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#vino pesca vino pesca
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When you got a request and know what u want to write but CANT FCKN WRITE IT FOR NO REASON AHHH.
honestly I think it might be the heat
Anyways here's ethan to tide u over till I release it
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✨La sangria napoletana è servita ✨
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sciatu · 10 months
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Caldo sudario sciropposo che copre ogni angolo della pelle, sauna a cielo aperto strade sciroccose, soffocose, stordenti allucinate e afose. animali nascosti sotto ogni ombra aria calda che danza sull’asfalto bollente, creando a mezz’aria miraggi sahariani. Il sole è un martello infuocato il canto ossessivo delle cicale i suoi colpi impietosi. Estate siciliana: aria di fuoco deserto nei campi e nelle strade, follia nella testa Cielo come volta di un forno cardi rinsecchiti, felci arrugginite erba gialla come l’invidia limoni di cupo verde ulivi impassibili di glauco verde finchè non reagisco per disperazione: granita di caffè con montagna di panna granita salvifica al limone, granita dolcissima alle mandorle all’amato pistacchio alle more, al sublime gelso alle fragole, alla pesca, al cioccolato ma non alla menta, gusto volgare, continentale. Oppure gelato alla crema, nocciola, limone, zuppa inglese cioccolato, crema, liquirizia, gusto santo e dovuto di cassata mandorla, fragola, pesca, fiordilatte regale stracciatella, sensuale mango ma non menta, banale, continentale. Magari seltz, limone e sale o acqua tonica e granita al limone caffè caldo con granita al caffè, lasciva panna! Gelo al limone, al melone vino freddo gelato, grillo, inzolia, malvasia in un bicchiere appannato dall’afa e affanculo prosecco e daiquiri affanculo l’estate, l’afa, il caldo mi basta una birra Messina gelata un bagnasciuga infinito e tutto il resto, i l mondo, l’universo è solo il sogno di un folle una fiaba ridicola scritta su un rotolo di carta igienica.
Warm, syrupy shroud that covers every corner of the skin, open-air sauna, sirocco roads, suffocating, hallucinated and sultry stuns, animals hidden under every shadow, hot air dancing on the boiling asphalt, creating Saharan mirages in mid-air. The sun is a fiery hammer, the obsessive song of the cicadas its pitiless blows. Sicilian summer: air of fire, desert in the fields and streets, madness in the head. Sky like the vault of an oven, withered thistles, rusty ferns, yellow grass like envy, dark green lemons, impassive sea-green olive trees. until I don't react out of desperation: coffee granita with mountain of cream, saving lemon granita, very sweet almond granita to the beloved pistachio with blackberries, to the sublime mulberry with strawberries, peach, chocolate, but not mint, vulgar, continental taste. Or cream ice cream, hazelnut, lemon, trifle, chocolate, cream, licorice, holy and due taste of cassata, almond, strawberry, peach, fiordilatte, royal stracciatella, sensual mango, but not mint, banal, continental. Maybe seltzer, lemon and salt, or tonic water and lemon granita, hot coffee with coffee granita, lascivious cream! Gelo with lemon, melon, ice cold wine, grillo, inzolia, malvasia in a glass misted by the heat, and fuck prosecco and daiquiri, fuck the summer, the heat, the heat, a frozen Messina beer is enough for me an infinite shoreline, and all the rest, the world, the universe, is just a madman's dream, a ridiculous fairy tale, written on a roll of toilet paper
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zonadelcaos · 3 months
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SONIC CHANNEL STAFF COLUMN - WALLPAPER FEBRERO 2024
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Artículo Original del Sonic Channel (09/02/2024)
¡Hola! Soy Tomoko Hayane.
Tal parece que seguirá haciendo frío por un tiempo más.
Esta vez les presentaré a alguien que vive con un amigo (?) en una jungla que parece estar libre del frío del invierno.
Sí, el que aparecerá en la ilustración de este mes es……
¡Big!
—--------------- Su gran tamaño no le permite entrar completamente en el anillo, pero mientras está apretujado, parece estar mirando algo.
Es difícil decir si está buscando a su amigo Froggy con el que siempre está, o si, siendo un aficionado a la pesca, está buscando puntos de pesca. ¡Uno se puede imaginar muchas situaciones diferentes! ♪
Un colega del Sonic Team vino corriendo después de ver la ilustración y dijo: "¡Es como un gato que no puede resistirse a meterse en lugares estrechos, es tan mono! ¿No es adorable verlo en esta situación inusual?" (risas).
¡Me encantaría escuchar vuestras opiniones también!
----------------------
Para descargar los wallpapers de PC y móvil podéis ir a la página web de Sonic Channel, como así ver la imagen completa.
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bicchiere · 6 months
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Fanculo i segni zodiacali su un diagramma a due assi "birra" - "vino", "old fashioned" - "vodka alla pesca" dove ti posizioneresti?
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situazionespinoza · 5 months
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Sono seduta su un divano sfondato di A Stare, il locale che Martyn ha iniziato a costruire 5 anni fa svuotando il magazzino della casa di suo padre dalle cianfrusaglie accumulate nel corso di 20 anni.
La prima volta che sono stata qui risale al 31 dicembre 2018. A Stare era poco più che un cantiere, composto di mobili rubati dalle campagne o dai depositi dei rifiuti speciali.
Nell'ingresso c'era una barca da pesca. Una barca da pesca vera, Martyn ci disse di averla rubata una notte dalla spiaggia di Torre Canne.
Adesso A Stare è un locale vero e proprio. Ha un bagno funzionante, con tanto di sapone per le mani e carta igienica. Ha un soppalco enorme, costruito da zero su un progetto creato da una persona con nessuna competenza di architettura.
Ci sono luci ovunque, stufe, divani, quadri, tappeti.
E anche tante persone, tra cui la storica ex F, che oggi sono venute qui per ascoltare la presentazione della raccolta di racconti di Martyn.
È un libro pubblicato postumo, in cui il padre di Martyn ha raccolto le sue poesie e i suoi racconti scritti tutti sgrammaticati e senza punteggiatura.
Martyn era la classica persona che non sapeva scrivere, però sentiva di avere tanto da dire.
Adesso ad A Stare siamo rimasti solo noi amici, sparpagliati nei vari metri quadri del locale. Sotto di me si cantano canzoni alla chitarra mentre qui sul soppalco si gioca a Magic.
L'ambiente è pieno di risate, fumo di sigaretta e vino. M. ride e canta, la stessa M. che poco meno di tre ore fa si è accasciata piangendo sulla mia spalla mentre leggevano le parole di Martyn.
È uno spazio strano, quello del lutto.
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yemadetinta · 7 months
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UN LUGAR EN EL MAPA
Parte del propio cuerpo, del camino que una recorre,
de los paisajes que se atesoran,
de las distancias que alejan a las cosas que hacen daño.
Una entiende con el tiempo que el lugar de donde vino
define un poco los modos de encarar este mundo
como en una evocación de muertos entrañables.
Mi nacimiento fue en un sábado de carnaval.
Mamá cuenta que mi padre se fue al baile la noche anterior
y que mi abuelo prefirió ir de pesca con sus amigos del trabajo.
Mamá me tuvo sola, después de doce horas de labor de parto.
Mi abuela y ella me cuidaron,
me mantuvieron a salvo como pudieron.
Los hombres de la familia, siempre ajenos,
no supieron nutrir la tierra que abonó mi temple.
La manada se conformó en ausencia del macho,
las mujeres de la casa me enseñaron una resistencia
parecida al origen de la ciudad donde vivo.
Supervivencia en una tierra agreste
donde el aire se empaña con el viento norte,
el calor no da tregua
y al contrario de lo que se piensa
no fortalece a nadie, sino que socava
y trastorna todo lo que toca.
Resistir es el conjuro que aprenden las hembras
cuando paren todos los días en el fuego.
-Marina Coronel
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jartitameteneis · 1 year
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NO-DO QATAR: "Siempre seremos campeones en otras disciplinas: la caza de perdices, la pesca de atunes, matar animales en público, beber vino tirándolo a mucha distancia de la boca y pelearnos por cosas gratis".
#PolòniaTV3
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personal-reporter · 11 months
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Come scegliere il miglior vino per accompagnare i piatti estivi
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Con l'arrivo dell'estate, il desiderio di gustare un buon bicchiere di vino fresco, leggero e versatile aumenta. Tuttavia, scegliere il giusto vino per accompagnare i piatti estivi non è sempre facile, poiché la leggerezza e la freschezza richieste da questo periodo dell'anno possono essere facilmente compromesse dalla scelta sbagliata della bottiglia. Ecco alcuni suggerimenti per scegliere il miglior vino per accompagnare i piatti estivi. Vino bianco per piatti leggeri Il vino bianco è spesso la scelta preferita per i piatti estivi, specialmente per gli antipasti, le insalate e i piatti a base di pesce. Tuttavia, è importante scegliere un vino che sia leggero e fresco, cioè con una bassa gradazione alcolica e una buona acidità. Il Vermentino, il Pinot Grigio, lo Chardonnay e il Sauvignon Blanc sono tra i bianchi più adatti a questa stagione. Vino rosato per la carne Il vino rosato è un'altra soluzione perfetta per l'estate. Può essere abbinato a molti piatti, ma in particolare alla carne bianca e alle insalate di frutta. Il rosato può avere diverse sfumature, dalla più chiara alla più intensa, e la scelta dipende dal tipo di piatto che si vuole accompagnare. Il rosato del Bardolino, il Cerasuolo d’Abruzzo, il Rosé dei Colli Berici e il Rosé dell'Oltrepò Pavese sono solo alcuni dei numerosi vini rosati che si possono trovare sul mercato. Vino frizzante per gli aperitivi Il vino frizzante, come il Prosecco, lo Spumante e il Cava, è sicuramente la scelta migliore per gli aperitivi estivi. La loro freschezza e leggerezza fa di questi vini la scelta ideale per accompagnare i cracker, l'insalata di mare e i formaggi freschi. Inoltre, il vino frizzante si presta bene anche all'abbinamento con i dessert, soprattutto quelli a base di frutta fresca. Vino rosso per le grigliate Molti pensano che il vino rosso sia inadatto alla calura estiva, tuttavia, si sbagliano. Il vino rosso si può abbinare a molti piatti estivi, in particolare grigliate di carne e pesce. È importante scegliere un vino rosso leggero e fresco, con una buona acidità e tannini delicati, così da poter essere accompagnato a piatti come hamburger, salsicce e bistecca alla griglia. Tra i vini rossi estivi, consigliati il Lambrusco, il Sangiovese, il Pinot Noir e il Dolcetto. Vino dolce per i dessert Il vino dolce, come il Moscato, è il compagno ideale per i dessert estivi. La sua dolcezza equilibrata e l'aroma fruttato si sposano perfettamente con il gusto di frutta fresca e con le torte. Inoltre, i vini dolci possono essere abbinati anche ai formaggi stagionati, come il Gorgonzola, o ai dessert a base di cioccolato. Se volete provare una vera rarità potreste cercare il "Mufii" un vino muffato prodotto da uve bianche autoctone ( alias Erbaluce... ) sulle colline di Barengo, piccolo paese in provincia di Novara a 250 mt slm. Affinato un anno in barrique di acacia a tostatura lieve, presenta colore paglierino/dorato, è vivo, lucente, di bella consistenza. Naso intenso, di grande impatto con note iniziali di scorza di agrumi, mandarino, cedro che evolvono in sentori di pesca, albicocca, frutta tropicale, canditi, miele. In bocca magnifica acidità, grande salivazione che bilancia perfettamente il tenore zuccherino. Persistente, elegante si può quasi definire un vino contemporaneamente da tavola e da meditazione. Proprio per questo si può prestare ad abbinamenti poliedrici. Fois gras, formaggi erborinati e mediamente stagionati, tartare di salmone con salsa di soia, riso con curry e uva passa, dolci con ricotta e canditi. In conclusione, la scelta del vino giusto per accompagnare i piatti estivi non è affatto complicata. La leggerezza e la freschezza sono le caratteristiche principali da tenere a mente, ma anche il tipo di piatto da accompagnare e le preferenze personali giocano un ruolo fondamentale nella scelta. Ricordate infine, che il vino è un complemento del cibo, quindi la scelta dipende sempre da come si vuole gustare il proprio pasto. Fonti: 1. https://www.gamberorosso.it/notizie-consigli/abbiamo-chiesto-agli-esperti-i-vini-rossi-da-provare-questestate-e-non-solo/ 2. https://www.dovevivo.it/magazine/vino-e-cibo-estate-5-accordi-vincenti-per-le-tue-serate-al-fresco/ 3. https://www.gruppomontenegro.com/it/cosa-beviamo/con-quale-vino-accompagnare-i-piatti-estivi 4. https://blog.dekaro.it/scopriamo-i-migliori-vini-da-abbinare-ai-piatti-estivi/ 5. https://www.mufii.it/az.-la-passitaia.html Read the full article
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revistapipazo · 1 year
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Nunca más,diosito lindo
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“Yo no le hago, gracias.” Le digo a mi amiga, Pelu, que me invita fervorosamente a fumar marihuana en un antro de perdición tóxico, como es la Blondie.
