sin dal primo sguardo, tra di noi, la connessione interiore travolgente che si percepiva pure dall'esterno, era solo un illusione. Eppure io ho vissuto realmente tutto questo, solamente che era una messa in scena. La maschera é caduta ed io mi sono innamorata di una persona che nemmeno esiste.
Mi sembra di essere stata in contatto con un fantasma, ripenso a quei momenti e mi sembri intangibile.
Hai detto che eri diverso dagli altri, ed avevi ragione. Sei molto peggio.
Mi hai distrutto il cuore, trattata come una pezza per i piedi, senza nemmeno il coraggio di dirmi che volevi chiudere con me; anzi, hai fatto talmente tanto bene il codardo, che mi hai riempito di altre bugie, in modo tale che tu fossi la vittima ed io dovessi provare comprensione per te. Io dovevo imbottigliare i miei sentimenti, fare finta di niente, non disturbarti con il dolore che mi hai causato, e tu rimanere confortevolmente a tuo agio, a distanza da me, a mettere sul piedistallo altre e altre persone.
La colpa la hai raggirata su di me, ho finito per scusarmi per aver solo provato a dirti come mi hai fatta sentire, senza accusarti peraltro. Sono stata sminuita, come se io e le mie emozioni non avessero valore; ed è finita con io che mi scuso per stare male per colpa tua, ma, ovviamente, quello che é apparso, e che mi hai fatto subdolamente credere, sono io che mi scuso per essere un peso per te, che non hai nessuna presa di responsabilità di niente. Tu sei stato sempre impeccabile, sono io quella fuori di testa. E sul divano stavi a guardare come mi struggevo per te, immagino anche con un sorriso, un senso di superiorità e sopraffazione.
Ma il peggio é che sapevi, esattamente, quanto ero fragile, e non hai esitato, perché non provi niente, non ti é mai importato nulla, se non di te stesso.
Sarei cambiata per te, avrei affrontato i miei mostri, solamente per te; mi hai detto che ci sarei dovuta arrivare alla maturità, che 6 mesi dopo io sarei dovuta essere ancora viva, e invece, sei stato proprio quello che mi stava per far ammazzare; non avevo mai voluto morire così tanto, e ancora ora sono in bilico; eppure mi avevi detto di dover vivere, e che tu ci saresti stato.
La mia testa non funziona più come prima, ti sei presentato come la salvezza e mi hai lasciata con l'anima in rovina. Mi hai succhiato l'anima.
Vorrei non averti mai conosciuto, perché ti amo ancora, ti aspetto ancora, ogni secondo della mia vita, anche se non so chi sei.
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pleaseanotherbook · 3 years
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I PREFERITI DEL MESE #15: Marzo
Ah ragazzi siamo a più di un anno dall’inizio della pandemia, marzo è volato e io vorrei offrirvi parole consolatorie in questo post, peccato che io sia completamente e inevitabilmente piena, rasa, colma, finita. Faccio la conta delle mie fortune, metto in fila le mie occasioni di felicità, estremamente poche e rare e mi ripeto “adda passà ‘a nuttata” prima o poi ne usciremo no? Eppure ho finito tutto, qualsiasi tipo di pazienza emotiva. Ho passato un mese in lockdown, di nuovo, in zona rossa, le zone colorate che forse non significano niente, la solitudine attaccata alle ossa, lo spazio fisico occupato ridotto all’osso e l’incapacità di uscire dalla mia mente. Ho iniziato a fare plank, ho ripreso a fissare il soffitto in preda all’insonnia, a cercare di consolarmi come posso in questa situazione che rischia di fagocitarmi tutta. Un mese di zona rossa e la sensazione di deja vu come lo scorso anno è veramente troppo forte. Possiamo solo stringere i denti.  
Comunque, per cambiare le carte in tavola e dare una rinfrescata a questo blog, da inizio anno ho deciso di portare qui su questo spazio di web una delle rubriche che più mi piace guardare su Youtube e che sostanzialmente dimostra che non mi so inventare niente, ma che amo inglobare nel mio modo di essere espressioni, modi e idee che mi colpiscono l’immaginario. “I preferiti del mese” è un format che forse non si presta molto alla parola scritta ma ci proviamo, che tanto se non funziona lo facciamo funzionare a modo nostro.
Enjoy!
