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#BOCCA DELLA SELVA
assowebtv · 2 months
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NAPOLI: IL GIRO D'ITALIA PRENDE FORMA E COLORI NELLA CITTA' PARTENOPEA
Entra nel vivo l’organizzazione delle tappe del Giro d’Italia promosse dalla Città Metropolitana di Napoli, la Avezzano – Napoli, prevista domenica 12 maggio, e la Pompei – Cusano Mutri/Bocca della Selva di martedì 14, che offriranno, per il terzo anno consecutivo, ai 700 milioni di telespettatori e appassionati di 190 Paesi in tutto il mondo le straordinarie bellezze di Napoli e della sua area…
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tifatait · 2 years
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Panchina rossa contro la violenza, inaugurazione a Bocca della Selva | Canale 58 | canale58.com
Panchina rossa contro la violenza, inaugurazione a Bocca della Selva | Canale 58 | canale58.com
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theagcjournal · 3 years
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The right equipment to taste freedom.. ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀ ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀ ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀ ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀ ⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀⠀ #love #photooftheday #travel #instagood #photography #fashion #model #vacation #instatravel #photographer #photoshoot #makeup #portrait #followme #likeforlikes #fashionblogger #wedding #canon #naturelovers #artist #india #selfie #music #photos #modeling #fotografia #pic #design #portraitphotography #hair […] (presso Bocca Della Selva Monte Matese) https://www.instagram.com/p/CTvQpqSMcF_/?utm_medium=tumblr
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giuliocavalli · 4 years
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#leroedelgiorno per @Fanpage.it Ci vuole un cuore grande e tanto amore per ridere dell'orrore. Il cuore grande è quello di Abdullah Al-Mohammad, ieri sconosciuto ai più e oggi nuova star di questi social che ogni tanto ci regalano storie che sono fiori da custodire con cura e il tanto amore è quello che scorre tra lui e sua figlia Selva che, nel video che sta facendo il giro del mondo, guarda l'obiettivo con le gote rosse, i riccioli e la bocca distesa in un lungo sorriso. Accade tutto a Sarmada, in Siria, dove Abdullah Al-Mohammad si è rifugiato con sua figlia dopo essere stato sfollato dalla sua abitazione di Saraqib, nella regione di Idlib, e mentre infuria la guerra civile padre e figlia giocano a capire l'origine del rumore della prossima esplosione: «È un aereo da guerra o un proiettile?», chiede il padre e quando la piccola Selva indovina riceve il premio più semplice, un sorriso. Il bombardamento si trasforma in gioco e la risata di quella bambina di 4 anni deflagra più di qualsiasi esplosione maligna. Il sorriso vince sulla guerra, anche se solo per qualche attimo, è l'inversione della realtà per riuscire a sopravviverle, è il gioco che Roberto Benigni ha già raccontato nel suo film "La vita è bella". Ed è poesia, poesia pura, di quelle che ti spaccano il cuore per la bellezza. Il video è stato condiviso su Twitter da Mehmet Algan, ex deputato del Partito della Giustizia e dello Sviluppo turco della regione di Hatay. catturando l'attenzione di tutti i media e Abdullah Al-Mohammad ha raccontato di essersi inventato il gioco per proteggere la figlia Selva dalla «crisi psicologica» che attanaglia i bambini siriani. La Siria oggi non un film, no: da dicembre ad oggi, secondo l’Onu, sono circa 875 mila gli sfollati da Idlib a causa dei raid del regime siriano appoggiato dalla Russia contro il nord-ovest dei ribelli. Ci sono persone che per essere capaci di cambiare il mondo imparano a farsi cambiare dal mondo e lo trasformano: Abdullah Al-Mohammad è riuscito nella magia di leggere la guerra con gli occhi della pace e di tenere per mano sua figlia anche sotto le bombe. È una visione di quelle che cambiano la storia, seppur minima. https://www.instagram.com/p/B8tmu0aif5M/?igshid=mpuk9qtbmmbz
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corallorosso · 4 years
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Siria, l‘eroe è il padre che insegna a ridere delle bombe Ci vuole un cuore grande e tanto amore per ridere dell'orrore. Il cuore grande è quello di Abdullah Al-Mohammad, ieri sconosciuto ai più e oggi nuova star di questi social che ogni tanto ci regalano storie che sono fiori da custodire con cura e il tanto amore è quello che scorre tra lui e sua figlia Selva che, nel video che sta facendo il giro del mondo, guarda l'obiettivo con le gote rosse, i riccioli e la bocca distesa in un lungo sorriso. Accade tutto a Sarmada, in Siria, dove Abdullah Al-Mohammad si è rifugiato con sua figlia dopo essere stato sfollato dalla sua abitazione di Saraqib, nella regione di Idlib, e mentre infuria la guerra civile padre e figlia giocano a capire l'origine del rumore della prossima esplosione: «È un aereo da guerra o un proiettile?», chiede il padre e quando la piccola Selva indovina riceve il premio più semplice, un sorriso. Il bombardamento si trasforma in gioco e la risata di quella bambina di 4 anni deflagra più di qualsiasi esplosione maligna. Il sorriso vince sulla guerra, anche se solo per qualche attimo, è l'inversione della realtà per riuscire a sopravviverle, è il gioco che Roberto Benigni ha già raccontato nel suo film "La vita è bella". Ed è poesia, poesia pura, di quelle che ti spaccano il cuore per la bellezza. Il video è stato condiviso su Twitter da Mehmet Algan, ex deputato del Partito della Giustizia e dello Sviluppo turco della regione di Hatay. catturando l'attenzione di tutti i media e Abdullah Al-Mohammad ha raccontato di essersi inventato il gioco per proteggere la figlia Selva dalla «crisi psicologica» che attanaglia i bambini siriani. La Siria oggi non un film, no: da dicembre ad oggi, secondo l’Onu, sono circa 875 mila gli sfollati da Idlib a causa dei raid del regime siriano appoggiato dalla Russia contro il nord-ovest dei ribelli. Ci sono persone che per essere capaci di cambiare il mondo imparano a farsi cambiare dal mondo e lo trasformano: Abdullah Al-Mohammad è riuscito nella magia di leggere la guerra con gli occhi della pace e di tenere per mano sua figlia anche sotto le bombe. È una visione di quelle che cambiano la storia, seppur minima, di una persona e che regala speranza lì dove altri vorrebbero soffocarla. Ora non resterebbe che fare la pace, quella vera. di Giulio Cavalli
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laciviltacattolica · 4 years
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I baci che contagiano | Luigi Territo S.I.