“Ay, hueona, si una fumá no te va a hacer ná!” –Insiste-
“Puta, no hueón, esa hueá me ahueonea o me revive, y no quiero que me pase lo primero. Déjalo ahí nomás.” –Le explico, para que me deje de huevear-
Éramos un grupo de 8 personas, yo conocía a 6. Mi amiga Pelu, llegó con dos amigas  que dejaban bastante que desear, ya que una era toda ondera, y la otra era una ropero de 3 cuerpos, vestida formal, como recién salida de la oficina. Un atuendo nada ad-hoc  a las circunstancias.
Partí a comprarme una piscola con mi amigo gay, Armando, tipo 23:30 hrs. De ese día Jueves maricón. Volvimos al grupo, y salta la Pelu nuevamente:
“Fuma, hueona!”
“NO QUIERO!”
“ Pfffff, dale oh!”
Como soy débil de mente, acepté fumar un par de bocanadas.
La yerba tiene misterios insospechados.  A los 5 minutos, me dio por bailar como pirinola, en eso estaba, cuando se me acerca la mina ondera que había llegado con la Pelu y se pone a bailar al lado mío, nada de raro en esa hueá de friki-disco. Juanita Pérez –así le pondremos a la mina, porque la verdad, no tengo pico idea de su puto nombre- me comienza a hablar, yo, medio volá ya a esas instancias, y con la música a todo chancho, no le escuchaba nada; así que cual parejita de lesbianas enamoradas, gritábamos hablábamos al oído. Después de cruzar un par de palabras, a los 15 minutos, me comencé a sentir como el orto; mal. La Juanita insistía en hablarme al oído, y yo, casi vomitándole la fea cara que tenía, cuando veo acercándose a pasos agigantados a la ropero de 3 cuerpos, con más feo rostro que la otra, emputecida, a echarle la foca a la Juanita. La agarra del brazo, la da vuelta, y le dice:
“Y voh?!?!?! Me querís cagar con esa culiá?!?!?!”
Sí, eran pareja las dos feas culiás. Y adivinen, queridos lectores: Yo, era la “intrusa” de esa hermosa relación.
No me había bebido ni la mitad de mi piscola, y las dos fumás de pito, me hicieron mierda, entonces, estaba literalmente, pa’l pico. Por lo tanto, mis reacciones no serían de lo mejor, por lo cual me sentí completamente ultrajada y violentada, por un hueveo en el que yo, no tenía ná que ver
“A ver culiá? Qué te pasa? Tu cagá de polola me vino a jotear, yo no estoy ni ahí con las lesbianas de mierda! Así que te puedes ir un ratito largo a la conchetumare!” –Le explico amorosamente a la camiona-
La camiona quedó de una pieza, ipso facto, pescó su feo rostro y a su fea pololi y se mandó a cambiar, momento exacto en el cual la Pelu me increpa:
“No deberíai haber fumao!”
Pfffff. O sea, de qué chucha me estai hablando? ARGH!
Armando, me pesca de un ala y me dice que la corte, porque puede quedar la cagá. Yo estaba cada minuto más mal, el maldito pito me agarró de la peor forma posible, lo único que quería, era vomitar y morir ahí mismo. Otra de mis amigas, la Maca, me pregunta si me siento muy mal, si me quiero ir a la casa, le digo que no, que quiero bailar. Absolutamente perdida, me apoyo en un cubo porque necesitaba anclarme de alguna manera a ese espacio infernal, que me daba vueltas con insistencia.
“Ya hueona, tenís que irte, estai pal pico.” –Me ordena la Maca-
“Noooooooooooooooooo!!!!!!! No me he tomado ni mi copete!!!!!!”
“No sé ná, nos vamos de esta hueá!” –Emputecida, insiste-
“Déjame en paz!” –La mando a la chucha.-
En 3 segundos, estaba vomitando toda la Blondie, la Maca llamando a mi marido para que me fuera a buscar, yo llorando porque “ME QUIERO MORIR!!!!!!!!!!!” y mis amigos llamando una ambulancia directo al loquero, pa que me rescataran y se hicieran cargo de mí y de pasada evitarles el tonto show que estaba armando.
A los 10 minutos –Nótese que no eran ni las 1 de la mañana- llega mi querido y adorado esposo, con ganas de asesinarme, porque estaba durmiendo, “Me despertaron, pa’ hacerme cargo del cachito” (SIC)
Antes de subirme al auto, era un estropajo, mi esposito hermoso me dice que así como ando de curá, no me subía ni cagando al auto, así que intentara vomitar todo para que no le ensucie su cagá. Le mandé tremendo rosario,  que me quería ir a la casa. “Y apúrate culiao, llévame rápido nomás, o voy a morir en la Alameda y quiero morir en mis aposentos”
Me subí a duras penas, y un viaje de 4 minutos a mi casa, se transformó en 2 hrs, porque andaba un cuarto de cuadra, y tenía que parar para vomitar. Una escena, MA-RA-VI-LLO-SA.
Al llegar a mi domicilio particular, mi amado esposito, me mete el tremendo pico reta más que la chucha:
“Pa’ qué mierda fumai esa hueá, si sabís que te hace como el pico! Yo tengo que trabajar mañana y voh no tomai conciencia de esa hueá. Ya, vamos pa’l baño y recupérate rápido que tengo que descansar y yo no te voy a llevar a la clínica!”
“Sí, amo.” –Fue mi escueta respuesta-
Me encerré en el baño a vomitar aire, porque no tenía ná en la guata. Conocí lo que era “abrazar la taza del wáter” y que el mundo girara a la velocidad de un rayo. Llegó el minuto en que pensé que me daría vuelta de tanto vomitar. “Amor, sálvame!”, le gritaba a mi esposito cada 5 minutos, que estóicamente me acompañaba y me acariciaba para pasar más rápido el mal rato, hasta que llegó el momento, en que este mono culiao, enfermo con mi penosa y decadente situación, me gritó cariñosamente:
“MUÉRETE RÁPIDO, CONCHETUMARE!”
Sólo atiné a llorar, y a anclarme entre el lavamanos y el porta papel higiénico, hasta las 11 de la mañana, en que desperté tirá en el piso del baño, toda buitreá, y con ganas de desaparecer de la faz de la tierra, por ser tan payasa y cuática.
Esa fue la última vez en mi vida que fume yerba.
FIN!
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ldrtsdflgtrsal · 2 years
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Nunca más, diosito lindo
"Yo no le hago, gracias.” Le digo a mi amiga, Pelu, que me invita fervorosamente a fumar marihuana en un antro de perdición tóxico, como es la Blondie.
“Ay, hueona, si una fumá no te va a hacer ná!” –Insiste-
“Puta, no hueón, esa hueá me ahueonea o me revive, y no quiero que me pase lo primero. Déjalo ahí nomás.” –Le explico, para que me deje de huevear-
Éramos un grupo de 8 personas, yo conocía a 6. Mi amiga Pelu, llegó con dos amigas  que dejaban bastante que desear, ya que una era toda ondera, y la otra era una ropero de 3 cuerpos, vestida formal, como recién salida de la oficina. Un atuendo nada ad-hoc  a las circunstancias.
Partí a comprarme una piscola con mi amigo gay, Armando, tipo 23:30 hrs. De ese día Jueves maricón. Volvimos al grupo, y salta la Pelu nuevamente:
“Fuma, hueona!”
“NO QUIERO!”
“ Pfffff, dale oh!”
Como soy débil de mente, acepté fumar un par de bocanadas.
La yerba tiene misterios insospechados.  A los 5 minutos, me dio por bailar como pirinola, en eso estaba, cuando se me acerca la mina ondera que había llegado con la Pelu y se pone a bailar al lado mío, nada de raro en esa hueá de friki-disco. Juanita Pérez –así le pondremos a la mina, porque la verdad, no tengo pico idea de su puto nombre- me comienza a hablar, yo, medio volá ya a esas instancias, y con la música a todo chancho, no le escuchaba nada; así que cual parejita de lesbianas enamoradas, gritábamos hablábamos al oído. Después de cruzar un par de palabras, a los 15 minutos, me comencé a sentir como el orto; mal. La Juanita insistía en hablarme al oído, y yo, casi vomitándole la fea cara que tenía, cuando veo acercándose a pasos agigantados a la ropero de 3 cuerpos, con más feo rostro que la otra, emputecida, a echarle la foca a la Juanita. La agarra del brazo, la da vuelta, y le dice:
“Y voh?!?!?! Me querís cagar con esa culiá?!?!?!”
Sí, eran pareja las dos feas culiás. Y adivinen, queridos lectores: Yo, era la “intrusa” de esa hermosa relación.
No me había bebido ni la mitad de mi piscola, y las dos fumás de pito, me hicieron mierda, entonces, estaba literalmente, pa’l pico. Por lo tanto, mis reacciones no serían de lo mejor, por lo cual me sentí completamente ultrajada y violentada, por un hueveo en el que yo, no tenía ná que ver
“A ver culiá? Qué te pasa? Tu cagá de polola me vino a jotear, yo no estoy ni ahí con las lesbianas de mierda! Así que te puedes ir un ratito largo a la conchetumare!” –Le explico amorosamente a la camiona-
La camiona quedó de una pieza, ipso facto, pescó su feo rostro y a su fea pololi y se mandó a cambiar, momento exacto en el cual la Pelu me increpa:
“No deberíai haber fumao!”