MUSICA
Attacco Spotify (o Soundcloud per un’opportuna playlist) in qualsiasi momento, ci sono canzoni che mi conciliano qualsiasi tipo di attività, anche il lavoro, e la challenge che ho portato avanti su Instagram a marzo mi ha dato modo di rendermi conto che il genere di musica che ascolto non è mai cambiato dalla mia adolescenza, sempre ballad, sempre vagamente indie, sempre sul depresso/triste andante. Ma è la musica che concilia i miei pensieri e le mie elucubrazioni che diventano entrate nel mio diario o pensieri sparsi appuntati su foglietti volanti. A marzo comunque sono approdata di nuovo a Mahmood e ho iniziato ad ascoltare in modo un po’ ossessivo Inuyasha. Ho anche recuperato Un po’ come noi di Gazzelle dell’album Ok uscito a febbraio e che devo dire avevo snobbato un po’. Ho risentito per caso Elastic Heart di Sia (il video che vi ho linkato pazzesco, è di una potenza unica, lui poi ecco…) e mi è tornato in mente chiaro e preciso il momento in cui l’avevo ascoltata per la prima volta e un po’ di malinconia mi ha assalita di nuovo. Ho anche scoperto Star 1117 degli Ateez, una ballad dolcissima che mi ha fatto sciogliere il cuore. Per strane vie ho anche recuperato anche Selfish di Madison Beer che devo dire mi ha molto impressionato. Last but not least No distance left to run di Blur. Giusto per non farci mancare nulla.
LIBRI
Ho ripreso a leggere con una certa costanza il che ormai rappresenta una vittoria per me, dal momento che lo scorso anno mi sono ritrovata fagocitata dal peggior blocco del lettore che mi sia mai capitato di affrontare. Il libro di marzo è sicuramente Kim Jiyoung, Born 1982 di Cho Nam-Joo, un’autrice coreana che è stato consigliato da Kim Namjoon, il leader dei BTS. Ve ne parlerò presto, ho già iniziato a scriverne la recensione, e ve lo consiglio molto. L’autrice racconta la storia di Kim Jiyoung una donna come tante che nasce, cresce e vive in Sud Corea e ne sperimenta tutte le problematiche e le contraddizioni, le mancanze e le incertezze, in uno schema che si ripete sempre uguale, in cui le donne si trovano a vivere in una posizione di debolezza rispetto agli uomini in ogni aspetto possibile. Una denuncia e un appello, la descrizione brutale, corredata di dati, di quanto sia incommensurabilmente difficile crescere come donna, in ogni punto del mondo. Illuminante a dir poco. Spero che venga tradotto in italiano.
FILM & SERIE TV
A marzo tra le altre cose ho guardato "Hotel Del Luna", che davvero mi ha lasciato senza parole. È un drama paranormale che si sviluppa intorno a questa locanda diventata nel tempo un super hotel di lusso, il Del Luna, che ospita i fantasmi che hanno questioni irrisolte sulla terra e gli impiegati nel frattempo cercano di mandarli felicemente nell'aldilà, aiutandoli a risolvere i loro problemi, grazie anche all'aiuto del Grim Reaper. A capo de Del Luna c'è Jang Man-Wol interpretata dalla bravissima IU una donna affascinante e con un passato terribile alle spalle. A servizio dell'hotel ci sono lo Studioso Kim come Barman, una manager delle stanze di più di cinquecento anni e un giovanissimo concierge morto da circa settant'anni. Tutti e quattro ovviamente hanno delle faccende da risolvere che li tengono ancorati al nostro mondo. Per funzionare l'Hotel però ha bisogno di un direttore umano, quando l'ultimo è diventato troppo vecchio per assolvere i suoi compiti, Man-Wol chiama Goo Chan-Sung, legato a lei perché la donna aveva salvato suo padre. Nonostante le perplessità iniziali e i suoi tentativi di fuga prende a cuore la causa e finisce per assumere davvero le mansioni del direttore. Mentre veniamo a scoprire il passato di Man-Wol e il suo rancore millenario, in ogni episodio troviamo la storia di un fantasma e i tentativi per mandarlo nell'aldilà. A intessere la tela del destino c'è Ma-Go che assume mille identità diverse a seconda delle necessità. 
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Il drama ha tinte un po' fosche e un po' horror, ma ha anche scene molto divertenti che sdrammatizzano quelle più toste. La cosa interessante del drama è che investiga situazioni difficili in cui non è semplice riconoscere chi ha ragione e chi ha torto, ma dal cui confronto si esce sempre rafforzati, e soprattutto cosa significa perdonare e perdonarsi. Bellissima anche la soundtrack e soprattutto bellissima IU che sfoggia sempre degli outfit pazzeschi e che incanta per la sua bravura nell'essere fredda, spietata e allo stesso mega vulnerabile. Super consigliato.