L’arte del Novecento ha a lungo meditato sul tema del «bacio». Da Munch a De Chirico, da Klimt a Lautrec, il bacio degli amanti è divenuto la cifra poetica di un’arte che desidera dare voce alle angosce e alle passioni di un’umanità ferita.
Tra i più evocativi non si può certo dimenticare il bacio velato di René Magritte. Il quadro conservato al MOMA di New York è stato dipinto dall’artista belga nel 1928. Molte sono le interpretazioni che hanno accompagnato la fortuna di questo dipinto. Spesso si ricordano le vicende biografiche del pittore. La madre di Magritte si suicidò gettandosi nel fiume Sambre quando l’artista aveva solo 12 anni, venne ritrovata in acqua con il volto coperto da una camicia da notte, un sudario bianco, molto simile a quello dipinto sul volto degli amanti.
Un velo che narra il dolore di un dialogo spezzato, una comunione infranta, un ricordo annebbiato. Negli Amanti ritratti da Magritte ritroviamo quella passione che non si arresta davanti al dolore dell’assenza, non esita davanti all’impossibilità del contatto, ma si spinge oltre la morte, oltre quel confine che sembra definitivamente tracciare il solco del distacco.
Nella storia dell’arte, un altro «bacio», per secoli, ha rappresentato l’immagine di un amore ferito, un rapporto interrotto, non dalla morte, ma dal tradimento. 
È il Bacio di Giuda, dipinto da Giotto all’interno della Cappella degli Scrovegni. Tra una selva di lance, bastoni e torce, il padre della pittura italiana ritrae in un fermo immagine i profili del maestro e del discepolo traditore. Il tempo si sospende per un istante, gli occhi s’incrociano, la bocca di Giuda si protrae in una smorfia animalesca, esita a baciarlo. Il braccio del discepolo cerca di abbracciare Gesù, lo copre con il suo mantello, forse nell’ultimo vano tentativo di circuirlo, di raggirarlo, di vestirlo di un abito non suo. Nello spazio tra i due volti, Giotto ritrae quell’ultimo appello alla coscienza di Giuda.
Nessun velo/sudario può accorciare lo spazio della comunione, l’amore è cosa rara, chi ne rimane contagiato ha vinto.
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La natura è innocente
Siti lancia il guanto di sfida a pagina 17: “Saranno sufficienti i pensieri indimostrabili, le licenze poetiche, le prevaricazioni sui defunti? Le allusioni ambigue, le immersioni palombare, le inferenze per pura vischiosità narrativa, insomma lo (parola ormai impronunciabile) stile?”. E a chi è la sfida lanciata? L’entità non è certo astratta, o perlomeno non si dà in natura, per l’appunto, ma si incarna nella scelta di mettere a tacere il dispositivo narrativo-connotativo ogni volta che un autore poggia la penna sul foglio, alza la testa e pretende di dire che quello che si troverà tra le sue pagine è la verità, nient’altro che la verità.
Un patto recente, non antico, con il linguaggio denotativo, che si libera dal fardello della forma (che in Siti diventa “l’autorità della forma” assieme alla “pazienza dell’artigianato”) e che si presenta al mondo come trascrizione monocorde, mai inventiva, mai fantasiosa, dei fatti, nient’altro che i fatti.
Conoscere la produzione saggistica e letteraria di Siti aiuta certamente nel districarsi nella selva di non detti o, meglio, di detti a metà: quelle che seguono, le 350 pagine che si schiudono come uno scrigno, sono a disposizione di tutti quelli che ancora credono che la forma, lo stile abbiano il loro ruolo, la loro fondamentalità in un’epoca che sembra avere sempre più bisogno di scrittura scarna, precisa, diretta, paratattica. Gli svolazzi sembrano furbate, le impennate liriche fumo negli occhi di chi agogna la storia, la storiella, l’autobiografia, la biografia, la scrittura del reale.
Perché l’opposizione in cui Siti vuole mettersi non è con chi in generale scrive (scrittore o scrivente che sia, non è importante) ma con il filone foltissimo e sempre più frequentato della narrativa non finzionale, o non-fiction. Canone nel quale è ovvio che dei maestri possano essere rintracciati – come il poderoso ego di Carrère o la presenza costante ma non giudicante di Capote in A sangue freddo – ma dove tanti altri e altre che scelgono di battere questa strada rappresentano la spia di un problema più grande. Il problema che abbiamo maturato con lo stile, o forma che dir si voglia. Il debito con la fantasia non lo vogliamo più, cerchiamo di fidarci solo dei giornalisti che diventano narratori. Fotografi, non più pittori – gli autori nel libro di Siti non vengono nominati uno ad uno (comporterebbe certo un argomento lungo e che comunque lui apre altrove, in altre sedi, come l’articolo “contro” Saviano, apparso su Minima&Moralia).
Il problema è, a volte, la qualità dei testi e, in altre occasioni, la pretesa di dirsi neutrali, il vizio di manifestarsi come vestali di una verità fattuale, mai soggiogata da soggettività, pulsioni, fraintendimenti, ossessioni, idiosincrasie personali.
Venendo al libro, La natura è innocente si biforca dal principio in due tronconi, due vite – quasi vere? Beh sì, ci sono almeno quattro ineliminabili livelli di falsità che accompagnano le parole dalla bocca del parlante all’intenzione dello scrivente.
Due vite intrecciate? No, si scopre solo alla fine perché ci vengono consegnate appaiate: il matricida ha avuto il coraggio (o l’impeto? O cos’altro? Di solo coraggio non si tratta) di uccidere la propria madre; l’arrampicatore sessuale body builder è l’oggetto-premio che si sarebbe potuto ottenere una volta compiuto il misfatto. Uccidere la propria madre per vivere le proprie pulsioni in libertà, recidere il filo atavico e mitologico che strozza il vitalismo.