Pfffff. O sea, de qué chucha me estai hablando? ARGH!
Armando, me pesca de un ala y me dice que la corte, porque puede quedar la cagá. Yo estaba cada minuto más mal, el maldito pito me agarró de la peor forma posible, lo único que quería, era vomitar y morir ahí mismo. Otra de mis amigas, la Maca, me pregunta si me siento muy mal, si me quiero ir a la casa, le digo que no, que quiero bailar. Absolutamente perdida, me apoyo en un cubo porque necesitaba anclarme de alguna manera a ese espacio infernal, que me daba vueltas con insistencia.
“Ya hueona, tenís que irte, estai pal pico.” –Me ordena la Maca-
“Noooooooooooooooooo!!!!!!! No me he tomado ni mi copete!!!!!!”
“No sé ná, nos vamos de esta hueá!” –Emputecida, insiste-
“Déjame en paz!” –La mando a la chucha.-
En 3 segundos, estaba vomitando toda la Blondie, la Maca llamando a mi marido para que me fuera a buscar, yo llorando porque “ME QUIERO MORIR!!!!!!!!!!!” y mis amigos llamando una ambulancia directo al loquero, pa que me rescataran y se hicieran cargo de mí y de pasada evitarles el tonto show que estaba armando.
A los 10 minutos –Nótese que no eran ni las 1 de la mañana- llega mi querido y adorado esposo, con ganas de asesinarme, porque estaba durmiendo, “Me despertaron, pa’ hacerme cargo del cachito” (SIC)
Antes de subirme al auto, era un estropajo, mi esposito hermoso me dice que así como ando de curá, no me subía ni cagando al auto, así que intentara vomitar todo para que no le ensucie su cagá. Le mandé tremendo rosario,  que me quería ir a la casa. “Y apúrate culiao, llévame rápido nomás, o voy a morir en la Alameda y quiero morir en mis aposentos”
Me subí a duras penas, y un viaje de 4 minutos a mi casa, se transformó en 2 hrs, porque andaba un cuarto de cuadra, y tenía que parar para vomitar. Una escena, MA-RA-VI-LLO-SA.
Al llegar a mi domicilio particular, mi amado esposito, me mete el tremendo pico reta más que la chucha:
“Pa’ qué mierda fumai esa hueá, si sabís que te hace como el pico! Yo tengo que trabajar mañana y voh no tomai conciencia de esa hueá. Ya, vamos pa’l baño y recupérate rápido que tengo que descansar y yo no te voy a llevar a la clínica!”
“Sí, amo.” –Fue mi escueta respuesta-
Me encerré en el baño a vomitar aire, porque no tenía ná en la guata. Conocí lo que era “abrazar la taza del wáter” y que el mundo girara a la velocidad de un rayo. Llegó el minuto en que pensé que me daría vuelta de tanto vomitar. “Amor, sálvame!”, le gritaba a mi esposito cada 5 minutos, que estóicamente me acompañaba y me acariciaba para pasar más rápido el mal rato, hasta que llegó el momento, en que este mono culiao, enfermo con mi penosa y decadente situación, me gritó cariñosamente:
“MUÉRETE RÁPIDO, CONCHETUMARE!”
Sólo atiné a llorar, y a anclarme entre el lavamanos y el porta papel higiénico, hasta las 11 de la mañana, en que desperté tirá en el piso del baño, toda buitreá, y con ganas de desaparecer de la faz de la tierra, por ser tan payasa y cuática.
Esa fue la última vez en mi vida que fume yerba.
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El Día Internacional del Pan se celebra el 16 de octubre de cada año con el objetivo de dedicar un día a uno de los alimentos más tradicionales en todo el mundo, así como para dar a conocer su valor nutricional e importancia en nuestra dieta diaria.
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¿Cuál es el origen del pan?
El pan que hoy conocemos y degustamos con tanto placer, se remonta a las más antiguas culturas que han habitado la Tierra. Desde tiempos antiguos, este exquisito alimento ha sido elaborado utilizando el trigo.
Para su preparación, era muy común machacar los granos y que al mezclarse con agua formaban una pasta, que luego era usada para fabricar el pan. Con el paso de los años y el uso de nuevos inventos, se pudo procesar el trigo para la fabricación de este alimento en hornos.
Los egipcios fueron los primeros en descubrir cómo se producía la levadura para darle un mejor sabor al pan y fue simplemente dejando que la masa se fermentara.
Los griegos introdujeron el uso de la miel y nueces en su elaboración y los romanos innovaron nuevas técnicas a través de ingeniosos equipos como máquinas de amasar y es a partir de este imperio, donde nace de forma oficial, el primer colegio de panaderos.
A partir de entonces, el pan ha ganado fama y aceptación en todas las sociedades del mundo. Hoy es una gran industria con mucha demanda, ya que puede adquirirse a muy bajo costo y con un alto valor nutritivo.
El pan un alimento básico
A través de la historia el pan siempre ha sido un alimento que ha estado presente en la mesas de las familias alrededor del mundo. Un exquisito y nutritivo producto elaborado a base de trigo que tiene orígenes antiquísimos.
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Cada país tiene su propia manera y estilo de elaboración, sin embargo, en su preparación se utilizan algunos ingredientes básicos como la harina de trigo, la levadura, agua y sal que dan como resultado final un crujiente pan, del cual se desprende un exquisito aroma y que termina siendo una verdadera delicia para el paladar.
El pan un alimento básico
Durante mucho tiempo el pan ha formado parte de nuestra dieta, por esta razón, aquí te dejamos una lista de los tipos de pan que hoy se consumen y las distintos ingredientes que se utiliza en su elaboración. Entre ellos están:
El pan de trigo: Este tipo de pan puede elaborarse en dos modalidades diferentes, el tradicional pan blanco y el integral. Este último, resulta más saludable por la cantidad de fibra y nutrientes que aportan al organismo.
El pan de maíz: Este pan no tiene gluten, muy bajo en purinas, lo cual resulta ideal para las personas con altos niveles de ácido úrico y para los pacientes celíacos.
Pan de centeno: Es elaborado mezclando otros tipos de harina para que adquieran una consistencia más esponjosa. Tiene mayor cantidad de fibra y al momento de degustarlo, presenta un sabor amargo.
Pan germinado: Tienen como principal característica que en su preparación se usa la propia semilla del cereal germinado, por esta razón, no es necesario añadirle levadura.
Pan de espelta: Ideal para las personas que sufren de intolerancia al trigo, ya que resulta más digerible porque tienen mayor cantidad de fibra y menor cantidad de gluten.
¿Por qué el pan ha sido el principal alimento del hombre?
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Desde tiempos remotos el hombre ha tenido que buscar su propio sustento y para ello se valió de la caza y la pesca de animales, así como de la recolección de frutos que provenían directamente de la naturaleza.
Sin embargo, a medida que fue avanzando y evolucionando pudo introducir a su dieta grandes inventos, uno de ellos, el exquisito y suculento pan, el cual ha servido para saciar el hambre, incluso en momentos difíciles que ha atravesado la humanidad como grandes catástrofes y guerras.
Hoy, afortunadamente este rico y popular alimento sigue tan vigente como ayer en las tradiciones culinarias de los pueblos, pero también es usado de manera simbólica para ciertos rituales religiosos en algunos países y junto al vino, está considerado como la máxima expresión de la eucaristía cristiana representada a través de la hostia.
Por todo lo anteriormente dicho, no cabe ninguna duda de que el pan seguirá vigente dentro de la dieta del consumidor. Son millones de personas que en todo el planeta que sienten verdadera fascinación por este versátil alimento, que es una verdadera obra del arte culinario.
¿Cómo celebrar el Día Mundial del Pan?
Sí quieres celebrar un día tan especial, nuestra mejor propuesta es que te atrevas a elaborar tu propio pan, utilizando la técnica y los ingredientes que te permitan degustar de una alimento cien por cien elaborado en casa y donde puedes hacer volar tu imaginación, además, a los peques y a la familia en general le puede resultar una actividad muy divertida, así como enriquecedora.
Así mismo, te invitamos a compartir tu receta a través de las distintas redes sociales o si prefieres postear cualquier información útil sobre este interesante tema y no te olvides de agregar la etiqueta #DíaMundialdelPan.
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hipertexto · 1 year
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Extractos de La Familia de Pascual Duarte Por Camilo José Cela
Yo, señor, no soy malo, aunque no me faltarían motivos para serlo. Los mismos cueros tenemos todos los mortales al nacer y sin embargo, cuando vamos creciendo, el destino se complace en variarnos como si fuésemos de cera y en destinarnos por sendas diferentes al mismo fin: la muerte. Hay hombres a quienes se les ordena marchar por el camino de las flores, y hombres a quienes se les manda tirar por el camino de los cardos y de las chumberas. Aquellos gozan de un mirar sereno y al aroma de su felicidad sonríen con la cara del inocente; estos otros sufren del sol violento de la llanura y arrugan el ceño como las alimañas por defenderse. Hay mucha diferencia entre adornarse las carnes con arrebol y colonia, y hacerlo con tatuajes que después nadie ha de borrar ya.
La cuadra era lo peor; era lóbrega y oscura, y en sus paredes estaba empapado el mismo olor a bestia muerta que desprendía el despeñadero cuando allá por el mes de mayo comenzaban los animales a criar la carroña que los cuervos habíanse de comer.
¡Los habitantes de las ciudades viven vueltos de espaldas a la verdad y muchas veces ni se dan cuenta siquiera de que a dos leguas, en medio de la llanura, un hombre del campo se distrae pensando en ellos mientras dobla la caña de pescar, mientras recoge del suelo el cestillo de mimbre con seis o siete anguilas dentro! Sin embargo, la pesca siempre me pareció pasatiempo poco de hombres, y las más de las veces dedicaba mis ocios a la caza; en el pueblo me dieron fama de no hacerlo mal del todo y, modestia aparte, he de decir con sinceridad que no iba descaminado quien me la dio.
La perra volvió a echarse frente a mí y volvió a mirarme; ahora me doy cuenta de que tenía la mirada de los confesores, escrutadora y fría, como dicen que es la de los linces... un temblor recorrió todo mi cuerpo; parecía como una corriente que forzaba por salirme por los brazos, el pitillo se me había apagado; la escopeta, de un solo caño, se dejaba acariciar, lentamente, entre mis piernas. La perra seguía mirándome fija, como si no me hubiera visto nunca, como si fuese a culparme de algo de un momento a otro, y su mirada me calentaba la sangre de las venas de tal manera que se veía llegar el momento en que tuviese que entregarme; hacía calor, un calor espantoso, y mis ojos se entornaban dominados por el mirar, como un clavo, del animal. Cogí la escopeta y disparé; volví a cargar y volví a disparar. La perra tenía una sangre oscura y pegajosa que se extendía poco a poco por la tierra.
blasfemaba las peores cosas a cada momento y por los más débiles motivos. Vestía siempre de luto y era poco amiga del agua, tan poco que si he de decir la verdad, en todos los años de su vida que yo conocí, no la vi lavarse más que en una ocasión en que mi padre la llamó borracha y ella quiso como demostrarle que no le daba miedo el agua. El vino en cambio ya no le disgustaba tanto y siempre que apañaba algunas perras, o que le rebuscaba el chaleco al marido, me mandaba a la taberna por una frasca que escondía, porque no se la encontrase mi padre, debajo de la cama.
