Tumgik
#questa fic è tutta la mia vita
talithamaisa · 5 months
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Tancredi l’unico uomo che merita diritti su questa terra
fic di @ticketybye @tyrionsonoftywin99
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lyalu17 · 3 years
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Gruvia week 2021 ~ April 4th ~ Tears.
Allerta spoiler per chi non è al passo con le scan on-line (attualmente al capitolo 78) della 100YQ (anche se un po' di avvenimenti le ho modellate un po' a mio piacimento) buona lettura, e buona Gruvia week <3
Qualche dedica perché sì:
Questa one shot è dedicata alle Gruvia shippers che ho conosciuto da quando, nell'ormai lontano 2019, entrai ufficialmente nel mondo delle fanfiction come scrittrice ("scrittrice" insomma...) e che mi hanno fatto sclerare in tutti i modi possibili, facendomi un po' "virtualmente compagnìa" con l'amore per le opere d'animazione giapponese. L'aver conosciuto, anche se solo attraverso uno schermo, così tante persone, in quasi due anni che sono in giro per i siti di fanfiction, mi rende davvero felice. Grazie a questo ho iniziato a fare cose di cui nemmeno mi credevo capace, come migliorarmi nel disegno, scrivere nel rating rosso o anche solo scrivere e far leggere le mie fic a qualcuno che non fossero solo amici e parenti stretti, "esponendomi" un po' di più attraverso internet. Davvero, grazie a tutti voi, che non elenco solo perché siete davvero così tanti che non voglio rischiare di dimenticare qualcuno. E anche perché se no le note diventano un papiro assai più lungo della fanfiction stessa. Quindi solo una cosa: GRAZIE A TUTTI QUANTI!
Bene! Ora lascio la scena ai nostri Gruvia, ci rivediamo alla fine❤️
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Se avesse dovuto descrivere la sua vita in una parola, quella più giusta sarebbe stata lacrime...
Lacrime versate per tutto: Per quei bambini che non volevano mai stare con lei, perché ogni giorno con la piccola Juvia significava pioggia.
Per quel ragazzo che, stanco di non poter mai godere di un giorno di sole in compagnia della sua ragazza -o forse semplicemente stanco di lei- l'aveva lasciata, incurante dell'ennesimo macigno che posava sul suo cuore, già abbondantemente appesantito dal senso di colpa per via di quel potere tanto grande quanto fuori controllo.
Ma in quel momento era proprio quello stesso sole che le si stava posando sulla pelle, riscaldandola e guarendo ferite vecchie di anni...
Guardava la propria mano, tenuta stretta da quella di quel moretto senza maglietta -eppure le era sembrato che l'avesse fino a pochissimi istanti prima- e col marchio della propria gilda sul petto scolpito. Attraverso i raggi che gli arrivavano dalle spalle, coprendo in parte la vista dei suoi lineamenti, la ragazza riuscì a vedere l'espressione seria e determinata del mago. La teneva stretta, senza accennare a lasciarla andare, rischiando di cadere con lei nel vuoto. La teneva stretta come se la sua vita fosse la cosa più importante di tutto, come se lei fosse più importante di tutto.
E sì, lo era eccome, più importante di tutto.
Quasi non sembrava che fossero due nemici intenti a lottare, come invece era stato fino a poco prima...
"Non vincerai!" urlava il moro, completamente zuppo dalla testa ai piedi, sotto la pioggia incessante che si chiedeva da dove diavolo arrivasse.
"Shin shin do..." ripeteva invece, quasi fosse uno strano mantra di cui lui ignorava l'esistenza, la padrona delle acque che aveva di fronte. "Juvia ha già vinto, gli Element Four dovevano solo catturare Lucy Heartphilia, ma la gilda di Fairy Tail non accetta la sconfitta..." continuava, mentre tornava quell'espressione così fastidiosa sul volto pallido. Ogni tanto usciva fuori uno strano sorriso, che gli fece seriamente chiedere se avesse davanti la stessa persona o se fosse sotto il controllo di qualcuno che si divertiva a darle quegli sbalzi d'umore.
Però, doveva dire che, a parte tutto, era forte... accidenti se lo era!
Non che ne dubitasse, faceva parte del gruppo di maghi più forte di Phantom Lord e il suo potere magico, da quel che sentiva, era molto alto. Sapeva di avere un'avversaria temibile davanti.
Lo aveva messo davvero in difficoltà e poche volte gli era accaduto. Era una sua avversaria eppure non riusciva a trovarle un solo difetto -forse uno sì, l'espressione impassibile, come se niente le interessasse, che le albergava la maggior parte del tempo sul volto e che, non sapeva perché, lo infastidiva non poco, facendogli preferire di gran lunga il sorriso che la sostituiva ogni tanto in quegli strani sbalzi d'umore- che potesse fargliela odiare. Non che quella fosse la definizione giusta dei suoi sentimenti verso i propri avversari, ma di solito, o almeno il più delle volte, gli era indifferente il motivo per cui qualcuno agisse in un modo o in un altro. Poche erano le occasioni in cui si interessava davvero a qualcosa oltre che sconfiggere chi voleva fare del male alla sua famiglia, e quella ragazzina dai grandi occhioni azzurri rappresentava decisamente una di quelle eccezioni...
Schivò, appena in tempo e non senza difficoltà, un attacco della ragazza -la donna della pioggia, così la chiamavano, ma lui vedeva solo una ragazzina alla mercé di qualcuno troppo codardo per combattere in prima persona, spinta da chissà quale motivo o, più probabilmente, da nessuno in particolare- e riuscì ad evitare un'onda d'acqua che lo avrebbe spinto giù da quel tetto se lo avesse preso. La pioggia continuava a cadere sulle loro teste, innervosendolo più di quanto non facesse già l'intera situazione.
Phantom Lord aveva distrutto la loro casa, e non voleva lasciar andare Lucy, progettando di riportarla da suo padre. E così, mentre Natsu si occupava del Dragon Slayer del metallo, Elfman del tizio che controllava la terra -non ricordava come si chiamasse e non gli importava nemmeno- a lui era toccata quella ragazzina, che in verità gli sembrava una di quelle bamboline di porcellana. Di quelle imbacuccate con abiti eleganti, carine con quei boccoli, ma con l'espressione vuota, troppo vuota...
"Shin shin do..." fu l'ultima cosa che Gray sentì uscire dalle labbra appena un po' rosee dell'azzurra, poco prima di essere travolto da un altro attacco, che stavolta lo prese in pieno, spingendolo davvero quasi giù dal tetto. Quasi, perché sembrava che quella massa d'acqua puntasse a farlo indieteggiare o, al massimo, lasciarlo a terra senza sensi.
Almeno da quello che sentiva: Il potere magico di quell'attacco era di molto inferiore a quello emanato dalla ragazza.
Al limite della pazienza e sinceramente stanco di quello scontro che non portava a nulla -se non il nervoso che gli prendeva nel vederla così impassibile- il ragazzo ghiacciò in un sol colpo tutta l'acqua attorno a loro. Persino la pioggia si era congelata, e questo smosse, finalmente, qualcosa nel volto di Juvia, che si corrugò in un'espressione di stupore, facendo ghignare interiormente il mago del ghiaccio. Almeno non era più così vuota adesso...
In poche mosse -non affatto facili, e ancora una volta il ragazzo convenne col fatto che fosse davvero forte- riuscì a sconfiggere la ragazza, che però rischiò di cadere lei dal tetto, evitandolo solo perché il moro era stato abbastanza lesto da afferrarle la mano in tempo.
"Lascia cadere Juvia... hai vinto... lei è una nemica della tua gilda..." era quello il suo destino ormai. A Phantom Lord una degli Element Four che veniva battuta da una fatina era una vergogna, e quella stessa gilda che le aveva dato una casa tempo addietro l'avrebbe adesso ripudiata. Tanto valeva morire no?
Gray cosa stesse farneticando quella ragazzina non lo capiva, ma una cosa gli era chiara: Non sapeva distinguere un avversario da un nemico...
"Abbiamo combattuto e ti ho sconfitto, questo non fa più di noi due avversari..." le disse prima di tirarla su e, quando la vide al sicuro, inginocchiata sulle tegole rossastre e senza più il rischio di cadere di sotto, si concesse un sospiro di sollievo. "Il mio obbiettivo è un po' come il tuo, non avevi motivo per combattermi perché il tuo interesse era obbedire agli ordini..." allo sguardo sorpreso dell'altra rispose con un mezzo ghigno che -lui non lo sapeva- causò l'ennesimo scompenso all'altezza del petto di Juvia...
"Dovevi catturare una mia compagna e nient'altro... allo stesso modo io devo riportarla a casa nostra, nient'altro... meno ancora lasciar morire qualcuno..." spalancò gli occhioni color oceano e solo in quel momento si rese conto di avere il viso sì bagnato, ma non dalla sua stessa pioggia...
Guardando in alto si accorse che il sole -no, non se l'era immaginato, non era una specie di miraggio che le si era presentato negli ultimi attimi di vita- non era più coperto dai nuvoloni grigi, e ora splendeva in modo quasi accecante...
Era così che splendeva di solito? Juvia non lo sapeva, non perché non lo avesse mai visto o non avesse mai provato il calore di quella enorme e lucente stella, ma perché era passato così tanto tempo da quando aveva vissuto quella sensazione sulla pelle, che ormai l'aveva completamente dimenticata, arrivando quasi a pensare che non esistesse più. Non per lei almeno...
Era passato tanto di quel tempo dall'ultima volta che il cielo era stato sereno in sua presenza, tanto di quel tempo da quando quel calore che sembrava penetrarle fin dentro le ossa, rimarginando tutte le ferite del suo animo, le aveva sfiorato la pelle diafana l'ultima volta...
Perché hai salvato Juvia?
Quelle parole premevano per uscire, erano proprio lì, sulla punta della lingua, pronte a lasciare le labbra carnose dell'azzurra. Ma si arrese all'incredibile sensazione di benessere che sentiva in tutto il corpo. Era stanca, stremata, eppure si sentiva bene. E che c'era di male, dunque, nel lasciarsi cadere distesa, chiudere gli occhi e riposare un po', godendosi quella bellissima sensazione appena ritrovata?
"Sai, Juvia stava davvero male..." gli aveva detto Lucy, ancora con quell'uniforme addosso, mentre tornavano in quella che era stata la casa che i due avevano condiviso per quei sei mesi. Il cuore gli tremava al solo pensiero che avrebbe rivisto la bluetta. Era andato via da solo perché sapeva che, se lo avesse seguito, si sarebbe messa in pericolo, e non poteva, non doveva permetterlo.
Non lei, che in quegli anni, così come in quei sei mesi, gli era stata accanto accettando tutto, anche la sua indifferenza...
Se ci fosse stata Ur lo avrebbe riempito di scappellotti fino a renderlo ancora più idiota di quanto già non fosse, e avrebbe fatto bene. "Ha pianto tanto per te..." continuò la ragazza, che non nascose una punta di rabbia, forse la stessa che aveva messo in quello schiaffo. Probabilmente non era stato solo il pensiero che avesse tradito la gilda o le sue parole di finto disprezzo a spingerla a quel gesto, e una piccola parte di lui sapeva che quel dolore, ancora un po' persistente, alla guancia sinistra era nulla in confronto a quello che aveva inferto all'azzurra. "Era stremata... quando l'abbiamo incontrata è svenuta... se non fosse stato per Natsu si sarebbe fatta male..." aveva evitato di dirlo, ma lui glielo aveva letto negli occhi che quel più di quanto non gliene abbia già fatto tu era sulla rimasto sulla lingua, pronto ad uscire, ma consapevole di quanto già lui stesso sentisse il peso della colpa che albergava nel petto, per nulla intenzionato a lasciarlo in pace.
Lo aveva capito da solo, quando se li era ritrovati davanti, che se non fosse stato per il rosato nemmeno Lucy si sarebbe trovata lì, e nessuno di loro sarebbe stato sulla strada di casa, pronto a far rinascere Fairy Tail. "Spero solo che si riprenda..." concluse la bionda, e lo sapevano entrambi -forse anche il fiammifero, che cavalcava pochi passi più avanti- che non si riferiva solo alla salute fisica della ragazza...
Era un idiota!
Pensava di agire per il meglio e tenerla al sicuro ma le aveva causato solo altra sofferenza...
"Siamo arrivati!" disse il rosato quando giunsero alla dimora che lui conosceva fin troppo bene. Il timore gli attanagliava le viscere, eppure uno strano fremito dentro lo spingeva sempre di più a voler entrare...
E così mentre Wendy li accoglieva alla soglia, pregando loro di non fare rumore, poiché che la maga dell'acqua si era appena addormentata, il moro non poteva evitare di rimirare quella casa che sì, gli era mancata da morire, così come la bluetta, che riposava tranquilla sotto le coperte marroncine. Aveva le gote arrossate e il candido panno sulla fronte gli indicava che avesse la febbre. "Juvia-san ha bisogno di riposo, non dovete assolutamente svegliarla..." sussurrò loro la ragazzina dai codini blu-violetti. "Io ho finito alcune erbe che potrebbero servirmi nel caso la febbre dovesse risalire, vado a fare un po' di scorte..." continuò, senza che il moro l'ascoltasse molto in realtà, assorto com'era a guardare la ragazza addormentata. "Ti accompagno io Wendy! In due faremo prima." intervenne la bionda. Il bosco lì vicino poteva nascondere molte insidie e non poteva permettere che la piccola vi si addentrasse da sola. Inoltre, tra non molto sarebbe subentrata la sera ed era meglio che rientrassero il prima possibile. Presero due cestini di vimini, uscendo dalla porta e, poco prima di chiuderla, la testolina della piccola Dragon Slayer si affacciò per salutare. "A dopo ragazzi, e Gray-san ..." non attendendo che si voltasse, non lo avrebbe fatto, troppo preso dalla bluetta. "Sono felice che tu sia tornato..." sorrise sincera, chiudendo definitivamente la porta e lasciando la maga dell'acqua alle cure dei due nakama.
Il moro prese posto sulla sedia accanto al letto senza spiccicare parola, mentre il rosato osservò il cielo, appena un po' rossastro per l'imminente tramonto, dalla finestra e, dopo qualche minuto di silenzio, si decise a dirgli ciò che gli più premeva in quel momento...
"Non puoi restituirle i mesi che ha passato da sola..." non parlava solo per lui, ma anche per sé stesso, lo aveva capito il moro. Anche lui aveva lasciato qualcuno pensando di fare la cosa giusta, finendo però col ferire ulteriormente chi voleva proteggere. Lo ascoltò in silenzio, era certo che lo dicesse per il bene di entrambi. Era uno di quei momenti in cui frecciatine e rivalità erano bandite dalla conversazione. "Ma puoi fare in modo che quello che passerà insieme a te sia così bello da oscurare almeno in parte il dolore di questi mesi..." era un consiglio che aveva intenzione di seguire, e giurò a sé stesso -insieme al rosato. Lo sapevano entrambi, e mai si sarebbero derisi a vicenda per ciò- in quello stesso istante, che avrebbe reso ogni momento con lei indimenticabile. Serviva anche a lui, dopo così tanto tempo lontani...
"Vado a cercare Lucy e Wendy, non svegliarla..." annunciò Natsu dopo un po', notando il tramonto sempre più vicino. "E rivestiti ghiacciolo!" sbuffò in un finto rimprovero, non voltandosi nemmeno, perché lo sapeva benissimo che si era già tolto il mantello nero -ne aveva sentito il fruscìo mentre scendeva, carezzando la pelle nuda del moro- che l'altro indossò di nuovo mugugnando uno dei suoi coloriti insulti al suo indirizzo, decretando, in parte, un ritorno alla quotidianità della loro famiglia, facendo ghignare il Dragon Slayer. Quello rappresentava un altro passo in avanti sulla strada della ricostruzione della gilda, la cui fine sarebbe stata sancita solo dal sorriso di Luce...
Uscì, seguendo col suo olfatto il profumo fruttato della maga celeste, mentre Juvia si agitava appena sotto le coperte, facendo scivolare sul cuscino il panno, ormai quasi asciutto, che lui raccolse e raffreddò un poco coi propri poteri, rimettendolo al suo posto e risistemando meglio le coperte perché stesse più comoda e non prendesse freddo. Quella di poco prima era una promessa che avrebbe iniziato a mantenere sin da subito...
Le lacrime a bagnarle il volto, e la bionda che, munita di fazzoletti, gliele asciugava cercando di non far colare il mascara sul candido abito a sirena, con la scollatura a cuore ad incorniciare il prosperoso seno, completato dal lungo strascico e dal velo che scendevano sinuosi verso il pavimento, ripiegandosi ai piedini della bluetta, avvolti nelle bianche décolleté tacco dieci. "Calmati, cerca di respirare. Pensa che tra poco sarai sposata con l'uomo che ami e che ti ama e non puoi farti vedere col trucco sbavato. È il tuo giorno, il vostro giorno, e devi essere perfetta!" cercava di tranquillizzarla, non riuscendo molto bene nell'intento. "L-Lucy-san parla facile, lei ha g-già passato questo momento, o-ormai è solo un ricordo..." era vero, almeno in parte. Erano passati sette anni da quando avevano ricostruito la gilda, e appena cinque da quando Natsu aveva preso coraggio e, una volta conclusasi la missione dei cento anni, le aveva detto ciò che tra loro era rimasto un po' in sospeso con quel staremo insieme per sempre giusto? prima di partire per quell'avventura, conclusasi con la sconfitta dei draghi sacri. Ma non era lontano quel ricordo. Era ancora vivido e, ogni volta che ci ripensava, lo stomaco le si attorcigliava come quel ventisei Luglio di ormai un lustro fa...
"E-E se Gray-sama si accorgesse che ha fatto un errore? S-Se vedendomi così si r-rendesse conto di... d-di non voler passare l-la vita c-con Juvia?" continuava tra i singhiozzi, non riuscendo a fermare il petto dal suo muoversi a scatti nel seguire il pianto della bluetta. "Luce tra poco inizia la marcia nuziale!" si affacciò alla porta il Dragon Slayer del fuoco, con un piccolo bambino biondo in braccio, vestito di tutto punto come il padre, con uno smoking nero identico a quello del rosato, che se ne stava zitto e buono, mezzo addormentato e con la testa placidamente posata sulla spalla del padre, a sonnecchiare del dolce dormi-veglia che lo aveva catturato nei suoi appena tre anni...
"Natsu!" non urlò eccessivamente per non svegliare il piccolo. "Potevamo essere nude! Avviati, tra poco arriviamo!" gli avrebbe tirato volentieri una delle sue décolleté rosse dal letale tacco dodici, abbinate al monomanica lungo fino alle caviglie e col profondo spacco lungo la coscia destra, se solo non ci fosse stato il piccolo Igneel di mezzo...
Il ragazzo sparì dietro la porta di legno che portava alla sala della gilda -dove si sarebbe tenuta la cerimonia- per non rischiare di avere a che fare con una Lucy furiosa. Corse ad avvertire il moro, certo che lui avrebbe potuto aiutare. Era stato ottuso per troppo tempo, e non che lui potesse fargli la predica certo, ma almeno si era sbrigato prima, mentre il moro si era dichiarato appena pochi mesi dopo di lui con Lucy. Non avrebbe mai smesso di ridere per quella scena: Sembrava avesse il suo stesso ghiaccio nelle mutande -l'unica cosa rimastagli miracolosamente addosso- e il rosato aveva immortalato il tutto col Lacryma. Adesso si stava per sposare, e lui non poteva che essere più felice per l'amico...