BEAUTY
Di solito in questa sezione consiglio prodotti di make up o skin care ma a questo giro non ho niente di nuovo di cui parlare, quindi farò un’eccezione e vi rivelerò che dopo averci molto rimuginato ho comprato il cerchietto bombato di cui vi avevo parlato qualche tempo fa nella sezione random… che dite lo possiamo approvare? A me piace devo dire, lo trovo molto elegante e comodo, poi ecco sono qui a indossarlo dentro casa e a farmici i selfie… chi me lo vede?
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CIBO
Prima che ci chiudessero in casa sono riuscita a fare un salto nel mio negozio di specialità orientale di fiducia e a parte la scorta di soju da tenere da parte per i momenti bui, mi sono concessa anche dei ravioli con i gamberi. Ahhhhhhhh che buoni, non vedo l’ora di tornarci.
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Also per confortarmi, mi sono regalata anche i Grisbì (miei biscotti prefe forever and ever) al cocco, me li sono centellinata per non finire il pacco in un sol boccone. E a proposito di cocco per tutto marzo ho continuato a cercare invano le nuove Gocciole al cocco.
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RANDOM
Lo scorso 17 marzo ad Atlanta è accaduto uno shoccante caso di cronaca: sono state uccise delle persone asiatiche in maniera brutale e questo atto atroce ha dato vita ad un movimento contro il razzismo perpetrato ai danni della comunità asiatica. Pensarci ancora mi da i brividi, pensare che non si possa vivere in tranquillità mi manda ai matti.
Alcuni ricercatori del Brain Institute della Federal University of Rio Grande do Norte in Brasile hanno scoperto che i polpi sognano: sogni molto brevi, ma comunque sogni. Non riesco molto a immaginare di attaccare elettrodi su un polpo, l’immagine mi fa molto ridere, ma sono sempre molto interessanti tutte le scoperte relative al cervello che veniamo a scoprire nel corso del tempo, perché ci danno un’immagine molto più chiara anche del nostro.
Secondo i due astronomi Michael Brown e Konstantin Batygin i pianeti del Sistema Solare non sono 8 bensì 9. Secondo loro questo nono pianeta spiegherebbe alcune stranezze che sono state riscontrate ai confini del nostro sistema che dovrebbe avere una massa tra 5 e 10 volte quella della Terra e con caratteristiche simili a Urano e Nettuno e un’orbita molto grande. L’astronomia è sempre stato un mio grande pallino e mi affascina molto, sono convinta che ci siano tantissimi misteri che aspettano solo di essere scoperti.
E voi che avete combinato a marzo?
Raccontatemelo in un commento.
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maledettelepersone · 4 years
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Questo post è dedicato a te,
A te che giudichi senza sapere.
È facile vero fare battutine, ridere e puntare il dito contro una persona magra?
È facile vero esclamare "Oh, guarda a quella è uno scheletro"
oppure in maniera più gentile "le ossa diamole ai cani", "che schifo, non si guarda allo specchio"?
La verità è che tutte noi, che soffriamo di dca, ci siamo guardate eccome allo specchio, ma l'immagine che abbiamo visto non ci piaceva.
Più i giorni passavano, più ti ritrovarvi lì di fronte quell'orribile riflesso, ad analizzare ogni tuo piccolo difetto che per te non era piccolo, anzi era insopportabile.
Man mano hai cominciato ad odiarti, odiarti tantissimo.
Il cibo è diventato il tuo peggior nemico, si, perché hai dato a lui tutta la colpa.
A lui piace vederti ingozzare di cibo, vederti sempre più grassa, farti assumere sempre più calorie
Ed è per questo che arriva in soccorso la bulimia, che ti fa vedere il mondo con occhi diversi
Ti dice che dovrai solo abbandonarti a lei e ti sentirai meglio.
Ti sussurra all'orecchio che fai schifo, che hai mangiato troppo, che non va bene
E ti dice che lei ha la soluzione ed è molto semplice
Basta solo mettersi due dita in gola e ripetere l'operazione fino a quando non avrai espulso tutto dal tuo corpo, e il gioco è fatto.
In un attimo tutto quello che hai mangiato non è più all'interno del tuo corpo
Fantastico, non è vero?
Certo che è lo, perché d'un tratto ti senti felice, sai di aver fatto la cosa giusta, anche se la prima volta è stato abbastanza spiacevole
Si perché devi sentire il cattivo odore che emane ciò che hai vomitato,
devi lavarti i denti almeno 3 volte per togliere la patina che si è andata a formare
Devi asciugarti gli occhi che lacrimano per lo sforzo e sistemarti il trucco, pulire tutto alla perfezione per non dare sospetti dopodiché uscire da quel bagno con un favoloso sorriso stampato in faccia
Ma fa nulla, perché poi ti abitui
Tutto molto bello non è vero?