Ingorghi psichico-simbolici sono la cartina tornasole del vitalismo di Siti, sempre esibito e forse arrivato al suo capolinea.
Ma, dunque, le vite – non esemplari né tipiche (la letteratura non insegna, non conforta, non moralizza, non incastona esempi per vivere meglio, tutte funzioni demandate ad altre scritture), ma che stanno assieme nella loro radicalità a dire all’autore: eccoci, nudi e crudi, questa è stata la nostra vita, e ora la tua unica possibilità è scrivere di noi. Non è che la vita media cui Siti accenna nelle ultime pagine è proprio la sua, che in questo romanzo non ha trovato spazio, la sua vita che viene affrontata obliquamente in questa autobiografia bifida e appaltata? Lecito domandarselo, anche se non dev’essere questo il punto. Anche perché è da quando ho iniziato a scrivere che continuo a mancare il fuoco principale.
Filippo Addamo vive i giorni fitti, Ruggero Freddi vive invece una vita: e questo è forse l’elemento che fa tutta la differenza. Perché sì, zio Walter scrive che “Forse, perché la vita cominci davvero, serve un fatto esterno che la invada e la inquini come il casuale granello di sabbia invade il cuore dell’ostrica”.
Un fatto esterno – il tradimento della madre nei confronti di Filippo, e per quanto riguarda Ruggero il fatto che si gonfia fino a diventare sproporzionato qual è? Non c’è.
Perché Filippo, nell’indigenza e nella mancanza di un orizzonte d’attesa benefico, vive questi giorni fitti fitti e a un certo punto l’atto, l’azione, lo mettono sulla strada giusta di avere una vita – forse tutto il libro non è che una spasmodica domanda che gira in tondo “cos’è una vita? Cos’è una biografia?”. Sparare alla madre gli consegna la vita in mano, ora lui è qualcosa, ora lui un ruolo ancestrale e mitologico ce l’ha: ha avuto il coraggio di sottostare alla coazione a ripetere, ha fatto quello che la sua terra e la cultura di cui è intriso si aspetta da lui. È un atto riconoscibile, è un atto nemmeno condannato dalle persone a lui vicine, ma è un atto. Un atto sproporzionato che indica quella che da ora in poi sarà la sua esistenza. Matricida.
Per Ruggero, la vita esiste da sempre, non compie gesta che lo mettano sulla strada che ha già deciso da piccolo: evadere dalla povertà – tant’è che si fa coccolare parossisticamente quando si fa promettere che non ricadrà mai più in situazioni merdose come sono quelle che i poveri sono costretti a vivere.
Ruggero ha un piano, ha la forma bene in testa, ed è secondario il fatto che cambiando gli scenari cambi anche la sostanza di quello che vuole diventare, ma è chiaro che il suo vitalismo è teso come una corda, è un vitalismo teleologico. L’orizzonte è lontano ma viene guadagnato a suon di cazzi e marchette, nulla mette in ginocchio il sogno di una forma, nemmeno l’avvilimento che la sostanza dei giorni comporta.
Tutto questo per dire che le due vite quasi vere di Siti sono degne di questo nome in fasi diverse: una lo è da sempre, l’altra lo diventa con l’atto fondamentale. Uccidere i genitori.
I giorni e la vita: misure del tempo diverse per significato che di tanto in tanto mi ossessionano. Ma nella scrittura è piuttosto scontato che di una vita – una vita come tante, vite che non sono la tua, vite che avrebbero potuto essere la mia – si finisce per parlare. Anche di una che all’inizio non lo è, la forma e la sua autorità si insediano sul trono e dettano grammatiche e linee che facciano ordine ed è una vita quella che ne esce fuori. Prima erano i giorni e poi è una vita. Potere poderoso e salvifico dell’arte? Forse, ma mica tutto deve essere salvato.
Infatti, sempre verso la fine – che è il terzo e conclusivo inserto saggistico dove Walterone tira le somme – fanno capolino le due tane dell’autobiografia: Facebook e Instagram, luoghi ameni dove lacerti di vita quotidiana vengono riportati perlopiù con linguaggio denotativo. Giorni che si spacciano per vite, che provano a darsi una forma in pubblico ben prima che sia possibile capire se l’interesse che suscitano sia duraturo o di consumo estemporaneo e modaiolo. Giorni che si spacciano per forma, ma la connotazione ha lasciato la torre di controllo e non si vede più. E laddove la parola non arriva, la facilitazione della foto – a bassa o alta risoluzione è uguale – aiuta a tirare fuori questa auto-narrazione continua che ci propiniamo a vicenda. Le maschere crescono, il soffocamento pure. Sui social sei quello che: fa polemiche, fa foto zozze, fa i meme, fa squadrismo virtuale. Sui social sei quello che fai, ma quello che decidi di fare ti strozza e dopo un po’ chissà se sei ancora quello che volevi fin dall’inizio. O se il bisogno di un pubblico ti ha fatto mettere in ginocchio e ti ha fatto pensare che dar via un po’ della tua intimità, un po’ dei tuoi pensieri non è un peccato grave, ma solo veniale, quella vanità così insita in noi ora che non è che bisogna vergognarsene, bisogna abitarla con mille layers e post-ironia. Così si risolve l’imbarazzo nel constatare che anche oggi hai messo in vetrina un pezzetto squallidamente inutile di te, che domani è carta straccia.
A Walter Siti direi che siamo giovani e che deve perdonarci questa messa in scena continua, questa distrazione sfibrante, questo gioco di maschere in cui la vergogna di essere giorni e non vita (non per forza tutti lo sono, forse qualcuno sì).
A Walter Siti direi tantissime cose, tra cui che i suoi libri mi hanno cambiato la vita. O i giorni fitti che vivo, non so ancora se sono degna di avere una forma ben ordinata – e anche se vivo ho le stesse preoccupazioni (forse non vere, ma realistiche, e dunque bene così) di Giovanni del Drago: il mio estetismo mi fa precipitare nell’angoscia più nera se dietro di me vedo giorni privi di senso, forme e linee caotiche senza un disegno preciso. Linee e forme che non in ogni momento dicono chi sono.