"Allarme crisi pre-matrimoniale polaretto! Mi sa che devi intervenire se non vuoi restare come un baccalà ad aspettare all'altare!" il moro s'irrigidì, cominciando a marciare come un soldatino verso la porta di legno massello dietro la quale c'erano la sposa e la sua damigella d'onore. "Non entrare però! Io ho evitato una scarpa killer solo grazie a questo ometto qui!" carezzò la testolina bionda di suo figlio, che mugugnava di tanto in tanto qualcosa nel leggero sonno che andava e veniva. "E no! Non te lo presto! Fatti il tuo se ci tieni ghihahah!" se ne andò ridacchiando a sedere accanto a Levy e Gajeel, in attesa che la cerimonia iniziasse per affidare loro Igneel prima di andare all'altare al posto dedicato al testimone dello sposo...
"Così va meglio!" batteva le mani, soddisfatta per l'essere riuscita a far cessare le cascate dai grandi occhi blu che, ancora un po' lucidi, si facevano truccare di nuovo, riaggiustando col mascara il distastro scampato per un pelo, quando... "Juvia... ascolta io-" "Gray, tu provaci solo ad entrare e giuro che ti tiro il beauty dietro! Intesi?" la voce della bionda lo interruppe. Che avevano tutti quanti quel giorno? Era abbastanza certa che il colpevole fosse quella testa rosa, con cui poi avrebbe fatto i conti a fine giornata...
"Non entro, ma devo dirti una cosa Juvia! Ti chiedo solo di ascoltarmi..." quando aveva sentito il rosato dirgli della classica crisi pre-matrimoniale aveva sentito le gambe cedere, ma si era fatto forza, avanzando verso quella porta. Ci aveva già pensato lui, e in abbondanza, ad allungare il brodo, e capiva bene che i dubbi della sua sposa potessero dipendere soprattutto da questo. Ma vi avrebbe porto rimedio e subito...
Ottenuto il permesso di parlare dalla voce della bluetta, iniziò con quel discorso per nulla previsto.
"Juvia... senti io non sono bravo con le parole, e credo si sia capito... anche quando mi sono deciso a parlare chiaro..." lo ricordò con un dolce sorriso la ragazza: Balbettava e per questo, poco prima, l'aveva portata in un posto appartato -salvo poi scoprire, pochi minuti dopo, grazie alle battutine del rosato e del metallaro, che l'udito dei Dragon Slayer era molto più sviluppato di quanto credessero- e le aveva dedicato parole così dolci che la ragazza pianse -per la prima volta di felicità- di fronte a quel di Gray così inaspettato, così suo. Come suo era il cuore della bluetta, ormai arresasi all'idea di dimenticarsi di lui dopo tanto tempo passato a cercare di farsi notare.
Ma quel giorno il moro le aveva invece consegnato ufficialmente il proprio di cuore...
"Non ho idea di che dirti Juvia..." era vero. Non sapeva cosa dire, sebbene il cuore traboccasse di parole e sentimenti da poter esprimere, lui era sprovvisto delle prime. Dei secondi però, ne aveva in abbondanza, tutti dedicati a quella dolce ragazzina dagli occhioni color mare. "Potrei dirti che ti amo, ma la verità è che non sarebbe vero!" sussultò, facendosi aria con le mani -che aveva appena coperto coi candidi guanti lunghi fino a poco sopra i gomiti- per evitarsi di piangere. Glielo aveva detto anche quella volta, e facendola spaventare così tanto che per poco non svenne. Per fortuna non successe, perché le parole successive le fecero lacrimare gli occhi e sorridere a trentadue denti. "Juvia io per te ho pianto! E solo il cielo sa quanto preferirei farmi battere dal fiammifero spento anziché piangere!" ricordava poche volte di aver pianto e poteva contarle senza difficoltà sulle dita di una sola mano.
Quando Deliora aveva distrutto la sua vita insieme al suo villaggio. Quando Ur si era sacrificata per permettergli di vivere la sua vita senza il peso del rancore e della sete di vendetta. Quando, dopo aver ritrovato suo padre, lo aveva perso subito, e proprio per mano di quella bellissima donna che gli stava per concedere l'onore di divenire sua moglie -era certo che Silver, ovunque fosse, era libero, non più schiavo di quella forza maligna che lo aveva reso nemico del suo stesso figlio- e che era arrivata addirittura a sacrificare la sua vita più volte.
Aveva pianto quando l'aveva stretta tra le braccia, inerme e ricoperta di sangue e ferite. Aveva pianto sì, e per Gray Fullbuster era tutto dire...
Ogni lacrima che aveva versato nella vita corrispondeva ad una ferita incisa per sempre in quel muscolo in mezzo al petto. Lo stesso che, negli anni, si era imposto sul suo carattere glaciale, sciogliendo il freddo e invisibile scudo con cui proprio il suo cuore era stato ricoperto negli anni. E solo grazie a quella ragazzina che si era sacrificata più volte, per Cana durante la battaglia di Fairy Tail, e anche per lui, arrivando ad attentare alla propria vita per salvare quella di uno stupido ghiacciolo nudista...
"Il fatto è... il fatto è che se ti perdo un'altra volta sento che non ce la posso fare! Non di nuovo. Solo il pensiero che possa succedere, anche nel peggiore degli incubi, mi fa star male da morire!" aveva il fiatone, lo si sentiva benissimo nella sua voce. Aveva poggiato la fronte alla porta, allentandosi la cravatta nera abbinata allo smoking gessato. Più pensava che lei potesse decidere di non sposarlo più -se lo sarebbe meritato, aveva passato troppi anni a tenerla lontana, era naturale che si stancasse di lui- e più sentiva il petto cedere.
"Gray-sama... Juvia ti ama da... da neanche lei sa bene quanto tempo..." si era avvicinata alla porta, posandovi una mano guantata, mentre l'altra -la sinistra, che sotto la candida stoffa di seta nascondeva il piccolo diamante dell'anello con cui l'aveva chiesta in sposa- se ne stava sul petto, all'altezza del cuore. La voglia di abbassare la maniglia e togliere quell'ostacolo per abbracciarlo era tanta, ma una Lucy, che definire furiosa era un eufemismo -di lì a poco avrebbe commesso un omicidio, e che rimanesse lei vedova o uno di loro due ancora prima di pronunciare il fatidico sì, poco importava- le faceva segno di non aprire per nessun motivo. La catenina della sua borsetta rosso fuoco era perfetta per strangolare qualcuno...
"Anche Juvia ha pianto... ha pianto tanto... talmente tanto che le sue lacrime cadevano persino dal cielo..." era vero, e non doveva permettere loro di affacciarsi ai suoi occhi, non adesso!
"Ma Juvia ha smesso quel giorno in cui tu le afferrasti la mano, tenendola stretta e salvandola da un vuoto ben più grande di quello a cui Juvia sarebbe stata destinata a cadere se non ti fossi sporto per prenderla..." il nodo in gola si sentiva distintamente, e il ragazzo fece una fatica enorme per non spalancare quella porta e farle affondare il viso nel proprio petto per raccogliere le sue lacrime...
"Tu facesti vedere il sole a Juvia... in tutti i sensi... la facesti sentire una persona e non qualcosa che porta solamente pioggia e tristezza... e nemmeno qualcuno di completamente inutile se avesse fallito..." ora il trucco stava per colare a Lucy, ma resisteva valorosamente facendosi aria come aveva fatto poco prima la bluetta. E nemmeno la rabbia e la successiva emozione le avevano impedito di registrare il momento col suo Lacryma. Un Gray così romantico non era certo roba di tutti i giorni...
"Quel giorno tu hai insegnato a Juvia che anche lei poteva provare sulla sua pelle la felicità..." quel dieci Settembre rappresentava la sua rinascita, e lei avrebbe conservato quella data segnata sul più affidabile dei calendari, il suo cuore. "Gray... Juvia ti ama!"
Era tornato a respirare regolarmente, bevendo ogni parola come un assetato beveva l'acqua dopo giorni e giorni nel deserto. Un balsamo di vita, indescrivibilmente benefico, che aveva avuto il potere di calmarlo in poco tempo...
Sorrise e... "Allora, Juvia Loxar, mi vuoi sposare?" ridacchiò, ma la risposta l'aspettava davvero. Impaziente come la prima volta che glielo aveva chiesto, a casa sua, dove la ragazza era venuta per una cena intima, e lo aveva visto d'improvviso alzarsi e andare in camera sua, frugare in un cassetto del comodino, e tirare fuori una scatolina di velluto blu. Gliel'aveva porta non riuscendo a spiccicare parola. La ragazza, una volta realizzato il tutto, lo aveva abbracciato di slancio, posando la scatolina sul comò e, beh, poi erano finiti a perdersi tra ansiti e gemiti. Un sì sussurrato -ma non per questo non convinto, anzi!- mentre si incamminavano insieme, ancora una volta, sulla via della passione, gli aveva fatto apparire un sorriso dolce. Di quei pochi che dedicava solo a lei, perdendosi nel mare dei suoi meravigliosi occhi...
"Gray-sama... Juvia... sì... sì Gray, voglio sposarti!" ridacchiò, rispondendo convinta. Con il suo Gray lo sarebbe stata sempre...
Un altro sorriso -come se avesse fatto altro oltre a quello per tutto il tempo che lei gli aveva parlato. Aveva riso tutto il tempo come un bambino in un negozio di caramelle, a cui avevano detto di mangiare quanto volesse- gli comparve sulle labbra, prima di trasformarsi in una smorfia di dolore per via della presa di Erza, che lo aveva raggiunto e afferrato per la cravatta, quasi strangolandolo nel risistemargliela e trascinarlo via, dopo aver informato le due donne che la marcia nuziale sarebbe partita dopo poco.
"Ci vediamo tra cinque minuti ragazze. Tu vieni con me!" e andò via, avvolta nel suo abito color ametista, riuscendo a non scomporre lo scarlatto chignon nel tenere fermo il moro, intento a dimenarsi, smettendo di farlo solo quando fu sull'altare che era stato allestito per la cerimonia. La rossa fece segno a Gajeel di avviarsi. Avrebbe accompagnato la sposa all'altare, il vecchio Master aveva insistito per farlo lui, ma avevano preferito farlo stare tranquillo a godersi la cerimonia, con suo nipote Laxus -l'attuale Master- da officiante, e Gajeel a percorrere la navata con la sposa.
Chi meglio di lui?
Avevano iniziato insieme a conoscere il significato della parola famiglia, era giusto che vivessero insieme anche quel passo così importante. D'altra parte, Juvia era stata la sua prima -e unica per tanto tempo- amica. L'unica con cui aveva abbandonato -di poco ovviamente- la sua aria da duro. L'unica che aveva trattato decentemente nella gilda di Phantom Lord. L'unica che aveva pensato a lui quando aveva trovato una nuova, vera, famiglia...
La sposa uscì a braccetto dell'energumeno -Lucy si era già posizionata sull'altare, sorridendo dolce al sei bellissima mimato dalle labbra del Dragon Slayer del fuoco- e seguita dalle altre damigelle, oltre che dagli sguardi dei loro cari. Da Natsu, in piedi accanto a Gray, e Igneel, seduto vicino alla maga del Solid Script, che non toglievano gli occhi di dosso a Lucy -il primo con pensieri decisamente meno casti e innocenti del secondo, ormai ben sveglio e praticamente in adorazione per la sua mamma, ma entrambi con un pensiero comune: Bellissima- a Levy e i due gemelli Redfox -fieri che il loro papà ricoprisse quel ruolo così importante- e la marcia nuziale partì, fermandosi pochi istanti dopo, quando la bluetta raggiunse il moro, sorridendogli con amore, e ampiamente ricambiata.
Se quella era la ricompensa a tutte le lacrime versate in passato, beh, valeva ogni singola goccia...
"Vedrai come piangerai quando ti batterò polaretto ghihahah!" ridacchiò il rosato, prima di beccarsi uno scappellotto dal biondo Master, prima che egli iniziasse la cerimonia...
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Angolo autrice.
Buonasera a tutti! (Da me, in Italia sono ancora le 23:45 del 4 Aprile, quindi penso vada bene, ma non lo so)
Non sono riuscita a tradurla in tempo (e forse è meglio così, non sono brava in inglese😳)
Bene, come ho detto, questa è la prima volta che partecipo alla Gruvia week, e spero sia solo l'inizio di una lunga serie di edizioni. Beh, che dire? Spero che la fic sia stata di vostro gradimento, e grazie per averla letta.
Alla prossima!🖤💙
13 notes · View notes
leojfitz · 4 years
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di smistamenti
mentirei se dicessi di non aver pensato a “i miei raga harry potter, cicatrici in faccia” come titolo a questa fic 
"M'è venuto in mente mo che c'è una domanda che non t'ho mai fatto, Là." E' una di quelle notte in cui sono sfiniti entrambi, sdraiati sul divano dopo ore e ore di prove e registrazioni, tanto che anche alzarsi dal divano per spostarsi sul letto della stanza al piano di sopra sembra essere un'operazione altamente complessa. Edoardo ha un braccio intorno alle spalle di Lauro, che al momento sta fissando un punto non precisato nella stanza, sicuramente sta pensando a quanto gli faccia schifo tutto quello che hanno registrato fino a quel momento. Lauro si gira verso Edoardo con lo sguardo terrorizzato, lo vede che gli sta passando tutta la vita davanti, sta pensando a quante poche domande ci possano essere che Edo non gli ha mai fatto. "In che casa di Hogwarts stai te?" Gli chiede allora, e Lauro cambia completamente espressione. Lo sa già cosa sta per dirgli. "Ma vaffanculo Edoà, io chissà che cazzo me pensavo," gli dice, tirandogli un colpo su un braccio, ma senza troppa convinzione. Sono davvero molto stanchi. "Beh, allora?" "Ma che cazzo ne so, dai, avrò visto l'ultima volta Harry Potter a dodici anni, manco me ricordo come se chiamano le cose lì, le case." Edoardo si copre il volto con la mano, sconvolto dalla rivelazione. "Cioè hai visto tipo solo i primi due film?" "Pare che non m'hai visto come stavo impicciato dopo, oh, ma chi c'aveva tempo de pensà a Har -" Edoardo lo interrompe. "Sì vabbè, ho capito, Là, da domani un film al giorno." "Non abbiamo tempo," gli dice Lauro, che si gira nuovamente dall'altra parte, per sottolineare ancor di più la sua presa di posizione. "Ma smettila, sono due ore al giorno." Edoardo sposta un po' il braccio che ha intorno alla spalla di Lauro e riesce a pizzicargli un fianco, sapendo bene quale reazione avrebbe suscitato nell'altro. Lauro praticamente salta, è uno dei suoi punti più sensibili, e si gira di nuovo verso di lui, pronto a mandarlo nuovamente a fanculo. "Non accetto scuse." Lauro sbuffa ma non dice nulla, ed Edo conclude la discussione dandogli un bacio in fronte.
Al quarto giorno, quando stanno vedendo il Calice di Fuoco, Lauro ha finalmente un'illuminazione. "Lo so, Edo, lo so," gli dice. Sono in camera, dove hanno montato un televisore che era in un'altra stanza della casa ma che nessuno usava, e che tutti hanno sicuramente pensato Edo e Lauro si fossero presi per guardarsi dei porno. "Cosa sai?" Gli chiede Edoardo. Fino a poco prima gli stava accarezzando il braccio e ora la sua mano si è ora spostata vicino a quella di Lauro, le loro dita che si intrecciano. "La mia casa," risponde, stringendo la presa, il contrasto evidente fra le dita tatuate di Lauro con quelle pulite di Edoardo. "Sono chiaramente un Grifondoro." Edoardo scoppia a ridere allora, ancora una volta con la mano libera sulla faccia. "Tu - Là, lo scorso anno stavi a piagne come un ragazzino perché non te volevi magnà quell'uovo nelle Filippine," gli fa notare Edoardo, che sta continuando a ridere. Lauro sembra particolarmente indignato però, lascia andare la sua mano, si siede e incrocia entrambe le braccia sul petto. "Anche Ron ha paura dei ragni," gli dice. L'argomentazione non sta in piedi, ma perlomeno sembra che Lauro stia recependo qualcosa dalla visione. "Ron non credo abbia mandato mai Harry davanti durante 'na missione co' la scusa che tutti lo considerassero il demonio, Là," gli fa notare Edoardo, ma Lauro non si arrende, è ancora tremendamente offeso, la schiena poggiata al muro e le braccia ancora conserte. "Dai, non fà il cojone, torna qua," aggiunge poi, dando un colpetto alla parte del letto ora vuota accanto a lui. Lauro ha lo sguardo fisso sullo schermo però, il Ballo del Ceppo in corso. Solo dopo la fine della scena Lauro lo guarda di nuovo e gli dice, "beh, se fossimo stati insieme là, io al Ballo te c'avrei invitato, sono molto più avanti de Ron." Edoardo sorride, e non riesce neanche più a prenderlo per il culo, lo stronzo.
Lauro rimane convinto della sua scelta su Grifondoro fino alla visione dell'ultimo film, quando anzi dice a Edo che è chiaramente anche lui nella stessa casa e che sarebbero stati anche loro fortissimi nello sconfiggere Voldemort. Lauro è agitato, è sul bordo del letto, ogni tanto si gira verso di Edo, "Harry non muore, vè?" ed Edoardo ride, "io non ce credo che tu veramente non lo sappia, Là." Ma deve crederci, quando era morto Silente Lauro si era commosso, non ne aveva davvero la minima idea. Su Sirius Edo non è del tutto sicuro che Lauro abbia capito che sia davvero morto. Quando arrivano alla fine, Lauro ci mette un po' a girarsi verso Edoardo, e quando lo fa Edo vorrebbe fotografarlo,è un misto di commozione e di confusione. "Ma n'era 'na storia per regazzini? So' morti metà dei personaggi, ma che cazzo me fai vedè?" Edo sorride, gli dice "viè qua, cretino, che te consolo io," e Lauro lo fa, anche se lo sta ancora insultando prima di cominciare a baciarlo.
"Alla fine comunque mica m'hai detto tu che casa sei. E quale pensi sia la mia," gli dice Lauro la mattina successiva, mentre molto lentamente entrambi stanno tentando di alzarsi. "La tua è facile," gli dice Edoardo. "Sei un Serpeverde." Lauro sgrana gli occhi, si alza indignato. Edo è molto colpito dalla rapidità con cui è sceso dal letto, inizierà a ripeterglielo tutte le mattine. "Pensa che stima c'hai de me, pensi che io sarei stato l'alleato del nemico," gli dice, mentre cerca qualcosa da mettersi addosso in giro per la stanza. "Ma no, mica tutti i Serpeverde so' alleati de Voldemort, in ogni caso t'avrei convinto io a combatte in prima linea," gli dice Edoardo e Lauro alza lo sguardo dalla pila di vestiti a cui sta cercando di dare un senso al lato della stanza. "Vabbè, te sei salvato in corner. Tu, però?" Edoardo, ancora seduto sul letto, alza le spalle. "Non lo so, forse Tassorosso," gli risponde. "O Grifondoro. Ma non vojo dì Grifondoro perché è troppo scontato, poi me immagino noi due tipo Romeo e Giulietta del mondo dei maghi." Lauro intanto ha scelto il suo outfit,  che è in realtà lo stesso del giorno precedente, e torna sul letto, ed Edoardo pensa stupidamente a quanto sia bello anche con quegli occhi perennemente stanchi che ha da quando sono lì. "Ma 'sti Tassorosso fra un po' manco me li ricordo nei film, che cazzo fanno? Se te ce ritrovi vordì che c'hanno 'na pazienza immensa," gli dice Lauro, che gli si di è di nuovo buttato addosso. Si è alzato solo per fare scena per un secondo, la solita drama queen. "Pe' scoprillo me sa che te devi legge pure i libri, Laurè." Lauro sbuffa, gli ricorda che non hanno tempo, ma ha già il telefono in mano aperto sulla barra di ricerca di Amazon, libri Harry Potter.  
