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#padronanza del linguaggio
gregor-samsung · 11 months
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“ Per fare dell’ironia bisogna avere una certa padronanza del linguaggio, o del gesto. Diciamo pure del linguaggio in senso lato. E quindi la cultura è essenziale. Una cultura ristretta fa sì che le regole del gioco, qualunque sia il gioco, vengano intese in un modo così rigido da cancellare ogni aspetto coraggiosamente innovativo. In ambito scolastico, per esempio, può essere significativo, mentre un professore fa lezione, che uno degli allievi si alzi per dichiarare: «Però, io la penserei diversamente». Ecco, il pensare diversamente può essere conseguito in modo ironico, e guai se la scuola non è più la zona dove l’ironia ha questo diritto di cittadinanza. E non è comunque bene che l’ironia venga riutilizzata da coloro che rimangono delusi della rigidità delle istituzioni? Allora, il legame con la cultura è essenziale: l’ironia su cosa gioca? Sul fatto che una parola, che noi solitamente impieghiamo in una certa accezione standard, venga usata in una accezione un po’ diversa. E questa è una cosa divertente, o no? «Oggi il tempo è perverso» uno dice. Oddio, che visione pessimistica! «Veramente, io mi stavo riferendo al tempo atmosferico.» La padronanza del linguaggio e dei significati è ineliminabile. È cruciale per tutte le situazioni in cui rigidità vuol dire morte dell’istituzione di cui ci stiamo occupando. La rigidità nella scuola, per esempio, è letale; la rigidità nella ricerca scientifica alla fine uccide la ricerca stessa; la rigidità in campo artistico vuol dire solo stanchezza e noia. Possibile che Antoni Gaudí o Pablo Picasso non fossero ironici? E poi ci sono i grandi umoristi. Qui sarebbe adeguato indicare qualche grande ironista che è stato al tempo stesso un maestro. Un candidato ce l’avrei: Achille Campanile. E poi si può essere ironici perfino in una situazione drammatica, in letteratura o nelle arti. Pensiamo al teatro di Shakespeare. È un sommo artista che in mezzo ai più torbidi massacri spinge Amleto a pronunciare una miriade di battute ironiche. “
Giulio Giorello, La danza della parola. L'ironia come arma civile, Mondadori (collana Orizzonti), 2019¹. [Libro elettronico]
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valentina-lauricella · 2 months
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C'è un che di crudele nel pretendere che "Giacomino", dall'aldilà, si esprima in versi, come se fosse un pappagallino ammaestrato, conchiuso nel suo ruolo di "poeta", ovvero nelle nostre anguste attese. Giacomo è immenso e ha bisogno di "interminati spazi" per essere. Il potere del suo pensiero è il più grande umanamente concepibile. Esso non si misura sulla base, soltanto, della parola scritta; il valore della sua parola si amplia, e risiede in gran parte, in ciò che essa richiama di non scritto perché indicibile. Chi conosce Giacomo sa che egli stesso non si riteneva un poeta, e che mai avrebbe potuto esserlo "di mestiere", giacché la sua poesia non soggiaceva ai comandi altrui, ma solo a una misteriosa "ispirazione". Per questo dico che chiedergli versi dall'aldilà sia crudele. È metterlo in difficoltà. È chiuderlo in una soffocante scatola.
Negli anni '70, quando le sedute spiritiche andavano di moda e costituivano persino un passatempo di società, non si era ancora edotti sul fatto che le anime si esprimessero, nel loro ambiente e per loro natura, in linguaggio non formale, ovvero privo di elementi grammaticali, sintattici e, in definitiva, linguistici. Immagino quale sia stato il senso di libertà di Leopardi, sentendo il proprio pensiero spogliato dalle briglie linguistiche.
Credeva, il giovane Leopardi, che pensiero e linguaggio nascessero insieme, e che non potesse esistere l'uno senza l'altro. Rievoca con straordinaria memoria e lucidità l'affacciarsi del suo primo pensiero formale, concomitante con l'apprendimento del nome di una pera. Sì, avete capito bene, il suo primo pensiero formale fu: ecco una pera moscardella. E tutti sappiamo quanto studio gli costò il formarsi un proprio stile, districandosi dalle pastoie di pedanti traduzioni di autori greci e latini della decadenza (vedi, a tal proposito, gli Studi leopardiani di F. Montefredini, che ci presentano un Leopardi in nuce ma irriconoscibile, dallo stile impacciato e involuto, ai limiti dell'imbarazzante). Tutti, parimenti, sappiamo che il Leopardi deve il massimo suo successo a quei Canti in cui è più chiaro e comprensibile, direi riposato, e come le malattie e la disillusione totale dell'ultimo periodo napoletano lo facessero precipitare nell'oscurità e durezza di taluni versi dei Paralipomeni della Batracomiomachia, che De Sanctis definì pressoché insoffribili.
Tutto, nella vita di Leopardi, fu scontro, contrasto, passione e sacrificio. Anche l'ascesa verso la vetta della più alta espressione linguistica fu per lui un calarsi nelle oscure e aspre profondità della materia umana. Dopo che si è temprato, compresso, messo a prova da ogni lato, lasciamo che risplenda di luce assoluta, questo diamante. Non chiediamogli versi.
Non chiediamo forma a chi è alle soglie della pace suprema, sul limite della comprensione e padronanza della realtà, che nella sua sostanza è non formale.
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ilgiornoprima · 5 months
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Discorsi che vorrei intavolare con te pt1
Il modo in cui scrivo racconta molto del modo in cui amo.
Poco fa stavo ascoltando un'intervista alla scrittrice Sally Rooney sul suo romanzo Normal People e sono rimasta estremamente affascinata dalla struttura che dà ai suoi discorsi: possiede una padronanza del linguaggio assurda, ben più di quel che avevo immaginato leggendo i suoi romanzi. Mi torna quindi in mente una riflessione che ho letto su Instagram qualche giorno fa a proposito della funzione e dei limiti della parola. Martina scriveva che darsi voce attraverso le parole equivale a scegliere, e scegliere è delimitare. Quale concetto voglio passi, qual è il soggetto agente della mia storia e quali personaggi reagiscono alla sua scelta di agire; chi è che agisce e chi che subisce? E in quale contesto voglio si svolga la vicenda? Di chi parlo, quando ne parlo, e poi ancora: come ne parlo? Cosa rimane in sintesi fuori, cosa includo dentro?
Il linguaggio è limite e ci insegna che tutto è limitato: sei limitato tu, limitata la sedia, limitata la penna, limitato l'albero, limitata la carta. Limitata la parola e limitata la frase, e con essa limitato diventa anche il concetto, l'emozione, il sentimento, che facciamo passare. Limitato è quel che riusciamo a mettere nel mondo. Illimitato resta tutto quel che dentro a esso non mettiamo, quel che esiste altrove per sempre proprio perché qui poggiato al suolo con i piedi saldi a terra non esisterà mai.
Forse per questo mi piace scrivere: ben poco tollero i limiti. È più forte di me, cerco l'illimitato anche a costo di rinunciare al concreto. Non so vivere nella realtà concreta in quanto per me non ne esista una, mi estraneo continuamente da essa vedendola come puro prodotto di una mente collettiva inesistente, puro frutto di una costruzione sociale.
Mi piace scrivere perchè mi piace indagare il limite: per giocarci, per girarci attorno di continuo e di volta in volta spostarlo un po' più in qua o un po' più in là, a destra e a manca senza mai trovargli una collocazione fissa. E se aggiungiamo poi che scrivere è per me veicolare l'amore, forse scrivere è per me studiarlo per espanderlo e diramarlo. Questo è: all'infuori dei miei testi il mio amore è illimitato e perciò privo di materia. Il mio amore è sempre vivo ed eppure non si fa mai presenza fisica dei corpi, non viene mai a patti con il mondo fisico adottando una specifica forma e rendendosi perciò tangibile. Il mio amore non sceglie.
Per me scrivere significa rendere il mio amore reale.
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oftenderweapons · 1 year
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Did my ears deceive me, or have I heard it right? You're italian too?!
Beh, amica mia, sappi che è un piacere saperlo! Anche io mi sono laureata in lingue, ma me la sogno la tua padronanza del linguaggio nelle tue storie [a proposito, ancora nessuna novità sul ritorno del tuo Nam?]
Yes!!! All Italian, born and raised! Thank you for your super duper kind words 🥰💜
And now that your mentioning Joon, depends on which one you're planning to bring back 😅😉
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elorenz · 2 months
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Secondo me è giusto che ognuno abbia la propria “voce” quando scrive. Come per un cantante, può piacere o meno, avere successo oppure no, in ogni caso è propria e intrinseca di chi la usa. Puoi lavorarci su quanto vuoi ma il tuo stile e la tua impronta direi che siano questi
Sicuramente ognuno ha un suo stile poiché ciò che scrive è personale e come tale è una trasposizione del proprio modo di essere. Ciò che ha me interessa non è uno stile diverso, andrei contro me stesso (come ho scritto in risposta al consiglio) e mi farei solo un danno. A me interessa una padronanza di linguaggio che riesca a creare immagini attraverso le parole così da rendere chiaro ciò che nella mia mente si figura come un quadro, una foto oppure un filmato. Come ho scritto in passato, ciò che faccio non ricerca consensi, se alle persone piace o non piace non mi interessa, lo faccio unicamente perché sono dipendente dalla scrittura, non riesco a farne a meno (se suonassi uno strumento comporrei musica, se sapessi dipingere farei quadri e via dicendo). Da qui la volontà di una ricerca sempre più complessa (ma fluida per quel che riesco) in un linguaggio che riesca a soddisfarmi.
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micro961 · 2 months
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Loki: - “Loki Balboa"
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in radio il nuovo singolo
Disponibile in radio e in digitale “Loki Balboa” il nuovo singolo di Loki.