È che dopo mangiare normalmente e vomitare tutto non ti basta più
Inizi a restringere sempre e sempre di più
Vedi i numeri sulla bilancia scendere e ti senti benissimo, non aspettavi altro
Ma non ti fermi ne vuoi sempre di più,
perché non sei ancora abbastanza magra, perché ti vedi ancora grassa,
perché nonostante le ossa che sporgono dal tuo bacino tu vedi ancora quella schifosa pancia e quelle tue cosce grasse...
È che quando ti accorgi di soffrire di un disturbo alimentare è già troppo tardi,
Non basta dire "devi solo mangiare, è così semplice", "finiscila con questi capricci"
Non è semplice, si peggiorano solamente le cose così
Perché sai che dovresti mangiare, ma lei è più forte, lei non ti lascia,
Ormai lei ti possiede.
L'anoressia, la bulimia, non sono dei capricci, non è semplice come si crede. Non si diventa così per pura moda, o per fare la modella, come in molti pensano. È una malattia, una terribile malattia, che si nutre man mano di te fino a consumati, che ti tiene ancorata a sé fino a quando non hai oltrepassato il limite, che ti fa vedere la relatà distorta, che ti fa sentire freddo anche con 40 gradi, che ti fa avere lividi su tutto il corpo, che ti porta un'infinita tristezza, che ti fa sentire così inutile e così sbagliata.
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shipisnotaboat · 3 years
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3. Padre Petrus. Giochi di potere.
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Padre Petrus non aveva più una bella voce, ma si unì volentieri al coro dei fedeli che sanciva la fine della funzione. Dopo che i fedeli si furono ritirati al di fuori della chiesa di San Lucio, attese in un angolo con le braccia conserte mentre gli sgabelli da preghiera venivano riordinati dagli inservienti, dopo di che si diresse verso la canonica immaginando che padre Amadeo fosse pronto a riceverlo. Bussò con le nocche alla porta ma si fece strada senza attendere risposta. L’uomo lo osservò inizialmente distratto, poi focalizzò su di lui ogni sua attenzione. Invitò il vescovo a prendere posto ad un piccolo tavolo al centro della stanza a pianta rettangolare. Nonostante non si trattasse di uno spazio ridotto, la quantità di mobilio e l’assenza di finestre rendeva l’ambiente soffocante.
Padre Amadeo recuperò una bottiglia ed un paio di bicchieri, e si apprestò a servire entrambi.
<Per essere la prima funzione sull’isola, direi che è andata molto bene, non siete d’accordo padre?> la voce del vescovo gracchiò quasi.
<Eccellenza! Sono ancora emozionato! Non mi aspettavo una raccomandazione per questa mia missione, dal Cardinale di Thélème! Come avete fatto a... io...>
Petrus sollevò una mano, mostrando il palmo per arrestare il fiume di parole del giovane sacerdote <sua eccellenza è un uomo che sa essere riconoscente e capisce quando concedere un piccolo favore ad un vecchio amico. È un bene che il suo potere venga riconosciuto anche così lontano da casa.>
Padre Amadeo non sembrò cogliere l'allusione, o semplicemente lasciò correre. Petrus si riteneva soddisfatto di aver appena guadagnato un nuovo contatto, per anni si era mosso così, guadagnando e riscattando un favore alla volta verso la vetta nel vecchio mondo, nel nuovo non avrebbe fatto differenza.
Petrus lasciò che Amadeo gli servisse il vino e perse con lui in chiacchiere che, sebbene non riscattassero per nulla il suo interesse, avevano il pregio di consolidare il suo rapporto con il sacerdote.
Una volta all'esterno il vescovo si diresse verso la taverna. Sebbene San Matheus non fosse grande quanto Hikmet, poteva vantare strade lastricate, una pianta regolare, alte mura protettive ed un enorme porto organizzato in maniera impeccabile, tutti segni che secondo lui dimostravano un maggiore livello di civilizzazione.
In fondo alla via principale vide le guardie in attesa, e quasi annoiate, intente a cercare un riparo dal sole battente del mezzodì. Una giornata come molte altre insomma, che scorreva pigramente inconsapevole delle macchinazioni del vescovo.