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ilfascinodelvago · 6 years
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Il bambino tiranno
Il bambino Giorgio, benché giudicato in famiglia un prodigio di bellezza fisica, bontà e intelligenza, era temuto. C’erano il padre, la madre, il nonno e la nonna paterni, le cameriere Anna e Ida, e tutti vivevano sotto l’incubo dei suoi capricci, ma nessuno avrebbe osato confessarlo, anzi era una continua gara a proclamare che un bambino caro, affettuoso, docile come lui non esisteva al mondo. Ciascuno voleva primeggiare in questa sfrenata adorazione. E tremava al pensiero di poter involontariamente provocare il pianto del bambino: non tanto per le lacrime, in fondo trascurabili, quanto per le riprovazioni degli adulti. Infatti, col pretesto dell’amore per il piccolo, essi sfogavano a vicenda i loro spiriti maligni controllandosi e facendosi la spia. Ma paurose di per sé erano le ire di Giorgio. Con l’astuzia propria di questo tipo di bambini, egli misurava bene l’effetto delle varie rappresaglie. Perciò aveva guardato l’uso delle proprie armi nei seguenti termini: per le piccole contrarietà si metteva semplicemente a piangere, con dei singulti - per la verità - che sembrava gli dovessero schiantare il petto. Nei casi più importanti, quando l’azione doveva prolungarsi fino all’esaudimento del desiderio contrastato, metteva il muso e allora non parlava, non giocava, si rifiutava di mangiare: ciò che in meno di una giornata portava la famiglia alla costernazione. Nelle circostanze ancor più gravi le tattiche erano due: o simulava di essere assalito da misteriosi dolori alle ossa, i dolori alla testa e al ventre non sembrandogli consigliabili per il pericolo di purghe (e già nella scelta del male si rivelava la sua forse inconsapevole perfidia perché, a torto o a ragione, si pensava subito a una paralisi infantile); oppure, e forse era il peggio, si metteva a urlare: dalla sua gola usciva, ininterrotto e immobile di tono, un grido estremamente acuto, quale noi adulti non sapremmo riprodurre, e che perforava il cranio. In pratica non era possibile resistere. Giorgio aveva ben presto partita vinta, con la doppia voluttà3 di venire soddisfatto e di vedere i grandi litigare, l’uno rinfacciando all’altro di aver fatto esasperare l’innocente. Per i giocattoli Giorgio non aveva mai avuto una sincera inclinazione. Solo per vanità ne voleva molti e di bellissimi. Il suo gusto era di portare a casa due-tre amici e di sbalordirli. Da un piccolo armadio, che teneva chiuso a chiave, estraeva ad uno ad uno, e in progressione di magnificenza, i suoi tesori. I compagni spasimavano di invidia. E lui si divertiva ad umiliarli. « No, non toccare tu che hai le mani sporche... Ti piace eh? Da’ qua, da’ qua, se no finisci per guastarlo... E tu, dimmi, te ne hanno regalato uno anche a te? » (ben sapendo che così non era). Dallo spiraglio della porta, genitori e nonni lo covavano teneramente con gli sguardi: « Che caro » sussurravano. « È proprio un omettino, ormai... Sentitelo come si stima!... Eh, ci tiene lui ai suoi giocattoli. Eh, ci tiene all’orsacchiotto che gli ha regalato la sua nonna! ». Quasi che l’essere geloso dei balocchi fosse per un bimbo una virtù straordinaria. Basta. Un conoscente portò un giorno dall’America un giocattolo meraviglioso in dono a Giorgio. Era un « camion del latte », perfettissima riproduzione degli autofurgoni costruiti per quel servizio; verniciato di bianco e azzurro, coi due conducenti in uniforme che si potevano mettere e levare, le portiere anteriori che si aprivano, i pneumatici alle ruote; nell’interno, infilati uno sull’altro per mezzo di speciali guide, tanti canestrini di metallo, ciascuno contenente otto microscopiche bottiglie sigillate col tappo di stagnola. E sui fianchi due autentiche saracinesche a ghigliottina che, aprendosi, si arrotolavano proprio come quelle vere. Era senza dubbio il giocattolo più bello e singolare di quanti ne possedesse Giorgio, e probabilmente il più costoso.
Ebbene un pomeriggio il nonno, colonnello in pensione, che in genere non sapeva che cosa fare dell’anima sua, passando dinanzi all’armadio dei giocattoli tirò quasi per caso, come succede, la manopola dello sportello. Senti che cedeva. Giorgio l’aveva chiuso a chiave come al solito, ma l’anta gemella, in cui il chiavistello si incastrava, per dimenticanza non era stata fissata ci catenacci in alto e in basso. E così entrambe si aprirono. Disposti su quattro piani stavano qui in perfetto ordine i giocattoli tutti ancora lucidi e belli perché Giorgio non li adoperava quasi mai. Giorgio era fuori con Ida, anche i genitori erano usciti, la nonna Elena lavorava a maglia nel salotto. Anna in cucina dormicchiava. La casa era quieta e silenziosa. Il colonnello si guardò alle spalle come un ladro. Poi, con un desiderio da lungo tempo vagheggiato, le sue mani si protesero al camion del latte che nella penombra risplendeva. Il nonno lo collocò sul tavolo, si sedette e si accinse a esaminarlo. Ma c’è una legge arcana per cui se un bambino tocca di nascosto una cosa dei grandi, questa cosa subito si rompe e simmetricamente, toccato dai grandi, si rompe il giocattolo che pure il bambino aveva senza danni maneggiato per mesi con energia selvaggia. Non appena il nonno, con la delicatezza di un orologiaio, ebbe alzato una delle piccole saracinesche laterali, si udì un clic, un listello di latta verniciata schizzò fuori e il perno su cui la saracinesca si sarebbe dovuta avvolgere ciondolò senza più sostegno. Col batticuore, il vecchio colonnello si affannò per rimettere le cose a posto. Ma le mani gli tremavano. E gli fu ben chiaro che con la sua abilità da niente era impossibile riparare il guasto. Né si trattava di una avaria recondita, facile a venir dissimulata. Scardinato il perno, la saracinesca non chiudeva più, pendendo tutta sghemba. Un disperato smarrimento prese colui che un giorno ai piedi del Montello aveva condotto i suoi cavalleggeri a una disperata carica contro le mitragliatrici degli austriaci.  E un brivido gli percorse le vertebre al suono di una voce che pareva quella del giudizio universale: « Gesummaria, Antonio, cos’hai fatto? ».