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giulia-liddell · 4 years
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Una dichiarazione
Parole: 1603
No beta, we die like men
Fandom: Sanremo RPF
Avvertimenti: probabili strafalcioni gramamticali dovuti a mancanza di sonno, sdolcinatezza, discussione molto vaga sull’omofobia italiana, menzioni della performance finale di Achille Lauro 
Ship: Domille/Bossille
Note autore: Ah. Io che non so niente né su Achille Lauro né su Boss Doms che provo a scrivere una fic su di loro perché sono #Iconic e perché della gente molto carina me lo ha chiesto... Perdonatemi se ci sono errori/cavolate varie/roba che non ci azzecca. Sono un po’ fuori dalla mia comfort zone. Tutti guardano questa ship e sono tipo “rough and kinky dads” e io sono tipo “patati loro”
La stanza d’albergo è illuminata dalla luce dell’alba quando Boss si sveglia con le lenzuola attorcigliate intorno alle gambe. Si prende qualche momento per stiracchiarsi e levarsi il torpore del sonno. Non si aspettava di alzarsi così presto e ha ancora gli occhi che bruciano. Non è facile dover sopportare i ritmi del festival di Sanremo: tutte quelle prove, le serate interminabili e i convenevoli a fine di ogni puntata… Per fortuna sono arrivati alla finale, dopo questa sera potrà dormire quanto vorrà.
Appena si sveglia abbastanza Boss si rende conto che l’altro lato del letto è vuoto. Possibile che Lauro si sia svegliato ancora prima di lui? Non si alza mai così presto, anzi, di solito Boss è costretto a prenderlo a cuscinate finché non si rianima. Boss si alza per cercarlo e barcolla leggermente sulle gambe ancora intorpidite.
Lauro è seduto sul terrazzino della loro camera, con addosso solo un paio di pantaloni, curvo sul tavolino e si mordicchia un dito mentre scrive qualcosa. Boss ammira la serenità che emana seduto in silenzio alla luce dell’alba ed ammira la concentrazione con cui si dedica alla scrittura: la fronte corrugata, le dita strette intorno alla penna come se stesse impugnando un’arma e quello sguardo illuminato negli occhi. È talmente concentrato che non sente nemmeno il chitarrista avvicinarsi. Boss si piazza alle sue spalle e fa scivolare le mani sul suo petto, poi si abbassa per baciargli il collo «’Giorno…» sussurra con voce roca appoggiando le labbra al suo orecchio.
Lauro si riprende all’improvviso dal suo stato di trance creativa e si volta per baciare il suo chitarrista sulle labbra «Ciao…» sussurra con un leggero sorriso sulle labbra «Finalmente sei sveglio anche tu.» aggiunge e subito Boss si tira indietro sorpreso «”Finalmente”? Lauro, non sono neanche le sette del mattino… Abbiamo dormito cosa? Due ore?» dice confuso mentre Lauro gli accarezza una guancia e sorride «Per essere precisi, tu hai dormito due ore e quaranta minuti e io non ho dormito affatto.» risponde il cantante. Boss strabuzza gli occhi per la sorpresa «Come non hai dormito? Lauro non va bene… Hai lavorato parecchio e ci aspetta un’altra giornata di lavoro intenso e… Non puoi…» Lauro lo zittisce con un altro bacio. «Edo, non abbiamo prove fino al tardo pomeriggio, posso dormire questa mattina se tu me lo permetti… E non ti preoccupare, so che è importante risposare… È solo che… Avevo voglia di scrivere e non riuscivo ad addormentarmi, quindi sono rimasto sveglio…» risponde Lauro indicando i fogli che sono impilati sul tavolino. Boss non può fare a meno di sorridere «Davvero sei rimasto sveglio per scrivere? Questa potrebbe essere la cosa più da te che ti abbia mai visto fare…» commenta il chitarrista e Lauro abbassa lo sguardo evidentemente in imbarazzo «Mi… Mi sentivo ispirato…» si giustifica.
«Posso leggere?» chiede Boss facendo un cenno in direzione dei fogli e Lauro annuisce lentamente «È… Non è veramente un testo… Non ancora… Solo una raccolta di idee… Dovrò sistemare poi tutto quanto… Sai la confusione che ho in testa a volte…» Boss gli lascia un bacio su una tempia e gli accarezza le spalle «Sono certo che sia meraviglioso.» dice e lo pensa davvero. Si sorprende a volte di quanto Lauro possa essere insicuro della sua musica mentre la sta creando. Una volta che rilascia una nuova canzone è sempre sicuro che sia esattamente quello che voleva e che sia perfetta, ma quando la sta ancora scrivendo continua a dubitare di ogni frase e di ogni nota anche se poi non cambia molto nel prodotto finale.
Il chitarrista prende uno dei fogli ed inizia a leggere in silenzio con Lauro che appoggia la testa contro la sua spalla. «Allora? Che ne pensi?» chiede il cantante con una punta d’ansia nella voce «Edo? Ci sei?». Boss si riprende, appoggia il foglio e prende il volto di Lauro tra le mani per baciarlo «È stupendo. Sei stupendo. Dio, come diavolo faccio a meritarmi uno come te?» commenta subito il chitarrista con un ampio sorriso «Il modo in cui descrivi la nostra relazione e… E tutta l’emozione che ci hai messo… Davvero io non so come fai… Sei magico.» continua sempre più entusiasta. Lauro si lascia scappare una risatina soddisfatta e bacia ancora Boss «Grazi-» inizia a dire, ma subito il chitarrista lo interrompe «Però voglio sapere una cosa… Sei sicuro?» chiede con l’espressione più seria che mai.
«Sicuro di cosa?» Lauro corruga la fronte «Tutti i tuoi testi sono intimi... Lo dici tu stesso che non si può scrivere una canzone senza metterci una parte di sé… E questo… Questo potrebbe essere il testo più personale che tu abbia scritto fino ad ora… Quindi ti chiedo se sei sicuro di voler trasformare questo in una canzone: sarà pubblicata, la ascolteranno tutti e…» Boss non finisce la frase, ma Lauro sa perfettamente cosa intende «… e tutti sapranno di noi.» conclude. «Esatto!» esclama il chitarrista «Per me non è un problema lo sai, anzi sarei felicissimo di non dover fare tutto di nascosto, di non dover mantenere i nostri contatti in pubblico limitati alle nostre performance, ma… Voglio che ne sia felice anche tu… Non voglio che tu ti senta costretto a caricarti di questo peso… Già non godi di una buona reputazione con chiunque non abbia una mente aperta, non vorrei che tutto il backlash che ci sarà per questo ti ferisca…» spiega Boss e la sua voce sembra leggermente disperata. Lauro sa che è sincero, sa che sta dicendo tutto questo solo perché tiene a lui.
«Edo… È proprio questo il punto… Io so che ti preoccupi e sono contento che ti interessi di come potrei gestire la cosa, ma… Non posso tenerlo nascosto per sempre e onestamente mi sento un ipocrita in questo momento… Ogni volta che ci intervistano dico sempre quanto sia importante per l’espressione della propria personalità, fare tutto quello che si vuole, non farsi condizionare dalla mascolinità tossica e non lasciar vincere tutte le cazzate omofobe che circolano nella musica italiana di oggi e poi… E poi non parlo di questo, non parlo di noi… Che cazzo la nostra canzone quest’anno si chiama “Me ne frego” e io cosa sto a fare? Lascio vincere i bigotti e gli omofobi che dico di voler sconfiggere!» mentre si agita sempre di più Lauro inizia a passeggiare da un punto all’altro della stanza, agitando le braccia.
«Lauro… Non è così semplice e tu lo sai… Sì è vero che dovremmo essere tutti aperti e che fai bene a predicare questo concetto, ma tutti quelli come me e te sanno benissimo che non è così semplice nella vita reale. Anche se non vivi in un ambiente ostile puoi comunque sentirti isolato una volta che “esci allo scoperto” … E nel mondo della musica spesso è anche peggio… Nessuno ti biasima e soprattutto io non ti biasimo.» cerca di confortarlo il chitarrista, ma senza ottenere grandi effetti.
Lauro si blocca in mezzo alla stanza e guarda Boss dritto negli occhi «Edo, non nascondiamoci dietro ad un dito. Io non ho detto niente fino ad ora ed ho forzato anche te in questo, non per qualche istinto di conservazione, ma perché ho paura. Ho paura e continuo a ripetere a tutti di non averne. Questa è la definizione da manuale di ipocrisia. Ho pensato che se avessi tenuto questa parte di me e quello che c’è tra noi solo per le performance sarei stato “più giusto”. Questa è la cazzo di verità, sono un cazzo di ipocrita e non voglio più esserlo. Santo Dio, guarda la gente che si è esibita a questo festival! Mika, Tiziano, la Nannini… Tutti artisti, come noi, che sono apertamente gay! La tua domanda è se sono sicuro di voler “uscire allo scoperto”? Ecco la mia risposta: Sì, sì, lo sono, cazzo è davvero l’ora.» Lauro ha gli occhi lucidi ed il labbro gli trama leggermente. Boss lo abbraccia subito più forte che può e gli stampa decine di baci in faccia «Perfetto! Ti amo! Ti amo! Dio, quanto ti amo!» esclama mentre continua a ricoprire Lauro di baci.
La loro giornata scorre tranquillamente, tra i preparativi e le prove per la finale ed insieme perfezionano la loro grande esibizione. Deve essere perfetta, devono fare in modo che nessuno se la possa dimenticare. Nel backstage, nei loro maestosi costumi, prima di essere chiamati sul palco Lauro sorride a Boss più radioso che mai «Siamo proprio fantastici stasera. Saremo fantastici.» commenta il cantante «Fiero di essere al vostro fianco, Vostra Altezza.» scherza Boss prima di avviarsi per entrare sul palco.
È davvero l’esibizione perfetta. Non c’è un singolo momento in cui Lauro si trattenga dallo stare addosso a Edo. È così evidente che non può esserci nessuno che non se ne sia accorto. Il modo in cui gravitano l’uno intorno all’altro, in cui si appoggiano per ogni passo e si stuzzicano per tutta la performance. Ma Lauro vuole chiudere davvero in bellezza, vuole fare qualcosa che gridi “Quest’uomo è mio.” e si appoggia alla sua schiena allungando una mano per stringergli il collo. Boss riesce per miracolo a mantenere la concentrazione sulla performance. Quando si ritrovano faccia a faccia sanno tutti e due che è il momento, ma boss vuole lasciare che sia Lauro a controllare tutto, vuole che sia lui a fare quel passo, quella decisione, perché tra loro è quello che ne ha più bisogno. Lauro stringe la faccia del suo chitarrista e lo bacia nel bel mezzo del palco. È il suo modo di dichiarare non solo al mondo, ma soprattutto a lui, ad Edo, che non ha più dubbi.
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i-love-things-a-lot · 4 years
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Una vita di attesa- seconda parte: La lettera
Eccola qua, finalmente è riuscita ad emettere il suo primo vagito! Lunga 6000 e passa parole, questa fic è l’hurt/comfort fatto a scritto, con lettere di confessione, il Festival di Sanremo come sfondo e tante, tante lacrime da parte dei due protagonisti. Amadello fluff!
QUI LA PRIMA PARTE
ATTENZIONE: menzione della famiglia di Fiorello, ovviamente nei rispetti delle persone reali. Questo è un lavoro totalmente parodico.
L’applauso scemò d’intensità fino ad esaurirsi del tutto.
“È momento di chiamare sul palco un grande amico. Una persona su cui si può sempre contare, su cui ho sempre potuto contare. Pensate, questa è un’amicizia che va avanti da 35 anni.”
Amadeus deglutì piano davanti alle telecamere e al vasto pubblico presente alla seconda serata del Festival di Sanremo. Il corpo era sì meno vigoroso di quello di un tempo, eppure lo spirito era lo stesso di quel giovane di nome Amedeo che tempo prima decise di andare a fare il deejay a Milano.
“Probabilmente sapete già il nome della persona che sto per annunciare, visto che è stata già abbondantemente presente in questo palco sia in questa serata, che in quella scorsa, e così sarà nelle prossime”.
Rosario era dietro le quinte che aspettava. Gli anni gli avevano donato, oltre al grigio nei capelli, una consapevolezza maggiore dell’importanza della vita, sentimento che l’aveva trovato assai differente rispetto alle abitudini giovanili. Stringeva tra le mani il leggìo così forte che le nocche erano pallide come fantasmi.
“Al festival di Sanremo, signore e signori, ecco a voi,” prese un piccolo respiro,
“Rosario Fiorello!”
Di nuovo si alzò l’applauso. Fiorello entrò in scena con un sorriso nervoso e un breve saluto del cenno di una mano, mentre Amadeus subito si spostò dalla scena per andare nell’angolo designato per il conduttore.
Certo trovava strano il non voler dire a nessuno l’argomento che sarebbe andato a trattare, ma dopotutto era pur sempre il suo migliore amico e si fidava ciecamente delle sue capacità. Lo conosceva da troppo tempo per non potergli lasciare il palco a sua disposizione.
Fiorello posò il leggio e finse di sistemare un po’ i fogli posti sopra. Era nervoso. Se non fosse stato per Susanna (sua moglie, santa donna) e le lunghe chiacchierate con cui lei l’aveva convinto infine a fare quel discorso, non avrebbe mai più ripreso quell’argomento che lo corrodeva dentro come ossigeno a contatto con ferro.
Il pubblico si fece silenzioso, le luci cambiarono, e il comico fece un respiro profondo. Era difficile iniziare con le mani che tremavano in quel modo.
“A tutti è capitato di sentirsi innamorati. Chi da piccolo non ha mai provato affetto per il proprio giocattolo preferito? Chi non ha mai apprezzato una giornata di sole così tanto da provare un sentimento d’amore per il cielo? Ci sono così tanti tipi d’amore che è impossibile elencarli tutti. La tipologia più conosciuta, ovviamente, è quella dell’amore tra amanti, amici o familiari.”
Spostò la manica sinistra in maniera impercettibile. Sotto, nascosto ancora alle telecamere, c’era un braccialetto intrecciato con tre colori: blu, viola e rosa. Fiorello aveva sessant’anni e stava per fare uno degli azzardi più grandi della sua vita.
“Amore tra familiari, quell’affetto che ci lega alle persone che fanno parte del nostro nido, di ciò che associamo con sicurezza.”
La parte successiva del discorso dava una definizione di amore romantico e amicizia. Decise di saltarla a pié pari: non suonava bene come quando l’aveva scritta. Improvvisare non era un problema per lui, avrebbe aggirato l’ostacolo con una piccola digressione, come suo solito, come se quel discorso fosse uguale ai tanti altri che in passato aveva mandato a memoria.
“Non che ci sia sicurezza nei momenti in cui tua madre ti insegue con la ciabatta in mano da bambino, o quando i tuoi fratelli ti tirano giù un secchio pieno d’acqua tanto per fare uno scherzo.” Il pubblico rise e Fiorello si rincuorò un poco. La risata era il suo terreno naturale, quello in cui si sentiva più a proprio agio. Non c’era alcun sentimento spinoso nella risata.
“Ma, seppur dimostrato in quel modo, c’è sempre amore. Allo stesso modo c’è amore nel litigio preoccupato di due persone sposate e c’è ancora amore in tutti quei momenti in cui tu e il tuo migliore amico condividete un abbraccio. Fin qui tutti sono d’accordo, no? E tante grazie, sono cose normali. Oppure no?”
Il silenzio del pubblico rapito fu immortalato dalla sua pausa.
“Alcune persone non riescono ad amare la propria famiglia. Ci possono essere tanti motivi dietro, certo, eppure proprio gli viene impossibile. A volte i litigi tra innamorati non si risolvono perché non sono causati dall’amore, ma dalla sua mancanza. Esistono persone al mondo che non si innamorano perché sono fatti così, o stanno bene con loro stessi e basta, e va benissimo così. Ma cosa accade quando invece si vuole amare più di quanto si viene concesso? Vorrei raccontare una storia,” girò lentamente il foglio,
“Una storia accaduta quando ancora andava di moda la musica dance, mica il trap o come si chiama. Tempi giurassici, direte voi giovani.”
Prese una piccola pausa e con la coda dell’occhio guardò verso il conduttore, che lo ascoltava con l’espressione più calma e interessata del mondo. Non sospettava proprio nulla, eh?
“A quei tempi non esisteva alcun Youtube per ascoltare le proprie canzoni preferite. Ci si affidava alla radio. E proprio una piccola radio è primo personaggio della nostra storia.”
Qualcosa di vago riaffiorò tra i ricordi di Amadeus. C’era una radio, si, nella stanza d’albergo di Fiore a Ibiza. Una radiolina portatile poggiata su un mobile e che mandava solo musica dance.
“Quella sera ero con un caro amico passato nella mia camera d’albergo, sapete, per stare un po’ in compagnia e chiacchierare del più e del meno, come succede quando due amici vanno in una città straniera insieme e sono troppo stanchi per andare in giro. La radio era accesa. La notte meravigliosa, ma quella città era meravigliosa, quindi non c’era alcun dubbio. Lo è anche ora, per carità! La lascio anonima perché vorrei preservare l’identità del mio amico, sono passati tanti anni dopotutto, molte cose sono cambiate. Dunque eravamo in albergo ad ascoltare musica dance e ballare in camera da soli come due (direttore Coletta, mi da l’autorizzazione per usare questa parola?), come due cretini, ecco, perché tali sembravamo, non c’è mezzo termine che tenga.”
Ormai Amadeus aveva pochi dubbi sulla natura dell’episodio a cui Fiorello faceva riferimento, ma preferiva ancora tenersi sulle spine, giocare sulla curiosità e sul disperato bisogno che si sbagliasse e che Fiorello si riferisse a tutt’altro accaduto con altre persone, perché al solo pensiero di sentire qualcosa su quella notte poteva avvertire il sangue defluire da ogni sua estremità.
“Ora, per questo amico ho sempre provato un affetto particolare. Nei miei ricordi la sua risata risuona più forte di quella altrui, la sua presenza rischiara le mie giornate. E voi direte: è normale, per un caro amico! E avete ragione. Per quello non mi accorsi che in realtà provavo troppo amore perché potesse essere una semplice amicizia.” Avvertì la confusione del pubblico. Le persone di una certa età cominciavano a capire dove voleva andare a parare e non ne sembravano affatto felici; le persone più giovani ascoltavano con genuina sorpresa. Nel suo posticino da conduttore Amadeus, che si era fatto pallido come un cencio e aveva messo su un’espressione di puro terrore, poteva avvertire ogni singolo battito del suo cuore, lento e imbevuto di una quantità di speranza che non avrebbe mai immaginato di provare. La memoria soppressa tornava prepotente nella tua testa, si insinuava tra i suoi pensieri e prendeva il controllo di tutti i suoi sentimenti. Non era stato facile fingere che non fosse accaduto nulla, ma in qualche modo c’erano riusciti per più di trent’anni, e così pensava sarebbe sempre andata avanti finché lui e Fiorello fossero rimasti amici.