Raggiunta la piazza principale, recuperò dalla tasca della cappa un taccuino, e scorse le pagine alla ricerca del prossimo punto della sua agenda <Sua eccellenza Tadeusz ed il ministro Giustino...>
Fece sparire il blocchetto con gesto soddisfatto, che si trasformò in breve in una nota di rimprovero verso sè stesso <Il fatto che abbia dovuto appuntarmelo probabilmente significa che sto diventando troppo vecchio per questo genere di vita.> Con le mani sui fianchi rimase fermo qualche altro istante ad osservare la piazza circondata da negozi ed alimentata da un continuo via vai di coloni o inquisitori dell'Ordo Luminus. Riprese a camminare, accantonando l'idea di concepire un possibile cambio di attitudine, ma decise di trovare il tempo per un piccolo fuori programma, si avvicinò infatti agli uffici destinati all’Inquisizione e si addentrò all’interno, salutando con cenni educati i confratelli che incrociava.
Lì incontrò il neo-eletto inquisitore Aloysius, nel pieno dei suoi studi, almeno a giudicare da come risultava impegnato a leggere alcune liste insieme ad i suoi confratelli.
<Inquisitore> Petrus cercò con un cenno di attirare la sua attenzione <permettete due parole?>
L’uomo lo osservò torvo per qualche istante, non si trattava di un ragazzino, questo era evidente, ma riusciva a risultare ben più vecchio a causa dei tratti tirati e del reticolo di rughe ed imperfezioni che caratterizzavano il suo volto. Probabilmente aveva militato i primi anni da missionario all’interno di qualche lazzaretto, in fondo la Malicore non era certo l’unica piaga ad ammorbare il Vecchio Continente e per molti fedeli era ritenuto un esordio comune per dimostrare la propria fede in San Matheus, un esordio che, tuttavia, lasciava diversi segni e spesso era considerato un pretesto per sentirsi dei “miracolati”.
Aloysius aveva piccoli occhi castani  ed un naso aquilino, dettagli che alimentavano la sua aria da rapace. Petrus sorrise con calore e serenità, ben conscio di non avere nulla da temere, data la sua condotta impeccabile.
<Eminenza> concesse quello, con un cenno liquidò i confratelli ma si premurò di nascondere le liste alla vista di Petrus <...la luce rischiari la vostra Via. Come posso esservi utile?>
<A dire il vero passavo di qui, ed ho pensato di cogliere l’occasione di complimentarmi con voi per la vostra nuova nomina. Inoltre speravo di trovare sua Eccellenza Tadeusz.>
Aloysius lo scrutò a lungo prima di rispondere, formalità a parte, il vescovo non gli andava certo a genio, e Petrus non poteva dire che non fosse reciproco.
La risposta scivolò dall’alto, letteralmente, insieme all’attenzione dell’inquisitore <Credo… che sua Eccellenza si trovi nei suoi appartamenti. Il dottore si è caldamente raccomandato affinché riposasse.>
Petrus dovesse fare un grosso sforzo per non compiacersi di questa notizia <Spero che le sue condizioni non siano peggiorate.>
<A dire il vero temo che la sua ulcera sia degenerata a tal punto da impedirgli di camminare a lungo.>
<Oh, ne sono molto dispiaciuto.>
<Sono certo che troverà conforto nella preghiera.> L’inquisitore riprese in mano le sue carte ed aggirò il proprio scrittoio, esaurito l’argomento non si fece troppi problemi a cercare di mettere il vescovo alla porta <Sarei lieto di restare a chiacchierare con voi Eccellenza, ma temo di aver molto lavoro da sbrigare. Immagino possiate comprendere...>
In effetti Petrus aveva ottenuto le informazioni che cercava, non aveva senso restare oltre e rischiare di irritare gli inquisitori per nulla. Colse invece l’occasione di congedarsi esaudendo la richiesta di Aloysius, tra saluti formali ed auguri di repertorio.
Se l’Ordo Luminus avesse riversato in politica una parte del suo zelo religioso avrebbe avuto degli avversari temibili lungo la sua scalata sociale. Per sua fortuna gli inquisitori avevano ben altre mire.
Non gli restò che l’ultimo nome della sua lista, l’ultimo che avrebbe potuto risultare di intralcio quando avrebbe avanzato la sua nomina ad Ambasciatore nei confronti della Madre Cardinale, un posto che aveva deciso di rendere vacante non appena aveva saputo che il Principe d’Orsay aveva inviato il giovane Costantin ed il suo seguito sull’isola per assumere il ruolo di Governatore. Si chiese se avrebbe avuto modo di rivedere anche la figlia dell’isolana, un pensiero che fece dilagare nella sua mente una sequela di dubbi ed emozioni differenti.