"Loki Balboa" è nato da un incontro casuale in studio con il produttore NFL. Dopo aver trovato un sample coinvolgente, il progetto è stato temporaneamente abbandonato.
Durante questo periodo, l'artista si è ispirato al sequel di Rocky Balboa, trovando l'ispirazione per il testo.
Il ritorno in studio ha portato alla creazione di una struttura musicale coinvolgente e al perfezionamento del testo, che celebra la forza e la determinazione, ispirato al personaggio cinematografico.
Il pezzo è caratterizzato da un concept potente, giochi di parole e un ritmo incalzante.
Con la collaborazione di Duck per la registrazione e Mirketto per la grafica, "Loki Balboa" è un progetto artistico completo, ora pronto per essere condiviso su piattaforme come Spotify.
Gianluca Moser, in arte Loki, nasce il 14 novembre del 1997 a Trento. Dopo un’ infanzia difficile e il peggioramento della malattia del padre, si avvicina al mondo del freestyle padroneggiandolo col tempo, la tecnica e la consapevolezza nei propri mezzi. Dopo vari contest locali e fuori regione; nei quali ottiene buoni piazzamenti, acquisisce esperienza e padronanza del palco.
Nel 2019 pubblica il suo primo ep dal titolo “La mia dimensione” . Poco tempo dopo, pubblica il singolo “Joaquin Phoenix” accompagnato da un videoclip dove dimostra padronanza nel linguaggio, nei contenuti e nella presenza scenica. Dopo tanti sacrifici e duro lavoro, il 26 Settembre 2021 pubblica il suo primo album dal titolo “Il Lupo e la Vipera”, composto da dodici tracce e arricchito dalla presenza di sei featuring di artisti locali. Grazie alla capacità di districarsi tra vari generi musicali e tipologie di produzioni, dimostra di sapersi adattare su diverse sonorità. Successivamente fa uscire nuovi singoli, tra cui  “Tornado di emozioni”; prodotto da JK e “Ciak si gira” prodotto da Janax, e calca diversi palchi aumentando la sua fanbase e acquisendo credibilità ed esperienza. Esprimersi dal vivo per Loki è essenziale e lo stile di scrittura dell’artista è “strampalato”, prende spunto e ispirazione dal tutto e dal nulla, mescolando le esperienze personali a quelle quotidiane passando talvolta per quelle visionarie. Attraverso i suoi testi, cerca di arrivare all’ascoltatore, suscitando in esso emozioni e diverse interpretazioni Tanto che un suo testo è stato selezionato per essere inserito in un libro di poesie. Oltre che un “MC” ed un rapper, si reputa un cantautore.
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guida-ai · 3 months
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‎Al Chat – Chatbot IA italiano su App Store
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Utilizza ChatGPT e GPT/GPT-4. Alimentato dall'API ufficiale di OpenAI. Utilizzando le più recenti API ufficiali da OpenAI per le tecnologie di ChatGPT, GPT-4 e GPT-3.Rivoluziona le tue interazioni con l'IA attraverso PocketAI, un innovativo Assistente per App di Chat AI che offre capacità di scrittura illimitata. Sperimenta il futuro dell'assistenza conversazionale:+ Sblocca il Potere dell'IA: PocketAI è il tuo Assistente ChatBOT IA di fiducia, che sfrutta tecnologie all'avanguardia per soddisfare le tue esigenze specifiche. Sblocca una conoscenza illimitata direttamente dal tuo smartphone.+ Conversazioni Intelligenti: Partecipa a conversazioni interattive e informative con il nostro Chatbot IA. Dì addio all'incertezza, poiché ti forniamo una conoscenza completa.+ Cronologia delle chat: Accedi e rivedi facilmente la cronologia delle tue chat, promuovendo un apprendimento continuo e un facile riferimento.+ Accessibilità Potenziata: Sperimenta la comodità di PocketAI su vari punti di accesso:- Estensione della tastiera: Interagisci senza sforzo tramite la tastiera del tuo dispositivo. - Estensione Safari: Integra la nostra app nella tua esperienza di navigazione. - Scorciatoia Siri: accedi all'assistenza IA attraverso Siri. - Compatibilità con Apple Watch: resta connesso in movimento. - Integrazione di iMessage: Tieni la nostra app a portata di mano su iMessage.+ Generazione di immagini: Osserva le tue idee prendere vita mentre la nostra IA trasforma il testo in immagini straordinarie, migliorando l'espressione e la comunicazione.+ IA Versatile: PocketAI offre una gamma di funzionalità:- Scrittura di Saggi: Supera il blocco dello scrittore senza sforzo. - Assistenza Matematica: Padronanza della materia. - Composizione di Canzoni: Sblocca la tua creatività musicale. - Narrazione: Immergiti in narrazioni avvincenti. - Pianificazione del Fitness: Raggiungi gli obiettivi di benessere. -Risoluzione dei problemi: affrontare sfide complesse. - Scrittura di e-mail: Scrivi e-mail professionali. - Generazione di codice: ottimizzazione del processo di programmazione.+ API IA Avanzate: Sperimenta il culmine dell'assistenza conversazionale alimentata da un'API IA all'avanguardia. Ridefinisci le tue interazioni tecniche e sblocca il tuo pieno potenziale.+ Aspetti Legali: Leggi le nostre Condizioni di Servizio: Rispetta la tua privacy con la nostra Politica sulla Privacy: + Contattaci: Contattaci all'indirizzo [email protected]: siamo tutto orecchie.+ IA tascabile: Sfruttiamo il Generative Pre-training Transformer per la Chat più recente e avanzato e le avanzate tecnologie API pubbliche per una generazione di linguaggio ineguagliabile.PocketAI: Chatbot - AI Chat è un rivoluzionario assistente per app AI Chat basato sull'intelligenza artificiale con scrittura illimitata. PocketAI: Pocket AI è la migliore app di intelligenza artificiale - https://pocketai.app PocketAI.app è un assistente ChatBOT AI che utilizza le tecnologie AI più recenti e potenti. Sperimenta la potenza dell'intelligenza artificiale dal tuo telefono. PocketAI consente di ottenere risposte a qualsiasi domanda in modo sorprendente e divertente. Chiedi qualsiasi cosa al nostro ChatBot intelligente ed è sempre pronto ad aiutarti con qualsiasi argomento specifico.Assistente AI: saggio/canzone/paragrafo/poesia/scrittore... Chiedi qualsiasi cosa, non è necessaria la registrazione per questi strumenti GeniusTi presentiamo la nostra app Chatbot basata sull'intelligenza artificiale: Scatena il futuro dell'assistenza conversazionaleCaratteristiche:- Conversazioni senza interruzioni: partecipa a conversazioni interattive e informative con il nostro assistente AI Chatbot, progettato per rispondere a tutte le tue domande e fornire un'assistenza completa. Dì addio all'incertezza e abbraccia un mondo di conoscenza.- Cronologia chat: accedi e rivedi la cronologia chat dell'intelligenza artificiale senza sforzo, assicurandoti di non perdere mai un colpo. Esplora le conversazioni passate a tuo piacimento, consentendo l'apprendimento e la consultazione continui.• Scorciatoia Siri: potenzia la tua voce evocando il nostro assistente AI tramite le scorciatoie Siri. Comodità a mani libere come mai prima d'ora e altro ancora... Scarica e prova ora Source link Read the full article
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enkeynetwork · 4 months
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lamilanomagazine · 10 months
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Lecce: "Poesia e Chi", un reading poetico a cura di Annelisa Addolorato
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Lecce: "Poesia e Chi", un reading poetico a cura di Annelisa Addolorato.  La poetessa Annelisa Addolorato, propone una performance (adatta ad adulti e bambini) intitolata "Poesia e Chi". Questo evento unisce la declamazione poetica, le arti marziali tradizionali cinesi (Kung Fu Chang) e il concetto di 'Chi', la nostra energia interna, concetto che ricorre non solo nelle tradizioni culturali cinesi, ma anche giapponesi e coreane. Attraverso questo sincretismo espressivo, Annelisa Addolorato offre al pubblico un'esperienza che combina poesia, movimento, consapevolezza. Il declamare versi è l'arte di dare vita alle parole attraverso la performatività verbale e motoria. La poetessa Annelisa Addolorato, con la sua abilità nell'uso del linguaggio poetico e la sua sensibilità artistica, trasporta gli spettatori in un viaggio emotivo attraverso le sue poesie. L'arte marziale è un'espressione fisica di disciplina, controllo e grazia. In questa performance, le suddette categorie si uniscono alla poetessa per creare un'armonia tra poesia e movimento. Attraverso i propri movimenti fluidi, precisi e coordinati, riesce a trasmettere al pubblico un senso di forza interiore e padronanza di sé. L'arte marziale diventa un linguaggio visivo e di condivisione, che si fonde con la poetica delle parole, con le parole della poesia, unico e affascinante. Il concetto di Chi, la nostra energia interna, è un elemento centrale nelle tradizioni culturali cinesi, giapponesi e coreane. È considerato un'energia vitale che permea ogni aspetto della vita. Nella performance "Poesia e Chi", l'artista mette in evidenza l'importanza della consapevolezza interiore e dell'equilibrio energetico. Attraverso la pratica delle arti marziali e la declamazione poetica, Annelisa Addolorato cerca di connettersi con il proprio 'Chi' e di trasmettere al pubblico un senso di serenità e armonia. Questa performance permette di esplorare le profondità dell'anima umana, di riflettere sulla nostra connessione con il mondo che ci circonda e di scoprire il potenziale illimitato del nostro 'Chi', in senso olistico, ovvero globale. Annelisa Addolorato ha pubblicato per i Quaderni del Bardo Edizioni di Stefano Donno il libro di versi "Guardando la mar – Il nostro Chi" - "Navicella, freccia d'acciaio, acqua dissetante mutevole, legno musicale e medicamento speziale, danza quotidiana, petalo, fiore, giardino e bosco virente, montagna fiorita. Luminescenza, vortice di luce e di luna crescente, gioia paonazza, sorprese insolite, fantastiche, cortesi. Sensazioni fraterne, amore diffuso. La poetessa Annelisa Addolorato respira e vive poesia come una grazia. Lei si sa prendere cura del terreno fertile delle parole e, in quell'humus, pesca pietruzze preziose, piccole calie da donare al prossimo. Addolorato intende la poesia come dono, come medium da condividere come pane cereale, tramite il quale costruire ponti di condivisione, di comunanza. La silloge "Guardando la mar – Il nostro Chi", racchiude in sé una costellazione umana di vibratile bellezza. Scorrendo i versi, si desume che l'autrice abbia una formazione culturale composita, morbida. Annelisa Addolorato, nella sua esistenza migratoria, ha traversato e amato diverse città e paesi. Da Barcellona e Madrid fino a Milano, dal Messico al Venezuela, da Delhi fino all'India, da Israele fino alla Germania, dall'America fino a Nicaragua e Cuba. Un'anima errante come la luna, che, nei suoi transiti, ha saputo stringere al petto tutto il bene del mondo." (Dalla post fazione di Marcello Buttazzo) Dichiara l'autrice - "Si rammenta a chi legge che l'autrice fa uso e applica varie licenze poetiche, essendo dalla sua nascita praticamente sempre stata cullata e anche graziata (in senso lato e in senso stretto) dalla poesia e dalle sue calde e avvolgenti maglie, dal suo tepore materno e dal suo chiarore eterno, etereo. Tali licenze sono state in parte accolte, in parte acquisite (con studium e titoli vari), in parte sofferte, in parte accettate – sia con beneplacito della stessa, sia con scuri bene affilate, e con l'apprendistato presso altre poetesse e poeti e nel navigare nelle loro opere, e con il sudore della fronte despejada y linda della esperienza diretta di boschi, foreste e dirupi colmi di una vegetazione letteraria e insieme spontanea davvero strabilianti."... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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occhidibimbo · 2 years