Aveva smesso di provarci quando Fiorello gli aveva presentato Susanna. Donna meravigliosa, splendida, perfetta per lui: non aveva potuto fare altro che approvare l’unione e tirarsi definitivamente da parte. Non che avesse mai fatto una mossa esplicita, dopo quella notte a Ibiza. Troppe sentimenti da esprimere, troppe poche parole. Troppe possibilità di rovinare il rapporto con il suo amico, già per miracolo rimasto intatto dopo il fattaccio, e sopratutto troppe scuse e troppa codardia.
“Quella notte lui mi baciò.”
Fiorello dovette trattenersi dal lanciare uno sguardo ad Amadeus, che era visibilmente sussultato. Per fortuna le luci del palco erano tutte puntate su di lui, perché altrimenti tutto il mondo si sarebbe accorto di chi fosse il vero destinatario di quel discorso.
“Lui mi baciò e io, in tutta risposta, scappai via. Ve ne rendete conto? Sono scappato via da una persona che amavo, e non come un semplice amico, ma come qualcosa in più, qualcosa di cui io stesso avevo paura.”
“Fin da piccolo mi era stato detto che era naturale provare amore romantico pe una donna. Nessuno mi aveva mai avvisato che sarebbe potuto accadere anche con un uomo, anzi: l’amore romantico per il sesso maschile era proibito come il peggiore dei peccati, qualcosa di meschino e orribile. Come può l’amore essere considerato orribile? Le sue labbra non avevano nulla di diverso da quelle di donna che spesso ho avuto sopra le mie. Ho finto che quel bacio non fosse mai accaduto per più anni di quanto mi piacerebbe ammettere.”
Sorrise un po’ quando alla mente ritornò il momento in cui sua figlia gli aveva donato il bracciale, sotto consiglio di Susanna. Sorrise un po’ di più al ricordo dei discorsi fatti tra le lacrime sul ciglio del letto, dove Susanna lo abbracciava forte sussurrandogli parole d’amore e di comprensione. Tirò su la manica sino a mostrare il polso su cui stava il bracciale, ma ancora non lo sventolò esplicitamente davanti alle telecamere.
“Mi sono sposato con una donna, la donna che ho amato e amo ancora con tutto me stesso, e per cui l’amore non diminuisce seppure quello per il mio amico sia sempre stato lì, fermo e costante, ad aspettare qualcosa che non è mai stato destinato ad arrivare. È stata lei a consigliarmi di scrivere questa lettera, perché finalmente potessi conciliarmi con quel giovane Rosario spaventato che ancora giace in fondo al mio cuore. Pensate, mi ha addirittura promesso che, nel caso in cui questo amico sia d’accordo a provare, sarebbe disposta ad aprire il matrimonio! Mi ha spiegato che al mondo non esistono solo persone che amano uomini e persone che amano donne, ma anche persone che amano entrambi, e addirittura alcuni che amano tutti, senza distinzione, allo stesso modo in cui alcuni non amano nessuno. Ma sopratutto mi ha spiegato come non ci sia alcuna vergogna nell’amare il proprio migliore amico, perché l’amore amichevole si può trasformare velocemente in amore romantico, che questo sia rivolto verso una persona del tuo sesso o del sesso opposto. L’unico problema, in quel caso, è se l’amore non è corrisposto, ma questa è un’altra storia. Non fate il mio stesso errore, giovani e meno giovani: se amate una persona, non trattenetevi solo perché qualche arcaico vi ha detto che non va bene, ma chiedete, cercate una conferma. Siate come il mio amico, che nonostante fosse cresciuto con le mie stesse voci sull’argomento ha deciso di provarci, di esprimere l’affetto che provava per me. Lui si che è stato coraggioso. Vorrei fargli un appello se permettete.”
Spostò il leggio da davanti e fissò direttamente la telecamera, come si riferisse a qualcuno in ascolto e non all’uomo che in quel momento stava nell’angolo del conduttore con gli occhi lucidi e le orecchie fosforescenti. Alzò discretamente il polso sinistro e mostrò i vividi colori del bracciale al mondo intero, per la gran gioia di tutti i giornalisti che immaginava ci avrebbero marciato per mesi. Squillino le trombe e tuonino i tamburi: Rosario Tindaro Fiorello ora è bisessuale dichiarato.
“Caro amico mio, se ancora ti andrebbe sarei molto felice, seppur dopo trent’anni, di ricambiare finalmente il tuo bacio.”
L’applauso fu scrosciante. Tutti si alzarono in piedi mentre Fiorello si inchinava e ringraziava il pubblico. Amadeus ci mise qualche secondo in più del dovuto ad entrare in scena al suo fianco, rosso come un pomodoro, con gli occhi gonfi, la camminata veloce e contratta di chi vorrebbe un abbraccio e il sorriso più combattuto che potesse mettere su. L’abbraccio lo diede a Fiorello, forte, profondo, ma non osò di più. Si sarebbe potuto giocare la carriera se solo si fosse dichiarato, vista l’età media e gli ideali degli spettatori che di solito guardavano le sue trasmissioni.
“Discorso meraviglioso, Ciuri, come al solito”, gracchiò cercando di far scambiare dal pubblico il suo pianto di speranza con uno di commozione,
“Importantissimo per le persone di ogni età.”
“Ne avevo bisogno”, mormorò Fiorello un po’ teso prima di sciogliere l’abbraccio e esalare un sospiro dal naso, rassegnato a non aver ricevuto l’esata reazione che avrebbe voluto da Amadeus. Tuttavia poteva capire. Erano passati troppi anni. Il suo appello sarebbe rimasto inascoltato.
“Credo…credo sia arrivato il momento di continuare. Grazie ancora per le tue parole, Fiore. Ora direi di continuare con il prossimo cantante in gara. Ma prima, un consiglio per voi.”
Il viso rosso e gonfio di Amadeus fissò la telecamera per qualche secondo prima di essere sostituito dalla sigla pubblicitaria.
SCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIV
Non ci fu molto tempo per parlare dopo il discorso. Fiorello lo capiva, dopotutto non erano alla festa di paese che finisce a mezzanotte perché quella è l’ora massima in cui i nonni vanno a dormire: erano a Sanremo. Le dirette finivano alle quattro del mattino, tutte con record d’ascolti che non si vedevano da vent’anni, i cantanti festeggiavano e le interviste non finivano più.
Lui stesso fu letteralmente assalito al Dopofestival, dove il braccialetto e la sua nuova identità venivano gridate a tutto il mondo, giudicate, criticate (com’era normale, continuava a dirsi per non urlare di frustrazione) e glorificate.
Spiegare agli amici era la cosa peggiore. C’era chi intuiva, chi sapeva vagamente e chi tirava a indovinare.
Non poteva continuare così, pensava distribuendo strette di mano e falsa sicurezza, eppure doveva.
Il braccialetto spiccava così brillante sul suo polso.
Amadeus non aveva accolto il suo appello.
Troppo tempo, troppa acqua sotto i ponti.
Non sapeva molto della vita romantica di Amadeus. Qualche relazione l’aveva avuta, ricordava, ma tutte molto vaghe, senza troppi dettagli. Il suo amico non era mai stato una persona molto loquace sull’argomento romantico. Non che Fiorello se lo aspettasse. Era stato lui ad iniziare il bacio, dopotutto; doveva avergli dato un bel colpo rifiutandolo così, all’epoca.
Il senso di colpa lo colpì al basso ventre come il più forte dei pugni.
No, non adesso, pensò.
Non qui.
Anche quella sera Amadeus sarebbe andato a letto mentre i primi cittadini si svegliavano per andare a lavoro. Pur di perdere tempo si era messo a ricontrollare tutta la scaletta del giorno dopo a menadito, si era fermato per interviste e intrattenuto a parlare con ospiti per quanto più tempo possibile, ma ormai era ora di chiudere. Per quanto non gli facesse piacere, era arrivato il momento di restare solo coi suoi pensieri.  
Finalmente chiuse la porta del suo camerino e pensò di togliersi la giacca.
Non riuscì a muoversi.
Guardò le luci attorno allo specchio, l’appendiabiti di scena con i vari completi, i suoi abiti civili posati su una delle due sedie e le scarpe, le maledette scarpe lo guardavano con una mesta espressione, l’avrebbe giurato.
Di nuovo pensò di togliersi la giacca. Le sue mani non poterono compiere l’opera.
Provò a mandar giù il crescente groppo in gola che minacciava di esplodere, ma non vi riuscì.
Le luci cominciarono a tremolare sotto la pressione di quelle dighe pronte a straripare che un tempo erano i suoi occhi. Doveva fermarsi. Doveva dire qualcosa.
Il primo singhiozzo spianò la strada alle lacrime.
Qualcuno bussò gentilmente alla porta, ma Amadeus non poté né muoversi, né dire una parola.
“Ama, sono Tiziano”, disse una voce familiare,
“Posso parlarti un attimo?”
L’unica risposta fu l’aumento di volume dei suoi singhiozzi. Le lacrime rigavano il suo viso come tante piccole gocce di pioggia, impossibili da fermare come un torrente, inconsolabili perché troppo antiche, troppo trattenute.
“Ama?”
Con uno sforzo immane riuscì a trascinarsi sulla sedia libera, sedersi e coprirsi il viso con le mani.
“Sto entrando.”
Tiziano rimase sconcertato dalla poca luce pesente nella stanza.
Accanto allo specchio, ancora avvolto dalla luccicante giacca di scena, giaceva Amadeus, piegato su sé stesso, il viso nascosto e le spalle scosse dai continui singhiozzi.
Lo stress della giornata? Tiziano ne dubitava altamente. Quello era un pianto disperato, qualcosa frutto di un processo profondo e difficilmente accettato. Come faceva a saperlo? Aveva pianto molte volte lacrime simili, anni prima. Fu per puro caso che gli tornarono in mente le parole che Fiorello aveva espresso quella sera, e sempre per puro caso le collegò allo stato d’animo di Amadeus.
“Oh, Ama”, disse correndo ad abbracciarlo,
“Mi dispiace, mi dispiace così tanto.”
Il conduttore si attaccò a lui come fosse l’ultimo appiglio prima del vuoto. Non si vergognò di bagnare i vestiti di Tiziano, né si accorse che, al contrario di lui, il cantante si era già cambiato. Il buio vorticoso dei suoi pensieri era inarrestabile.
Era stato difficile accettare i sentimenti per Fiore, ancor di più nasconderli. Fu un sollievo scoprire che il loro rapporto non era stato cambiato dal suo gesto scellerato, né la loro vicinanza fisica, che era rimasta costante negli anni come il loro rapporto di amicizia. Ciò che l’aveva tenuto a galla nonostante tutto era proprio la consapevolezza di non aver rovinato nulla.
Con il passare degli anni, poi, si era convinto in maniera quasi totale del fatto che ormai quell’episodio fosse stato dimenticato, o almeno quell’ultimo dettaglio, proprio quel bacio che invece ora, nel palco di Sanremo, Fiore aveva deciso di riesumare.
Non aveva fatto nomi, per carità, e di questo gli era infinitamente grato, ma il modo in cui si era aperto al mondo, mostrando quel braccialetto che pur voleva dire qualcosa, anche se non sapeva esattamente cosa, l’aveva toccato nel profondo.
Non solo Fiorello si ricordava, ma addirittura se ne assumeva la responsabilità.
Tanti anni passati a nascondere quel sentimento l’avevano profondamente cambiato.
Aveva provato ad avere qualche relazione, sia con donne che con uomini (seppur tenendo queste ultime segrete), ma nulla era durato abbastanza, nessun sentimento era stato duraturo e fedele come quello che provava per il suo Ciuri.
Se solo si fossero chiariti prima, oh, se solo…
Gli ultimi singhiozzi si spensero sulla camicia ormai umida di Tiziano.
“Ci sono voluti trent’anni”, disse Amadeus con la voce ancora tremolante, tirando su col naso,
“Trent’anni e non è mai cambiato nulla. Io-” trattenne il fiato, esitò un attimo, esalò un respiro tremante,
“Lo amo come facevo quel giorno. L’ho sempre amato.”
Si asciugò gli occhi con la manica del completo. Al diavolo, che si rovinasse pure. Era una di quelle cose che si indossano una sola volta nella vita, come gli abiti da sposa.
“Pensavo che lui non se ne fosse mai accorto.”
“Sarebbe stato difficile. Insomma, con un bacio è evidente che ci sia sentimento. Avrei capito un altro contesto, chessò, se ci fosse stato qualcosa di esclusivamente fisico-” qui Amadeus avvampò, “e basta, ma con un bacio…un bacio dice tutto. Lui se n’è accorto, Ama, e ha dettoche se n’è accorto subito. Solo non aveva la forza di fare quel passo in più.”
“Non mi sembra così difficile aprire le labbra”, sentenziò Amadeus guardando un punto imprecisato alla sua sinistra.
“In alcuni contesti lo è. Non è facile accettarsi per quello che si è o si prova, sopratutto in questi casi. Non mi sembra che tu abbia mai accettato l’attrazione per, come dire, il genere maschile. Oppure era soltanto per lui?”
Amadeus esitò a lungo. Così a lungo che Tiziano capì di essere di troppo, dunque si rialzò e gli diede un’affettuosa pacca sulla spalla.
“Fatti dare un consiglio da amico, Ama. Parlane con lui.”
“Fosse facile.”
“Nessuno ha detto che è facile. È necessario. Ora devo andare, ho Vic che mi aspetta in videochiamata. Ricordati: devi parlarne con lui.”
Amadeus annuì abbastanza da tranquillizzare Tiziano e farlo avvicinare alla porta dopo un’altra amichevole stretta alla spalla.
“Mi raccomando, eh! Vi tengo d’occhio.”
Amadeus sorrise con gli angoli della bocca e lo guardò con immensa gratitudine.
“Grazie. Ne avevo bisogno.”
Tiziano annuì una volta e agitò la mano con noncuranza.
“Non metterti problemi! l’ho fatto con il cuore. Mi raccomando, Ama. Non puoi più tenerlo dentro ora.”
La porta si richiuse con un piccolo tonfo e Amadeus fu nuovamente solo, seppur di umore molto più sollevato rispetto a prima.
Il giorno dopo Fiorello non ci sarebbe stato: era il suo giorno libero, quindi nessuna battuta, nessuna presenza sul palco, e soprattutto nessuna occasione per parlare direttamente, anche se Amadeus non si sarebbe sentito in grado nel modo più assoluto di affrontare il discorso a voce.
Gli venne un idea.
Con improvviso entusiasmo cercò un foglio di carta, non trovò nulla e quindi si procurò una vecchia stampa di una scaletta della prova, prese una penna dal portapenne sulla piccola scrivania e cominciò a scrivere nella maniera più sincera e leggibile che potesse.
SCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIV
La puntata stava proseguendo abbastanza bene. La scaletta andava secondo i piani, gli ospiti erano interessati e cordiali: non c’era niente che potesse andar male dopo un’ora e mezza di diretta filata liscia come acqua di fiume. Mai dire mai, certo, ma si poteva pur sempre sperare!
Dopo lo sfogo della notte prima Amadus si sentiva leggero come un fuscello. Stanco per le continue notti in bianco, certo, ma infinitamente più tranquillo e fiducioso.
Salutò l’esibizione di Roberto Benigni col sorriso e preannunciò la presenza dei Pinguini appena prima di andare in pubblicità. Stava davvero andando bene!
Si avvicinò dietro le quinte per sentire e vedere un po’ cosa accadeva.
“Ah, Ama!”
Qualcuno lo afferrò per il braccio e lo costrinse a girarsi. Era nientedimeno che Antonio, uno dei tecnici del dietro le quinte, copione alla mano e sguardo d’intesa.
“Fiore ha detto di dirti che dopo entra due secondi.”
Amadeus sbiancò e cominciò a sudare freddo.
“Ma Fiore oggi non c’è, è il suo giorno libero!” esclamò cercando di trattenere la sensazione di terrore puro che gli aveva afferrato i visceri.
“Ha detto che è una sorpresa, una cosa speciale, ha detto che doveva salire per forza sul palco…!”
“Va bene, va bene. Chiamo Zanotti e gli dico di entrare più tardi.”
“Non preoccuparti Ama, ha già fatto lui.” “Ah.” Fece una pausa. “Perchè nessuno mi ha avvisato?”
Antonio fece spallucce.
“Era una sorpresa.”
Amadeus ricacciò indietro un’esclamazione poco gentile verso il mondo e annuì. La serata perfetta non esisteva, dopotutto.
Cosa voleva fare Fiore sul palco? Amadeus ne aveva una vaga, tremenda, spaventosa idea. No, non poteva essere. Non poteva farlo davvero. Non era abbastanza crudele, dopotutto.
La pubblicità, seppur infinita, finì troppo presto, e il conduttore tornò sul palco fingendo di non sembrare estremamente malato, con i sudori freddi e la pelle pallida e tirata. Avrebbe dovuto annunciarlo? “Ed eccoci tornati al Festival di Sanremo, carissimi telespettatori.”
Lanciò uno sguardo nervoso alle quinte: non c’era nessuno.
“Prima di presentarvi l’esibizione dei Pinguini Tattici Nucleari devo rivelarvi una visita a sorpresa-”
Improvvisamente il pubblico cominciò ad applaudire e urlare. Il cuore di Amadeus sprofondò.
“Così, senza presentazione”, ridacchiò nervosamente osservando l’amico.
Fiorello era uno spirito inquieto. Aveva i capelli completamente stravolti, così come il suo viso, dove due profonde occhiaie davano mostra di sé sotto due occhi di brace. Indossava uno dei completi che aveva usato la prima sera e aveva portato con sé un leggìo e dei fogli pasticciati che Amadeus non faticò a riconoscere come quelli della sua lettera. Le gambe cominciarono a tremargli come gelatine.
“A-allora Fiore, a cosa dobbiamo la tua visita odierna a-al palco di Sanremo? Vi giuro che non è preparata, si è presentato così, dal nulla! Ci volevi fare una sorpresa?”
Fiorello gli rivolse gli occhi spiritati per un eterno secondo prima di allargare lentamente la bocca in un sorriso che non si propagò allo sguardo.
“So che oggi non sarei dovuto presentarmi,” disse prima di volgersi verso il pubblico,
“Ma ieri sera ho dimenticato gli occhiali in camerino.”
Falso. Falsissimo. Solo lui lo sapeva però, dunque decise di ignorare l’aspressione incredula di Amadeus e andare avanti.
“Quindi ho deciso di fare un salto, e visto che c’ero, perché no? Ho pensato sarebbe stato carino portare un saluto a tutti voi.”
Nessun applauso accompagnò le sue parole, fredde come il ghiaccio, quasi ironiche. Oh, al diavolo.
“Sono entrato nel mio camerino stasera e gli occhiali erano dove li avevo lasciati, sopra la scrivania. Ma non era l’unica cosa di interessante che c’era, no. Ho trovato una lettera.”
Fremette e trattenne a malapena il tremore della voce, che lo costrinse a fermarsi e prendere un respiro profondo. Non osava girarsi, non osava sapere cosa stava facendo Amadeus. La sua presenza era abbastanza.
“Ricordate il mio discorso di ieri sera?”