Tirò un lungo sospiro e si rimproverò mentalmente per la sua mancanza di concentrazione, certo che se avesse esultato prima del tempo, o fatto un solo passo falso, i suoi obiettivi non sarebbero stati di più che castelli costruiti in aria da una mente troppo creativa.
Un pensiero che dovette mantenere bene a mente, come se si tappasse il naso, quando raggiunta la taverna si fece largo verso il livello inferiore, un postribolo di allibratori e giocatori d’azzardo, che lasciò il posto ad un covo di meretrici quando fece il suo ingresso nella stanza successiva. Anche Thélème aveva le sue luci e le sue ombre, tuttavia Petrus non era certo lieto di mostrarsi in un posto simile.
Un paio di prostitute si fecero avanti per accoglierlo, ma il tenutario le allontanò mandandole verso altri clienti. Lo accolse con discrezione, una dote che Petrus apprezzò sinceramente, così come la scelta di risalire al piano principale e spostarsi verso il retro della taverna.
<Spero che il ministro Giustino abbia apprezzato questa piccola festicciola…>
<Assolutamente padre. Il ragazzo che si è occupato di lui è stato particolarmente zelante nell’accontetare ogni sua richiesta...> rispose l’uomo <...non avrei mai detto che un uomo integerrimo come il ministro preferisce la compagnia maschile a quella femminile.>
Petrus non ne fu affatto sconvolto: aveva già avuto modo di fare le sue ricerche quando aveva pianificato come liberarsi dei possibili candidati più fastidiosi.
<Il messaggio gli è stato riferito?>
<Si è unito giusto questa mattina alla missione diretta verso Wenshaganaw.> il tenutario si grattò il mento, insinuando le unghie sporche sotto la barba scura, un modo come un altro per cercare di dissimulare la cupidigia nel suo sguardo mentre seguiva la mano di Petrus diretta alla cintola, da cui recuperò una scarsella che abbandonò al centro del tavolo, con un tintinnio eloquente proveniente dal suo interno.
Il tenutario non perse tempo, raccolse la scarsella e si accomodò meglio per mettersi a contare le monete.
<Ma ditemi, come facevate a saperlo?>
<Immaginavo soltanto che l’idea che la Madre Cardinale ricevesse le prove della sua perversione lo avrebbe aiutato a ritrovare la sua vocazione.> Fu la risposta del vescovo, innocente e… distratta, come se l’argomento non avesse importanza.
Concesse all’uomo il tempo necessario a contare tutte le monete, Petrus non potè fare a meno di provare un certo disgusto: il ministro si era rovinato con le sue stesse mani, ma erano stati sufficienti sei pezzi d’oro e dieci d’argento per convincere il tenutario a vendere a chiunque un uomo che per lungo tempo era stato un’autorità a San Matheus.
<Ci sono tutti.> confermò il tenutario con un sorriso soddisfatto, Petrus rispose con un cenno  soddisfatto, mentre quello continuò <Posso dire, padre, che fare affari con voi è stato molto... piacevole.>
Petrus si alzò dalla seduta che aveva occupato, senza fretta, ma si sentì in dovere di mettere un freno all’avarizia dell’uomo, per dissuaderlo dall’idea di mettere un prezzo anche sulla sua testa. 
<Sarà pure proficuo, se continuerete a fare affari con me, e non su di me.>
L’uomo ridacchiò, il messaggio era arrivato dove doveva arrivare, questo Petrus lo comprese grazie al silenzio che lo scortò sino alla porta.