Il colonnello si voltò. Sulla soglia, immobile, sua moglie, Elena, lo fissava con le pupille dilatate. « L’hai rotto, di’, l’hai rotto? ». « Macché, non è... ti dic... non è niente » mugolò il vecchio militare, annaspando con le mani nell’assurdo tentativo di sistemare la rottura. « E adesso? E adesso cosa fai? » incalzò la donna con affanno. « E quando Giorgio se ne accorge? Adesso cosa fai? » « L’ho appena toccato, ti giuro... doveva essere già rotto... Non ho fatto niente, io » cercò miserabilmente di scusarsi il colonnello; e se mai si era illuso di trovare nella moglie una certa solidarietà morale, questa speranza venne meno, tanta fu l’indignazione della vecchia: « Non ho fatto non ho fatto, mi sembri un pappagallo!... Si sarà rotto da solo, si capisce!... E fa’ qualcosa almeno, e muoviti, invece di stare là come uno stupido!... Giorgio può essere qui da un momento all’altro... E chi... (la voce le si ingorgava per la rabbia)... e chi ti ha detto di aprire l’armadio dei giocattoli? ». Non occorreva altro perché il colonnello perdesse la testa del tutto. Purtroppo era domenica, impossibile trovare un operaio capace di riparare il camioncino. Intanto la signora Elena, quasi per non restare implicata nel delitto, se n’era andata. Il colonnello si sentì solo, abbandonato, nella ingrata selva della vita. La luce declinava. Tra poco notte, e Giorgio di ritorno.
Con l’acqua alla gola, il nonno allora corse in cucina in cerca di uno spago. Con lo spago, sfilato il tetto del camion, riuscì a fissare le estremità della saracinesca, così che restasse chiusa, pressapoco. Evidentemente essa non si poteva aprire più ma almeno dall’esterno non si notava nulla di anormale. Rimise il giocattolo al suo posto, chiuse l’armadio. Si ritirò nel suo studiolo. Appena in tempo. Tre lunghe scampanellate prepotenti annunciavano il ritorno del tiranno. Se almeno la nonna avesse tenuto la bocca chiusa. Figurarsi. A ora di pranzo, tranne il piccolo, tutti erano al corrente del disastro comprese le donne di servizio. E anche un bambino meno astuto di Giorgio si sarebbe accorto che nell’aria c’era qualcosa di insolito e sospetto. Due o tre volte il colonnello tentò di avviare una conversazione. Ma nessuno lo aiutava. « Cosa c’è? » domandò Giorgio con la sua naturale improntitudine. « Avete tutti la luna piena? » « Ah quest’è bella, abbiam la luna piena, abbiamo, ah ah!.» fece il nonno, cercando eroicamente di voltare tutto in scherzo. Ma la sua risata si spense nel silenzio. Il bambino non fece altre domande. Con sagacia addirittura demoniaca sembrò capire che il disagio generale si riferiva a lui; che l’intera famiglia, per qualche motivo ignoto, si sentiva in colpa: e che lui la teneva nelle mani.  Come fece a indovinare? Fu guidato dai trepidanti sguardi dei familiari che non lo lasciavano un istante? O ci fu qualche delazione? Fatto è che, terminato il pranzo, con un ambiguo sorrisetto, Giorgio andò all’armadio dei giocattoli. Spalancò gli sportelli, restò un buon minuto in contemplazione quasi sapesse di prolungare così l’ansia del colpevole. Quindi, fatta la scelta, trasse dal mobile il Camioncino e, tenendolo stretto sotto un braccio, andò a sedersi su un divano, donde fissava ad uno ad uno i grandi, sorridendo. « Che cosa fai, Giorgino? » disse infine con voce spenta il nonno. « Non è ora di fare la nanna? » « La nanna? » fu la evasiva risposta del nipote che accentuò il ghigno beffardo. « E perché non giochi allora? » osò chiedere il vecchio, a quell’agonia sembrandogli preferibile una rapida catastrofe. « No » fece il bimbo dispettoso « di giocare non ho voglia ». Immobile, aspettò circa mezz’ora, quindi annunciò: « Io vado a letto ». E uscì col camioncino sotto il braccio.
Divenne una mania. Per tutto il giorno dopo, e per l’altro successivo, Giorgio non si distaccò un istante dal veicolo. Perfino a tavola volle tenerselo accanto, come non aveva mai fatto prima per nessun balocco. Ma non giocava, non lo faceva andare, né mostrava alcuna voglia di guardare dentro. Il nonno viveva sulle spine. « Giorgio » disse più di una volta « ma perché ti porti sempre dietro il camioncino se poi non giochi? Che fissazione è questa? Su, vieni qua, fammi vedere le belle bottigliette! » Insomma, non vedeva l’ora che il nipotino scoprisse il guasto, succedesse poi quello che doveva succedere (non osando tuttavia confessare spontaneamente l’accaduto). Tanto gli pesava il tormento dell’attesa. Ma Giorgio era irremovibile. « No, non ho voglia. È mio o non è mio il camion? E allora lasciami stare ». La sera, dopo che Giorgio era andato a letto, i grandi discutevano. « E tu diglielo! » diceva il padre al nonno « piuttosto che continuare in questo modo! E tu diglielo! Non si vive più per questo maledetto camion! »; « Maledetto? » protestava la nonna. « Non dirlo neanche per scherzo... il giocattolo che gli è più caro di tutti. Povero tesoro! ». Il papà non le badava: « E tu diglielo! » ripeteva esasperato. « Avrai il coraggio, tu che hai fatto due guerre, avrai il coraggio, no? ».