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Filippo è un bimbo di 18 mesi che barcolla sui suoi primi passi. Ora è intento a giocare con due vaschette di plastica che in origine contenevano un miscuglio cremoso (che solo lui riesce a gustare!) ed un bicchierino per il caffè della macchinetta. Filippo sta preparando il caffè e lo offre al papà, anche con una certa insistenza, accompagnando i gesti con le parole-frasi (olofrase) adeguate a questo preciso contesto ludico. Filippo fa finta di preparare una bevanda perché l’ha visto fare più volte e, ripetendo quasi all’infinito il suo gioco del fare finta di,  imprime nella sua memoria una traccia. Verso i 15/18 mesi nel bambino emerge una qualità nuova, la riflessività (la funzione riflessiva). Grazie a questa funzione il bambino comprendere la differenza tra comportamenti reali e finti. La capacità simbolica (self-reflexivity, Fonagy, 2001), altro modo di intendere la nuova funzione di cui Filippo orgogliosamente fa mostra, è accompagnata dalla comparsa del linguaggio, dal gioco simbolico e da quella specifica presa di coscienza che porta Filippo e tutti i suoi coetanei a toccarsi il nasino, davanti allo specchio, sporcato a loro insaputa da un pennarello rosso. PRIMA La fase precedente i 15/18 mesi era stata caratterizzata dalla coscienza percettiva: Filippo ha esplorato l’ambiente, l’ha fatto liberamente, ha toccato, annusato, gustato gli oggetti, ne ha riscontrato differenze e similitudini, alla fine ha iniziato a classificare le cose nella sua mente dentro categorie. Un “cesto dei tesori” fatto di materiale ludico rigorosamente destrutturato, un tappeto in cui sono accumulati oggetti di vario tipo, bambole, cappellini, copertine, biberon con coperchio, telefoni-giocattolo con i tasti, sonagli, conchiglie, macchinine, pettini, costruzioni, pentole con coperchio, posate giocattolo, palette, piatti, utensili per la cucina, tazzine con relativi piattini, mollette, cerchi di plastica spessi con un foro al centro di varia grandezza, insomma un mondo di cose che il bambino vede e che riconosce anche nella loro versione per adulti e che sperimenta imitando movimenti e gesti che hanno un fine, quando usati dai grandi di casa. Gli stessi gesti, ripetuti nella versione bambina, si connotano di ben altre funzioni. Quando un bambino manifesta importanti difficoltà nell'esplorazione degli oggetti, ha minori opportunità di conoscerli e di interiorizzarne le proprietà. Per lui sarà più difficile ordinarli nelle categorie (le posate, i cerchi, le pentole, i bicchieri, i mattoncini, ecc.) e probabilmente il suo sviluppo cognitivo e linguistico non sarà pienamente armonico. Infatti, la qualità e la complessità del comportamento esplorativo e ludico possano essere considerate dei validi indicatori del livello cognitivo e linguistico raggiunto dal bambino. È per questo motivo che istintivamente il bambino cerca, esplora, scopre, si muove e crea caos attorno a sé. Ed è per lo stesso motivo che gli adulti glielo devono consentire creando le occasioni, infinite occasioni ludiche ed esplorative, in casa e fuori dal contesto domestico, accompagnando le azioni  con le parole. DOPO Dopo i 15/18 mesi, fa capolino finalmente la capacità riflessiva o intellettiva di Filippo che gli permette di riprodurre con maggiore padronanza la realtà e ancor più di replicarla facendo finta che. Crescendo, gioca con modalità e intenti sempre nuovi, integrando attività semplici in comportamenti più complessi, che corrispondono allo sviluppo progressivo di funzioni cognitive sempre più elaborate. Attraverso, quindi, le due fasi del prima e dopo, che si realizzano lungo il secondo anno di vita di un bambino, possiamo classificare il tipo di gioco che ha coinvolto Filippo prima di arrivare a far finta di fare il caffè al suo papà. Gioco funzionale: il bambino preme i tasti di un telefono-giocattolo o fa correre un carretto con le ruote o ancora agita un sonaglio. In questo modo,  guidato dalla vista, manipola in modo appropriato e specifico oggetti da cui trae informazioni;
Gioco transizionale: il bambino mette in relazione due oggetti in modo inappropriato ed appropriato dando vita ad un’attività di finzione approssimativa come quando porta la tazzina giocattolo alle labbra senza alcun suono oppure avvicina il ricevitore all’orecchio senza vocalizzare; Gioco di finzione semplice: il bambino avvicina la tazzina alla bocca e finge di bere oppure offre il biberon alla bambola; Gioco di finzione complessa: il bambino gioca in modo più complesso e astratto. È capace di combinare diverse azioni simboliche  (fa finta di bere e poi fa bere la bambola), collega più schemi di finzione all'interno di un unico evento di gioco (versa da un contenitore nella tazza un liquido che poi beve) ed infine produce sequenze di atti di finzione in cui compaiono diversi intenzioni simboliche,  tutto ciò quando finalmente il papà di Filippo berrà il caffè (il migliore mai bevuto!)  preparato per la prima volta da suo figlio. È pacifico (nonché obbligatorio per l’adulto) che il papà farà finta che … altrimenti che gioco è?
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pangeanews · 4 years
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“E allora se i vivi si rassegnano, i morti perdono sempre?”. Paolo Di Stefano ha scritto uno dei romanzi italiani più belli degli ultimi anni, “Noi”
È proibito piangere senza imparare, svegliarti la mattina senza sapere che fare avere paura dei tuoi ricordi.
(Pablo Neruda)
*
Cosa c’è di conforme, di analogo, tra l’imponente romanzo autobiografico dal tono privato e universale e dalla formula della saga familiare di Paolo Di Stefano, Noi (Bompiani 2020), noto scrittore siciliano di nascita (Avola), con il movimento letterario della seconda metà dell’Ottocento, cioè il Verismo? Non possiamo non intravedere, leggendo i capitoli, la coesione specchiata alla realtà sociale di un tempo difficile, che in questo caso si protrae dal secondo conflitto mondiale fino ai giorni d’oggi. Ma non è questo l’unico aspetto da menzionare come svelamento di una comune verità. Il Verismo si è connotato per delle vicende composte di povertà e di un destino trasfigurato nel linguaggio chiaro e spesso documentabile. I personaggi sono prelevati da un’umile Italia che sembra “staccata” non solo geograficamente dal continente (gli eroi sono inventati, afferma l’autore). Non possiamo non accostare al Verismo anche la ruralità del romanzo di Di Stefano, ma solo in parte, specie nel suo archetipo, perché questa lunga narrazione contiene anche elementi solidi di esistenzialismo afferenti ad una dinastia familiare attraversata, nei decenni, da tre generazioni. Di certo se pensiamo a Giovanni Verga, Luigi Capuana e Federico De Roberto, non ci si esime dal rintracciare temi rinnovati nella psicologia inquieta dei personaggi, nelle abitudini e nei riti, nella coscienza e nella suggestione, nei turbamenti, nella rabbia, nella tenacia, nella resilienza di nonni, zii, cugini, vicini ecc. Se ovviamente è diversa la cifra stilistica, resta la componente fatalista, cromatica, la rivelazione iniziatica, la naturalezza che attinge ad uno stigma secolare nei tanti soggetti scolpiti dalla memoria del romanziere in una civiltà che il tempo ha svelato in tutti suoi effetti, più collettivi che singoli, a partire dalla guerra, dalla fuga nei luoghi impervi, dall’emigrazione, per concludere con una certa irresolutezza da intendere come carenza nel presente, come sottrazione di beni non solo materiali: in Sicilia, in Svizzera, a Milano ecc. Una voce imperiosa, diremmo pure imperitura, quella di Claudio, fratellino dell’io narrante morto prematuramente durante l’infanzia, distilla la parola poetica in suggerimenti terreni e metafisici, risultando un amorino, un putto straordinariamente pungolante: vivo tra i vivi, nel suo di qua dell’aldilà che contamina la storia di osservazioni, analisi, immaginazioni, ricordi, nutrendo la reciprocità della vita di due famiglie che ne hanno pianto la scomparsa improvvisa a seguito di una leucemia acuta. Paolo Di Stefano non vuole lasciare lacune, dispersioni affettive: intende tramandare qualcosa di prezioso. Ed è già questo un processo creativo per non rimuovere, per non spazzare via alcunché dei suoi personaggi realmente esistiti. Un controcanto singolare lontano dal frastuono dei nostri giorni, dalla civiltà delle immagini, dal pluralismo della notizia lampo. Un blues da riscoprire, che permetta di ricostruire la funzionalità del tempo e una promessa di futuro nel milieu di una letteratura che vive la sua morsure du réel. L’impronta del reale è dunque una cartina di tornasole ineguagliabile che conduce verso la scoperta della verità impersonale.