Che domande! Dopo il numero infinito di articoli, interviste e dibattiti televisivi, era più che certo ricordassero molto bene le sue parole; infatti il pubblico rispose immediatamente con un sonoro coro di “Si”, a cui lui rispose con un breve cenno della testa.
“Bene, bene. A…l’amico di cui parlavo ieri ha lasciato la sua risposta nella scrivania del mio camerino.”
Scattò subito l’applauso, tra cui ci fu persino qualche urlo di incoraggiamento, e Fiorello in qualche modo si sentì rafforzato da quel calore inaspettato che si aggiunse a quello che già provava per via della lettera. Non vedeva l’ora di baciarlo.
Diamine, non riusciva quasi a star fermo; allo stesso tempo però aveva bisogno che anche lui facesse lo stesso passo. Voleva che Amadeus ammettesse al mondo il suo sentimento. Il bacio sarebbe venuto dopo, si, bastavano due parole, anzi, un solo cenno, qualunque gesto, e lui si sarebbe fiondato su quelle labbra che aveva desiderato invano per più di trent’anni.
“Non potevo aspettare a domani per leggerla. Ho chiesto il permesso ai Pinguini prima, non preoccupatevi. La loro cover spacca. Vorrei leggere con voi, pubblico di Sanremo, il contenuto di questa lettera, come morale secondaria del discorso di ieri, per far capire che tutti hanno una seconda possibilità, non è mai davvero troppo tardi, e il coraggio ripaga sempre, sempre.”
Ricacciò indietro le lacrime che minacciavano di fargli diventare gli occhi lucidi e ignorò ancora la presenza di Amadeus di fianco a lui.
“Pianoforte, una melodia dolce.”
Il pianista cominciò con Marriage d’Amour.
“No, no. Meno minori, più sentimento”
La musica si fermò e il piano si mise ad intonare Love Dream di Liszt.
“Perfetto.”
Aspettò qualche secondo che la musica si assestasse e luci si abbassassero, e solo allora notò la figura di Amadeus che si allontanava da lui.
“No Ama, per cortesia, resta qui accanto a me.”
Si fermò di colpo.
“Ho bisogno di te in questo momento.”
Un breve applauso iniziò mentre Amadeus si avvicinava, spaventato abbastanza da non avere idea di che cosa fare, anche se il suo lato razionale riusciva in qualche modo a sussurrargli che scappare non era la cosa più intelligente da fare se non voleva far sospettare al mondo la sua identità.
Tornò dunque indietro e si mise al fianco del suo amico.
Quando gli chiese in silenzio la mano non rifiutò; Fiorello la portò al petto per un secondo, poi la rimise giù, stringendola forte. Cominciò a leggere.
“Ciao Rosario. Non sono bravo a scrivere e tantomeno coi sentimenti, ma questo lo sai già bene. Ci conosciamo da troppo tempo perché tu non lo sappia. Ho sottovalutato il tuo conoscere le cose ultimamente, sai? Ammetto che non pensavo ricordassi ancora di quell’avvenimento così lontano negli anni da essere sfocato persino per me. Per tutto questo tempo mi sono costretto a nascondere i sentimenti maledetti nel profondo del mio animo. Le ho provate tutte, tutte hanno fallito miseramente, e infine mi sono assuefatto a una vita fatta di rammarico e nostalgia per un tempo in cui quell’oppressione al petto non esisteva perché ancora non ero consapevole della sua esistenza. Ho passato molte notti a pensare a quel bacio, altrettante a reprimerlo nei miei pensieri più profondi. Sentire che ora, dopo tanto, troppo tempo passato a nascondermi da te, tu non solo hai sempre ricambiato, ma hai subito le mie stesse pene, è una sensazione tremenda. Non posso negarti di aver pianto di sollievo e rabbia dietro le telecamere. Q-Quel…”
Fiorello si fermò, improvvisamente travolto dal tremore presente nella sua voce. Non voleva farsi vedere in quello stato su uno dei palchi più importanti d’Italia. Non era il momento.
“Potresti continuare tu? Ti supplico, non posso più leggere.” disse rivolgendo finalmente lo sguardo all’amico.
Amadeus aveva le orecchie di un rosso brillante, così come il viso, che sentiva pulsare ad ogni battito. Le mani gli tremavano e non era sicuro di avere ancora in dono l’uso della parola.
“Certo”, rispose incerto con una bocca che non sentiva sua. Si affacciò di più sul leggìo e cominciò a leggere con voce carica di emozione.
“Quel b…bacio antico mi continua a ritornare in memoria, e con esso il calore delle tue labbra, chiuse come una cassaforte contro le mie. Sentire il tuo rifiuto nella pelle ha lasciato una cicatrice che ancora stenta a guarire, nonostante anni e anni in cui la nostra amicizia ha portato nuove esperienze, e lotte, e pers…persino Sanremo, persino Sanremo. Tutto diventa inutile davanti a quel ricordo, piega quasi il tempo stesso e quando ti vedo sei ancora lì, giovane e sorridente, con la tua avversione per il coprirti il petto e le tue sigarette, continue quando eri nervoso. Quando siamo cambiati, Ciuri. Eppure, a costo di sembrarti melenso, ciò che non è mai cambiato è il mio sentimento. Si annida ancora nello stesso punto di trent’anni fa, antico ormai anch’esso, ma forte come allora, e viene fuori ogni volta che ti guardo e non vedo l’argento tra i capelli né il passare degli anni nel tuo volto, vedo le tue labbra, calde e morbide come allora, e altrettanto proibite. So bene di che sentimento si tratta, e non è semplice amicizia, ne sono consapevole da quella notte a Ibiza. Io-”
Amadeus si fermò e strinse più forte la mano di Fiorello, che ricambiò la stretta e lo guardò esprimendo una tale forza che, seppure Amadeus non potesse vederlo, poteva sentire il calore dei suoi occhi su di lui. Sospirò profondamente e espirò tremante.
“Io ti amo, Ciuri. Ti amo in modo totale e devastante da una vita intera e non riesco a smettere. Molte volte sono arrivato vicino al punto di dirtelo, frenato all’ultimo solo dalla tremenda paura di perdere anche la tua amicizia, l’unica cosa che rimaneva accessibile nella tua vita. Nessun’altra, nessun altro è mai stato al tuo livello per me. Sapere che Susanna ti ha spinto verso questo sentimento ed è disposta persino ad assecondare una nostra eventuale relazione mi lascia esterrefatto ed estremamente felice, tanto che quasi mi viene voglia di raggiungerti e darti il bacio agognato in questo stesso istante, mentre scrivo. Ma preferisco aspettare. Chi va piano va sano e va lontano, come dice il proverbio, e in fondo ho già aspettato trent’anni, cosa sarà mai un giorno in più? Aspetto con attesa che il bacio venga ricambiato. Con affetto,”
Amadeus fissò l’ultima parola senza poterla dire.
Il suo nome.
Non poteva, non davanti ai giornalisti e ai milioni di telespettatori che l’avrebbero insultato, portato al licenziamento e non avrebbero capito, in nessun caso, le sue motivazioni o il suo essere. Non poteva e basta. Eppure era ancora lì, a leggere e rileggere quella parola, provare a dirla solo per Fiore, il suo Ciuri, il suo- poteva dirlo? Gli pareva strano- amore.
“Con affetto,”
Boccheggiante, guardò davanti a lui. I visi degli ospiti del teatro erano una massa silenziosa e uniforme nel buio creato dalle luci del palco. Tutti stavano aspettando quel nome.
“Con affetto,” disse di nuovo con la voce tendente al panico. Gli occhi cominciarono a diventare lucidi e lui gli abbassò velocemente per non mostrarli alle telecamente. Alzò la mano libera per fingere di sistemare i fogli, ma ci rinunciò nel vedere quanto tremava. Il suo cervello stava macchinando disperatamente una via d’uscita.
Poteva dire un’altro nome.
Poteva dire solo la lettera iniziale- quanti nomi maschili iniziavano per A? Ogni secondo passato era un attimo in più in cui qualcuno poteva sospettare qualcosa.
“Dì il nome, per cortesia,” disse piano Fiorello senza muoversi di un millimetro. Amadeus scosse la testa, poi fece un sospiro leggero e disse, nuovamente:
“Con affetto,”
Lo guardò negli occhi. I suoi, già un po’ umidi, incontrarono quelli neri e disperati di Fiorello, che lo fissavano come due cani, come due poliziotti nell’attimo in cui scoprono che hai della droga con te.
‘Non posso’, avrebbe voluto dire. Le sue labbra rimasero immobili.
“Ama, per favore, dì quel nome.” Non poteva, dannazione. c’erano troppe variabili in gioco. La sua intera carriera sarebbe potuta finir-
Fiorello interruppe i suoi pensieri con il tono più frustrato e disperato che gli avesse mai sentito.
“Non è difficile, dannazione, è il tuo nome, lo saprai dire il tuo nome, no?”
Un silenzio irreale cadde in tutto il teatro.
Lo sguardo di Amadeus divenne immediatamente scuro e con un colpo secco lasciò la mano di Fiorello. Solo dopo qualche secondo il comico realizzò che cosa aveva fatto.
“Oh. Oh, no, no. Mi dispiace. Mi dispiace. Ti prego, perdonami.”
Il conduttore rimase ancora immobile, lo sguardo perso in quell’ ‘Ama’ conclusivo della lettera, parola ora resa priva di significato, inutile cosa svelata al mondo intero. Era finito.
“Ama, non volevo. Non volevo, lo giuro! Non stavo pensando, ho visto la lettera e volevo solo sentirtelo…sentirlo dire…”
Finalmente Fiorello realizzò che erano davanti ad un pubblico. Non un pubblico casuale, ma uno che stava facendo numeri da record in quei giorni, e non durante un piccolo show tappabuchi, ma durante il Festival di Sanremo, dove nell’altra stanza c’era letteralmente una marea di giornalisti seduta a prendere appunti.
“Signore e signori, Fiorello.”
Il tono era completamente piatto, lo sguardo assente mentre Amadeus prendeva di colpo il leggìo e lo spingeva meccanicamente in mano a Fiorello. Gli incaricati diedero al pubblico il segnale di applaudire, e così fecero, mentre le luci si alzavano e i tecnici si preparavano a montare gli strumenti per la prossima canzone.
Fiorello fu costretto a lasciare il palco in silenzio, di fretta, come un cane spaventato.
Amadeus era furioso, ma era anche così disperato da essere calmo. Con l’apatia più profonda annunciò con debolezza che il prossimo gruppo sarebbe stato quello dei Pinguini, naturalmente dopo la pubblicità, e appena questa fu annunciata uscì dalla parte opposta rispetto a quella del suo amico.
Una volta dietro le quinte, Tiziano travolse Fiorello come una furia.
“Ma sei impazzito? Che diavolo ti è andato nel cervello? Ti rendi conto di ciò che hai appena fatto?” gridò appena fu a portata di vista.
Fiorello non aveva parole, né tantomeno gesti con cui potesse esprimersi. Si sentiva completamente svuotato.
“Ti rendi conto che hai fatto una delle cose peggiori che si possa fare ad un essere umano, figurarsi ad un amico, sopratutto dopo che lui ti ha scritto quella lettera e ti ha dichiarato i suoi sentimenti perpetui?”
Fiorello non ebbe nemmeno la forza di anzare lo sguardo. Le lacrime cominciarono a sgorgare, dapprima lentamente, poi sempre più veloci, sino ad arrivare al punto in cui qualcuno lo prese e lo abbracciò profondamente, qualcuno il cui odore era tremendamente familiare.
“Ho paura” sussurrò Amadeus accanto al suo orecchio. Tremava come una foglia.
Era sì furioso, ma in una maniera che poteva essere consolata solo da quella stessa persona che aveva fatto il fattaccio, dunque aveva deciso in maniera disperata di andare a cercare conforto da lui.
“Mi dispiace, perdonami Ama, perdonami”, esclamò Fiorello tra le lacrime.
“Ho tanta paura.”
“La supereremo insieme, va bene? Ti aiuterò io, ma ti prego, ti supplico, perdonami.”
Amadeus esitò per pochi, interminabili secondi.
“Devo tornare sul palco.”
“Perdonami!”
Fiorello sciolse l’abbraccio e strinse forte le spalle di Amadeus cercando nel suo volto una risposta, un segno di perdono. Amadeus non aveva più lo sguardo apatico di prima. Era letteralmente terrorizzato.
“La mia carriera è finita. La mia vita è finita.”
“No. Non è vero. Risolveremo tutto insieme, va bene? Te lo prometto. Te lo giuro su ciò che ho più caro al mondo. Ti amo, Amedeo. Voglio risolvere questa cosa con te.”
Finalmente lo sguardo di Amadeus cominciò a ridare segni di vita.
“Puoi dirlo ancora?”
“Ti amo. Ti amo, ti amo!” urlò Fiorello scoppiando in una risata di sollievo nervoso.
“Ti amo e ti amo ancora. Andà tutto bene, te lo prometto. Andrà tutto bene.”
Gli occhi del conduttore si spostarono sulle labbra di Fiorello e gli angoli delle sue si piegarono vagamente all’insù.
“Allora baciami.”
Non ci fu bisogno di altre parole: Fiorello si attaccò al suo viso come una calamita.
Questa volta le labbra di entrambi erano aperte, sensazione meravigliosa di calore e gioia purissima che scendeva nei cuori malmenati dei due amici e gli ristorava.
La pubblicità era finita? Chi lo sapeva? I pinguini intanto si stavano già esibendo, presentati dalle due co-presentatrici, e la loro canzone risuonava per tutte le quinte, nascondendo al pubblico gli applausi di coloro che si erano fermati nel corridoio a vedere il fatto coi propri occhi.
SCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIVOLASCIV
“Signore e signori, Rosario Fiorello!”
La quarta serata era iniziata benissimo. Certo, forse Amadeus rideva un po’ più forte alle battute di Fiorello, ma per il resto sembrava andare tutto in maniera liscia e perfetta.
“Ah, non lo dici più che solo il tuo grande amico, ve’?”
L’espressione di Amadeus si fece sopresa per un attimo.
“Ma- ieri hai letteralmente fat-”
“Devi annunciarmi bene! Io mi faccio in quattro per te, e tu nemmeno mi annunci con il titolo? Così non va però, eh! In tal caso mi rifiuto anche di assolvere la mia promessa!”
“Ti ann- la tua promessa?”
“Eh certo! La promessa di baciare il mio amico!”
Il pubblico scoppiò a urlare all’enorme sorriso di Fiorello che spuntava dalla cima della scalinata ma non si azzardava a scendere. Amadeus rideva divertito.
“Allora guarda, solo per quello ti annuncio bene!”
Si rivolse di nuovo al pubblico, gli occhi ridenti e brillanti, il viso un po’ arrossato.
“E ora, solo per voi, signore e signori, il mio ragazzo- seppur tanto ragazzo non è più- Rosario Fiorello!”
Fiore scese dalle scale con maestria, un po’ pavoneggiandosi e un po’ sorridendo come suo solito, e quando infine arrivò giù si ritrovò avvolto dalle braccia del conduttore, che gli diedero una stretta veloce prima di girarsi verso il pubblico.
“E a me non lo dici che sono bellissima?”chiese Fiorello ridendo e punzecchiando un sempre più divertito Amadeus.
“Non mi dovevi un bacio?”
“Al mio amico, non al mio ragazzo!”
”Ah, così è facile, non vale! Dovevi dirmelo prima!”
“Vieni qua!”
Fiorello poggiò la mano sulla guancia di Amadeus e la rivolse delicatamente verso di sé, facendo avvicinare i due visi fino al toccarsi delle loro labbra, mentre il pubblico impazziva e faceva da colonna sonora con applausi e grida.
Anche Amadeus indossava un braccialetto quella puntata, tessuto dalla stessa mano ma nascosto e con colori diversi rispetto a quello di Fiore: filo magenta s’intrecciava a filo giallo, che a sua volta si avviluppava a quello celeste, creando quella che gli avevano detto essere la bandiera che i giovani dicevano dovesse rappresentarlo al meglio. Non che gli importasse molto, in quel momento, di essere rappresentato con un bracciale, sopratutto quando quel disgraziato al suo fianco l’aveva già fatto rappresentare abbastanza il giorno prima. Ma non importava.
Il suo Ciuri era lì, sulle sue labbra. Il pubblico aveva reagito bene alla notizia, anzi, benissimo, e gli ascolti erano lievitati ancora.
Erano alla quarta serata, praticamente alla fine del festival. Niente poteva andare storto.
O meglio, solo se i cantanti si fossero rifiutati di esibirsi ci sarebbe potuto essere un problema, ma in fondo, chi si sarebbe mai ritirato dal cantare una canzone a Sanremo?
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beavakarian · 5 years
Text
MORE THAN A TRICKSTER - ATTO XVI [ITA]
Autore: maximeshepard (BeatrixVakarian)
Genere: Mature
Pairing: Loki/Thor
Sommario: questo è il mio personale Ragnarok. Si parte e si finirà alla stessa maniera, alcune scene saranno uguali, altre modificate, altre inedite. Parto subito col precisare che qui troverete un Loki che non ha nulla a che fare con il “rogue/mage” in cui è stato trasformato in Ragnarok, e un Thor che si rifà a ciò che abbiamo visto fino a TDW.
Loki e Thor sono stati da sempre su due vie diverse, ma quando il Ragnarok incomberà inesorabile su Asgard, le cose cambieranno. Molte cose cambieranno.
Capitoli precedenti: Atto I - Atto II - Atto III - Atto IV - Atto V - Atto VI - Atto VII - Atto VIII - Atto IX - Atto X - Atto XI - Atto XII - Atto XIII - Atto XIV - Atto XV
@lasimo74allmyworld @miharu87 @meblokison @piccolaromana @mylittlesunshineblog
GROSSA PREMESSA: sono viva. Scusatemi.
Allora, è successo un po’ di tutto... Tra salute ed Endgame, la mia ispirazione, o meglio, la mia concentrazione sia mentale, che fisica, è andata a farsi benedire. Ho avuto quello che si chiama il “blocco”. Sono caduta nel “buco”, per citare Black Mirror - Bandersnatch. 
Se la terapia che faccio per i miei problemi fisici mi porta molte difficoltà nel concentrarmi, Endgame mi ha dato proprio la botta finale. Ho passato giorni, sia prima, che dopo il film, con il pc sulle ginocchia a fissare il foglio bianco. Alla fine mi sono presa una pausa, perché era inutile continuare. 
Però... La scorsa settimana sono andata a conoscere Simo. E lì... Mi sono sfogata, un po’ di tutto. Mi sono svuotata le tasche... E l’ispirazione è come rifiorita, tanto da farmi finire questo benedetto capitolo incominciato due mesi fa. Mi serviva come l’aria. 
Grazie, Simo. E grazie a tutte voi per il supporto che mi date, non solo per questa fic, ma anche con il mio blog personale e il side degli Odinson. ^^
Prometto che stringerò i denti. Non manca molto alla fine, ma ho bisogno di calma per dare il giusto peso a determinati eventi in conclusione.
Ed ora, buona lettura! 
*COFF*unpo’diThorki*COFF*maleggeroleggero*COFF*comecepiaceanoi*COFF*vipromettocheprimaopoi*COFF*INSOMMACESIAMOCAPITE*COFF.
Sti malanni di stagione...
- ATTO XVI -
Gli era bastato sfiorare le ferite per rimarginarle con estrema semplicità. E aveva anche proposto a Thor di ridargli le sue precedenti sembianze – quei meravigliosi ciuffi lunghi e biondi – ma suo fratello aveva gentilmente stretto la sua mano e l’aveva portata al suo cuore.