Non ce ne fu bisogno. Il terzo giorno, comparso Giorgio col suo camioncino, il nonno non seppe trattenersi: « Su, Giorgio, perché non lo fai andare un poco? Perché non giochi? Mi fai senso, sempre con quel coso sotto il braccio! ». Allora il bambino si ingrugnò come al delinearsi di un capriccio (era sincero o faceva tutta una commedia?). Poi si mise a gridare, singhiozzando: « Io ne faccio quel che voglio del mio camion, io ne faccio! E finitela di tormentarmi. L’avete capito o no che basta?... Io lo fracasso se mi piace. Io ci pesto sopra i piedi... Là... là, guarda! ». Con le due mani alzò il giocattolo e di tutta forza lo scaraventò per terra, poi coi calcagni gli saltò sopra, sfondandolo. Divelto il tetto, il camioncino si schiantò e le bottigliette si sparsero per terra. Qui Giorgio all’improvviso si arrestò, cessò di urlare, si chinò a esaminare una delle due pareti interne del veicolo, afferrò un’estremità del clandestino spago messo dal nonno alla saracinesca. Inviperito, si guardò intorno, livido: « Chi? » balbettò. « Chi è stato? Chi ci ha messo le mani? Chi l’ha rotto? ». Si fece avanti il nonno, il vecchio combattente, un poco chino. « O Giorgino, anima mia » supplicò la mamma. « Sii buono. Il nonno non l’ha fatto apposta, credi. Perdonagli. Giorgino mio! ». Intervenne anche la nonna: « Ah, no, creatura, hai ragione tu... Fagli totò al brutto nonno che ti rompe tutti i giocattoli... Povero innocente. Gli rompono i giocattoli e poi ancora vogliono che sia buono, poverino. Fagli totò al brutto nonno! ».
Di colpo Giorgio ritornò tranquillo. Guardò lentamente le facce ansiose che lo circondavano. Il sorriso gli ricomparve sulle labbra. « L’ho detto, io » fece la mamma; « l’ho sempre detto che è un angelo! Ecco che Giorgio ha perdonato al nonno! Guardatelo, che stella! » Ma il bimbo li esaminò ancora ad uno ad uno; il padre, la mamma, il nonno, la nonna, le due cameriere. « E guardatelo che stella… e guardatelo che stella!... » cantarellò, facendo il verso. Diede un calcio alla carcassa del camioncino che andò a sbattere nel muro. Poi si mise freneticamente a ridere. Rideva da spaccarsi. « E guardatelo che stella! » ripeté beffardo, uscendo dalla stanza. Terrificati, i grandi tacquero.
(Dino Buzzati)
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sciscianonotizie · 3 years
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La consigliera US Acli, Immacolata Petrillo, al lavoro per il rilancio della stagione estiva 2022 di Bocca della Selva http://dlvr.it/S68NTM
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amonerdj · 3 years
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Otro top 10 para Fernando Gaviria en el Giro – TDI Colombia
Otro top 10 para Fernando Gaviria en el Giro – TDI Colombia
Con caída incluida, el colombiano del Emirates fue el mejor escarabajo del día Foto vía: Bettini Con puerto de cuarta categoría y llegada en alto, se disputó la octava etapa del Giro de Italia entre Foggia y Bocca della Selva, 170 kilómetros en total. Fernando Gaviria (Emirates) fue el colombiano integrante de la fuga del día. A 38 kilómetros de la meta se escapó, todo iba bien hasta que en el…
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pangeanews · 4 years
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Una lunga e dolente elegia di morte e resurrezione. Nick Cave, l’adolescente fantasma, la vita in onore dei morti. Su “Ghosteen”
Non una recensione, ma un omaggio, un sentito ringraziamento a Nick Cave and the Bad Seeds per il loro diciassettesimo album, Ghosteen, perché si tratta di musica e canto ricondotti al loro destino, al motivo fondamentale, fatale, per cui nella notte dei tempi il primo suono, accompagnato dalla prima voce, sgorgò da gola d’uomo e così nacque il sodalizio tra i vivi, i morti e i venturi. Quel tanto d’eterno che c’è dato esperire.
*
Una lunga e dolente elegia di morte e resurrezione che accompagna una perdita incolmabile. Una faticosa ed interminabile cucitura di uno strazio di ferita penetrata fino al midollo, ferita che all’alba di ogni maledetto giorno si riapre e sanguina. Tessere la tela del lutto come fosse una forma di preghiera rituale, un mantra di ricongiunzione con lo strappo, con ciò che manca. Annientare il pensiero dominante che annega ogni altro pensiero. Morte non può trionfare, non deve. C’è ancora lei, ci sono ancora loro.
Cercare pace nella mente, trovare pace nella mente. Trasformare a mano a mano, ora dopo ora, giorno dopo giorno, quel dolore lancinante in amore di destino. Pazzesca impresa, sovrumana, deprecabile per alcuni, che si dimostrano perciò stolti, perché non sanno che il pianto che asseconda il dominio della morte è peccato originale. Il pianto sano e santo è quello che attraversa un labirinto di spine e di lame, che ti costringe alla lacerazione, ma che ti spinge all’uscita, alla riconciliazione. Il dolore può uccidere, il dolore può redimerti se lo redimi, lo trasformi in più amore, non meno. Non è semplice, niente affatto. È difficile, dannatamente difficile. I più soccombono. È normale, è comprensibile. Nessun giudizio, solo pietà, compassione, patire con loro, mortali come te, come me.
Hai un talento che, come sempre, è un dono. Beati coloro che lo scoprono per tempo, o almeno quando è il momento del bisogno. Tu sei un poeta. Se comprendi quale sia il significato più profondo, più vero, della poesia, se capisci che è il pensiero che si fa canto, se il tuo canto è pensiero che respira, allora sì, allora sì che l’anima da immota torna, adagio e adagio, a schiudersi, aprirsi alla visita del creato. Questo ti invita ad uscire, lasciare strette pareti annerite e sa farti nuovamente abitare il mondo. Così, un giorno, l’alba ti si annuncia come preludio di una speranza, per cui benedici e non più maledici il sole che puntualmente, immancabilmente risorge e s’irradia, dilaga nell’aria. La luce da accecante si fa trasparente. Finalmente vedi cosa c’è dietro. Soprattutto, e più importante di tutto, scopri che c’è, c’è qualcosa, là dietro. Oltre.