Il Novecento italiano e i primi due decenni del terzo millennio rispondono ad un panorama formale, linguistico e organico molto frastagliato. La storia è solo la sponda, un argine, non l’impronta tangibile alla quale affidare una metodologia di studio. L’autore opta per il segreto della coscienza che si riversa nel moto delle cose, in un sentimento dominante. La narrazione esplode quando si canalizza nelle impressioni e nelle sollecitazioni, perché non ci sono altri linguaggi che possano somigliarle, che possano sostituirla. Noi è un romanzo liberatorio, energico: Di Stefano diventa il tramite di un tempo mai interrotto, che non passa. La salvazione sta nel rievocare le gesta di uomini e donne sopravvissuti perché custoditi nel comun denominatore degli affetti familiari.
*
Ha scritto Carlo Bo in Letteratura come vita (saggio pubblicato sulla rivista “Il Frontespizio” nel 1938): “Noi crediamo alla vita nella stretta misura della letteratura, cioè sotto quell’angolo di luce concesso da un’attenzione decisiva per una spiegazione, per una condizione di reperibilità”.
La fanciullezza, in particolare, coagula il passato e il futuro che si incarnano in una funzione di mitogenesi affondando le radici nella saga familiare. Nel coro a più voci di Paolo Di Stefano, la luce del tempo (“il ragionamento sul tempo”, direbbe l’autore) è attraversata dai luoghi e il suono di un fondamento ideale spazia in ogni ambito, in un viaggio verso la verità contro ogni stagione in via di dissolvimento. La nudità di questa esperienza è insita nella sobrietà del rapporto con le cose, con lo spirito che inizialmente dialoga con la terra. L’evocazione si staglia nell’orizzonte per lo più siciliano, nello spazio di una difesa umana, in un ambiente più amato che radicato, nella vibrazione di un afflato casalingo, senza che sia possibile, tuttavia, trovare l’uscita di sicurezza da un’eclissi dove tutto è instabile meno che la partecipazione al senso di finitudine umana.
“Eppure a diciott’anni nostro padre aveva già vissuto parecchio, e doveva ringraziare (si fa per dire) il pecoraio di Avola, suo padre, il ricottaio don Giovanni di nome e di fatto, don Giovanni detto il Crocifisso”. Un moschettiere, un femminaro (“forsennato fedifrago senza vergogna”), che vedeva donne e pecore, che si vantava di frequentare una marchesa, come racconta il padre dell’io narrante, ad ottantatré anni, nell’appartamento di Lugano, in Svizzera. Parte da qui la saga delle famiglie di Avola, Di Stefano e Confalonieri, di Giovanni e Mariannina da un lato, di Paolino e Carmelina dall’altro. Proseguendo con Giovanni, il figlio con lo stesso nome del padre, e la moglie Dinuzza, per arrivare a Paolo Di Stefano e ai suoi fratelli. Il figlio Giovanni e il padre si fronteggiano, si minacciano, si temono. L’altro nonno, Paolino, che diventerà maresciallo di finanza, si batte al fronte, e durante la guerra i paesani non capiscono chi è amico e chi nemico, chi butta le bombe, da che parte stanno tedeschi, inglesi, americani, canadesi. Con i paracadute degli alleati si costruiscono camicie, gonne e pantaloni dal colore mimetico in un mondo ancora in bianco e nero (come nota Maria, figlia di Paolo Di Stefano mentre viene rievocato l’anno 1943): fasi concitate che costringono le famiglie a rifugiarsi negli insediamenti rupestri scavati nel tufo, sfuggendo così ai bombardamenti e alle rappresaglie.
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Di Stefano ci offre immediatamente una traccia di senso nelle vite e nelle morti senza eroismo. In una lingua tachicardica la dimensione cartesiana è concentrata spesso nella parola “sciarra”, litigio, zuffa, tanto che i morti farebbero visita di notte per indispettire, per ridestare dal sonno i coniugi ancora in vita. Tra le altre figure magistralmente descritte, la rugosa zia ‘Nzula, sorella di Mariannina, alta un metro e quaranta, l’unica capace di controbattere Giovanni il femminaro, affrontandolo di petto per urlargli la “sbriogna”, la vergogna, facendosi sentire da tutta la strada (Di Stefano ama la parola impura, dialettale, insostituibile ricettore di uno stato d’animo, di un gesto impulsivo che è proprio la ripercussione di una pluralità parlata, di un “noi” estratto da uno spartito comunitario).
Giovanni figlio, occupa gran parte dei primi capitoli del romanzo: iscritto all’università, è un giovane telescriventista innamorato, disilluso, che raggiungerà Lodi per dare ripetizioni in un collegio, raccomandato da un prete, che visiterà a più riprese Milano. Un uomo sempre in piedi, “avanti e indietro”. “Non si stanca di muoversi, saltare su un tram, scendere e risalire, camminare ancora, misurare la città in lungo e in largo”. Lavorerà anche come rappresentante di targhe in ottone, in alluminio, di timbri e biglietti da visita e come agente informatore indagando sulle infedeltà coniugali, investigando sui commerci e sulla solvibilità delle aziende.
La vita procede in un percorso che l’emotività dipana nella geografia personale tra le strade di Milano abitate da operai meridionali, tra miniappartamenti con doccia e stufa a legno, con l’aria ombrosa dei siciliani che della smorfia di scherno fanno una caricatura, un “mussiare” che la dice lunga sul bene e sul male, sull’insofferenza. La resistenza delle famiglie ha ragioni che sanciscono una spinta elettiva: la figura umana, per Paolo Di Stefano, vuol dire prima di tutto padronanza della propria condizione in un posto qualunque, ma Avola si cristallizza come il luogo elegiaco di odori e sapori, delle cerimonie e funzioni sacre, come nella domenica di Pasqua con la Madonna portata sulle spalle, coperta di nero, circondata da bandiere e che dietro il manto nasconde una decina di colombe e di quaglie che volano. La Madonna si agita verso il centro della piazza dedicata al Re Umberto e abbraccia il figlio risorto circondato dai sacerdoti, tra fuochi, musiche e trombe.
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A Paolo Di Stefano interessa la civiltà e la sua conservazione. Una conservazione intessuta di circostanze irresolute, in una cornice che riporta al centro, immancabilmente, Avola, la cui dimensione culturale e antropologica rende sconfinata la provincia siciliana prima e dopo la guerra, nella cadenza e nella folgorazione descrittiva. Intenerita effusione ed esistenza vibratile si trasformano in memoria reale e figurata. I luoghi, nel tempo, assumono rilievo antropomorfico nelle scene mai vagheggiate, piuttosto riepilogate con esattezza cronologica. Il microcosmo struggente è suggellato da una sopportazione della “odiosamata” terra che si muove intorno a soggetti e oggetti avviluppanti. Di Stefano riesuma con efficacia la memoria inviolata, ritrovata come risonanza acustica tra parenti e coetanei, nel padre che “non è mai riuscito a misurare la distanza dalla sua famiglia”: un tormento, il suo, oscillante tra il va e vieni. Si avverte il privilegio del possesso delle cose imperfette, di una storia più grande e di una più piccola che si replica nella fedeltà al proprio e all’altrui monito, fino all’incrocio dello sguardo di una ragazza minuta, “chiusa dentro un elegante colletto zebrato, che attraversava lo stradone in compagnia di un’amica e di una cugina”. Il giorno del matrimonio Giovanni indossa un doppiopetto, Dinuzza un tailleur verde e scarpe verdi rialzate dai tacchetti. Tre figli in tre anni e poi un quarto, per quel marito e padre che riprende gli studi universitari dopo dieci ore di lezioni private per guadagnare ciò che serve al mantenimento della famiglia. Sarà docente incaricato nelle scuole medie di Mandello del Lario sul lago di Como e finalmente con la laurea guadagnerà il prestigio presso la parentela, compresa quella acquisita. Successivamente Giovanni Di Stefano si trasferirà a Lugano, in Svizzera. La casa sarà ubicata in un quartiere grigio, “del colore delle periferie”, dove i ragazzini cresceranno lungo le scale delle palazzine. Paolo, a partire dalla metà del libro, diviene egli stesso il raccontatore della saga, ritagliandosi un ruolo esterno correlato al proprio spazio di giovane figlio.