Mi madre, por ofenderlo, le decía que el papel no decía nada de lo que leía y que todo lo que decía se lo sacaba mi padre de la cabeza, y a éste, el oírla esa opinión le sacaba de quicio; gritaba como si estuviera loco, la llamaba ignorante y bruja y acababa siempre diciendo a grandes voces que si él supiera decir esas cosas de los papeles a buena hora se le hubiera ocurrido casarse con ella. Ya estaba armada. Ella le llamaba desgraciado y peludo, lo tachaba de hambriento y portugués, y él, como si esperara a oír esa palabra para golpearla, se sacaba el cinturón y la corría todo alrededor de la cocina hasta que se hartaba.
decía mi padre que la lucha por la vida era muy dura y que había que irse preparando para hacerla frente con las únicas armas con las que podíamos dominarla, con las armas de la inteligencia…. Mi padre, que, como digo, tenía un carácter violento y autoritario para algunas cosas, era débil y pusilánime para otras: en general tengo observado que el carácter de mi padre sólo lo ejercitaba en asuntillos triviales, porque en las cosas de trascendencia, no sé si por temor o por qué, rara vez hacía hincapié.
Ya lo dice el refrán: mujer de parto lento y con bigote... (la segunda parte no la escribo en atención a la muy alta persona a quien estas líneas van dirigidas).
Mi padre se sentaba en el suelo, a la vera del cajón, y mirando para la hija se le pasaban las horas, con una cara de enamorado como decía la señora Engracia, que a mí casi me hacía olvidar su verdadero sistema. Después se levantaba, se iba a dar una vuelta por el pueblo, y cuando menos lo pensábamos, a la hora a que menos costumbre teníamos de verlo venir allí lo teníamos, otra vez al lado del cajón, con la cara blanda y la mirada tan humilde que cualquiera que lo hubiera visto, de no conocerlo, se hubiera creído ante el mismísimo san Roque.
pronto la niña se hizo la reina de la casa y nos hacía andar a todos más derechos que varas. Si el bien hubiera sido su natural instinto, grandes cosas hubiera podido hacer, pero como Dios se conoce que no quiso que ninguno de nosotros nos distinguiésemos por las buenas inclinaciones, encarriló su discurrir hacia otros menesteres y pronto nos fue dado el conocer que si bien no era tonta, más hubiera valido que lo fuese; servía para todo y para nada bueno: robaba con igual gracia y donaire que una gitana vieja, se aficionó a la bebida de bien joven, servía de alcahueta para los devaneos de la vieja, y como nadie se ocupó de enderezarla —y de aplicar al bien tan claro discurrir— fue de mal en peor hasta que un día, teniendo la muchacha catorce años, arrambló con lo poco de valor que en nuestra choza había, y se marchó a Trujillo, a casa de la Elvira. El efecto que su marcha produjo en mi casa ya se puede figurar usted cuál fue; mi padre culpaba a mi madre, mi madre culpaba a mi padre... Es curioso pensar que mi padre, que a bruto y cabezón ganaban muy pocos, era a ella la única persona que escuchaba; bastaba una mirada de Rosario para calmar sus iras, y en más de una ocasión buenos golpes se ahorraron con su sola presencia. ¡Quién iba a suponer que a aquel hombrón lo había de dominar una tierna criatura!
Usted sabrá disculpar el poco orden que llevo en el relato, que por eso de seguir por la persona y no por el tiempo me hace andar saltando del principio al fin y del fin a los principios como langosta vareada, pero resulta que de manera alguna, que ésta no sea, podría llevarlo, ya que lo suelto como me sale y a las mientes me viene, sin pararme a construirlo como una novela, ya que, a más de que probablemente no me saldría, siempre estarla a pique del peligro que me daría el empezar a hablar y a hablar para quedarme de pronto tan ahogado y tan parado que no supiera por dónde salir.
El nacer del pobre Mario —que así hubimos de llamar al nuevo hermano— más tuvo de accidentado y de molesto que de otra cosa, porque, para colmo y por si fuera poca la escandalera de mi madre al parir, fue todo a coincidir con la muerte de mi padre, que si no hubiera sido tan trágica, a buen seguro movería a risa así pensada en frío. Dos días hacía que a mi padre lo teníamos encerrado en la alacena cuando Mario vino al mundo; le había mordido un perro rabioso, y aunque al principio parecía que libraba de rabiar, más tarde hubieron de acometerle unos tembleques que nos pusieron a todos sobre aviso…. ¡Dios, y qué fuerza hubimos de hacer todos para reducirlo! Pateaba como un león, juraba que nos había de matar a todos, y tal fuego había en su mirar, que por seguro lo tengo que lo hubiera hecho si Dios lo hubiera permitido… Cuando tocó a enterrarlo, don Manuel, el cura, me echó un sermoncete en cuanto me vio…. Desde aquel día siempre que veía a don Manuel lo saludaba y le besaba la mano, pero cuando me casé hubo de decirme mi mujer que parecía marica haciendo tales cosas y, claro es, ya no pude saludarlo más; después me enteré que don Manuel había dicho de mí que era talmente como una rosa en un estercolero y bien sabe Dios qué ganas me entraron de ahogarlo en aquel momento; después se me fue pasando y, como soy de natural violento, pero pronto, acabé por olvidarlo, porque además, y pensándolo bien, nunca estuve muy seguro de haber entendido a derechas
la suerte se volvió tan de su contra que, sin haberlo buscado ni deseado, sin a nadie haber molestado y sin haber tentado a Dios, un guarro (con perdón) le comió las dos orejas.
al señor Rafael que en casa estaba porque, desde la muerte de mi padre, por ella entraba y salía como por terreno conquistado; no se le ocurriera peor cosa al pobre que morderle en una pierna al viejo, y nunca lo hubiera hecho, porque éste con la otra pierna le arreó tal patada en una de las cicatrices que lo dejó como muerto y sin sentido, manándole una agüilla que me dio por pensar que agotara la sangre.
dejó de ser una madre en mi corazón y hacia qué tiempo llegó después a convertírseme en un enemigo. En un enemigo rabioso, que no hay peor odio que el de la misma sangre; en un enemigo que me gastó toda la bilis, porque a nada se odia con más intensos bríos que a aquello a que uno se parece y uno llega a aborrecer el parecido…Odiarla, lo que se dice llegar a odiarla, tardé algún tiempo —que ni el amor ni el odio fueran cosa de un día—
es gracioso —y triste también, ¡bien lo sabe Dios!— pararse a considerar que si el esfuerzo de memoria que por estos días estoy haciendo se me hubiera ocurrido años atrás, a estas horas, en lugar de estar escribiendo en una celda, estaría tomando el sol en el corral, o pescando anguilas en el regato, o persiguiendo conejos por el monte. Estaría haciendo otra cosa cualquiera de esas que hacen —sin fijarse— la mayor parte de los hombres; estaría libre, como libres están —sin fijarse tampoco— la mayor parte de los hombres; tendría por delante Dios sabe cuántos años de vida, como tienen —sin darse cuenta de que pueden gastarlos lentamente— la mayor parte de los hombres...
Yo andaba preocupado y como pensativo, como temeroso del paso que iba a dar —¡casarse es una cosa muy seria, qué caramba!— y momentos de flaqueza y desfallecimiento tuve, en los que le aseguro que no me faltó nada para volverme atrás y mandarlo todo a tomar vientos, cosa que si no llegué a hacer fue por pensar que como la campanada iba a ser muy gorda y, en realidad, no me había de quitar más miedo, lo mejor sería estarme quieto y dejar que los acontecimientos salieran por donde quisieran: los corderos quizás piensen lo mismo al verse llevados al degolladero... De mí puedo decir que lo que se avecinaba momento hubo en que pensé que me había de hacer loquear. No sé si sería el olfato que me avisaba de la desgracia que me esperaba.
Mala cosa es la desgracia, créame. La felicidad de aquellos dos días llegaba ya a extrañarme por lo completa que parecía.
Al tercer día, el sábado, se conoce que señalados por los familiares de la atropellada, nos fuimos a encontrar de manos a bruces con la pareja. Una turbamulta de chiquillos se agolpó a la puerta al saber que por allí andaba la guardia civil, y nos dio una cencerrada que hubimos de tener un mes entero clavada en los oídos. ¿Qué maligna crueldad despertará en los niños el olor de los presos?; nos miran como bichos raros con los ojos todos encendidos, con una sonrisilla viciosa por la boca, como miran a la oveja que apuñalan en el matadero —esa oveja en cuya sangre caliente mojan las alpargatas—, o al perro que dejó quebrado el carro que pasó —ese perro que tocan con la varita por ver si está vivo todavía—, o a los cinco gatitos recién nacidos que se ahogan en el pilón, esos cinco gatitos a los que apedrean, esos cinco gatitos a los que sacan de vez en cuando por jugar, por prolongarles un poco la vida — ¡tan mal los quieren!—, por evitar que dejen de sufrir demasiado pronto...
En la taberna, como había una guitarra, mucho vino y suficiente buen humor, estábamos todos como radiantes y alborozados, dedicados a lo nuestro y tan ajenos al mundo que, entre el cantar y el beber, se nos iban pasando los tiempos como sin sentirlos. Zacarías, el del señor Julián, se arrancó por seguidillas. ¡Daba gusto oírlo con su voz tan suave como la de un jilguero! Cuando él cantaba, los demás —mientras anduvimos serenos— nos callábamos a escuchar como embobados, pero cuando tuvimos más arranque, por el vino y la conversación, nos liamos a cantar en rueda y, aunque nuestras voces no eran demasiado templadas, como llegaron a decirse cosas divertidas, todo se nos era perdonado.Es una pena que las alegrías de los hombres nunca se sepa dónde nos han de llevar, porque de saberlo no hay duda que algún disgusto que otros nos habríamos de ahorrar; lo digo porque la velada en casa del Gallo acabó como el rosario de la aurora por eso de no sabernos ninguno parar a tiempo. La cosa fue bien sencilla, tan sencilla como siempre resultan ser las cosas que más vienen a complicarnos la vida.
—¿Quieres que salgamos al campo?
—¡No hace falta!
—¡Muy bravo te sientes!
Los amigos se echaron a un lado, que nunca fuera cosa de hombres meterse a evitar las puñaladas. Yo abrí la navaja con parsimonia; en esos momentos una precipitación, un fallo, puede sernos de unas consecuencias funestas. Se hubiera podido oír el vuelo de una mosca, tal era el silencio. Me fui hacia él y, antes de darle tiempo a ponerse en facha, le arreé tres navajazos que lo dejé como temblando. Cuando se lo llevaban, camino de la botica de don Raimundo, le iba manando la sangre como de un manantial...
Pasábamos por el cementerio.
—¡Qué mal se debe estar ahí dentro!
—¡Hombre! ¿Por qué dices eso? ¡Qué pensamientos más raros se te ocurren!
—¡Ya ves!
El ciprés parecía un fantasma alto y seco, un centinela de los muertos.
—Feo está el ciprés...