“No” aveva semplicemente esalato, quasi in un sussurro, guardandolo con quel suo unico occhio rimasto quasi velato dalle lacrime. Loki stinse le labbra e abbassò lo sguardo, non riuscendo a sostenere quel vortice azzurro di emozioni.
Per quanto avesse cercato di ironizzare, a suo modo, quella situazione, entrambi si sentivano come reduci da una grande e sanguinosa battaglia. Entrambi erano distrutti, sia nel corpo che nello spirito – Thor si sentiva a pezzi, Loki avvertiva un mal di testa martellante, il quale non gli concedeva tregua da più di un’ora, ormai.
“Fammi vedere quello” indicò, in un secondo momento, l’orbita oculare devastata da quella terribile cicatrice. Thor si sporse leggermente – le gambe che penzolavano giù dalla scrivania sulla quale si era seduto per farsi medicare – ritraendosi di scatto non appena Loki poggiò le dita.
“Ti fa così male?” chiese, sorpreso.
“Un po’…”
“Un po’” Loki sottolineò l’ovvio, con un sopracciglio alzato, guadagnando una flebile risata da parte del fratello. “Non morirò per questo” citò le sue stesse parole, al che Loki portò gli occhi al cielo e gli bloccò il viso a livello del mento, esaminando la ferita.
Quando la luce verde si esaurì, Thor passò un braccio attorno alla sua vita, stringendolo a sé e nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. Loki non potè far altro che portare le mani alla base del collo di suo fratello, giocherellando per qualche istante con quelle ciocche corte e avvertendo un sordo dolore in fondo al suo cuore.
“Grazie” bofonchiò Thor nel tessuto ormai stracciato dell’abito di Loki, il quale sorrise, osservandolo dall’alto e si lasciò andare in un lungo sospiro, massaggiando il retro della nuca di Thor delicatamente.
“Andiamo a riposare un po’?”
 Thor si risvegliò con il volto affondato in quei riccioli corvini, scompigliati dagli eventi appena vissuti e dalle quattro, cinque ore di sonno appena passate. Si ricordava chiaramente di essersi addormentato accanto a lui, appoggiando la mano sulla sua, in un caldo e rassicurante contatto.
Non erano ritornati sul discorso, se non per rimandare la questione, amaramente, per questioni di forza maggiore. Avevano semplicemente bisogno di riposarsi, fermarsi per un istante e respirare. Tutto il resto poteva attendere.
In quel breve sonno non aveva sognato, probabilmente però si era mosso diverse volte e si era avvinghiato a suo fratello, inglobandolo in quell’abbraccio sicuro, ricercando nel calore del suo corpo un briciolo di serenità. E da quel gesto, Loki non era fuggito: si era svegliato, sentendo il corpo di Thor riversarsi sul suo – come non accorgersene? Si era voltato leggermente a guardarlo, passandogli il dorso della mano sulla fronte, impercettibilmente e contando i suoi respiri, per capire se fosse sveglio o stesse dormendo.
Si raggomitolò quindi in quell’abbraccio, facendosi letteralmente sommergere. Un lungo sospiro, le dita intrecciate con quelle della mano libera di Thor, che era andata ad appoggiarsi al suo torace – a stringerlo a sé.
 Inspirò profondamente in quei morbidi ciuffi, sentendo Loki muoversi sotto di lui e sfiorare la mano sul suo petto e spingendo un poco il capo indietro, come se stesse cercando più contatto. Poi lo sentì immobile, se non per l’indice della sua mano sinistra che scivolava su e giù sul dorso della sua mano.
“Perché non me l’hai mai detto?”
Quelle parole sussurrate, parvero assordanti alle orecchie di Loki. Aprì gli occhi, lucidi a prescindere, osservando la parete di quella stanza grigia e asettica e poi spostando lo sguardo nello spazio cosmico e nella sua oscurità.
“Perché non mi avresti dato retta” sussurrò in replica alla domanda del fratello. Thor inspirò col naso, scuotendo la testa.
“Dovevi obbligarmi a farlo. A costo di farmi male”.
Loki si voltò piano, rigirandosi nell’abbraccio e puntò quei meravigliosi occhi verdi dritti in quello di Thor – uno sguardo serio e determinato, ma anche disperato.
“E’ proprio per questo che ho taciuto” rispose, appoggiando la fronte al mento del fratello. Si concesse un sospiro lungo e silenzioso, per poi aggiungere “Non volevo che nessun’altro ne fosse coinvolto, tu in particolar modo. Asgard e tutto il resto”.
Sentì la mano di Thor appoggiarsi sul suo capo e sorrise amaramente.
“Non so nemmeno io cosa tentassi di fare per evitare le implicazioni di New York… Mi è sfuggito tutto di mano, come al solito. Volevo solo sparire”. Le sue unghie graffiarono leggermente il suo petto, lasciando flebili segni rossastri. Per quanto affrontare quel discorso fosse difficile, il calore di quell’abbraccio era tale da lenire quell’inquietudine in lui sempre così viva ed inesorabile.
Sentì le labbra di Thor appoggiarsi sulla sua fronte e chiuse gli occhi.
“Non permetterò che ti faccia altro male, Loki” sussurrò, strofinando le labbra leggermente, alla base dell’attaccatura dei capelli. Loki sollevò piano il viso e i loro sguardi si incrociarono: Thor rivide il terrore nei suoi occhi e quell’immagine di suo fratello così vulnerabile, gli spezzò il cuore.
Loki in quel momento aveva abbassato tutte le difese. Non vi erano bugie, non vi erano maschere, non vi erano armature atte a nascondere punti deboli. Lui era lì, in tutta la sua disperazione, con quel viso proteso verso di lui, alla ricerca di un appiglio.
Gli ricordò lo sguardo di quella volta, appeso a Gungnir, sul baratro, mentre Odino teneva salda la caviglia del suo primogenito.
Si trovò a desiderare quelle labbra con tutto sé stesso e quel pensiero lo colpì nel profondo. Si trovò a desiderare di stringere suo fratello così forte, quasi ad inglobarlo dentro di sé e vivere della sua essenza, celarlo all’universo, proteggerlo da qualsiasi cosa, persona, destino.
“Ti ucciderà, Thor…”
La voce di Loki tremò. La mano di Thor salì lungo la sua guancia e il suo pollice si fermò all’angolo della sua bocca, accarezzando le labbra delicatamente, mentre l’azzurro di quell’occhio diventava lucido, ma allo stesso tempo carico di determinazione.
“Non ti fidi delle mie capacità…?” sussurrò Thor in risposta, abbassando lo sguardo su quelle labbra sottili e avvicinandosi lentamente. Loki lo guardò in preda alla confusione e alla disperazione, accorciando però ulteriormente la distanza tra loro due.
“Conosco quel pazzo e so di cosa è capace” replicò, sfiorando la punta del naso contro la guancia del fratello. Il respiro si fece più greve, il battito del suo cuore più incalzante.
“Non deve toccarti. Mai più”.
Le dita di Thor andarono a posarsi salde sulla sua mandibola, alzandogli il mento e portandolo verso di sé e Loki non porse resistenza. Chiuse gli occhi, quasi in apnea.
Nell’esatto istante nel quale le loro labbra si sfiorarono, tre rapidi colpi alla porta chiusa della loro camera li fece trasalire.
Era Brunhilde.
 Loki si guardò allo specchio, passando distrattamente le dita sulla pelle di quell’abito trovato nell’armadio della camera adiacente: non era esattamente di suo gusto, come modello, ma era meglio del vestito stracciato che teneva ormai addosso da troppo tempo. Per lo meno i colori erano accettabili e non avrebbe avuto distrazioni a mantenere un glamour decente con la magia. Essa serviva ad altro, ora come ora.
Si era fatto finalmente una doccia, dopo che Thor l’aveva preceduto per raggiungere gli altri nella sala comando della nave. Si era preso il suo tempo, passando diversi minuti a districare i riccioli neri arruffati, a massaggiarsi la spalla, a lavarsi e rilavarsi più volte, per togliersi di dosso non solo lo sporco di quei giorni, ma anche gli orribili pensieri.
Rimase poi immobile sotto il getto d’acqua tiepida, gli occhi chiusi, la schiena appoggiata alla parete metallica. Una mano risalì lenta verso il suo viso, l’indice sfiorò le labbra e ripensò a ciò che era successo poco prima.
La sua mano tremò, assieme al suo petto: aprì gli occhi, incurante dell’acqua. Il respiro di Thor sulle sue labbra, la sua mano stretta attorno alla sua mandibola, la sua barba a solleticargli il viso.
Erano sensazioni… Si scoprì a desiderare quell’occasione negata, interrotta sul più bello. Si scoprì a desiderarla con tutto sé stesso e ciò, per quanto lo terrorizzasse, non lo sorprese. Affatto.
 Ed ora, davanti a quello specchio, si ritrovava a fissare la sua espressione pensierosa, acconciandosi accuratamente i capelli, cercando di capire il motivo per il quale il suo cuore si sentisse così leggero e così pesante, tutto d’un tratto.
Aveva confessato a Thor tutto quello che era successo. Thor aveva visto attraverso la sua mente ed ora sapeva. Per quanto Loki avesse tentato di risolvere da sé quella situazione, doveva ammettere che confessarlo a suo fratello era stato come togliersi un macigno dal petto.
Sebbene… Sebbene ora Thor fosse diventato un bersaglio quanto lui.
Le ultime parole scambiate tra i due riguardarono la promessa di parlarne a dovere dopo il combattimento contro Hela, dopo che Asgard fosse stata riconquistata, dopo… Sempre che ci fosse stato, un dopo.
Parlare. Quella di Thanos era solamente la questione più urgente, la prima voce di quella lunga lista di cose non dette tra loro due.
Sospirò lungamente, riportando deciso gli occhi sulla sua immagine riflessa: avrebbe dovuto fare una scelta, presto o tardi. E forse infrangere una promessa, aggiunse mentalmente, sorridendo amaramente all’ironia della sorte.
  Quando i suoi occhi si abituarono alla luce intensa, non poté non notare con orrore i piccoli corpicini ai suoi piedi, inermi, in una pozza di sangue. Poco più in là, su quello che appariva come il trono di Asgard, quasi completamente distrutto, fatta eccezione per una parte della seduta, Volstagg giaceva riverso sulla pietra. Lo guardò con la morte negli occhi e nel cuore.
Un fiotto di sangue scivolò dalle sue labbra, quando chiamò le sue bambine e quelle non risposero. I suoi occhi, ormai spenti, si posarono su Thor: vi era rassegnazione, paura e dolore.
E una muta accusa. Non disse nulla, esalando il suo ultimo respiro, ma il suo sguardo si volse in un punto indeterminato alle spalle di Thor, prima che le porte della sala si sgretolassero e Surtur si presentasse con la sua mole e il fuoco di Muspelheim tutto attorno a lui – il magma che, inesorabile, penetrava nelle fondamenta del palazzo. Avvertì quel calore insopportabile bruciargli la pelle. E di nuovo la luce intensa.
 Si svegliò di scatto, avvertendo una mano sul suo petto. La mano di Loki. Thor si mise a sedere – il cuore in gola – mentre suo fratello lo osservava preoccupato e si scusava per averlo fatto trasalire in quella maniera.
Thor scosse la testa, appoggiando la mano sul suo avambraccio.
“Non è colpa tua, stavo sognando” mormorò, per poi passarsi la mano sinistra sul viso e stropicciarsi gli occhi. Fece per tirarsi indietro i capelli, ma quel gesto andò a vuoto, riportando la mente a quella precisa realtà.
Loki strinse le labbra, accomodandosi accanto a lui: la sua mano salì verso il mento di Thor, facendolo voltare verso di lui. Accarezzò la guancia con il pollice, delicatamente.
“Dobbiamo prepararci. Manca solo più un’ora al wormhole e i motori stanno progressivamente accelerando” spiegò Loki, misurando il tono in modo che Thor riprendesse fiato e si calmasse.
Thor scosse lievemente il capo in un gesto d’assenso, abbassando l’occhio, ma la mano di Loki non gli permise di abbassare anche il viso: riprese contatto con il suo sguardo, con un’espressione interrogativa.
“Sono con te” fu la risposta di Loki, trafiggendo il fratello con quegli occhi verdi come smeraldi. L’espressione sul viso di Loki era di determinazione, ma tradiva anche apprensione.
Thor sorrise flebilmente, portando il polso del fratello alle labbra e lasciando un lieve bacio sulla parte interna.
  - Due minuti al contatto - fece eco la voce del pilota automatico.
Thor osservò Loki al suo fianco, il quale annuì brevemente. Il suo occhio si spostò poi in direzione di Brunhilde, atta a sistemare la spada celeste nel fodero appeso alla sua cintura.
“Puoi ancora cambiare idea” commentò, ma la Valchiria fece cenno di tacere. I suoi occhi osservavano l’immensità nero rossastra del portale galattico.
“No” sussurrò, per poi schiarirsi la voce “E’ giusto così. Loki conosce come le sue tasche la zona ove Heimdall ha trovato rifugio. Scenderò io sul Bifrost, con te e Banner”.
Thor portò lo sguardo avanti a sé, sorridendo con orgoglio. Brunhilde avrebbe lottato al suo fianco.
“Una volta entrati nel sistema di Asgard, prenderò il comando manuale della nave e voi vi sgancerete con lo shuttle. Noi saremo esattamente dietro di voi” prese parola Loki, rivolgendosi poi a Rekis.
“Faremo il giro dalla parte opposta al Bifrost, alzando il sistema di occultamento e atterreremo nei pressi della base della montagna. Una volta messi al sicuro gli abitanti, decollerete con la nave e rimarrete in orbita. Io mi unirò a Thor nel più breve tempo possibile” concluse, appoggiando le mani allo schienale della poltrona di comando. Rekis annuì e così fecero gli uomini di Brunhilde.
- Venti secondi. -
Presero i posti a sedere, allacciarono le cinture.
- Dieci secondi. -
Loki si voltò leggermente verso Thor e posò la mano su quella del fratello, seduto accanto a lui. Thor intrecciò le dita con le sue.
- Cinque. -
“Li vendicheremo…” sussurrò Loki.
Thor inspirò bruscamente con il naso, annuendo con convinzione. Strinse la mascella.
- Tre. -
“Non farti ammazzare”.
- Due. -
Thor sogghignò.
“Nemmeno tu”.
- Uno. -
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The Scientist - O La Divorziando!Au Che Avevo Promesso Di Scrivere
Milena, direte voi, cosa ne stai facendo della tua vita? Beh, niente. Guardo serie tv. Solo che ora come ora mi sono messa a vedere Atypical e sfortunatamente per voi due puntate mi sono bastate a desiderare di angstare a tutto spiano, per cui eccovi serviti. Due piccole avvertenze: questa è una au, which means che i nostri piccioncini sono sposati ma non sono cantanti. Fabrizio gestisce un negozio di musica, Ermal invece qui è, a ispirazione del titolo, uno scienziato. E’ rilevante ai fini della storia solo per sapere che le tempistiche del loro esseri conosciuti sono diverse dalla realtà, erano molto più giovani qui, e per sapere che no, Fabrizio non ha dei figli. Enjoy. Il prompt era semplicemente la richiesta di una song fic su The Scientist, io ho unito le due idee. Non c’è di che.
Come up to meet you, tell you I'm sorry You don't know how lovely you are I had to find you, tell you I need you Tell you I set you apart Tell me your secrets and ask me your questions Oh, let's go back to the start
Quando Fabrizio apre gli occhi, la prima cosa che vede è bianco
Un soffitto bianco, delle pareti bianche, delle luci bianche. Dovunque sia, è tutto bianco. 
Gli fa male la testa ed è con fatica che gira appena il capo per guardarsi attorno, cercando di mettere a fuoco la stanza dove si trova. Quando ci riesce, la prima cosa di cui si rende conto è l’uomo seduto accanto a lui, il capo reclinato in avanti e gli occhi chiusi. I ricci scuri gli adombrano il viso su cui figura una leggera peluria sintomo di una barba non fatta da qualche giorno. Nonostante ciò, quello è l’unico segno di incuria che presenta, perché il suo viso, sebbene leggermente corrugato, sembra più riposato del solito. Le occhiaie violacee che sfoggiava tipicamente sono meno profonde, meno gonfie, meno scure, come se avesse effettivamente dormito circa quanto una persona normale. La camicia era perfettamente stirata, spiegazzata solo a causa della posizione innaturale in cui si era appisolato.
Ermal non amava farsi la barba. Gli piaceva avere il viso liscio, ma a volte si scocciava e per qualche giorno mandava a quel paese il rasoio. Probabilmente era in uno di quei giorni.
Osserva le sue dita intrecciate, le mani giunte in grembo. 
Usa muoverle spesso quando è nervoso o stanco o stressato o arrabbiato. Si sfoga così, cercando di scaricare sulle proprie dita o nell'oggetto che sta tormentando la tensione che sente. Ora però sono immobili, rilassate.
E non c’è nessuna fede sul suo anulare.
Qualche mese prima c’era. O meglio, un anno prima c’era. Era incredibile che fosse giù passato un anno da quel momento, da quando seduti al tavolo della cucina dopo una disastrosa cena fuori l’aveva visto rigirarsi quello stesso anello tra quelle stesse dita.
Se lo faceva girare attorno all’anulare, portandolo fino alla nocca quasi nell’atto dello sfilarselo, per poi rimetterselo con un sospiro.
Erano usciti per tentare di andare d’accordo, ancora. Fabrizio l’aveva invitato fuori, nella speranza di fare qualcosa di carino per lui. Aveva prenotato un tavolo al loro ristorante preferito, quello in cui avevano avuto il primo appuntamento serio. Quello dove gli aveva fatto la proposta di matrimonio, esattamente nove anni prima. Dopo sei anni di stare insieme, senza lasciarsi mai, aveva pensato che fosse il momento. Dopotutto, all’epoca Ermal aveva trent'anni e lui trentasei. Non era molto diverso dal lui ventiquattrenne, Ermal. Qualche ruga in più, qualche sorriso in meno. Ma era sempre bello come la prima volta. Lui si che era invecchiato. Dopo i trenta, dopotutto, l’età non era più così clemente. Ma aveva detto sì, Ermal, e si erano sposati in un bel giorno di fine primavera, con l’estate alle porte e il mare che profumava di speranza. 
Era stato un bel matrimonio, il loro, non poteva negarlo. 
Quella sera però, nella penombra di una cucina dove non si erano nemmeno dati la pena di accendere la luce, Fabrizio sentiva che qualcosa stava per rompersi definitivamente. L’aria era pesante, greve, quasi quanto lo sguardo che Ermal rivolgeva a quell’anello che portava al dito come simbolo del loro amore, tormentandolo come se potesse trovarvi una risposta o le parole che voleva dire ma che non aveva ancora pronunciato.
Fabrizio, del canto suo, si era messo a sua volta a giocherellare con la fede che teneva appesa al collo, su una catenina che non si era mai tolto da quel giorno.
La serata era davvero stata un fiasco completo. Non erano nemmeno arrivati al ristorante senza litigare e alla fine avevano lasciato i piatti mezzi pieni lì sul tavolo, sotto lo sguardo allibito dei camerieri e degli altri commensali che avevano seguito la loro lite come se fosse una soap opera horror.