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La madre pensa alla morte, ai morti, a chi non c’è più per disgrazia e a chi rimane e deve mangiare per stare bene. Il figlio Paolo da bambino sognava di fare il vigile: “Avrei voluto fare il vigile per non lasciarmi sorprendere disarmato dalla terza guerra mondiale. Era un tempo in cui i bambini avevano paura delle bombe atomiche e della guerra che sarebbe scoppiata di lì a poco secondo le previsioni del governo federale che aveva disposto appositi finanziamenti per le installazioni militari e i bunker mimetizzati nei verdi e ridenti paesaggi alpini”. Ma le bombe, sarebbero arrivate dal cielo o dalla terra? Continuano i ritorni in Sicilia della famiglia Di Stefano: le case hanno i mattoni sfarinati, si gioca con le biglie o con le trottole, si mangiano il pane caldo sfornato all’alba e le polpette, si bevono bicchieri di ginger, di spuma e chinotto.
Con la crescita dei figli, si fa insistente la voce fuori campo del bambino poeta, Claudio, che da mentore alleggerisce la presa di coscienza degli accadimenti con opinioni secche, senza peli sulla lingua: “Sai quante volte / ho avuto la curiosità, / la curiosità di godermi in silenzio / la terribilità di ogni vostra vita casalinga / dall’angolo più nascosto del tinello, da sotto una poltrona / o da dietro una tenda, dallo spazio minimo / tra il tappetto e il pavimento…”. Perché anche chi è venuto a mancare si annoia, si stanca dei vivi, come i vivi rimpiangono i morti o li dimenticano.
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Il sentimento di Paolo Di Stefano, nel suo intreccio fonico, lievita da una voce che esprime il dolore, la malinconia come un lampo ad intermittenza. Ma la forza del narratore rimane soprattutto nel retroscena della famiglia metabolizzato in ogni aspetto agglutinante, in un ideale che rafforza la stessa biografia togliendone la patina di autoreferenzialità. Ogni apparizione è un’affermazione rinvenibile nei fenomeni italiani degli anni Cinquanta e Sessanta, e l’io stesso tende ad essere scansato in un umanesimo intriso di buona e cattiva sorte. Di Stefano allude spesso ad una verità inscalfibile dettata dal destino, che costituisce il nucleo omogeneo dell’intero romanzo. I dialoghi appaiono autoritari, seppure slanciati verso un’attenzione all’innocenza, ad una grazia che si scoglie dentro la sofferenza, così come nelle intense relazioni infantili e adolescenziali. Una grazia benefica rigenera la quotidianità dimessa in cui emerge un senso misterico in comunione con la morte. Un passaggio interscambiabile, dove i morti sono indaffarati, hanno un ruolo, un’immagine, i loro oggetti (il pupazzo di gomma Brontolo nominato ripetutamente e forse recuperato in un negozio vintage), gli amori, i dissapori, i dubbi sul passato posteriore, visto di spalle, a bilanciare il “futuro anteriore”.
Il linguaggio è filtrato, tutto sommato, in un’aura di purezza, in una stagione dove le età non contano più nulla. In effetti il vivere è fermentato in una nostalgia per un tempo inarrivabile, o meglio imprendibile, passato e presente, e la condizione più ricorrente è quella di chi si muove in una topografia sentimentale con la sensazione che niente si possa stratificare per sempre nel rimbalzo della memoria. L’innesto dell’affaccendarsi di Claudio, che reagisce come gli altri, sigla la forza ineguagliabile, l’invenzione strardinaria di Noi: un ragazzino deceduto nel 1967 è il legittimo detentore del diritto di parola. Il significato della morte riappare in tutto il suo emblematico segreto, ma il distacco dalla vita è presto colmato. Il canzoniere di Paolo Di Stefano è un modo per appellarsi ad un orizzonte che congiunge due estremi, ad un’associazione di idee in un travaso da un territorio all’altro, ad una metamorfosi che intrattiene simbolicamente il tempo catalogandolo, enumerandolo in una successione scomposta dai lari, Claudio in testa, vera e propria divinità domestica.
L’amore è un nodo al quale legarsi indissolubilmente, per cui ogni malessere ristagnante è spazzato via nel bisbiglio tra pensiero e inventiva. Il pegno di sincerità di Di Stefano conferma un mondo proliferante di fedi e affetti che si situano a metà tra l’immagine impressionista e un’atmosfera di redenzione, perché la felicità la conosciamo senza saperlo. La memoria di chi è cresciuto diventa un sigillo per attingere ad un appagante apprendistato. Si innerva un dialogo frontale con il discernimento di domande assolute, coraggiose, una boccata d’ossigeno nel fragore tra memoria e sogno, con l’attrazione per ciò che si dissolve e il dubbio di un dopo, di un’immortalità possibile. La riflessione biografica è una continua scoperta vocazionale, sacrificale, ma finisce per infondere fiducia nel prossimo.
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Noi è anche un romanzo sulle morti bianche, sullo sfruttamento nel mondo del lavoro. Nel 1959 la SINCAT produceva energia elettrica a vapore della quale se ne serviva l’Enel.  Ancora oggi è un polo petrolchimico siracusano per la raffineria di petrolio e dei suoi derivati e per la produzione energetica. Gli incidenti erano all’ordine del giorno e le misure di sicurezza, per il lavoratore, pressoché assenti. La crisi economica imponeva l’urgenza di un reddito per far fronte alle difficoltà crescenti di una regione che economicamente non cresceva. Se diminuiva la percentuale di disoccupazione al nord, la ricerca di un impiego al sud diventava sempre più infruttuosa, demotivante. Il precariato accompagnò le generazioni ad un futuro senza punti di riferimento nella flessibilità forzata, nello smarrimento di una visione strategica e nell’esaltazione del pragmatismo per far di conto. Il solo aprire e chiudere le valvole e controllare le manovre di pressione poteva essere un esercizio pericoloso. Quando un operaio sbagliò e invece di mandare aria azionò la leva dell’azoto, la morte per asfissia non si poteva evitare. Peppino fu investito da una fiammata e venne ridotto ad una torcia umana. Non si sa come ma riuscì a scamparla, una volta trasferito in elicottero al Niguarda di Milano, accompagnato dai parenti che costituirono un vero e proprio mutuo soccorso.
Quindi il risalto del contro altare, del riscatto sociale, della rivincita, nonostante i conti non tornassero mai tra addizioni e sottrazioni: Fontane Bianche, un arenile di sabbia bianca, con sorgenti di acqua dolce, dove i Di Stefano costruiscono il sogno proibito di una casa sul mare, “inarrivabile per un avolese non professionista”. La natura risplende come in un paradiso terrestre allietato da eucalipti, tamerici, cormorani, sterne, germani reali, martin pescatori, fenicotteri. Una villetta perduta e lontana costa mesi di lavori con zappe, carriole, pennelli, cazzuole, secchi, vernice per risparmiare sui muratori. Paolo Di Stefano scrive con un sismografo interiore sul patimento dell’uomo in un decennio che si evolve, suo malgrado, nella dicotomia di stampo pasoliniano tra progresso e sviluppo, tra necessario e futile, in un meandro oscuro dove i ricordi della gente svaniscono nel giro di pochi anni insieme agli usi, ai costumi, agli utensili e alle auto sportive da esibire davanti alle pizzerie e ai bungalow allineati di fronte alla scogliera. Un pensiero non incandescente si allinea, però, ad un incanto pudico che incombe nella zona più profonda dei componenti della famiglia, riservata con gli altri quanto turbolenta al suo interno.
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Di Stefano appare un antimodernista che guarda le categorie dello spirito tra le presenze mutanti, anonime, svincolate, per una breve stagione, dal perpetuo disinganno. “Liberatosi delle incombenze mattutine, nostro padre ci raggiungeva al mare: molto più volentieri se c’erano i suoi cognati”. Erano i giorni delle risate, delle chiacchierate, dell’allegria, dei giochi con il pallone o con i tamburelli, con gli edifici, le torrette, architettati sulla sabbia. Nonno Giovanni faceva i solitari a casa con le carte, mentre nascevano i primi languori e i primi approcci erotici con le ragazze che il femminaro definiva “carni bianche”, come fossero i suoi animali, “lisciandosi la punta del baffo destro e poi quello sinistro e lasciando cadere ovunque occhiate furtive”. Sono queste le pagine più dotate di trasporto e coinvolgimento emotivo, quasi sussurrate al lettore, confidenzialmente, con una poeticità narrativa intrinseca, che si fonda sul senso espressivo dell’incontro. Non emerge una tensione sociale, ma si eleva un dialogo carezzevole, un input confessionale come parametro d’interpretazione nella dimestichezza tra soggetto e soggetto, in un’affabilità tra giovani e adulti che vortica nell’aria estiva non più urticante, ma riempita di mandorli, ulivi e fichi d’India. Lo scrittore sceglie una soluzione tersa in cui il testo mantiene una misura variabile e permeata da un’intensità breve, tra barlumi di cose viste teneramente: il mondo che cambia è un’incognita, un ideogramma sempre più complesso da decifrare. Il fondamento intimista attraverserà un fraseggio ancora più lieve, nel privilegio del sentimento immerso in un’adempienza autobiografica specie con la morte inaspettata del piccolo Claudio.