—Feo.
En el ciprés una lechuza, un pájaro de mal agüero, dejaba oír su silbo misterioso.
—Mal pájaro ese.
—Malo...
—Y que todas las noches está ahí.
—Todas...
—Parece como si gustase de acompañar a los muertos.
—Porque no puede ser, hijo. ¡Tu mujer está mala! —¿Mala?
—Sí.
—¿Qué le pasa?
—Nada; que abortó.
—Sí; la descabalgó la yegua...
La rabia que llevaba dentro no me dejó ver claro; tan obcecado estaba que ni me percaté de lo que oía.
—¿Dónde está la yegua?
—En la cuadra.
La puerta de la cuadra que daba al corral era baja de quicio. Me agaché para entrar; no se veía nada.
—¡To, yegua!
La yegua se arrimó contra el pesebre; yo abrí la navaja con cuidado; en esos momentos, el poner un pie en falso puede sernos de unas consecuencias funestas. —¡To, yegua! Volvió a cantar el gallo en la mañana.
—¡To, yegua!
La yegua se movía hacia el rincón. Me arrimé; llegué hasta poder darle una palmada en las ancas. El animal estaba despierto, como impaciente.
—¡To, yegua!
Fue cosa de un momento. Me eché sobre ella y la clavé; la clavé lo menos veinte veces...
Tenía la piel dura; mucho más dura que la de Zacarías... Cuando de allí salí saqué el brazo dolido; la sangre me llegaba hasta el codo. El animalito no dijo ni pío; se limitaba a respirar más hondo y más de prisa, como cuando la echaban al macho
Al año, o poco menos, de haberse malogrado lo que hubiera de venir, quedó Lola de nuevo encinta y pude ver con alegría que idénticas ansias y los mismos desasosiegos que la vez primera me acometían: el tiempo pasaba demasiado despacio para lo de prisa que quisiera yo verlo pasar, y un humor endiablado me acompañaba como una sombra dondequiera que fuese. Me torné huraño y montaraz, aprensivo y hosco, y como ni mi mujer ni mi madre entendieran gran cosa de caracteres, estábamos todos en un constante vilo por ver dónde saltaba la bronca. Era una tensión que nos destrozaba, pero que parecía como si la cultivásemos gozosos; todo nos parecía alusivo, todo malintencionado, todo de segunda intención. ¡Fueron unos meses de un agobio como no puede usted ni figurarse!…de prisa, casi gimiendo y poniéndome unos ojos que destrozaban el corazón. A ella también se le habían ahogado las crías en el vientre. En su inocencia, ¡quién sabe si no conocería la mucha pena que su desgracia me produjera!, eran tres los perrillos que vivos no llegaron a nacer; los tres igualitos, los tres pegajosos como el almíbar, los tres grises y medio sarnosos como ratas. Abrió un hoyo entre los cantuesos y allí los metió. Cuando al salir al monte detrás de los conejos parábamos un rato por templar el aliento, ella, con ese aire doliente de las hembras sin hijos, se acercaba hasta el hoyo por olerlo.
Ahora hay que tener cuidado con él.
—Sí, ahora es cuando hay que tener cuidado. —De los cerdos...
El recuerdo de mi pobre hermano Mario me asaltaba; si yo tuviera un hijo con la desgracia de Mario, lo ahogaría para privarle de sufrir.
—Sí; de los cerdos...
—Y de las fiebres también.
—Sí.
—Y de las insolaciones...
—Sí; también de las insolaciones...
El pensar que aquel tierno pedazo de carne que era mi hijo, a tales peligros había de estar sujeto, me ponía las carnes de gallina.
—Le pondremos vacuna.
—Cuando sea mayorcito...
—Y lo llevaremos siempre calzado, porque no se corte los pies. —Y cuando tenga siete añitos lo mandaremos a la escuela... —Y yo le enseñaré a cazar...
Lola se reía, ¡era feliz! Yo también me sentía feliz, ¿por qué no decirlo?, viéndola a ella, hermosa como pocas, con un hijo en el brazo como una santa María.
—¡Haremos de él un hombre de provecho!
¡Qué ajenos estábamos los dos a que Dios —que todo lo dispone para la buena marcha de los universos— nos lo había de quitar! Nuestra ilusión, todo nuestro bien, nuestra fortuna entera, que era nuestro hijo, habíamos de acabar perdiéndolo aun antes de poder probar a encarrilarlo. ¡Misterios de los afectos, que se nos van cuando más falta nos hacen!
Sin encontrar una causa que lo justificase, aquel gozar en la contemplación del niño me daba muy mala espina. Siempre tuve muy buen ojo para la desgracia —no sé si para mi bien o si para mi mal— y aquel presentimiento, como todos, fue a confirmarse al rodar de los meses como para seguir redondeando mi desdicha, esa desdicha que nunca parecía acabar de redondearse.
Mi mujer seguía hablándome del hijo.
—Bien se nos cría..., parece un rollito de manteca.
Y aquel hablar y más hablar de la criatura hacía que poco a poco se me fuera volviendo odiosa; nos iba a abandonar, a dejar hundidos en la desesperanza más ruin, a deshabitarnos como esos cortijos arruinados de los que se apoderan las zarzas y las ortigas, los sapos y los lagartos, y yo lo sabía, estaba seguro de ello, sugestionado de su fatalidad, cierto de que más tarde o más temprano tenía que suceder, y esa certeza de no poder oponerme a lo que el instinto me decía, me ponía los genios en una tensión que me los forzaba.
A la desgracia no se acostumbra uno, créame, porque siempre nos hacemos la ilusión de que la que estamos soportando la última ha de ser, aunque después, al pasar de los tiempos, nos vayamos empezando a convencer —¡y con cuánta tristeza!— que lo peor aún está por pasar...
Se me ocurren estos pensamientos porque si cuando el aborto de Lola y las cuchilladas de Zacarías creí desfallecer de la nostalgia, no por otra cosa era — ¡bien es cierto!— sino porque aún no sospechaba en lo que había de parar.
Tres mujeres hubieron de rodearme cuando Pascualillo nos abandonó; tres mujeres a las que por algún vínculo estaba unido, aunque a veces me encontrase tan extraño a ellas como al primer desconocido que pasase, tan desligado de ellas como del resto del mundo, y de esas tres mujeres, ninguna, créame usted, ninguna, supo con su cariño o con sus modales hacerme más llevadera la pena de la muerte del hijo; al contrario, parecía como si se hubiesen puesto de acuerdo para amargarme la vida. Esas tres mujeres eran mi mujer, mi madre y mi hermana.
¡Quién lo hubiera de decir, con las esperanzas que en su compañía llegué a tener puestas!
Las mujeres son como los grajos, de ingratas y malignas. Siempre estaban diciendo:
—¡El angelito que un mal aire se llevó!
—¡Para los limbos por librarlo de nosotros!
—¡La criatura que era mismamente un sol!
—¡Y la agonía!
—¡Que ahogadito en los brazos lo hube de tener!
Parecía una letanía, agobiadora y lenta como las noches de vino, despaciosa y cargante como las andaduras de los asnos.
Y así un día, y otro día, y una semana, y otra... ¡Aquello era horrible, era un castigo de los cielos, a buen seguro, una maldición de Dios!
Y yo me contenía.
Es el cariño —pensaba— que las hace ser crueles sin querer.» Y trataba de no oír, de no hacer caso, de verlas accionar sin tenerlas más en cuenta que si fueran fantoches, de no poner cuidado en sus palabras... Dejaba que la pena muriese con el tiempo, como las rosas cortadas, guardando mi silencio como una joya por intentar sufrir lo menos que pudiera. ¡Vanas ilusiones que no habían de servirme para otra cosa que para hacerme extrañar más cada día la dicha de los que nacen para la senda fácil, y cómo Dios permitía que tomarais cuerpo en mi imaginación!
Temía la puesta del sol como al fuego o como a la rabia; el encender el candil de la cocina, a eso de las siete de la tarde, era lo que más me dolía hacer en toda la jornada. Todas las sombras me recordaban al hijo muerto, todas las subidas y bajadas de la llama, todos los ruidos de la noche, esos ruidos de la noche que casi no se oyen, pero que suenan en nuestros oídos como los golpes del hierro contra el yunque.
Allí estaban, enlutadas como cuervos, las tres mujeres, calladas como muertos, hurañas, serias como carabineros. Algunas veces yo les hablaba por tratar de romper el hielo.
—Duro está el tiempo.
—Sí...
Y volvíamos todos al silencio.
Yo insistía.
—Parece que el señor Gregorio ya no vende la mula. ¡Para algo la necesitará!
—Sí...
—¿Habéis estado en el río? —No...
—¿Y en el cementerio? —Tampoco...
—Sí. El silencio con su larga campana volvió a llenar el cuarto.
—¿Dónde andará aquel aire?
—¡Aquel mal aire traidor! Lola tardó algún tiempo en contestar.
—No sé...
—¡Habrá llegado al mar! Atravesando criaturas... Una leona atacada no tuviera aquel gesto que puso mi mujer.
—¡Para que una se raje como una granada! ¡Parir para que el aire se lleve lo parido, mal castigo te espere!
—¡Si la vena de agua que mana gota a gota sobre el charco pudiera haber ahogado aquel mal aire!
—¡Para esto te di yo dos hijos, que ni el andar de la caballería ni el mal aire en la noche supieron aguantar!
Estaba como loca, como poseída por todos los demonios, alborotada y fiera como un gato montés... Yo aguantaba callado la gran verdad.
—¡Eres como tu hermano!
...la puñalada a traición que mi mujer gozaba en asestarme...
—¿Qué es lo que quieres ver?
—Que tenemos los hombres un corazón muy recio.
—Que para nada os sirve...
—¡Nos sirve para todo!
No entendía; mi madre no entendía. Me miraba, me hablaba... ¡Ay, si no me mirara!
—¿Ves los lobos que tiran por el monte, el gavilán que vuela hasta las nubes, la víbora que espera entre las piedras?
—¡Pues peor que todos juntos es el hombre! —¿Por qué me dices esto?
—¡Por nada! Pensé decirle:
—¡Porque os he de matar!
Se mata sin pensar, bien probado lo tengo; a veces, sin querer. Se odia, se odia intensamente, ferozmente, y se abre la navaja, y con ella bien abierta se llega, descalzo, hasta la cama donde duerme el enemigo. Es de noche, pero por la ventana entra el claror de la luna; se ve bien. Sobre la cama está echado el muerto, el que va a ser el muerto. Uno lo mira; lo oye respirar; no se mueve, está quieto como si nada fuera a pasar. Como la alcoba es vieja, los muebles nos asustan con su crujir que puede despertarlo, que a lo mejor había de precipitar las puñaladas. El enemigo levanta un poco el embozo y se da la vuelta: sigue dormido. Su cuerpo abulta mucho; la ropa engaña. Uno se acerca cautelosamente; lo toca con la mano con cuidado. Está dormido, bien dormido; ni se había de enterar...Pero no se puede matar así; es de asesinos. Y uno piensa volver sobre sus pasos, desandar lo ya andado... No; no es posible. Todo está muy pensado; es un instante, un corto instante y después... Pero tampoco es posible volverse atrás. El día llegará y en el día no podríamos aguantar su mirada, esa mirada que en nosotros se clavará aún sin creerlo.Habrá que huir; que huir lejos del pueblo, donde nadie nos conozca, donde podamos empezar a odiar con odios nuevos. El odio tarda años en incubar; uno ya no es un niño y cuando el odio crezca y nos ahogue los pulsos, nuestra vida se irá. El corazón no albergará más hiel y ya estos brazos, sin fuerza, caerán...