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scienza-magia · 3 years
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Il “de-biasing” delle distorsioni cognitive in fase decisionale
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Come possiamo sfruttare la nostra vulnerabilità per fare la scelta giusta. Le nostre decisioni sono invariabilmente influenzate da fattori che non dovrebbero avere nessuna importanza e, allo stesso tempo, trascurano, invece, elementi di cui dovremmo avere la massima considerazione. Lo studio dei processi decisionali negli ambiti più disparati, dalla politica alla finanza, dal business all'educazione, fino alle decisioni complesse in ambito industriale o internazionale, ha messo in luce la nostra tendenza a discostarci in maniera sistematica dai modelli di razionalità definiti teoricamente dagli economisti, dai logici e dagli statistici. Le nostre scelte sono invariabilmente influenzate da fattori che non dovrebbero avere nessuna importanza e, allo stesso tempo, trascurano, invece, elementi di cui dovremmo avere la massima considerazione: il nostro atteggiamento nei confronti del rischio muta a seconda che valutiamo potenziali guadagni o potenziali perdite; queste ultime pesano sulle variazioni del nostro benessere, in proporzione, molto di più dei guadagni equivalenti; abbiamo problemi sistematici con i giudizi probabilistici che ci spingono a sovrastimare eventi estremamente rari e a sottostimare l'evenienza di eventi che, invece, sono altamente probabili; trascuriamo le frequenze di base e violiamo spesso i principi elementari della teoria della probabilità. “Bias” e pressione evolutiva
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Tutte queste distorsioni o “bias”, hanno una ragione profonda: sono effetti collaterali di quelle strategie cognitive (euristiche) che il nostro cervello ha perfezionato nel corso di centinaia di migliaia di anni e che la pressione evolutiva ha selezionato per metterci nelle condizioni di gestire l'enorme complessità dell'ambiente nel quale viviamo. Prendere decisioni in queste condizioni seguendo i criteri di razionalità olimpica prevista dalla teoria della scelta razionale implicherebbe capacità di calcolo illimitate, una memoria da mainframe e una totale insensibilità alla sfera emotiva e sociale. C'è ormai un diffuso consenso sulla differenza che esiste tra l'approccio normativo allo studio delle scelte e quello, invece, di natura descrittiva. La prospettiva normativa semplicemente cerca di indicare quali sono i principi e i criteri ideali di una decisione, qualora il decisore fosse, di fatto, perfettamente razionale. “Come dovremmo decidere?” è la domanda alla quale si cerca di dare risposta. La prospettiva descrittiva, al contrario, si pone il problema di studiare ed individuare regolarità nel modo in cui gli esseri umani, effettivamente, prendono le loro decisioni. Si tratta dunque di considerare la fallibilità, l'imperfezione, l'errore. “Come decidiamo?” è la domanda che ci si pone in questo caso. Lo studio delle euristiche e dei “bias” a cui queste spesso conducono non è altro che lo studio del gap che esiste tra il modello normativo e il modello descrittivo, tra ciò che facciamo e ciò che dovremmo fare. Tra le implicazioni più interessanti dell'approccio delle euristiche e dei “bias” vi è quella che descrive l'origine dei comportamenti anomali come il frutto di un conflitto tra i due sistemi che metaforicamente sono all'opera nel nostro cervello: il “sistema 1”, istintivo, rapido, inconscio ed economico e il “sistema 2”, lento, deliberativo, preciso e dispendioso. La seconda implicazione è che se da una parte è il conflitto tra i due sistemi a far scaturire i nostri errori sistematici, si potrebbe ipotizzare di insegnare ai due sistemi ad andare più d'accordo, a cooperare per ridurre quanto più possibile le distorsioni cognitive che in condizioni normali influenzano negativamente le nostre scelte. Se l'ambiente decisionale si “ingolfa” Questa attività prende il nome di “de-biasing” o “counter-biasing”. Nel primo caso si cerca di rendere più consapevole il decisore circa il funzionamento delle euristiche in modo che la loro azione diventi trasparente e quindi più facilmente controllabile, mentre il “counter-biasing” prevede la ristrutturazione dell'ambiente decisionale in modo che l'effetto di un'euristica possa controbilanciarne, nella direzione desiderata, quello esercitato da un'altra. Un esempio più aiutare a chiarire questo ultimo aspetto. Sappiamo da tempo che in svariati ambiti la performance di un soggetto non necessariamente aumenta con gli incentivi. Non sempre, cioè, la prospettiva di un guadagno maggiore, induce il comportamento che si voleva promuovere. Spesso, invece, la performance peggiora; il soggetto cede alla pressione e ottiene dei risultati inferiori rispetto a quelli ottenuti con un livello minore di incentivi; si dice in questi casi che si corre il rischio di “ingolfarsi” (“to choke”). Alla radice della questione sembra esserci un problema di attenzione: quanto la posta non è troppo alta, il soggetto tende a focalizzare la propria attenzione sugli elementi essenziali del compito che deve svolgere, ma quando la posta cresce, perché gli incentivi monetari, per esempio, sono elevati, allora il soggetto tende a focalizzare