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Claudio se ne va proprio mentre Tarcisio Burgnich, il roccioso difensore dell’Inter di Helenio Herrera, sale in alto e colpisce la palla di testa all’ottantatreesimo minuto, decretando la vittoria dei nerazzurri contro il temibile Bologna di Luis Carniglia (“Burgnich segnava / e io volavo via / alle 16.20, / più o meno”). Per il “Corriere della Sera” è stata “un’aspra battaglia sul campo”. Claudio la perderà il 9 aprile del 1967 e il fratello Paolo non risparmia la descrizione più dolorosa dell’intero libro: “All’obitorio dell’Ospedale Civico che aveva un accesso dalla strada, dove oggi c’è l’Università della Svizzera italiana con il suo bel prato, ti abbiamo trovato immobile, disteso, indossavi la stessa tunica bianca che avevamo usato per la prima comunione, con il cappuccio, la corda e il crocifisso di legno, e ricordo il grosso fazzoletto piegato sotto il mento”. La parola leucemia fa paura anche a sentirla e si è manifestata per chissà quale maleficio, per il malocchio, asserisce la madre del piccolo, oltre a dire che “il dolore nessuno lo fa sentire davvero”, né nei libri, né nei film. Di Claudio rimane il suo racconto affilato, le notti, le punture che chiamavano trasfusioni, il dottor Porcello che sosteneva che il sangue andava lavato, il colore della pelle di cera lucente, le macchie aghiformi, Brontolo, la fotografia della cuginetta Carmen, l’amore di una certa Elisa, la Lotus a pedali regalata dal nonno paterno, verde, la stessa macchina di Jim Clark. Il colore dei ricordi erompe dai disegni e dalle parole superlative, in particolare dal colore degli occhi, azzurri, e dei capelli, biondi. Il decorso della saga familiare sfugge alla fredda, cinica razionalità.
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Di Stefano propaga un incantesimo, una specie di ipertempo remoto. Il contenitore sapienziale si indirizza non solo verso il tu, ma verso un immaginifico altrove dilatando l’orizzonte dell’esperienza. La compartecipazione dello scrittore è incastonata nella totalità delle cose, custode di un mistero mercuriale tra spazio e tempo. Il dire si prolunga, sincopato e ritmato in un corto circuito di frasi che restituisce l’implacabile incedere degli anni. La parola sottintende uno sguardo mesto, offre una visionarietà, un’instabilità emotiva nella consistenza del discorso sulla dualità vita/morte protratto da Claudio, che sembra crescere e diventare uomo, nonostante la morte. “Loro non potevano saperlo, ma avevo le orecchie fini e li sentivo, li sentivo da vicino o da lontano, li sentivo”. E ancora: “Stanotte ho sognato la mamma in quei giorni. In quei giorni che nella vita era nata per stancarsi e che stare in ospedale ad aspettare la stancava ancora di più”. Claudio sogna il futuro, il passato, il presente fino a pronunciare un quesito assoluto, a plasmare un calco spiazzante: “E allora se i vivi si rassegnano, / i morti perdono sempre? / Vince chi resta in campo, / come nel gioco della palla prigioniera”. L’interrogativo pressa, si ramifica in una traccia incrinata, in una vulnerabilità recepita dai familiari in un lento smorire: “Strane idee: come si fa a diventare di colpo un angioletto con i superpoteri nelle ali? Strane idee e bella pretesa”. Il morire è un momento in cui ci si accorge di non potersi opporre, in cui nessuno può intervenire, fa capire Claudio. Ma c’è una colpa, un rimorso, un ravvedimento, un discrimine, in questa inevitabile parabola? La trama di Paolo Di Stefano è implacabile dall’asserzione al quesito, nella domanda primordiale sull’esserci, sulla fine prematura, in una crescita di senso e di valore che Noi si porta appresso nelle ultime pagine. La scrittura si trasforma in un esercizio di ascensione verso le contraddizioni tra materia e anima, in un mixage di respiri profondi e immensi silenzi quando verrà meno anche il padre. “Lì, sistemato finalmente in alto, sopra di te, nostro padre ha preso il primo sole della primavera come per farsi trovare preparato per la canicola d’agosto, poi sarebbe arrivato il tepore dell’autunno, il freddo dell’inverno e di nuovo il ritorno confortante del primo sole di primavera”.
La varietà ritmica del romanzo non è mai paga di sé e una malinconia anche irrelata fa parte di un quadro nitido. Paolo Di Stefano trova una pace semplice in una vulgata visionaria. È l’amore l’implicazione che distoglie dal male, che soppesa un sentimento di viscerale dolcezza. Il tema è ripreso con costanza e stupore. “Nostra madre avrebbe trovato la scappatoia in una forma di personale agiografia; e suo marito, sia pure con qualche difetto, sarebbe diventato da quel giorno l’uomo più desiderabile e affettuoso che una donna avesse mai avuto”.
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Il romanzo non è più un modello classico e ricorrente. Dovrebbe essere, oggi più che mai, qualcosa di scevro completamente da un’invenzione. Coinciderebbe allora, come in Noi, con una condizione umana captata dalla testimonianza. Cioè, si può essere romanzieri quando un’esistenza è già di per sé oggetto letterario e quando i fatti, per come si sono svolti, valgono un libro. Basta scoprirne l’evidenza.
“Il ricordo è un modo d’incontrarsi”, diceva Kalhil Gibran: se non ricordiamo non possiamo capire, in una temporalità declinata al passato. La stessa ricordanza leopardiana, illusione o sogno che sia, unisce piacere e dolore in un unico sentimento che per il poeta recanatese fonda il carattere dell’individuo. Il senso di continuità tra passato e presente, o meglio di un passato al presente, suggella l’inestricabile aggancio tra “era” ed “è”.  Il poeta Alfonso Gatto aveva congiunto il filo rosso della sua opera alle pieghe del tempo. Si era addentrato nel regno delle anime, aveva consacrato un dialogo con i morti che ricorda l’eco di Noi, in questo caso sotto forma romanzesca.
*
La saga familiare rimanda, per restare in Italia e al Novecento, a Maria Bellonci, Natalia Ginzburg, Lalla Romano, Dacia Maraini, ma non possiamo non pensare, allargando i confini, a John Cheever, Philip Roth, Gerald Durrel, Jonathan Franzen, Isabelle Allende, solo per citare alcuni tra gli scrittori più noti nel panorama internazionale. La mediazione del narratore trasferisce temporaneamente le generazioni familiari nella storia, per cui il particolare viene distribuito lungo l’asse orizzontale di epoche che si avvicendano. La collocazione dei personaggi si realizza tra sequenze che assomigliano a quelle di un film sviluppato lentamente. Il montaggio e la ricomposizione di descrizioni proiettano la visuale d’intorno che fissa i tempi, che crea la sospensione della memoria nella dimensione esterna. Il flash back è una tecnica che permette di entrare e uscire da una datazione all’altra. Paolo Di Stefano muove una formula che richiama il metaracconto, la fantasia premonitoria dei narratori orali, elementi caratteristici appunto della saga familiare. L’autore reperta, non solo ricorda. Accoglie una selezione più che un’interpretazione, una ripresa di ambienti e non solo di stanze private, di luoghi eletti. Questa è la forza e la lucidità di chi si muove in uno spazio di riprese, di descrizioni non camuffate. Di Stefano è un segugio che fa primeggiare spesso l’insignificante oggetto che diventa significativo (Brontolo, la Lotus, il mobile, l’altalena, la pizza, la mozzarella ecc.). E lo stesso Claudio dà l’idea, felice, di qualcuno che ancora c’è, che non è mai scomparso, che si è solo assentato e che continua a far parlare gli altri di sé senza farsi accorgere del suo andare e venire, proprio come quello, remoto, del padre dalla Sicilia al nord dell’Italia, alla Svizzera. Non si tratta di una morte definitiva, ma di un meccanismo di sopravvivenza incasellato in blocchi di scrittura autonomi, poematici, in brandelli di verità rivelate, in un’unità riconducibile a ombre che parlano miracolosamente. Il ricordo procede per ritmi sincopati, con lividezza e lumi incandescenti. Sguardo e cuore si fondono: non più sguardo e compostezza, ma un messaggio che arriva direttamente là dove nulla può essere più taciuto. La creazione poetica ascende verso un camminamento verticale, nell’impresa della congiunzione con un mondo, purtroppo inconoscibile (quello di Claudio).
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La percezione del tempo, nella saga familiare, è come di un prosciugamento. Non esiste una dimensione allargata, protratta, ma invece immobile. Ecco quindi che le immagini del padre e del figlio possono riprodurre il sangue, il corpo, il procedimento gradevole perfino dell’immedesimazione. Il trasferimento di sé proiettato sul padre (e viceversa) si fa elemento consapevole, razionale. Siamo di fronte ad una realtà-pensiero incisiva, raffinata, che risucchia e consente la riproduzione ideale della vita. È questo il realismo più innovativo, qualcosa che è sì impossibile da qualificare, ma che costituisce la mitologia familiare. Il padre acquista via via una connotazione sempre più sentimentale, ma non di un sentimento dolciastro, vanesio. Come da una forza oracolare questa figura si staglia nel dolore ricucito perché sfociato in un dire inderogabile, misurato nel filo tenace che tiene in piedi tutta la storia. “Ho sempre avuta impressa nel cervello la sproporzione tra nostro padre, minuto e fragile, e la solenne maestosità di nonno Giovanni, e ora mi stupisco a constatare che in realtà la differenza era ridotta a un paio di centimetri: in fondo nostro padre vantava da giovane un decoroso metro e sessantadue. E mi sorprendo a fantasticare che forse nessuno, nella memora di sé che ha lasciato agli altri, è quel che era: forse è una fissazione mentale, una fotografia involontariamente ritoccata che non ha nulla a che vedere con la realtà”.