Cuando la paz invade las almas pecadoras es como cuando el agua cae sobre los barbechos, que fecunda lo seco y hace fructificar al erial. Lo digo porque, si bien más tiempo, mucho más tiempo del debido tardé en averiguar que la tranquilidad es como una bendición de los cielos, como la más preciada bendición que a los pobres y a los sobresaltados nos es dado esperar, ahora que ya lo sé, ahora que la tranquilidad con su amor ya me acompaña, disfruto de ella con un frenesí y un regocijo que mucho me temo que, por poco que me reste de respirar —¡y bien poco me resta!—, la agote antes de tiempo. Es probable que si la paz a mí me hubiera llegado algunos años antes, a estas alturas fuera, cuando menos, cartujo, porque tal luz vi en ella y tal bienestar, que dudo mucho que entonces no hubiera sido fascinado como ahora lo soy. Pero no quiso Dios que esto ocurriera y hoy me encuentro encerrado y con una condena sobre la cabeza que no sé qué sería mejor, si que cayera de una buena vez o que siguiera alargando esta agonía, a la que sin embargo me aferro con más cariño, si aún cupiese, que el que para aferrarme emplearía de ser suave mi vivir. Usted sabe muy bien lo que quiero decir... Envidio al ermitaño con la bondad en la cara, al pájaro del cielo, al pez del agua, incluso a la alimaña de entre los matorrales, porque tienen tranquila la memoria. ¡Mala cosa es el tiempo pasado en el pecado!
—La fe es como la luz que guía nuestras almas a través de las tinieblas de la vida.
—Sí...
—Como un bálsamo milagroso para las almas dolidas...
Estas cosas en las que tanta parte tiene la memoria hay que cuidarlas con el mayor cariño porque de trastocar los acontecimientos no otro arreglo tendría el asunto sino romper los papeles para reanudar la escritura, solución de la que escapo como del peligro por eso de que nunca segundas partes fueran buenas. Quizás encuentre usted presumido este afán mío de que las cosas secundarias me salgan bien cuando las principales tan mal andan, y quizás piense usted con la sonrisa en la boca que es mucha pretensión por parte mía tratar de no apurarme, porque salga mejor, en esto que cualquier persona instruida haría con tanta naturalidad y como a la pata la llana, pero si tiene en cuenta que el esfuerzo que para mí supone llevar escribiendo casi sin parar desde hace cuatro meses, a nada que haya hecho en mi vida es comparable, es posible que encuentre una disculpa para mi razonar. Las cosas nunca son como a primera vista las figuramos, y así ocurre que cuando empezamos a verlas de cerca, cuando empezamos a trabajar sobre ellas, nos presentan tan raros y hasta tan desconocidos aspectos, que de la primera idea no nos dejan a veces ni el recuerdo; tal pasa con las caras que nos imaginamos, con los pueblos que vamos a conocer, que nos los hacemos de tal o de cual forma en la cabeza, para olvidarnos repentinamente ante la vista de lo verdadero. Esto es lo que me ocurrió con este papeleo, que si al principio creí que en ocho días lo despacharía, hoy —al cabo de ciento veinte— me sonrío no más que de pensar en mi inocencia. No creo que sea pecado contar barbaridades de las que uno está arrepentido. Don Santiago me dijo que lo hiciese si me traía consuelo, y como me lo trae, y don Santiago es de esperar que sepa por dónde anda en materia de mandamientos, no veo que haya de ofenderse Dios porque con ello siga. Hay ocasiones en las que me duele contar punto por punto los detalles, grandes o pequeños, de mi triste vivir, pero, y como para compensar, momentos hay también en que con ello gozo con el más honesto de los gozares, quizá por eso de que al contarlo tan alejado me encuentre de todo lo pasado como si lo contase de oídas y de algún desconocido.
ese vuelco en el pecho que el corazón siempre da cuando encontramos lo cierto, lo que ya no tiene remedio, demasiado cercano para tan alejado como nos lo habíamos imaginado.
Pensaba que había de ser bien recibido por mi familia —el tiempo todo lo cura— y el deseo crecía en mí como crecen los hongos en la humedad. Pedí dinero prestado que me costó algún trabajo obtener, pero que, como todo, encontré insistiendo un poco, y un buen día, después de despedirme de todos mis protectores, con la Apacha a la cabeza, emprendí el viaje de vuelta, el viaje que tan feliz término le señalaba si el diablo —cosa que yo entonces no sabía— no se hubiera empeñado en hacer de las suyas en mi casa y en mi mujer durante mi ausencia. En realidad no deja de ser natural que mi mujer, joven y hermosa por entonces, notase demasiado, para lo poco instruida que era, la falta del marido: mi huida, mi mayor pecado, el que nunca debí cometer y el que Dios quiso castigar quién sabe si hasta con crueldad...
—Voy a tener un hijo.
—¿Otro hijo?
—Sí.
Yo me quedé como asustado.
—¿De quién?
—¡No preguntes!
—¿Que no pregunte? ¡Yo quiero preguntar! ¡Soy tu marido! Ella soltó la voz.
—¡Mi marido que me quiere matar! ¡Mi marido que me tiene dos largos años abandonada! ¡Mi marido que me huye como si fuera una leprosa! Mi marido...
—¡No sigas!
Sí; mejor era no seguir, me lo decía la conciencia. Mejor era dejar que el tiempo pasara, que el niño naciera... Los vecinos empezarían a hablar de las andanzas de mi mujer, me mirarían de reojo, se pondrían a cuchichear en voz baja al verme pasar...
—¡No, por Dios! ¿Otro aborto? ¿Estar siempre pariendo por parir, criando estiércol?
¡da pena pensar que para andar en paz haya que usar del miedo!
—¡No hablemos de eso! ¿Con quién fue?
—¡No lo preguntes!
—Prefiero saberlo, Lola.
—Pero a mí me da miedo decírtelo.
—¿Miedo?
—Sí; de que lo mates.
—¿Tanto lo quieres?
—No lo quiero.
—¿Entonces?
—Es que la sangre parece como el abono de tu vida...
Aquellas palabras se me quedaron grabadas en la cabeza como con fuego, y como con fuego grabadas conmigo morirán.
—¿Y si te jurase que nada pasará?
—No te creería.
—¿Por qué?
—Porque no puede ser, Pascual, ¡eres muy hombre! —Gracias a Dios; pero aún tengo palabra.
Lola se echó en mis brazos.
—Daría años de mi vida porque nada hubiera pasado. —Te creo.
—¡Y porque tú me perdonases!
—Te perdono, Lola. Pero me vas a decir...
—Sí.
Estaba pálida como nunca, desencajada; su cara daba miedo, un miedo horrible de que la desgracia llegara con mi retorno; la cogí la cabeza, la acaricié, la hablé con más cariño que el que usara jamás el esposo más fiel; la mimé contra mi hombro, comprensivo de lo mucho que sufría, como temeroso de verla desfallecer a mi pregunta.
—¿Quién fue?
—¡El Estirao! —¿El Estirao? Lola no contestó.
Estaba muerta, con la cabeza caída sobre el pecho y el pelo sobre la cara... Quedó un momento en equilibrio, sentada donde estaba, para caer al pronto contra el suelo de la cocina, todo de guijarrillos muy pisados...
Salí a buscar al asesino de mi mujer, al deshonrador de mi hermana, al hombre que más hiel llevó a mis pechos; me costó trabajo encontrarlo de huido como andaba. El bribón tuvo noticia de mi llegada, puso tierra por medio y en cuatro meses no volvió a aparecer por Almendralejo; yo salí en su captura, fui a casa de la Nieves, vi a la Rosario... ¡Cómo había cambiado! Estaba aviejada, con la cara llena de arrugas prematuras, con las ojeras negras y el pelo lacio; daba pena mirarla, con lo hermosa que fuera.
—¿Qué vienes a buscar?
—¡Vengo a buscar un hombre!
—Poco hombre es quien escapa del enemigo.
—Poco...
—Y poco hombre es quien no aguarda una visita que se espera.
—Estirao, has matado a mi mujer...
—¡Que era una zorra!
—Que sería lo que fuese, pero tú la has matado. Has deshonrado a mi hermana...
—¡Bien deshonrada estaba cuando yo la cogí!
—¡Deshonrada estaría, pero tú la has hundido! ¿Quieres callarte ya? Me has buscado las vueltas hasta que me encontraste; yo no he querido herirte, yo no quise quebrarte el costillar...
—¡Que sanará algún día, y ese día!
—¿Ese día, qué? —¡Te pegaré dos tiros igual que a un perro rabioso!
—¡Repara en que te tengo a mi voluntad!
—¡No sabrás tú matarme!
—¿Que no sabré matarte?
—No.
—¿Por qué lo dices? ¡Muy seguro te sientes!
—¡Porque aún no nació el hombre!
Estaba bravo el mozo.
—¿Te quieres marchar ya?
—¡Ya me iré cuando quiera!
—¡Que va a ser ahora mismo!
—¡Devuélveme a la Rosario!
—¡No quiero!
—¡Devuélvemela, que te mato!
—¡Menos matar! ¡Ya vas bien con lo que llevas!
—¿No me la quieres dar?
—¡No!
El Estirao, haciendo un esfuerzo supremo, intentó echarme a un lado. Lo sujeté del cuello y lo hundí contra el suelo.
—¡Échate fuera!
—¡No quiero!
Forcejeamos, lo derribé, y con una rodilla en el pecho le hice la confesión: —No te mato porque se lo prometí...
—¿A quién?
—A Lola.
—¿Entonces, me quería?
Era demasiada chulería. Pisé un poco más fuerte... La carne del pecho hacía el mismo ruido que si estuviera en el asador... Empezó a arrojar sangre por la boca. Cuando me levanté, se le fue la cabeza —sin fuerza— para un lado...
en esta vida se me ocurrió no portarme demasiado mal, esa fatalidad, esa mala estrella que, como ya más atrás le dije, parece como complacerse en acompañarme, torció y dispuso las cosas de forma tal que la bondad no acabó para servir a mi alma para maldita la cosa. Peor aún: no sólo para nada sirvió, sino que a fuerza de desviarse y de degenerar siempre a algún mal peor me hubo de conducir…. A estas horas estaría quién sabe si viviendo tranquilo, en cualquier lugar, dedicado a algún trabajo que me diera para comer, tratando de olvidar lo pasado para no
mirar más que para lo por venir; a lo mejor lo había conseguido ya... Pero me porté lo mejor que pude, puse buena cara al mal tiempo, cumplí excediéndomelo que se me ordenaba, logré enternecer a la justicia, conseguí los buenos informes del director..., y me soltaron; me abrieron las puertas; me dejaron indefenso ante todo lo malo. Me dijeron:
—Has cumplido, Pascual; vuelve a la lucha, vuelve a la vida, vuelve a aguantar a todos, a hablar con todos, a rozarte otra vez con todos.