In casa, si erano versati del vino. Avevano già bevuto al ristorante, ma Fabrizio sentiva di aver bisogno di bere ancora per qualsiasi cosa stesse arrivando. Anche Ermal, stranamente, si era bagnato più volte le labbra con il vino prima di scolarsi il bicchiere in due lunghi sorsi, posandolo poi sul tavolo.
Un rumore secco aveva tintinnato per un secondo nella stanza, attraversando l’aria tra di loro. Erano a pochi centimetri di distanza, ma sembravano millemila chilometri.
Ting, aveva fatto il bicchiere.
“Dobbiamo divorziare” aveva fatto Ermal
E tutto il suo mondo gli era crollato addosso in un istante.
Si riscuote da quei pensieri quando Ermal si stiracchia appena sulla sedia di quello che ormai sa essere un’ospedale, aprendo lentamente gli occhi, sbattendoli per la luce.
Quando riesce a mettere a fuoco a sua volta, si accorge che Fabrizio lo sta guardando.
I loro sguardi si incrociano, ma dopo un istante la tensione è troppa ed Ermal sospira, pesantemente, come rassegnato, distogliendo gli occhi dal suo viso
“Sei sveglio” commenta, piano 
Fabrizio si schiarisce la voce. Si sente la gola secca, arida.
“Sono sveglio, sì. Che è successo?” chiede poi. Anche la testa gli fa male, i suoi ricordi che sono solo una confusa accozzaglia. Sa di aver fatto qualcosa di stupido, ma non sa bene cosa. Ricorda solo una strada che puzzava di piscio e vomito, e poi il nulla.
“Non te lo ricordi?” commenta Ermal, sarcastico, e al suo cenno di diniego fa uno sbuffo “Non mi stupisce, Fabrizio. Eri ubriaco. E strafatto. Ti hanno trovato di tutto nel sangue. Anche della cocaina. Cocaina, Fabrizio. Mi spieghi che cazzo ti dice il cervello?”
E’ arrabbiato. Certo che è arrabbiato. Deve aver fatto qualcosa di stupido oltre a drogarsi e bere. Ma che cosa?
Ricorda vagamente di aver camminato a lungo, ma non ricorda quale fosse la sua meta. Sospira, passandosi una mano sul viso vecchio e dolorante, guardandolo.
“Mi dispiace” mormora 
“Ti dispiace? Fabrizio, non me ne frega un cazzo se ti dispiace, lascia che te lo dica chiaramente questa volta. Non puoi fare così, ok? guarda come ti sei ridotto! Devi trovare un modo per tirartene fuori, va bene? E se non ci riesci, se proprio vuoi buttare la tua vita così, allora per favore cerca di non mandare di nuovo in pezzi la mia. Li spaventi, Fabrizio. Hai capito quel che ho detto? Gli fai paura. Le chiamate in piena notte, venire sotto casa nostra... la devi smettere. Io non voglio chiamare la polizia, capisci? Ma stai davvero spaventando anche me adesso e-”
Le sue parole diventano un mormorio arrabbiato e indistinto di sottofondo nella testa di Fabrizio, mentre piano piano i suoi ricordi trovano un modo di rimettersi in fila
Si era fatto, sì. Era andato a cercarlo. Perché stava male, sì. Era andato a cercare Ermal perché stava male e doveva dirgli che aveva bisogno di lui perché tutta la sua vita faceva male se lui non c’era. Ma non era solo quello, no. Doveva scusarsi, sì. Scusarsi per averlo spaventato, l’ultima volta, per aver bussato all’una di notte ad una casa che nemmeno conosceva. Ecco, sì. Ma c’era altro. Era urgente, questo lo sapeva. Doveva dirgli che gli mancava, ecco. Che gli dispiaceva di aver distrutto tutto e che dovevano riprovare, sì. Era quello che era andato a fare. E poi aveva colpito qualcosa o qualcosa aveva colpito lui, ma era per quello che doveva andare da Ermal, per scusarsi e farlo tornare con lui. Proprio quel giorno, poi. Certo. Certo che si. Il suo cervello fa clic. Chiaro.
“Oggi è il nostro anniversario” mormora, a mo di spiegazione, interrompendo  il quieto ma severo rimprovero da parte dell’altro, stroncandolo in pieno.
Ecco perché era così importante che andasse da lui. Era il loro anniversario, quello.
E loro dovevano chiarirsi, ecco tutto.
Avrebbe detto ad Ermal tutto, tutto quello che voleva sapere, pure i segreti che non lo erano più per nessuno ormai, pure quelli che aveva da bambino
Gli avrebbe lasciato chiedere quello che voleva e avrebbe risposto a tutto e alla fine Ermal avrebbe capito e sarebbero tornati insieme
Sarebbero tornati all’inizio di tutto e sarebbero ripartiti con quel “Posso offrirti questo drink o vuoi tirare il tuo nuovo mojito pure in faccia a me?” di quasi diciassette anni prima.
Tornare a quando era solo un bancone di un bar a separarli, e non un’intero anno che aveva la stessa espansione di un’universo. Tornare di nuovo insieme e felici, come era stato.
E come doveva essere.
“No Fabrizio” 
La risposta è secca, brusca, dura.
Si guardano e lui non sa che dire.
“Non è il nostro anniversario, perché noi non stiamo più insieme. E tu... tu devi fartene una cazzo di ragione e smetterla di venirmi a cercare, perché io così non ce la faccio più”
Running in circles, coming up tails Heads on a science apart Nobody said it was easy It's such a shame for us to part Nobody said it was easy No one ever said it would be this hard Oh, take me back to the start
Aveva detto le stesse identiche parole l’anno prima.
Fabrizio se le ricorda bene, anche fin troppo.
Se chiude gli occhi gonfi e doloranti come tutto il suo corpo, può benissimo rivedere la faccia di Ermal davanti a sé, che nella penombra della stanza sembrava ancora più pallida e affilata del solito.
Lo guardava subito dopo avergli detto che dovevano divorziare, impassibile con non mai. Illeggibile. 
“Ermal” l’aveva richiamato, il tono incredulo ma allo stesso tempo tranquillo, come quello di chi cerca di far ragionare qualcuno che ha appena affermato di voler andare sulla luna a piedi per il Capodanno. 
Non aveva fatto in tempo ad aggiungere altro, perché suo marito l’aveva fermato con un cenno della mano, impedendogli di parlare.
“No Fabrizio. Niente Ermal. Io... non ce la faccio più. Basta” 
Il suo tono era pesante, stanco, supplicante a tratti, ma anche estremante piatto e incolore. Quello di chi ha davvero raggiunto un limite che, una volta sorpassato e rotto, non può più aggiustare.
Solo che lui, da quel limite, era ancora troppo lontano. 
Certo, le cose non erano state facili tra di loro ultimamente, litigavano, ma lui amava ancora Ermal. Avevano solo bisogno di tempo, ecco tutto.
E poi, chi era lui per avere il diritto di lasciarlo così? In quel modo, con un semplice dobbiamo divorziare, come se fosse un obbligo, e un basta.
Aveva riso Fabrizio, una risata amara e isterica, il suo cervello che rifiutava di assorbire e districare quelle parole, rigettandole.
“Tutto qui?” aveva chiesto e davanti al suo sopracciglio finemente inarcato, aveva aggiunto “Sei anni di fidanzamento e nove di matrimonio e tutto quello che sai dire è basta?” 
Ermal aveva storto il naso, sospirando amaramente e a lungo, come un adulto che sta per cercare di spiegare per l’ennesima volta qualcosa a un bambino testardo.
“Cos’altro ti devo dire, Fabrizio? Vuoi sentirti dire che sono io che sbaglio? Che non volevo arrivare a tanto? Che non vedo altra soluzione? Che ci proverei ancora e ancora e ancora fino a non avere più un briciolo di felicità addosso? Perché le cose stanno già così, sai” aveva detto, il tono duro e amaro. 
Era arrabbiato. E si stava arrabbiando sempre di più, ad ogni parola che diceva, di quella rabbia rancorosa che ti trascini dietro da tempo e che ogni giorno si fa sempre più acida e che corrode tutto ciò che di buono c’è. Una rabbia di quelle che ti porti addosso così a lungo che alla fine ormai non sai più nemmeno come o perché è iniziata: ti sembra di averla avuta sempre addosso e poi, quando alla fine la sfoghi, come stava facendo Ermal in quel momento, quella gonfia il tuo tono sempre di più.
Paradossalmente, Fabrizio aveva sempre trovato bellissima la rabbia su di lui. Il volto gli si arrossava e i suoi occhi si facevano profondi e lucidi ma scuri, forieri di una tempesta che si stava per abbattere su tutto. Era la rabbia passeggera, quella, Quella che arrivava in un istante e sconvolgeva tutto per poi ritrarsi, lasciandolo nervoso e spossato allo stesso tempo. 
Non era propriamente rabbia però quella, no. Era ardore. 
Lo stesso che poi metteva nei propri fianchi quando premeva le sue mani sul cuscino e lo scopava di forza e di fretta, sfogando così la tensione dei loro litigi o quella che qualcun’altro gli aveva causato.
Ma raramente l’aveva visto così.
Quella rabbia su di lui era terribile. Lo rendeva triste e stanco e consunto, come un vecchio pieno di rimpianto. Era una rabbia fredda, gelida, che covava da così tanto tempo ormai da essere diventata quasi odio. Era orrenda e Fabrizio non poteva credere che quello sguardo vuoto e gelido fosse rivolto verso di lui.
Ermal voleva fargli male. Glielo leggeva in viso. Voleva fargli male e fargli sentire quello che provava anche lui e sapeva come o dove colpirlo.
“O vuoi sentirmi dire che mi dispiace? Che la colpa è mia? Perché a me dispiace Fabrizio: mi dispiace che mio marito non riesca a vedere il fatto che questa cosa che ci portiamo dietro è solo una maschera che mi sta diventando insostenibile reggermi addosso. Mi dispiace che sono anni che non riesco a venire a letto con te decentemente e mi dispiace che da sei mesi ormai non mi scopi nemmeno da ubriaco perché bevi una sera si e l’altra pure, ma questo non è sufficiente. E mi dispiace che tu sia ancora arrabbiato per quella cosa e mi dispiace che tu sia stato il primo a infilarti nel letto di qualcun altro e non fraintendermi, non biasimo né me né te e sì, mi dispiace, ma quello che mi dispiace di più è che tu non riesca ad accettare che io odio questo cazzo di matrimonio quanto lo odi tu, anche se non vuoi ammetterlo, e mi dispiace pure che di divorziare non mi spiace manco per il cazzo!”
Aveva preso un respiro breve e tremante dopo quello sfogo, guardandolo fisso.
“Dimmi cosa vuoi sentirti dire Fabrizio, ti prego. Dimmelo, così io posso dirlo a te e possiamo chiudere finalmente questa cazzo di storia”
Si era lasciato andare contro lo schienale della sedia, in attesa di una risposta.
Fabrizio aveva tirato un sospiro incredulo, facendo un verso sorpreso “Smettila. Smettila adesso. Dio Ermal, abbiamo passato insieme quasi sedici anni, non puoi pensare che la prenda bene se mi dici che vuoi divorziare! Ho 45 anni per Dio!”
Ermal di rimando aveva sbuffato una risatina amara, rivolgendo uno sguardo al proprio calice ormai vuoto, scegliendo di prendere la bottiglia di vino e versarsene altro mentre rispondeva “E allora? Qual è la tua preoccupazione, quella di non riuscire a trovare un altro a cui infilarlo nel culo? Non mi sembra tu abbia avuto difficoltà finora”
Aveva bevuto un sorso del liquido rossastro, che nella penombra appariva quasi nero, rovesciandosene però una goccia addosso quando Fabrizio aveva sbattuto le mani sul tavolo, facendolo sussultare.
“È successo una volta Ermal. Una! Ma ti senti quando parli? Mi accusi come se avessi passato la vita a tradirti cazzo!”
“Due volte, per quanto ne so io e-” aveva corretto, venendo poi però interrotto dalla risata amara di Fabrizio.
“Ancora sei incazzato perché quando eri un ragazzino sono andato a letto con Alessandra mentre ero sbronzo? Cazzo Ermal non stavamo nemmeno insieme, eravamo usciti sì e no tre volte!” “Sono comunque due volte, Fabrizio. Che sono quelle che so, per giunta” aveva precisato, bevendo un altro sorso.
“E tu allora?!” Fabrizio aveva sentito la rabbia esplodergli nel petto a quelle accuse “Tu, no, tu sei un santo Ermal vero? Ma per favore. Quante volte sei andato a casa sua questo mese, mh? Due, tre? Cinque? Quel convegno era reale o una scusa, dimmi!”
Ermal l’aveva osservato, gelido come mai era stato con lui.
“Almeno ho le palle di non nascondertelo” aveva sussurrato, strappandogli così un sussulto incredulo.
“E ti credi forse migliore per questo?”
Fabrizio non capiva. 
Con Ermal si era sempre capito. Sempre, fin dall’inizio.
Ermal non era una persona facile, questo era vero. Diversi suoi amici glielo avevano fatto notare. E concordava con loro, certo, ma la verità era che per lui Ermal non era mai stato nemmeno così difficile.
Erano opposti, in certe cose, eppure si capivano. In qualche strano e assurdo modo, avevano fatto clic, e si erano capiti.
Ora, invece, non riusciva a capire più niente. Non riusciva a capire il suo atteggiamento, le sue parole, perfino il suo viso gli sembrava sconosciuto: anche per lui, Ermal era diventato un puzzle impossibile da decifrare e se doveva essere sincero, la cosa lo spaventava.
E sapeva che ognuno aveva la sua parte di ragione in quella discussione, ma quello che più voleva in quel momento era tornare indietro. Tornare all’inizio, dove tutto era più semplice e anche il difficile sembrava non esserlo così tanto.
Tornare a quando si capivano, a quando erano ErmaleFabrizio, non Ermal E Fabrizio, con uno spazio tra di loro che si allargava sempre di più ad ogni parole, i rancori di quegli ultimi anni che venivano tutti fuori.
Erano stati la coppia perfetta, loro due.
Un modello che tutti prendevano d’esempio quando parlavo di vero amore e di destino e di appartenersi. Separati, loro due? Utopia. 
“Se voi due vi lasciaste, sarebbe davvero un peccato perché a quel punto chi cazzo crederebbe più nell’amore” aveva detto una volta Andrea, ridendo quando, ancora da ragazzini, Ermal aveva minacciato di lasciarlo se si fosse di nuovo presentato a casa sua mentre stava finendo la tesi.
“Già, sarebbe davvero vergognoso” aveva riso Claudio “Credi a me, tra una ventina di anni vi ritroveremo insieme a bisticciare sul colore della cameretta del vostro secondo figlio adottivo” aveva riso
Tutti avevano riso
Come era possibile che da quella previsione fossero arrivati a quel futuro vuoto, senza più sogni o bambini e senza ormai alcun motivo valido per stare insieme a parere di Ermal?
Lui che era lo scienziato, il razionale. 
E razionalmente, per loro non vedeva più niente.
Perché quella non era più la minaccia di un ragazzino, ma la realtà di un adulto e la cosa era davvero terrificante.
“No” Ermal l’aveva pronunciato in tono secco e perentorio quel diniego, incrociando le braccia sottili al petto “No, va bene? Mi faccio schifo, Fabrizio, mi faccio schifo da solo e tanto anche, ma almeno non sento il bisogno di fingere con lei”
“Il bisogno di fingere? Fingere cosa? Ma tu credi davvero di essere così bravo a nasconderti da me, Ermal? Da me, che ti conosco da quando ancora non avevi una laurea in mano ed eri solo uno stronzo troppo bello che ha tirato un cocktail in faccia a un poveretto che ti ha preso con la luna storta? Ma se sono quasi quattro anni che riesco benissimo a leggere nei tuoi occhi il disgusto quando mi guardi, Ermal. Ma per favore”
Ed era vero. Ora che l’aveva detto se ne era accorto. Era una verità, quella, che aveva provato a nascondersi da solo ma che ormai era innegabile. E ci avevano provato, sì, ma sotto sotto Ermal, nonostante le sue belle parole, non l’aveva mai perdonato. Non aveva mai smesso di odiarlo e ora che la diga si era rotta, il fiume di quello stesso odio li stava travolgendo, spazzando via la fragile fiducia che avevano provato a ricostruirsi e che troppe volte nel corso di quei mesi era stata spezzata.
“Mi biasimi?”
Ermal glielo chiede lentamente, il tono improvvisamente basso e quasi calmo.
“Mi hai tradito, Fabrizio. Eravamo a tanto così, tanto così, dall’avere tutto quello che avevamo sempre voluto e tu hai mandato tutto a puttane per cosa? Per quella stronza che non rivedrai mai più, Fabrizio, ecco per cosa. Per una scopata. Sembra assurdo, cazzo, te ne rendi conto di quale cazzo di assurdità è questa? Per infilare il cazzo dentro una sconosciuta, ecco perché hai rovinato le nostre cazzo di vite!”
E a quel punto, anche Fabrizio era esploso.
Era esploso perché la verità era che sì, odiava quel matrimonio, ormai, e c’erano giorni che avrebbe voluto non aver mai sposato quell’uomo ormai sconosciuto che gli stava di fronte e che preferiva passare le ore con una donna di cui, lo sapeva, si stava innamorando, ma l’altra faccia della medaglia era che lui amava ancora Ermal. Lo amava e non voleva lasciarlo andare, nonostante tutto.
Anche perché stava mettendo la colpa addosso a lui quando, di colpe, anche lui ne portava, perché era stata solo colpa sua se non era riuscito a perdonargli un singolo errore quando Fabrizio aveva fatto tutto quello che era in suo potere per rimediare
“Avremmo potuto averlo lo stesso, se tu non avessi dato di matto a quel modo!”
Ermal si era alzato di scatto, incredulo.
“Dato di matto!? Ma ti senti quando parli? Davvero credevi che avrei voluto portare a termine l’adozione e crescere un figlio con l’uomo che diceva di amarmi e ha portato un’altra donna nel nostro letto? Nel nostro letto, Fabrizio! Dove noi facevamo l’amore, cazzo!”
I was just guessing at numbers and figures Pulling the puzzles apart Questions of science, science and progress Do not speak as loud as my heart
“Fabrizio. Mi stai ascoltando?” 
La voce di Ermal lo strappa nuovamente da quei ricordi, i suoi occhi che vanno ad incontrare nuovamente quelli altrui.
Si accorge di averli lucidi, ma cerca di imputare la colpa alle luci accecanti che aveva fissato e al mal di testa lancinante che ha
“Sì” risponde in un bisbiglio, deglutendo piano
Ermal sospira, passandosi stancamente un mano sul viso
“Non è vero” mormora, scuotendo appena la testa “Fabrizio senti... per l’ultima volta: per il tuo bene, devi starci lontano. Sta lontano da casa sua, sta lontano da me, sta lontano dalla nostra vita. Lo so che vuoi sistemare le cose, me l’hai detto anche qualche ora fa, prima di collassare e prendere in pieno il gradino del portico ma... non c’è più niente da sistemare. Lo so io come lo sai tu”
Il suo tono è quasi dolce ora, come un adulto che spiega qualcosa a un bambino che fatica ad afferrare un concetto troppo grande o fuori dalla sua portata
“Lo so che non vuoi fare del male a nessuno Fabrizio. Lo so. Ma guarda come sei ridotto. Io... non posso nemmeno provare ad esserti amico così, lo capisci?”