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Una legge superiore preme sui comuni mortali, si incardina nelle vicende, determina ogni porzione di vita e realtà nel transfert affettivo. Sono punti fermi i sensi di Paolo Di Stefano, sorgenti nella capacità di eludere il male e le lacerazioni. Le tante considerazioni contenute in Noi forgiano una piattaforma, un’elezione a valori primari, nonché, in fondo, un diario dei personaggi. L’inquadratura della saga familiare a largo raggio permette un bilancio della vita dei protagonisti, alcuni tra i tanti, interlocutori che Di Stefano ha coinvolto per smantellare il convincimento di una narrazione propriamente personale. L’io, in effetti, si moltiplica in un vero e proprio repertorio.  La materia stessa è una molteplicità che ruota su sé stessa. Il senso della perdita è uno dei tanti riferimenti, come il senso di ciò che poteva essere e non è stato per pura casualità. Il contro bilanciamento si consolida nel travaso da un’esperienza all’altra, da un particolare al generale. Nella sua centrifuga il romanziere ha messo al centro un acume percettivo privo di intellettualismi e riassuntivo di un’evocazione non ordinata da un soggetto imperante. La letteratura resuscita, non distrugge, non uccide. Noi prosegue senza fine. Di Stefano torna indietro e mette a fuoco per rivivere una seconda volta ciò che è successo, ciò che è andato perduto. La letteratura si muove in un tempo che ci riguarda tutti, perché è un’esperienza che ci abita. È luce e ombra, non oblio. Riempie il grande vuoto dell’esistenza e pertanto decifra l’uomo limpidamente. Paolo Di Stefano reclama in quasi seicento pagine la pienezza paritetica, impareggiabile di nonni, padri, madri, fratelli, zii, cugini: anche per questo ha scritto uno dei più bei romanzi italiani degli ultimi anni.
Alessandro Moscè
  L'articolo “E allora se i vivi si rassegnano, i morti perdono sempre?”. Paolo Di Stefano ha scritto uno dei romanzi italiani più belli degli ultimi anni, “Noi” proviene da Pangea.
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nicolamennichelli · 4 years
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Tutto ‘fumo’? Altrochè, le parole sono (ancora) importanti.
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Nel mondo del pitching, del coaching e del business in generale, il tema della linguaggio e della buona dialettica è al centro di un dibattito acceso e frizzante. Forse perchè le tecnologie hanno davvero cambiato il nostro modo di parlare, pensare, progettare, anche se paradossalmente non ne abbiamo ancora una conoscenza felice e una padronanza fruttifera. Forse perché a causa di un frainteso uso della tecnologia alcune culture stanno via via perdendo la propria identità, in un clima crescente e inarrestabile di globalizzazione.
Il tema su cui mi voglio interrogare, nasce da un film che ho rivisto da poco, apprezzato (al tempo) da larga parte della critica per via del finissimo humor autoironico e dissacrante sulla moderna società e le politiche di impresa:
Il film in questione è Thank you for smoking, del 2005, con A. Eeckhart, diretto da Jason Reitman (e un cast non del tutto secondario).
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La storia è quella di un lobbista perseverante, padre americano e portavoce di una delle più fortunate e dannose industrie del mercato: il tabacco. Il suo ruolo? Vendere tabacco. Alle multinazionali. Ai privati. Ai non fumatori. Vendere. Vendere. Vendere. E a Nick Naylor (A. Eeckhart) vendere riesce molto bene. Quanto meno, lo fa credere al figlio Joey (C. Bright) e a Heather Holloway (K. Holmes), giornalista e giovane reporter, acuta e seducente quanto basta per ‘spogliare' Naylor dall’ego dei media e della pubblicità, in una relazione di continui secondi fini femminili e professionali.
(Come va a finire!?) Lungi da me, soffermarmi sul film e su un qualche tentativo di buona o cattiva recensione e/o avviare qui battaglie sul fumo, o alcol o armi. Aspetto le vostre (recensioni);) Chissà, però, come si sarebbe comportato Nick Naylor con le sigarette elettroniche nel 2005? (Per non farci mancare un pizzico di ‘curiosità’ da ‘ex fumatore’).
Nick Naylor fa un assunto semplice e irremovibile:
“Micheal jordan gioca basket. Chalrles Manson uccide le persone. Io parlo. Ognuno di noi ha un talento”.
L’aspetto su cui è interessante riflettere è contenuto in questo estratto che, come appassionato di branding e operatore di marketing, mi ha più sedotto. La parola come oggetto di vendita, moneta di scambio e (di fatto) strumento di comunicazione.
Salto i dati e le fonti sul tabacco. Che i numeri sull’industria del tabacco e i relativi danni causati da esso possano impressionare è abbastanza ininfluente, ma mi premeva fare una sorta di promemoria sulle conseguenze create da tale fenomeno vizioso. E che ci sia un giovane Nick Naylor, in ognuno di noi, su questo non c’è altrettanto dubbio. Venditori lo siamo tutti, che ci piaccia o no. Tutti partecipiamo più o meno attivamente al giochino del 'mercante in fiera’ o delle ‘tre carte’ nella vita. Ma quanti commerciali, venditori, lobbisti, o semplicemente dipendenti, impiegati, addetti e non addetti ai lavori hanno lessico da vendere e una cultura del linguaggio da essere riconosciuto, ascoltato, creduto e perché no, seguito e ricalcato. Come fa, il famigerato Nick Naylor, a far credere a milioni di americani, che ci sia una morale nel fumo? Per buona parte, sa cosa dire e sa come dirlo.
La verità, non certo la sola, non sta nel ‘cosa’ ma nel ‘come’. Non si tratta sempre e solo di un forte posizionamento del brand, una forte personalità, un forte carattere, ma in ciò che rappresenta quel brand, quel messaggio e quella persona. Siamo davvero ciò che mangiamo? E se fossimo anche ciò che ‘diciamo’ o che 'pensiamo di dire’? Quanto è difficile vendere e sapersi vendere alle persone? Quanto di noi dobbiamo dire o far trasparire per essere chiari e compresi? Quanto c’è di trasmissibile ancora nel linguaggio scritto e in quello parlato? Avere qualcosa da dire e dirlo in modo chiaro e distintivo resta oggi una prerogativa di base, in ogni tipo di attività interpersonale nella quale inciampiamo. Un colloquio, una richiesta, una vendita, una presentazione.
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Il linguaggio è cambiato, si. Come per la moda, che pare funzionare sempre “perché cambia velocemente”, così il linguaggio è cambiato nel tempo. Nel corso degli anni abbiamo assistito ad un grande rimescolamento e ridimensionamento della lingua parlata.
Per i motivi sopra citati, globalizzazione, politica, ricambio generazionale. Passano i modi di dire e cambiano le carte del gioco, ma dovremmo ricordarci che valore ha la parola, da qualunque parte arrivi, e renderci conto che è uno strumento gratuito, spesso violentato e abusato politicamente, ma che ha un valore riconosciuto. Bisognerebbe fraternizzare con essa un poco di più (perchè è ciò che ci rende riconoscibili), nonostante il digitale. Farla amica e proteggerla. Adoperarla e studiarla in modo approfondito e meditato. Le nostre azioni passano anche (se non per la maggior parte) da ciò che pronunciamo e facciamo con le parole. Che sia costruito ad arte o nasca da un talento, il linguaggio è uno sport,e come tale, va allenato ed esibito con disciplina e rispetto.
Se la parola è un tratto distintivo dell’essere Umano, forse va preservata, curata, ricercata, bilanciata al mondo delle immagini e degli slogan che ci sommergono. Una parola che va pensata e pesata, come il vero talento umano da preservare.
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dareksea · 5 years
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TOward 2030
29-07-2019
Al fine di divulgare e promuovere i Sustainable Development Goals (SDGs), Lavazza e la Città di Torino hanno promosso il progetto TOward 2030 What are you doing? - un’iniziativa di arte urbana che parla di sostenibilità e che entro la fine del 2019 renderà la città, dal centro alla periferia, un amplificatore dei 17 +1 Goal delle Nazioni Unite, attraverso il linguaggio universale della street art.
Goal 9. Imprese, innovazione e infrastrutture
Il Goal 9 ha come obiettivo la costruzione di infrastrutture resiliente e promuovere l'innovazione ed una industrializzazione equa, responsabile e sostenibile.
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Dzmitryi Kashtalyan
Via Nizza 199
L’idea alla base è collegare il periodo antico e quello moderno nel corso dello sviluppo dell’umanità e di mostrare la continuità di questo sviluppo.
Vorrei inoltre dimostrare che le innovazioni e il progresso tecnico sono la parte più importante dello sviluppo dell’umanità, perché facilitano molto la vita e ne migliorano la qualità, se adoperati in modo adeguato. Il personaggio indossa un completo, che è un insieme di abbigliamento femminile contemporaneo e passato e di moderno stile high-tech. La parte inferiore dell’abito ha la forma del cosmo, per ricordare le infinite esplorazioni, ricerche e sviluppi.
Il personaggio ha 4 mani: due biologiche e altre due meccaniche. Con questo, intendo sottolineare i benefici dei vari dispositivi meccanici. In una delle braccia meccaniche vediamo una valigia trasparente, in cui è collocato un moderno velivolo, un mezzo che serve per fare avanzare il futuro. Nel secondo braccio meccanico c’è un libro, simbolo della padronanza della ragione e dell’uso della tecnologia per evitare i disastri. Ho in mente di scrivere il mio tema preferito sul libro “Industria, innovazione, tecnologia”. In una delle mani biologiche il personaggio porta un casco da astronauta.
Nel secondo braccio biologico troviamo il pianeta Terra, su cui c’è una tartaruga con occhiali per la realtà aumentata e con zampe meccaniche.
Con questo frammento, intendo dimostrare che il mito della terra che poggia su una tartaruga e su elefanti è da lungo tempo ormai sfatato, un fatto che oggi, grazie alla tecnologia e ad anni di ricerca, è dimostrabile con certezza. L’intero profilo del personaggio che regge il pianeta vuole indicare che l’umanità è sulla strada giusta e che il pianeta è nelle mani sicure di persone responsabili ed evolute.
Goal 6. Acqua pulita e servizi igienici-sanitari
Il Goal 6 ha l’obiettivo di garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell'acqua e delle strutture igienico-sanitarie.