Y creyendo que me hacían un favor, me hundieron para siempre.
Me puso ante la vista la orden de libertad. Yo no creía lo que estaba viendo.
—¿Lo has leído?
—Sí, señor.
Abrió una carpeta y sacó dos papeles iguales, el licenciamiento.
—Toma, para ti; con eso puedes andar por donde quieras. Firma aquí; sin echar borrones.
Doblé el papel, lo metí en la cartera... ¡Estaba libre! Lo que pasó por mí en aquel momento ni lo sabría explicar. Don Contado se puso grave; me soltó un sermón sobre la honradez y las buenas costumbres, me dio cuatro consejos sobre los impulsos que si hubiera tenido presentes me hubieran ahorrado más de un disgusto gordo, y cuando terminó, y como fin de fiesta, me entregó veinticinco pesetas en nombre de la junta de Damas Regeneradoras de los Presos, institución benéfica que estaba formada en Madrid para acudir en nuestro auxilio.
La sombra de mi cuerpo iba siempre delante, larga, muy larga, tan larga como un fantasma, muy pegada al suelo, siguiendo el terreno, ora tirando recta por el camino, ora subiéndose a la tapia del cementerio, como queriendo asomarse. Corrí un poco; la sombra corrió también. Me paré; la sombra también paró. Miré para el firmamento; no había una sola nube en todo su redor. La sombra había de acompañarme, paso a paso, hasta llegar.
La tierra por en medio se dice cuando dos se separan a dos pueblos distantes, pero, bien mirado, también se podría decir cuando entre el terreno en donde uno pisa y el otro duerme hay veinte pies de altura... Muchas vueltas me dio en la cabeza la idea de la emigración; pensaba en La Coruña, o en Madrid, o bien más cerca, hacia la capital, pero el caso es que —¡quién sabe si por cobardía, por falta de decisión!— la cosa la fui aplazando, aplazando, hasta que cuando me lancé a viajar, con nadie que no fuese con mis mismas carnes, o con mi mismo recuerdo, hubiera querido poner la tierra por en medio... La tierra que no fue bastante grande para huir de mi culpa... La tierra que no tuvo largura ni anchura suficiente para hacerse la mudó ante el clamor de mi propia conciencia... Quería poner tierra entre mi sombra y yo, entre mi nombre y mi recuerdo y yo, entre mis mismos cueros y mí mismo, este mí mismo del que, de quitarle la sombra y el recuerdo, los nombres y los cueros, tan poco quedaría. Hay ocasiones en las que más vale borrarse como un muerto, desaparecer de repente como tragado por la tierra, deshilarse en el aire como el copo de humo. Ocasiones que no se consiguen, pero que de conseguirse nos transformarían en ángeles, evitarían el que siguiéramos enfangados en el crimen y el pecado, nos liberarían de este lastre de carne contaminada del que, se lo aseguro, no volveríamos a acordarnos para nada —tal horror le tomamos — de no ser que constantemente alguien se encarga de que no nos olvidemos de él, alguien se preocupa de aventar sus escorias para herirnos los olfatos del alma. ¡Nada hiede tanto ni tan mal como la lepra que lo malo pasado deja por la conciencia, como el dolor de no salir del mal pudriéndonos ese osario de esperanzas muertas, al poco de nacer, que —¡desde hace tanto tiempo ya!— nuestra triste vida es! La idea de la muerte llega siempre con paso de lobo, con andares de culebra, como todas las peores imaginaciones. Nunca de repente llegan las ideas que nos trastornan; lo repentino ahoga unos momentos, pero nos deja, al marchar, largos años de vida por delante. Los pensamientos que nos enloquecen con la peor de las locuras, la de la tristeza, siempre llegan poco a poco y como sin sentir, como sin sentir invade la niebla los campos, o la tisis los pechos. Avanza, fatal, incansable, pero lenta, despaciosa, regular como el pulso. Hoy no la notamos; a lo mejor mañana tampoco, ni pasado mañana, ni en un mes entero. Pero pasa ese mes y empezamos a sentir amarga la comida, como doloroso el recordar; ya estamos picados. Al correr de los días y las noches nos vamos volviendo huraños, solitarios; en nuestra cabeza se cuecen las ideas, las ideas que han de ocasionar el que nos corten la cabeza donde se cocieron, quién sabe si para que no siga trabajando tan atrozmente. Pasamos a lo mejor hasta semanas enteras sin variar; los que nos rodean se acostumbraron ya a nuestra adustez y ya ni extrañan siquiera nuestro extraño ser. Pero un día el mal crece, como los árboles, y engorda, y ya no saludamos a la gente; y vuelven a sentirnos como raros y como enamorados. Vamos enflaqueciendo, enflaqueciendo, y nuestra barba hirsuta es cada vez más lacia. Empezamos a sentir el odio que nos mata; ya no aguantamos el mirar; nos duele la conciencia, pero, ¡no importa!, ¡más vale que duela! Nos escuecen los ojos, que se llenan de un agua venenosa cuando mirarnos fuerte. El enemigo nota nuestro anhelo, pero está confiado; el instinto no miente. La desgracia es alegre, acogedora, y el más tierno sentir gozamos en hacerlo arrastrar sobre la plaza inmensa de vidrios que va siendo ya nuestra alma. Cuando huimos como las corzas, cuando el oído sobresalta nuestros sueños, estamos ya minados por el mal; ya no hay solución, ya no hay arreglo posible. Empezamos a caer, vertiginosamente ya, para no volvernos a levantar en vida. Quizás para levantarnos un poco a última hora, antes de caer de cabeza hasta el infierno... Mala cosa….
La conciencia no me remordería; no habría motivo. La conciencia sólo remuerde de las injusticias cometidas: de apalear un niño, de derribar una golondrina... Pero de aquellos actos a los que nos conduce el odio, a los que vamos como adormecidos por una idea que nos obsesiona, no tenemos que arrepentirnos jamás, jamás nos remuerde la conciencia.
Mi madre dormiría también a buen seguro. Volví a la cocina; me descalcé; el suelo estaba frío y las piedras del suelo se me clavaban en la punta del pie. Desenvainé el cuchillo, que brillaba a la llama como un sol. Allí estaba, echada bajo las sábanas, con su cara muy pegada a la almohada. No tenía más que echarme sobre el cuerpo y acuchillarlo. No se movería, no daría ni un solo grito, no le daría tiempo... Estaba ya al alcance del brazo, profundamente dormida, ajena —¡Dios, qué ajenos están siempre los asesinados a su suerte!— a todo lo que le iba a pasar. Quería decidirme, pero no lo acababa de conseguir; vez hubo ya de tener el brazo levantado, para volver a dejarlo caer otra vez todo a lo largo del cuerpo.Pensé cerrar los ojos y herir. No podía ser; herir a ciegas es como no herir, es exponerse a herir en el vacío... Había que herir con los ojos bien abiertos, con los cinco sentidos puestos en el golpe…. No; no podía perdonarla porque me hubiera parido. Con echarme al mundo no me hizo ningún favor, absolutamente ninguno... No había tiempo que perder. Había que decidirse de una buena vez…. Me era completamente imposible matar; estaba como paralítico.
Dila vuelta para marchar. El suelo crujía. Mi madre se revolvió en la cama.
—¿Quién anda ahí?
Entonces sí que ya no había solución. Me abalancé sobre ella y la sujeté. Forcejeó, se escurrió... Momento hubo en que llegó a tenerme cogido por el cuello. Gritaba como una condenada. Luchamos; fue la lucha más tremenda
que usted se puede imaginar. Rugíamos como bestias, la baba nos asomaba a la boca... En una de las vueltas vi a mi mujer, blanca como una muerta, parada a la puerta sin atreverse a entrar. Traía un candil en la mano, el candil a cuya luz pude ver la cara de mi madre, morada como un hábito de nazareno... Seguíamos luchando; llegué a tener las vestiduras rasgadas, el pecho al aire. La condenada tenía más fuerzas que un demonio. Tuve que usar de toda mi hombría para tenerla quieta. Quince veces que la sujetara, quince veces que se me había de escurrir. Me arañaba, me daba patadas y puñetazos, me mordía. Hubo un momento en que con la boca me cazó un pezón —el izquierdo— y me lo arrancó de cuajo.
Fue el momento mismo en que pude clavarle la hoja en la garganta...
La sangre corría como desbocada y me golpeó la cara. Estaba caliente como un vientre y sabía lo mismo que la sangre de los corderos.
La solté y salí huyendo. Choqué con mi mujer a la salida; se le apagó el candil. Cogí el campo y corrí, corrí sin descanso, durante horas enteras. El campo estaba fresco y una sensación como de alivio me corrió las venas.
Podía respirar... (fin de las memorias)
Hasta aquí las cuartillas manuscritas de Pascual Duarte. Si lo agarrotaron a renglón seguido, o si todavía tuvo tiempo de escribir más hazañas, y éstas se perdieron, es una cosa que por más que hice no he podido esclarecer. …La carta de Pascual Duarte a don Joaquín Barrera debió escribirla al tiempo de los capítulos XII y XIII, los dos únicos en los que empleó tinta morada, idéntica a la de la carta al citado señor, lo que viene a demostrar que Pascual no suspendió definitivamente, como decía, su relato, sino que preparó la carta con todo cálculo para que surtiese su efecto a su tiempo debido, precaución que nos presenta a nuestro personaje no tan olvidadizo ni atontado como a primera vista pareciera…. Dispuso los negocios del alma con un aplomo y una serenidad que a mí me dejaron absorto y pronunció delante de todos, cuando llegó el momento de ser conducido al patio, un ¡Hágase la voluntad del Señor! que mismo nos dejara maravillados con su edificante humildad. ¡Lástima que el enemigo le robase sus últimos instantes, porque si no, a buen seguro que su muerte habría de haber sido tenida como santa!…Del tal Pascual Duarte de que me habla ya lo creo que me recuerdo, pues fue el preso más célebre que tuvimos que guardar en mucho tiempo; de la salud de su cabeza no daría yo fe aunque me ofreciesen Eldorado, porque tales cosas hacía que a las claras atestiguaba su enfermedad. Antes de que confesase ninguna vez, todo fue bien; pero en cuanto que lo hizo la primera se conoce que le entraron escrúpulos y remordimientos y quiso purgarlos con la penitencia; el caso es que los lunes, porque si había muerto su madre, y los martes, porque si martes había sido el día que matara al señor conde de Torremejía, y los miércoles, porque si había muerto no sé quién, el caso es que el desgraciado se pasaba las medias semanas voluntariamente sin probar bocado, que tan presto se le hubieron de ir las carnes que para mí que al verdugo no demasiado trabajo debiera costarle el hacer que los dos tornillos llegaran a encontrarse en el medio del gaznate. El muy desgraciado se pasaba los días escribiendo, como poseído de la fiebre, y como no molestaba y además el director era de tierno corazón y nos tenía ordenado le aprovisionásemos de lo que fuese necesitando para seguir escribiendo, el hombre se confiaba y no cejaba ni un instante.