Ed ecco il pianto che si fa canto. Dall’occhio annebbiato dal pianto passi alla bocca che riprende respiro con il canto. Il canto che cerca corrispondenze, risposte dal creato non da te creato, ed è così che giungi a scoprirti un più nel meno, a ritrovarti espanso nella sottrazione del sé. Lasci io e trovi dio, che è spazio aperto per il tuo abbandono. Non hai certezze, ma carezze.
Ecco allora un cammino lungo, lento, incerto, vacillante. Un cammino che può intravedere una meta se l’umano si fa un po’ più muto e porge orecchie e cuore in ascolto degli echi che giungono dal cielo, dal canto degli uccelli, dal silenzio remoto delle stelle. Un po’ più muto, sai ora stare, e disposto a scaldarti la pelle con un raggio di sole che trafigge la selva di dolore che ti soffoca. Riprendi fiato e torna ossigeno a circolare. Prima di ogni cosa: capire che siamo fotoni sprigionati da una stella cadente.
Ghosteen è l’antologia sonora di una novena sulla fatale scogliera in cui un padre perse un figlio. Quindici anni sono pochi per morire. In quel modo, assurdo. Un precipizio per chi resta. Una madre, un padre, fratelli. Per fortuna c’è quel canto, la forma che è sostanza e congiunzione, corrispondenza con chi e cosa può dare un senso, una destinazione. Senti che sei parte di una comunanza di perdita.
L’umano è in perdita ed ama in quanto mancante, anzitutto mancante della pienezza di sé. Ma si è pieni solo nell’aggiunta esterna, nell’abbraccio che trascende il proprio confine di carne. Non vi è casa che non abbia conosciuto un dolore. Senti riecheggiare i versi del bardo, senti venire a galla la domanda, così triste, che ricorre in te, «con gli altri legati in tanti nodi»: cosa mai di buono potrà mai esservi in tutto questo, «ahimè, ah vita»?
Risposta: «che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi / con un tuo verso». Un contributo da raddoppiare perché devi assolutamente colmare il vuoto e rappresentare chi anzitempo se n’è andato. Non puoi sottrarti. È dovere di padre, di madre, di fratello e sorella. Di umano verso altro umano venuto a mancare. Testimonianza suprema di sé che passa tramite un altro. Lo racconti e ti racconti, scoprendo che siamo catene di vuoti a rendere. Non così vuoti, però.
Ciascuno di noi è vuoto a perdere che può colmarsi nell’amore, che è restituzione di energia donata, ricevuta in nascita, non sempre compresa, quasi mai all’inizio. È il dolore che ti avverte, che ti segnala questa dotazione iniziale. Allora scavi nel vuoto che sei, ma come di vaso che ha un fondo ancora da raschiare. Raspando, trovi il dono d’origine e cominci ad elargire. Così minuto dopo minuto restituisci nerbo, vertebre e pulsazioni al tuo pensiero, che suona e canta parole come brani di preghiere. La poesia è evocazione, richiamo delle anime dei morti, degli spiriti che popolano il creato. Senti che il figlio è nel padre, il padre nel figlio, fianco a fianco. Sul palmo della mano volteggia il fantasma adolescente. La tua mano e l’amato fantasma del tuo caro. Il gesto del padre che accoglie il figliol prodigo, l’ospite mai così tanto atteso perché stavolta se n’era andato non per sua scelta, ma per destino. È tornato ed è per sempre.
La vita in onore dei cari defunti è attesa grata del presente e fiduciosa di un futuro radioso, perché lì, tra anime, avverrà l’incontro, finalmente ricongiunti. Cercami, sono qui. Vòltati, sono qui, accanto a te. E, a quel punto, è per sempre. Ghosteen è una sottile e crescente elegia di morte e resurrezione che conduce Nick Cave all’apoteosi artistica. Non so se alla pace interiore, non so, se al riposo e al riparo dal dolore; ma all’apoteosi, sì, senz’altro, all’assunzione in cielo del suo canto, finalmente in coro con il canto di suo figlio.
Danilo Breschi
*In copertina: Nick Cave (la fotografia è tratta da qui)
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khan-klynski · 3 years
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. "adito" ovunque sia l'errore, questo clamore cocente che non da fiato alle incertezze, all'attrazione come saprai peccato, un tentativo, a scavalcare il chiasso se il gusto è tutto un fascio, il pozzo di catene d'un vecchio testamento andato a capo, senza più rami da levare né macchie dal riflesso della selva, tra noi e le mezze lacrime, lo sbaglio, lo sussurrammo ma quanto spazio per riprenderci da terra, un'altra mela ed aspettar cos'altro, quel vento che ci scrolli l'opinione, la nuova forma d'un ricordo morente nel ventre d'un pensiero deludente, ai mulinelli educheremmo i dadi, tratti, il cuore a tutto ciò che attende il bello e adoperar le piogge per la gola, la gioia ad un sorriso liberato se splende nella bocca del digiuno allora sfamaci le ossa, un nuovo manto, per quel che svesti se il verbo ci ricuce in tentazione K.K. https://www.instagram.com/p/COvHHi2nD7t/?igshid=1fb59ofji8bzd
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eltanguerowsm · 3 years
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Il mio caro vecchio nuovo WSM
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EDITORIALE | articolo di Mikalic - 31 marzo 2021 In tutti questi anni molti utenti hanno attraversato questo angolo blu di Internet: una selva in cui molti sono entrati, tanti sono scappati, pochi sono sopravvissuti.