la propria attenzione su una miriade di dettagli presenti ma non rilevanti, a preoccuparsi troppo di questioni secondarie a dare peso eccessivo a pensieri fuorvianti, ottenendo, come conseguenza, una performance complessiva peggiore. Training autogeno e la scelta tra uovo e gallina Sono state avanzate varie proposte e differenti tecniche per tentare di limitare la vulnerabilità alla pressione psicologica. Jennifer Reeves e i suoi colleghi, per esempio, hanno studiato l'effetto positivo del training autogeno per ridurre il rischio di “ingolfamento” quando i calciatori si trovano a battere un rigore determinante (Reeves J., Tenenbaum, G., Lidor, R., 2007. “Choking in front of the goal: the effects of self-consciousness training”. International Journal of Sport and Exercise Psychology 5, 240–254”). Ma questi interventi possono essere complicati e molto lunghi. Jeffrey Carpenter e Kevin Benscheidt, invece, hanno adottato una strada alternativa, quella, appunto, di utilizzare un “bias” per contrastarne un altro (“Advanced Counter-Biasing”, IZA DP No. 12253, 2019). Se la prospettiva di un elevato guadagno rende peggiore la performance perché fa aumentare la pressione sul soggetto, si potrebbe pensare di ridurre la percezione dell'ammontare del guadagno in modo da allentare la pressione che il soggetto percepisce su di sé e sullo svolgimento del compito assegnatogli. Un modo per ridurre la percezione dell'ammontare dell'incentivo è quello di ritardarlo nel tempo. In questo modo, almeno per tutti coloro che tendenzialmente preferiscono un uovo oggi ad una gallina domani, lo stesso incentivo apparirà minore, così come la pressione che lo stesso tenderà a generare. I soggetti dell'esperimento di Carpenter e Benscheidt dovevano risolvere dei semplici quiz matematici per ottenere un premio pari a $5 o $50, subito oppure dopo due mesi. Come previsto un numero sostanziale di essi, il 42%, in presenza del premio immediato da $50 ottennero una performance peggiore rispetto a quella ottenuta con il premio da $5. L'introduzione del premio ritardato, il cui effetto si fonda sulla nostra preferenza per il “tutto e subito”, il cosiddetto “present bias”, produsse un risultato differente: i soggetti più impazienti ottennero guadagni fino al 33% maggiori di quelli ottenuti con il premio immediato. Immunizzarsi dalle distorsioni cognitive Il “counter-biasing”, usare un “bias” per contrastare gli effetti di un altro, è solo una delle strategie che possono essere messe in campo per cercare di immunizzarci quanto più è possibile dagli effetti nefasti delle nostre distorsioni cognitive, le altre si fondano sulla dimensione motivazionale, sull'apprendimento di regole specifiche, sull'utilizzo di tecnologie e procedure particolari, come le decisioni di gruppo o i sistemi di supporto. Affronteremo molte di queste tecniche nei prossimi appuntamenti con “Mind the Economy”. Una considerazione è necessaria a questo punto ed ha a che fare con la difficoltà e la diffidenza con la quale gli interventi di “de-biasing”, in genere, vengono accolti. A nessuno piace sentirsi dire che il modo in cui ha preso le sue decisioni, anche importanti, è sbagliato. Questo vale soprattutto per chi occupa ruoli di responsabilità e che, magari, è arrivato lì grazie a decisioni che si sono rivelate corrette e che hanno portato successo e riconoscimento. Inoltre, spesso, le tecniche di “de-biasing” possono essere strane e complicati, non di immediata comprensione e questo equivale, in qualche misura, a perdere controllo sul processo decisionale; una cosa che pochi di noi sono disposti ad accettare di buon grado. Ci troviamo qui davanti ad un paradosso: proprio coloro che avrebbero più bisogno di percorsi strutturati di “de-biasing”, perché, occupando posizioni apicali in organizzazioni pubbliche e private, sono chiamati a prendere decisioni dalle conseguenze potenzialmente anche molto rilevanti, sono proprio coloro meno propensi ad accettare la necessità di un simile affiancamento. Percorsi di “de-biasing” A questo proposito può essere utile sottolineare la distinzione tra l'”adeguamento” ad una pratica (“compliance”) e l'internalizzazione di una norma comportamentale. Mentre la prima è indotta principalmente da motivazioni estrinseche o attraverso la coercizione e produce una superficiale e meccanica adesione agli standard richiesti, l'internalizzazione si fonda su motivazioni intrinseche e produce una adesione fiduciosa e convinta. L'adozione di percorsi di “de-biasing” all'interno delle organizzazioni può procedere in entrambi i modi. Questi avranno naturalmente, come è lecito aspettarsi, esiti molto differenti. Si può cercare di ottenere il cambiamento cercando di “distruggere fisicamente i centri di potere che si vuole cambiare (…) malessere all'interno di questi (…) le persone opposte al cambiamento, nella maniera più plateale possibile, sicché da ispirare paura”, come suggeriva qualche anno fa, a degli studenti universitari, un importante manager di una primaria azienda italiana, oppure favorendo l'internalizzazione di norme e modi di pensare differenti, come nel caso di quei dipendenti della Toyota ai quali viene consigliato di analizzare i problemi che incontrano chiedendosi almeno cinque volte “perché?”. Read the full article
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