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vinotv · 2 years
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Il vino è Arte… e proprio come un artista il produttore ha bisogno di sperimentare, esplorare, lasciarsi ispirare e osare! A volte anche andando #controcorrente !  Questo spirito è stato ampiamente abbracciato da Bosca, che con ɔoraggio e lungimiranza ha saputo cogliere con uno spirito nuovo e fuori dalle righe, l’arte di fare spumante in una delle terre oggi più vocate: il #piemonte . Nasce così la loro nuova linea di bollicine chiamata non a caso #ispiro , che racchiude 3 metodo classico millesimati derivanti dalla lunga esperienza nel campo enologico, iniziata nel 1831.  Oggi vi presento il Metodo Classico Brut 2015 #millegiorni prodotto con #pinotnoir all’80% e un 20% di #chardonnay , nel quale piacevoli note fruttate di pesca, mela verde si uniscono a scorza di arancia candita e crosta di pane. Di buona acidità e struttura, ha un sorso armonico, teso e persistente.  E tu hai voglia di lasciarti ispirare?   #BollicineControcorrente #BoscaSpumanti  #Bosca1831 #OltreLoSpumante #Controcorrente #BeyondSpumante # bollicine # spumanteitaliano #sparklingpalette #blueandwhite #drinkoclock #theperfectti #followmywinepassion #vinotv #wine #winetime #winery #winelover #wineblogger #winetasting #vino #winetravel #chiaragiannotti #italianwines #winepassion https://www.instagram.com/p/Ce0nQJWtckk/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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hoteles en llanes con desayuno incluido
Explora el pueblo antiguo de Llanes: Llanes es una de las localidades más antiguas de Asturias, con una rica historia que se remonta al siglo XV.
Pasea por sus calles angostas y descubre edificios históricos como la Iglesia de San Vicente, el Castillo de San Pedro y el Museo Etnográfico. En los acogedores bares y cafeterías, puedes disfrutar de un café caliente mientras escuchas la lluvia caer.
Visita los museos: Llanes cuenta con varios museos interesantes. El Museo de la Pesca y el Mar, el Museo Etnográfico de Llanes y el Museo de Arte Contemporáneo son algunos de los más destacados. Estos museos te ofrecen una excelente oportunidad para aprender más sobre la historia, la cultura y el arte de la zona.
Haz compras: Si te gusta ir de compras, Llanes es un lugar ideal. Explora las tiendas de artesanía local, como la famosa tienda de lanas, y busca recuerdos únicos. Además, el mercado semanal de Llanes es perfecto para encontrar productos típicos locales.
Disfruta de la gastronomía local: La comida asturiana es famosa por sus sabores deliciosos. En Llanes, puedes probar auténticos platos asturianos en los restaurantes locales. No te pierdas la oportunidad de degustar los quesos y vinos de la región mientras te refugias de la lluvia.
En cuanto al alojamiento, te recomiendo considerar Hotel As Rocas. Este encantador hotel se encuentra en una ubicación privilegiada cerca del mar y ofrece vistas espectaculares. Su ambiente acogedor y su atención personalizada te harán sentir como en casa durante tu estancia en Llanes. Haz clic aquí en hoteles en llanes con desayuno incluido
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delivinos · 26 days
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Seis vinos blancos potentes y exquisitos de la difícil uva ‘viognier’
El prestigio llega de la denominación francesa Condrieu, aunque en España uno de los primeros en introducir esta variedad en Castilla-La Mancha fue el empresario Alfonso Cortina, asesorado por Carlos Falcó
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Ahora que la pertinaz sequía pende como una amenaza existencial sobre la viticultura española, tal vez sería bueno prestar más atención a la variedad francesa viognier, cepa robusta y resistente, alguno de cuyos clones soportan bien la escasez de agua, aunque su cultivo es complicado porque le afecta mucho las heladas, y es sensible a algunas enfermedades como el oídio. Para mostrar todo su potencial debe ser vendimiada en su punto óptimo de madurez, evitando desequilibrios como su tendencia a una importante acumulación de azúcares que elevan el grado alcohólico de los vinos y reducen la acidez.
Dificultades que propiciaron una lenta disminución del cultivo, estando a punto de extinguirse en su lugar de origen, el Valle del Ródano, aunque algunos sostienen que es oriunda de la Dalmacia, en Croacia. En los años 60 del siglo pasado tan solo unas 16 hectáreas sobrevivían a duras penas. Pero los excepcionales y altamente cotizados vinos blancos secos de viejas cepas de viognier, elaborados en la prestigiosa denominación francesa Condrieu, capaces de superar habitualmente los 150 euros la botella, despertaron el interés en numerosas zonas vitivinícolas de todo el mundo, deseosas de romper con la estandarizada tendencia a la chardonitis. Pronto su cultivo se extendió por Australia, Sudáfrica, Chile, Argentina, Estados Unidos, Alemania, Austria, Italia, Grecia, Portugal y España.Más información
Seis excelentes finos y manzanillas en rama para disfrutar de las ferias
Uno de los primeros en plantar Vioger en España fue la bodega Vallegarcía, creada en 1997 por Alfonso Cor-tina, con el asesoramiento de Carlos Falcó. Pequeños viñedos de viognier se plantaron en zonas de Castilla y León, Castilla-La Mancha, Cataluña, Murcia, Baleares, o en Tenerife. Según datos del Ministerio de Agricultura, Pesca y Alimentación, en 1999 había 34 hectáreas de viñedo, que ascendieron a 72 en 2009, y que hoy ya suman 624 hectáreas. Las razones de esta milagrosa recuperación y posterior extensión por todo el mundo se deben a sus vinos potentes, pero delicados, sutilmente complejos, muy aromáticos, con gran variedad de notas frutales en las que destacan las frutas blancas maduras y tropicales, un sugerente paisaje floral, notas de hierbas silvestres, y especiadas en el postgusto. Se trata de blancos untuosos, muy versátiles, buenos para armonizar una amplia gama de comidas, o tomados solos, por su potencia y madura sapidez. Dan fe de todo ello esta selección de seis entre los mejores.
VALLEGARCÍA VIOGNIER 2021
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Vallegarcía
Alfonso Cortina tuvo, a finales de los 90, la genial idea de plantar ‘viognier’ en su finca en los Montes de Toledo, a 900 metros de altura. Hoy la bodega cuenta con el asesoramiento del bordelés Eric Boissenot. Este vino procede de seis parcelas. El 30% de las uvas ha fermentado barrica nueva de roble francés, para terminar con una crianza sobre lías en roble de seis meses. Aroma complejo a frutas de hueso madura y exóticas, con refinados notas flor de árbol, frescor balsámico de las hierbas, en un fondo lácteo y especiado. Sabroso, evoluciona elegantemente hacia un final amargo.
·Teléfono: 925 421 407 · DOP: Pago de Vallegarcía ·Tipo: blanco crianza, 13,5% ·Cepas: ‘viognier’ ·Precio: 29,90 euros ·Puntuación: 9,3+/10
CLOS D’AGON 2022
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Clos d'Agon (Mas Gil)
La bodega, creada por Philippe Dambois en 1989, fue una de las primeras en plantar ‘viognier’. Lo hizo en la finca Más Gil, situada en un pequeño valle de la cadena montañosa de Las Gavarres, a pocos kilómetros de la Costa Brava. Las uvas proceden de cepas plantadas en 1991 sobre suelos de arena y pizarra en pequeñas parcelas ubicadas en Calonge (Baix Empordà). El vino ha fermentado y criado con sus lías en barricas de roble francés durante seis meses. Intenso y fino aroma afrutado con frescas notas cítricas y de pastelería. Sabroso, estructurado, de regusto ligeramente amielado.
·Teléfono: 972 661 486 · DO: Catalunya ·Tipo: blanco crianza, 13% ·Cepas: ‘viognier’ ·Precio: 55 euros ·Puntuación: 9,3/10
PRIETO PARIENTE VIOGNIER 2021
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Prieto Pariente
Martina y su hermano Ignacio, la tercera generación de los Pariente, se han embarcado en un proyecto de excelencia en el que prima calidad de la materia prima y una elaboración rigurosa. En este caso, parten de las uvas de una pequeña parcela de ‘viognier’ plantada en 1999 en La Seca (Valladolid). Una parte del vino fermenta en depósitos ovoides de hormigón, y la otra en barricas de roble francés. Finalmente, se cría durante seis meses con sus lías. Fragante aroma frutal, con notas de flor blanca, hierbas de monte, cítricos y tonos de pastelería. Voluptuoso, fresco, suave y persistente. ·Teléfono: 983 816 600 · VT: Castilla y León ·Tipo: blanco crianza, 12,5% ·Cepas: ‘viognier’ ·Precio: 16 euros ·Puntuación: 9,3/10
AIGUA DE LLUM 2022
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Vall Llach
Vall Llach mima sus cepas de 'viognier' plantadas en el paraje más agreste de la finca Mas del Porrerà, de condiciones ambientales, orográficas, insolación y altura propicias. Solo lo elabora en cantidades muy limitadas, y cuando la añada es excepcional. El vino tiene una leve crianza de cinco meses en barricas nuevas de 500 litros. Aroma intenso y expresivo, con abundantes notas de fruta carnosa, madura y exótica, flor blanca, hierbas balsámicas en una sugerente atmósfera levemente especiada. Sabroso, de paladar mórbido, fresco y amplio, que evoluciona hacia un largo y amielado final.
·Teléfono: 977 828 244 · DOCa: Priorat ·Tipo: blanco crianza, 14% ·Cepas: ‘viognier’ ·Precio: 47 euros ·Puntuación: 9,2+/10
ALTO DE INAZARES VIOGNIER 202
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Alto de Inazares
Un ejemplo de logrado 'viognier' mediterráneo que se beneficia de su ubicación, a 1.373 metros de altura. Las cepas, plantadas en 2011, se benefician del clima fresco y la buena luminosidad características de la zona de Moratalla (Murcia). Las uvas proceden de los pagos de Las Perrera en la finca El Ático. El vino tiene una crianza en depósito de acero inoxidable durante ocho meses. Aroma cargado de frutas blancas y tropicales maduras, con notas florales, de cítricos, y hierbas silvestres. En boca es sabroso, cremoso, equilibrado, con volumen y refinado postgusto levemente amargo.
·Teléfono: 620 808 106 · DO: No tiene ·Tipo: blanco crianza, 13,5% ·Cepas: ‘viognier’ ·Precio: 25 euros ·Puntuación: 9,2/10
CARABALLAS ECOLÓGICO SECTOR 2.8, 2021
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Finca Las Caraballas
Finca Las Caraballas es un proyecto de viticultura ecológica y elaboración de vinos que arranca en 2005 impulsado por el riojano Elias Redondo. Los viñedos se ubican en Finca Las Caraballas (Medina del Campo), zona de pinares resineros, sobre terrenos franco-arcillosos. Inicialmente concebido para elaborar vinos de verdejo, pronto amplió la gama con otras variedades. Destaca entre ellas su ‘viognier’ fermentado en depósitos de hormigón pulido. Aroma fresco, con notas de hinojo, piña, pomelo, lavanda y hierbas. En boca resulta untuoso, con cuerpo, un final de atractivo regusto amargo.
·Teléfono: 678 552 943 · VT: Castilla y León ·Tipo: blanco joven, 13% ·Cepas: ‘viognier’ ·Precio: 19,75 euros ·Puntuación: 9/10
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