* * * É valida anche per WSM la teoria darwiniana? Sono sopravvissuti quelli che hanno saputo adattarsi meglio ai cambiamenti? Si sono estinti i più deboli? Forse il seguente articolo non avrà basi scientifiche, sicuramente non farà la storia ma racconta una storia. É una storia che rende un tributo a quanti sono stati parte di una comunità che vorremmo potesse durare ancora e allo stesso tempo rende onore a quanti, nonostante tutte le pietre di inciampo sul percorso, sono ancora qui. Perché se è vero che molti sono entrati, tanti sono scappati e pochi sono sopravvissuti, sicuramente tutti, almeno una volta, si saranno posti questa amletica domanda: che faccio, mollo tutto o no? Abbandono o no questo pazzo mondo a tinte blu? Non siamo mai stati in tanti su WSM. Sicuramente c'è stato un periodo dove c'erano più utenti attivi rispetto ad oggi, centinaia di compravendite vere e truccate, centinaia di thread nel forum e personaggi che avevano sempre qualcosa di nuovo da proporre o qualcosa di cui lamentarsi. Era un mondo piccolo ma molto popolato, c’erano pochi spazi ma molto frequentati e un surplus di lavoro per la commissione. C’erano le polemiche, i ban, c’era chi giocava d'intuito senza guardare le medie dei giocatori dai programmini excel, c'era chi cambiava squadra ogni stagione e chi invece è sempre stato lì. C’era chi aveva cominciato da poco, chi si prendeva un anno sabbatico, chi si godeva le ultime preoccupazioni universitarie tra un Mojito o un Negroni sbagliato, chi aveva cominciato da poco a studiare all'università e chi alla stessa età faceva l’operaio o consegnava le pizze a domicilio. Poi c'erano i vecchi brontoloni. C’era tutto un mondo di utenti dentro e fuori WSM, tante storie da leggere e da raccontare, tanto di tutto come in un mercatino delle pulci dove la perla può sfuggire agli occhi spaesati dalla sovrastimolazione, salvo poi rimpiangere anni dopo di non averla acquistata. A distanza di tanti anni molte cose su WSM sono rimaste uguali ad allora, così come i vecchi brontoloni sono sempre lì, gli unici che non sono né invecchiati né cambiati. Quando ho iniziato io era il 2009, nella vita reale l'Inter vinceva il suo 17esimo scudetto, il Barcellona alzava la Champions League battendo il Manchester United allo Stadio Olimpico e Usain Bolt stabiliva il nuovo record dei 100 metri ai campionati del mondo di atletica leggera con l'eccezionale tempo di 9.58. La musica passava dal ”Maledetto Ciao” di Gianna Nannini, al “Sincerità” di Arisa, fino ad arrivare a “Paparazzi” di Lady Gaga. Al cinema spopolava “Avatar”, “Bastardi senza gloria” e l'apocalittico "2012". Youtube era nato da poco, Facebook pure, a twittare erano solo gli uccellini e la rivoluzione 2.0 dell’era informazionale era alle porte, mentre la facevano da padrona i tornei alla Playstation e resistevano i giochi in scatola come “Risiko”. Tanta gente è andata via, alcuni sono tornati, molti sono scomparsi e forse tutti ci siamo divertiti, allora come adesso. A dodici anni di distanza chi è sopravvissuto e come? Ci divertiamo ancora al nostro manageriale preferito? Poche, pochissime cose sono cambiate all'interno del gioco. Recentemente la pennellata di blu ha trasformato profondamente l'impatto grafico, spazzando via il bianco e dando a prima vista un senso di innovazione. Precedentemente era toccato invece allo staff tecnico, decisamente semplificato grazie all'avvento dei pacchetti staff. Così come le modifiche sul calo di abilità dei giocatori anziani fino all’introduzione del limite massimo degli over-32 per ogni rosa. Si è poi passati a sdoganare le seconde squadre per gli utenti supporter, fino all'ultima trovata degli utenti junior. In effetti sembra sia stato cambiato tutto e niente, probabilmente perché molti utenti si aspettavano modifiche che li mettessero in grado di operare in modo da aver ragione o torto a seconda delle scelte effettuate, sopratutto dal punto di vista del motore di gioco. Tolti di mezzo alcuni fastidiosi bug, la mancata possibilità di incidere in maniera concreta sugli stili, affidandosi magari a nuovi moduli di gioco, rimane senza dubbio il principale motivo di malcontento da parte dell'utente medio. Lo sbarco della nuova gestione ha rinnovato però la fiducia anche nei cari vecchi utenti brontoloni, rassicurandoli sul futuro sviluppo del game. Seppur senza particolari promesse, oggi WSM sta navigando con fiducia verso nuovi orizzonti, lasciando accesa la speranza di approdare - prima o poi - in nuove terre del divertimento ancora inesplorate. Gli utenti che hanno abbandonato il gioco in questi anni probabilmente lo hanno fatto per il solito, ineluttabile e totemico random o per la casualità nelle logiche del motore di gioco. Tanti, forse tutti, abbiamo avuto la schiuma alla bocca almeno una volta nella nostra esperienza e non consola il fatto che WSM sia un gioco probabilistico e quindi quando si ha il 99% di probabilità di vittoria la realtà è che c’è l’1% di probabilità di sconfitta. Che puntualmente si verifica. Dopo questa tragica analisi chi è rimasto? Che tipo di utente ha resistito imperterrito? Forse la descrizione più azzeccata potrebbe essere quella parafrasata dal mitico Mandrake in “Febbre da Cavallo”: «Chi gioca a WSM è un misto, un cocktail, un frullato de robba, un minorato, un incosciente, un regazzino, un dritto e un fregnone, un milionario pure se nun c'ha na lira e uno che nun c'ha na lira pure se è milionario. Un fanatico, un credulone, un buciardo, un pollo, è uno che passa sopra a tutto e sotto a tutto, è uno che 'mpiccia, traffica, imbroglia, more, azzarda, spera, rimore e tutto per poter dire: Ho vinto! E adesso v'ho fregato a tutti e mo' beccate questa... tié!. Ecco chi è il giocatore di WSM». Non sappiamo ancora quali saranno le migliorie di WSM del prossimo futuro, sappiamo però quello che WSM è diventato per noi in questi anni. Una comunità che ci accomuna e ci unisce giorno per giorno, una realtà diversa da tutte le altre, dallo stile retrò ma che si impegna allo stesso tempo di essere innovativa, anche e sopratutto grazie all'apporto della sua utenza. E da quel punto di vista, ragazzi miei, abbiamo già vinto. Buon finale di stagione e buon mercato a tutti. __________
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vimaco · 3 years
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#boccadellaselva#photoblackandwhite#blackandwhite#sonya6000#sonyalpha#like4like#like4follow#likes#landscape#photooftheday#pic#ig_travel#snow#instagram#nature (presso Bocca della Selva) https://www.instagram.com/p/Bs5eWd5nd-j/?igshid=6jpgxu00k9nb
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