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Hula
Viale Virgilio (Orto botanico)
Quest’opera rappresenta il bisogno universale di poter disporre di acqua pulita e di igiene. La figura riporta alcuni simboli polinesiani tradizionali chiamati “Lau Hala" e rappresenta il principio di unità.
Le gocce di color blu simboleggiano l’acqua pulita necessaria e richiamano anche l’idea delle lacrime che dimostrano l’urgenza di realizzare questo obiettivo, data la sofferenza attuale e l’indisponibilità di questa risorsa.
L’intensa emozione sottolinea la grande importanza che l’acqua riveste per la vita umana in tutto il mondo e come la sua mancanza si ripercuote sulla vita di molti esseri umani.
Continua...
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levysoft · 5 years
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Non firma nessuna regia, non interpreta nessun supereroe né scrive le sceneggiature di nessuna delle avventure del Marvel Cinematic Universe, eppure Kevin Feige è il vero padre, la mente suprema che muove tutti i meccanismi e le file del grande progetto ultra decennale dei Marvel Studios.
Inaugurato nel 2008 con Iron Man, la grande storia che Feige ha portato al cinema si concluderà il prossimo 26 aprile (il 24 in Italia), con l’arrivo in sala di Avengers: Endgame, il film che metterà la parola “fine” a quella che è diventata, nel corso degli anni, l’Infinity Saga, ovvero la storia di Thanos e delle Gemme dell’Infinito.
Inventore di un nuovo genere cinematografico, Feige, con il suo progetto, ha cambiato completamente il volto della storia del cinema per il grande pubblico, rivoluzionando non solo il racconto di supereroi al cinema, ma plasmandone il linguaggio e canonizzando il genere ‘cinecomic’.
Bambino negli anni ’80, Kevin Feige è sempre stato “cinefago”, stando a quanto ha dichiarato a Variety in una lunga intervista: “Tenevo un diario e scrivevo ogni film che andavo a vedere e dove e quante volte lo avevo visto”. Appassionato del grande spettacolo al cinema, seguiva non solo le icone comiche e action del suo tempo, ma si dimostrava amante delle grandi saghe cinematografiche, da Star Wars e Star Trek, fino ad Indiana Jones.
Da sempre, quindi, non si è mai sentito cinico nei confronti dei sequel e delle storie che continuano da un film all’altro: “Ero sempre entusiasta di vedere come i personaggi che amavo sarebbero cresciuti e cambiati. A volte sono rimasto deluso, ogni volta che un film mi ha deluso, mi sedevo e pensavo a quello che invece avrei fatto con quelle storie e quei personaggi. Non scrivevo una sceneggiatura, ma mi arrovellavo da solo, nella mia testa e per molti versi non è una cosa molto diversa da ciò che faccio oggi.”
E proprio il meccanismo dei sequel, di legare tra loro i film è stato uno dei punti chiave del successo dei Marvel Studios che hanno giovato molto alle tasche della casa madre, la Disney, la quale proprio quest’anno festeggia il decennale dell’acquisizione della società di fumetti per 4,24 miliardi.
I suoi collaboratori Anthony e Joe Russo, i registi di quattro dei film della Infinity Sagatra cui proprio Endgame, lo definiscono un anticonformista, spiegando: “L’idea di costruire queste storie e intrecciarle è stata dirompente. È stato un grande esperimento che avrebbe potuto fallire in moltissimi momenti. Se uno o due di questi film non avessero funzionato, l’intera faccenda sarebbe naufragata.” Invece i film sono stati un successo incredibile, arrivando a 18 miliardi e mezzo di incasso in tutto il mondo (senza le cifre da capogiro che sicuramente registrerà il 22° film).
Si unisce al coro degli elogi anche Bob Iger, il CEO della Disney, che spiega che nonostante le alte aspettative in occasione dell’acquisizione della Marvel, il produttore ha superato ogni più rosea speranza: “L’MCU che Kevin e il suo team hanno costruito va ben oltre qualsiasi cosa avremmo potuto immaginare. Hanno ridefinito i supereroi consegnandoli a una nuova Era, espandendo notevolmente la loro rilevanza per genere, generazione e geografia – stabilendo nuovi standard per uno storytelling avvincente. Questo tipo di successo creativo non è mai casuale; è il risultato di talento, visione, passione e coraggio – e alla Marvel Studios, tutto inizia con Kevin.“
E questa vocazione viene portata avanti con la passione di un ragazzino, di un lettore di fumetti, di un fan, nelle parole di Chris Hemsworth, uno degli attori simbolo del MCU: “Si avvicina a tutto questo materiale adottando il punto di vista di un fan, non come un uomo d’affari o un produttore. Punta a realizzare storie di cui lui stesso potrebbe godere.” E pur non avendo super poteri, ha un fiuto incredibile verso quello che è la storia giusta, il personaggio da presentare, la battuta da offrire ai suoi attori e ai suoi spettatori.
Scarlett Johansson ha dichiarato che lo chiamano Yoda, per la sua padronanza della storia e di tutto ciò che accade nel loro mondo, la sua apparente onniscenza, mentre Brie Larson, la più recente acquisizione dell’immenso cast del MCU, ha detto: “Kevin si fida di chi assume per eseguire la sua visione; non viene sul set per impostare il suo metodo. Sembra che capisca che la sua presenza lì cambia l’atmosfera. Ma sei cosciente anche del fatto che lavora instancabilmente dietro le quinte, pensando a nuovi concetti e idee per rendere il film il miglior film possibile.”
All’apice del successo, adesso, dopo Endgame, Kevin Feige ha promesso di ricominciare dall’inizio. Dopo Avengers: Endgame il MCU continuerà in una maniera che giorno per giorno prende la forma di un universo completamente nuovo, con progetti nuovi e rischiosi (Gli Eterni, Shang-Chi), tanto che lui stesso ha dichiarato: “[La Fase 4] Introdurrà un nuovo gruppo di eroi e di cattivi le cui varie avventure finiranno per sovrapporsi.” Ma, come per tutto il mondo della Marvel, i dettagli di questi progetti vengono trattati come segreti di stato. “Alcuni di questi film conterranno personaggi che già conoscete – ha continuato Feige – Alcuni personaggi di supporto assumeranno ruoli principali, mentre saranno introdotti alcuni nuovi personaggi. L’obbiettivo per tutti questi film è che dobbiamo provare a fare di nuovo quello che abbiamo fatto ma a farlo in modo diverso, imparando dai nostri errori e provando qualcosa che non abbiamo mai provato prima”.
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diarietilici · 6 years
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Benzirizia cronache di una morte annunciata: gli effetti sono visibili nello sguardo perso nel vuoto che mi accompagna da questa mattina, il cane mi fissa come se fossi il fantasma della ex padrona di casa morta suicida, in effetti mi sento un po' etereo, ma non abbastanza inconsistente da non urtare mobili come un eroinomane alla trainspotting biascicando frasi sconnesse che hanno un che di culinario. Dopo essermi rassegnato al fatto che ormai il popolo del tumblr mi percepisce come il sosia di un noto cuoco(?) televisivo ho intenzione di iniziare una rubrica culinaria. Al prossimo meet up mi farò trovare pronto. Se Ci sono errori di battitura chiedo scusa, non sono errori, devo ancora riacquistare la padronanza di linguaggio.
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micro961 · 1 year
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Veronica Skye - “Regina e re”
Il nuovo brano della cantante milanese
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 L’amore da sempre nutrito verso i propri cari che è difficile esprime con le sole parole. “Regina e Re” è un brano che nasce dal cuore, puro e sincero come le parole nel testo che ricordano momenti passati dell’infanzia. Il singolo celebra l’amore per la famiglia, da sempre considerata da Veronica Skye uno dei valori cardine e centrali nella vita.
Il brano diventa, così, custode e portatore di quel sentimento e di quell’amore da sempre nutrito verso i propri cari, che non si è mai riusciti ad esprime con le sole parole.
Veronica Skye è una cantante e cantautrice milanese. Già da piccola mostra la sua passione per la musica che poi riscoprirà durante il periodo del liceo.
Il 2017 risulta essere un anno cruciale per lei, infatti dopo aver passato un periodo buio della sua vita, si riscopre interiormente avvicinandosi molto alla spiritualità, alla sfera artistica e creativa. Nello stesso anno inizia a scrivere le sue prime canzoni, a studiare canto, chitarra e successivamente si avvicinerà anche al pianoforte.
Nel 2020 crea il progetto “Veronica Skye”, che racchiude la sua filosofia e la sua fede nella vita; il suo motto, infatti, è racchiuso nella frase “il cielo è il limite” con la quale l’artista vuole trasmettere l’idea che ogni cosa è possibile sotto questo cielo.
Lo stile di Veronica è molto particolare, infatti, nei suoi brani prevale un carattere melodico dalle sonorità pop unito spesso a parti rappate.
I suoi testi sono molto profondi, a volte anche introspettivi, spesso portano tematiche sociali con l’obiettivo di parlare alle persone, di farle riflettere ed emozionare, attraverso la musica. Nel 2020 collabora ad un Ep dalle sonorità rap con vari artisti della zona e sotto la direzione artistica di Kiave, sviluppando una padronanza nel flow ed un linguaggio sempre più ricercato dal carattere forte e deciso. Nel 2020 pubblica il suo primo singolo “Skye” da indipendente, poi esordire con “Una laurea in tasca” pubblicato nel 2022.
 Etichetta: Orangle Srl - www.oranglerecords.com
 INSTAGRAM: https://www.instagram.com/veronica__skye/
SPOTIFY: https://open.spotify.com/artist/065dz1rIEbpIn2OefIZa1W
TIK TOK: https://www.tiktok.com/@veronica__skye
 l’altoparlante - comunicazione musicale
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