Ermal era sempre stato bravo a spiegare le cose. Era sempre stato cinico nel farlo, non nascondendo all’adulto davanti a lui se pensava che questo fosse ignorante nella materia, ma si faceva capire. 
Con i bambini, invece, era magnifico
Tutta la pazienza che non aveva con gli adulti, l’aveva con loro. Adorava, quando venivano in visita al laboratorio, spiegare loro tutto quello che chiedevano, facendo disegni sghembi alla lavagna e lasciandoli osservare qualsiasi cosa volessero al microscopio 
Sarebbe stato un ottimo padre, lo pensavano tutti.
Fabrizio incluso.
E usava dirglielo, un tempo, quando i suoi dubbi e le sue ansie ritornavano ad assalirlo e allora se lo stringeva contro, nel loro letto, e gli accarezzava la schiena segnata, mormorandogli quanto sarebbe stato perfetto con un bambino, il loro bambino.
La storia dell’adozione era venuta fuori quasi per scherzo, quasi per caso.
Stavano di nuovo parlando, costruendo, immaginando un futuro che potevano quasi toccare con mano: il negozio andava bene, Ermal procedeva spedito nella sua carriera. Si erano trasferiti da poco in un appartamento più grande, più bello. Non gli mancava nulla, il mondo era solo un tappeto di possibilità ai loro piedi. Immaginavano i posti che volevano visitare insieme e quelli già visti in cui volevano ritornare, pensavano a cosa provare di nuovo. Quel ristorante appena aperto in centro, quella gita che volevano fare da anni. Niente sembrava impossibile.
E immaginando e parlando, si erano ritrovati a esprimere il desiderio di allargare la famiglia.
“Un nostro immaginario bambino, se fosse possibile averne uno nostro, avrebbe i miei ricci ma i tuoi colori” aveva detto Ermal, rotolandogli addosso e tirandogli i ciuffi castani con un sorriso.
“No no, sarebbe identico a te” aveva riso Fabrizio, carezzandogli le natiche nude “Tutto ricciolo e pallido, con gli occhioni scuri e le guanciotte” e gli aveva pizzicato il sedere, facendolo sussultare.
“Quelle non sono le guance, coglione” aveva riso Ermal, prima di farsi serio.
“Fabrizio” aveva chiesto poi “Ma se davvero ci pensassimo, ad un bambino nostro?”
E ci avevano pensato, certo.
E dopo mille e altri mille pensieri, si erano accordati sul fatto che sarebbe stata meglio l’adozione. Sarebbero andati anche in capo al mondo, per farla, ma volevano completare la famiglia.
Ne erano convinti, tutti e due.
La loro era una vita felice e quello sarebbe stato il coronamento di tutto
Solo che felice non è sinonimo di non stressante. 
E lo stress, si sa, è cattivo consigliere per tutti.
Fabrizio sa che Ermal ha ragione. In quel letto di ospedale in cui è finito, sa che le sue parole sono veritiere più che mai. 
Non c’è niente da sistemare perché lui aveva rotto tutto, anni addietro, quando aveva ceduto ed era stato debole e aveva sbagliato e da allora non aveva mai davvero potuto fare qualcosa per rimediare
Aveva sbagliato, lo sa. Aveva sbagliato perché era stanco, stanco da morire e stressato come non era mai stato in vita sua.
Ermal era all’apice della sua carriera ed era costantemente rimbalzato tra un convegno e l’altro, tra una città e l’altra e la sua assenza si sentiva e anche parecchio. Il negozio non faceva più così tanti guadagni e c’era la concreta possibilità che dovesse chiuderlo e cercarsi un altro lavoro e se anche con i soldi guadagnati da Ermal ce la facevano abbastanza tranquillamente c’era l’affitto della casa e del locale da pagare e le spese da sostenere e le bollette e far quadrare i conti per comprare anche le cose necessarie per il bambino. Le pratiche da firmare, l’avvocato da sentire, la camera da ridipingere, il commercialista incazzato, l’ordine di dischi che si era perso. L’insonnia che l’aveva colto di nuovo, la casa da pulire, il suo aiutante da licenziare. Doveva arrivare ovunque, essere costantemente presente e non ce la faceva
La verità era semplicemente quella: non ce la stava facendo a reggere tutto ma non riusciva a frenare Ermal.
Non poteva chiedergli di fermarsi o aspettare, non dopo tutto quello che avevano giù fatto
E una sera, non aveva retto. 
Portava la fede al collo, legata ad una catenina, e sotto al maglione non l’aveva vista. 
Quella povera ragazza che gli si era avvicinata al bar non ne aveva colpa. La colpa era sua che era di malumore, che era stanco e stressato ed Ermal era rimasto bloccato fuori città per un incidente e gli aveva detto che avrebbe cercato un posto dove dormire fuori e non andavano a letto da settimane ormai perché quando non erano impegnati erano troppo stanchi e lui aveva bisogno di sfogarsi, di sfogare quella tensione che sentiva sulla spalle e fin nell’anima perché era Ermal, lo scienziato, ma era lui che stava provando a far quadrare tutti i conti.
Era lui che doveva far incastrare tutti i pezzi dei puzzle della quotidianità mentre Ermal stava dietro alla sua stupida scienza e alle sue stupide ricerche 
E allora aveva ceduto
Non lo saprà nessuno, aveva pensato. Sarà solo per una notte, si era detto. Solo una scopata, niente di più. Niente sentimenti, no. Lui amava Ermal e non avrebbe potuto amare nessun altro, ma lei era bella e lui aveva bevuto ed era stanco e se ne sarebbe andata prima che Ermal tornasse e se lo sarebbe tenuto per sé e si sarebbe vergognato, probabilmente, una volta che fosse tornato sobrio, ma così si sarebbe sfogato e non sarebbe impazzito e avrebbe tenuto quel vergognoso segreto per sé e sé solo.
Non voleva pensare a niente per un istante, ecco tutto. Ecco tutto quello che voleva da lei. Non pensare. Per quegli attimi, non pensare a nulla. Essere solo un corpo che si univa a un altro corpo, fine. E aveva capito che stava facendo una stronzata già mentre, mezzo ubriaco, mancava per la terza volta la serratura di casa, ma non poteva tornarsene indietro. Se la sarebbe scopata e basta, l’avrebbe mandata via e chiuso lì.
Ma Ermal non si era fermato per la notte.
Era rientrato, nonostante quel che aveva detto, facendo pure piano per non svegliarlo e l’aveva trovato a letto, nel loro letto, con una donna di cui non ricordava nemmeno il nome. 
E da quel momento, con lui affacciato sulla porta della camera, bloccato dall’orrore e incapace di reagire, le cose si erano rotte e non erano mai riusciti ad aggiustarle.
La riprova era che si trovavano lì, in ospedale, con Ermal che gli posava delle carte che aveva visto fin troppe volte sull’asettico e vuoto comodino.
“Firmale” mormora, quasi implorante “Fatti un favore, Fabrizio. Firmale e basta”
But tell me you love me, come back and haunt me Oh and I rush to the start Running in circles, chasing our tails Coming back as we are
Non erano comparse subito quelle carte
Certo, avevano annullato l’idea dell’adozione, ma Fabrizio aveva chiesto perdono ed Ermal si era arreso nel darglielo, nel dargli una seconda possibilità perché lo amava troppo, diceva.
Gli aveva chiesto scusa mille e mille volte ancora
L’aveva supplicato di tornare, di dirgli che lo amava ancora, perché non poteva vivere senza di lui.
Se ne era pure andato di casa, per qualche settimana, ma poi un giorno, dal nulla, si era ripresentato, sempre giocherellando con quella fede che, nonostante tutto, teneva ancora al dito.
“Ti perdono” aveva detto
“So che lei non significava niente” aveva detto
“Ricominciamo” aveva detto 
E Fabrizio aveva annuito e pianto, grato della cosa, grato di non aver distrutto davvero le loro vite e la cosa più bella che aveva. Grato che potessero ricominciare, che potessero ritornare a pensare, pian piano, al loro futuro
Che potessero tornare ad essere semplicemente loro, perché le settimane senza di lui erano state un tormento infinito, che l’avevano straziato fin nell’anima
Eppure, nonostante ciò, qualche anno dopo erano lì, al tavolo, a discuterne e a rendersi conto che no, quel perdono non c’era mai stato e che il loro matrimonio non aveva fatto altro che colare sempre di più a picco, fino a quel giorno, a quella notte, in cui tutte le carte stavano venendo scoperte e quella parvenza di normalità che gli rimaneva veniva fatta a pezzi parola dopo parola.
Anche Fabrizio si era alzato, spalancando le braccia in un gesto di esasperazione
Non capiva. La rabbia era davvero troppa in quel momento e non capiva e basta come fosse possibile che fossero arrivati a quel punto.
Loro due, che erano sempre stati una cosa sola fin dall’inizio
Loro due, che avevano ricominciato senza mai, apparentemente, farlo davvero
E allora cosa erano stati quegli anni? Solo delle bugie che si erano detti per stare meglio? 
E lo sapeva che le cose non andavano bene, perché Ermal era stato onesto, a differenza sua: una sera, a cena, in una di quelle cene vuote e silenziose dove non aspettavano altro che finire e alzarsi da tavola e non si toccavano praticamente mai se non in rare occasioni, Ermal aveva parlato.
“Ho conosciuto una persona, settimana scorsa”
L’aveva detto così, senza nemmeno alzare gli occhi dal suo piatto di carbonara, rigirandosi i due spaghetti che rimanevano lì con la forchetta
“Mi piacerebbe frequentarla in amicizia, se ti va bene”
“Ora mi devi chiedere anche con chi puoi o non puoi fare amicizia?” aveva sbottato acidamente Fabrizio.
La verità è che sapeva, dal modo in cui Ermal aveva introdotto la cosa, che questa persona, chiunque fosse, lo interessava. E probabilmente, non solo in amicizia. 
“Stavo solo chiedendo, prima che tu ti faccia strane idee” aveva ribattuto lui, acido a sua volta come non mai
“Fa come cazzo ti pare” aveva ribattuto Fabrizio, finendo l’ennesimo bicchiere di vino
“La smetti di bere?” 
“La smetti di farti i cazzi miei? non ho due anni?”
La discussione era degenerata, infine, ed Ermal se ne era uscito di casa. 
Era successo così, ancora e ancora. Discutevano e poi Ermal usciva. 
Le cose poi erano cambiate quando, rientrando, Fabrizio aveva notato che addosso lui aveva un altro profumo. Non si toccavano da tre mesi e da uno nemmeno si baciavano più. 
“Sei stato dalla tua amica?” aveva chiesto, piano
“Silvia. Si chiamava Silvia” aveva risposto lui, dandogli le spalle “Buonanotte Fabrizio”
Era stata l’unica volta che aveva pronunciato il suo nome davanti a lui. In qualche modo, il riconoscimento di un’identità verso quella sconosciuta suonava come un ultimatum 
E infatti, tre mesi dopo eccoli lì, a discutere e discutere e discutere.
“Ti ho chiesto scusa, Ermal, decine e decine di volte! Non sto dicendo di non aver sbagliato, l’ho sempre ammesso e sì, mi sono fatto schifo anche io, ma ti ho chiesto scusa e ho capito che stavo facendo una stronzata perché, lo sai, lei non significava nulla e ho fatto tutto quello che potevo per dimostrarti che ti amo e che volevo ancora una famiglia con te e che mi dispiaceva e se davvero la pensavi così perché hai scelto di perdonarmi? Potevi chiedere il divorzio allora e invece sei tornato a casa! Pensavo che mi amassi anche tu, ma forse allora non era così. Lascia che ti chieda io, allora, perché sei tornato? Perché cazzo mi hai rivoluto con te se mi odiavi già a tal punto!?”
Stavano urlando ora. Non importava che fossero quasi le tre e che i vicini si sarebbero lamentati. Non importava più nulla perché Ermal voleva il divorzio e questo sembrava essere quanto, senza se e senza ma.
“Perché ti amavo, Fabrizio! Ti amavo ancora da impazzire e volevo, non lo so, stupidamente rivolevo solo indietro la mia vita prima di quel maledetto giorno. Pensavo di poterci passare sopra ma non è stato così!”
Fabrizio si era stropicciato la faccia, stancamente, alzando poi lo sguardo verso di lui.
Lo amava ancora, allora. Cosa era cambiato adesso? Che cosa gli era successo?
“Io ti amo ancora però”
Aveva pronunciato quelle parole in un sussurro, in contrasto con le gira di prima.
“Io no”
Ermal non aveva esitato. Nemmeno per un istante. 
Aveva pronunciato quelle due semplici parole e il gelo era calato immediatamente nella stanza.
Non lo amava più.
Fabrizio aveva tirato su con il naso 
Cosa era cambiato?
“Sei... sei innamorato di lei adesso?”
Era la spiegazione più semplice. La più facile, la più veloce. La più logica e razionale, come piaceva ad Ermal.
Questa volta lui aveva esitato, ma poi aveva scosso il capo riccioluto, ornato da qualche capello bianco ormai.
“No. Non la amo. Non ancora, ma so che potrei, Fabrizio. Perché mi piace. Tanto. Troppo. Come te un tempo”
“E di quel che provo io non ti interessa più”
Non era una domanda, solo una constatazione.
“Non è così. Non è così io-“ aveva sospirato Ermal, passandosi una mano sul viso “Non centra cosa provo per lei, è che io non ti amo più, Fabrizio. Ma abbiamo passato insieme quasi sedici anni e no, non riesco a fregarmene di te. Una parte di me ti odia. Tanto. Davvero... tanto. Ma ti voglio ancora bene in parte e questo non posso negarlo. Però no, non ti amo più. Ed è anche per te che voglio il divorzio”
Uno sbuffo amaro era seguito a quelle parole. “Per me?” aveva chiesto, ironico.
“Sì. Per te. Non è... giusto, nei tuoi confronti” “Perché” “Perché lo so che tu mi ami ancora. Ma so anche che non puoi più amarmi come prima. Sopratutto perché /io/ non ti amo più. Non come prima, non ti amo più e basta”
Era sempre stato schietto, Ermal, e questo a Fabrizio era sempre piaciuto, ma mai come quella volta si era ritrovato a desiderare che lo fosse di meno. Perché faceva male, faceva dannatamente male e non c’era niente che potesse addolcire o lenire quelle parole. Dopo sedici anni insieme, Ermal non lo amava più. 
E alla fine, aveva fatto quello che più temeva: aveva rimproverato e crocefisso lui per una scopata, ma era stato infine lui quello che si era innamorato di un’altra
Perché, lo sapeva, dopo che quella sera Ermal aveva lasciato l’anello sul tavolo e se ne era andato senza mai più tornare questa volta, era andato da lei.
E si erano frequentati e messi insieme e si erano innamorati e vivevano insieme, adesso, lo sapeva.
Ermal si era rifatto una vita. All’alba dei suoi quarant’anni, aveva tutto quello che voleva. Una persona che amava, una carriera soddisfacente e, Fabrizio lo sapeva, perfino quello che loro due non avevano mai avuto.
Ne era uscito, lui. Cambiato, distrutto, stanco, a pezzi. Ma ne era uscito.
Fabrizio invece non ce l’aveva fatta. 
Non aveva più una vita, non aveva più Ermal. Aveva dovuto lasciare l’appartamento, chiudere il negozio e ritornare a fare il barista, con i suoi quarantasei anni sulle spalle che pesavano nelle notti in cui doveva rimanere fino alle quattro di mattina. Era invecchiato molto più in quell’anno che in una vita intere. Ermal era più vecchio, si, ma conservava ancora quella fiera e strana bellezza che l’aveva conquistato fin da subito. Sotto alle rughe e dietro a quegli occhi più stanchi, riusciva ancora a vedere quel ventiquatrenne che gli aveva spudoratamente fatto un pompino nel bagno del personale. Lui, invece, non si riconosceva più. Si era trasferito in un appartamento che era un buco, tutto quello che faceva era lavorare e quando non lavorava beveva. E poi ci era ricaduto, anche nella droga. Perché l’acol non bastava a guarire quel dolore, quel vuoto che pesava più di qualsiasi peso perché non gli era rimasto più niente, nemmeno un mezzo sogno. Ermal, invece, aveva tutto. Era stato lui a lasciarlo eppure lui si era rifatto una vita al contrario suo
E ora lo guardava, in attesa di una risposta, in attesa che firmasse quelle carte che li tormentavano da mesi.
Le carte del divorzio.
“Devo fare un favore a me o a te?”
Ermal sospira, di nuovo, guardandolo
“A tutti e due. Per favore Fabrizio. Se davvero mi hai amato come hai detto prima, fai la cosa giusta e lasciami andare”
C’era un che di implorante nel suo tono, un qualcosa che non riusciva a collocare ma che sembrava disperazione mista a qualcosa di più profondo e indefinibile, una stanchezza esistenziale che non gli aveva mai sentito così tanto addosso.
“La ami?” 
La domanda giunge inaspettata, ma nemmeno troppo. “Non la amavi, l’anno scorso. Adesso la ami?” 
Ermal, questa volta, non esita. Attende un secondo ma poi annuisce lentamente.
“Sì. La amo. Tanto, anche. E sono felice con lei, più di quanto potessi sperare di essere dopo di te. Mi dispiace che per te non sia lo stesso, Fabrizio, dico davvero. Mi dispiace che siamo qui in ospedale, adesso, ma non posso fare più di così per te. Più che portare pazienza una volta in più, io non posso fare. Per favore, Fabrizio. Firma queste carte e liberati di questo peso. Anche per te stesso. Credimi, Fabrizio, credimi che mi dispiace vederti così, ma io non posso accettare che tu chiami a casa di Silvia alle quattro del mattino. Spaventi lei e spaventi e spaventi anche-” si interrompe, scuotendo appena il capo “Per favore. Firmale e rimettiti in piedi. Non è troppo tardi per questo, e se proprio vuoi posso aiutarti in qualche modo, ma devi lasciarci in pace”
Fabrizio lo osserva, leccandosi le labbra secche e tagliate.
Sembra tanto diverso, Ermal. E’ uguale a prima, eppure non è l’Ermal che conosce lui.  Non è più l’Ermal di Fabrizio, adesso.
E’ suo, di quella donna che ha visto di sfuggita troppe volte e mai sobrio. Non abbastanza per ricostruire bene il suo volto
Sa che è bella. Sa che ha i capelli biondi e lunghi, gli occhi azzurri ed è alta. Veste colorato. La sua voce è piuttosto bassa, ma piacevole. Questo è tutto quello che sa. Questo, e il suo nome.
“Passamele” mormora, allungando una mano tremante e instabile
Ermal sembra stupito ma le recupera e gliele tende, osservandolo mentre lui guarda la sua firma. Certo, Ermal le ha firmate non appena le ha avute in mano.
“Ti do una penna?” chiede, e non riesce a fare a meno di trovare la speranza nel suo tono, una speranza sporcata da qualcosa che sembra incredulità, ma di quella quasi timorosa ma felice.
“Io... va bene” mormora piano
Pure le mani di Ermal tremano mentre gliene tende una che recupera dalla tasca
“Ecco. Devi firmare qui e qui. E qui” gli indica.
Fabrizio posa la penna a sfera sul foglio, premendovi appena. Fabrizio Mobrici. E’ solo il suo nome. Deve scriverlo, e sarà tutto finito.
Nobody said it was easy Oh, it's such a shame for us to part Nobody said it was easy No one ever said it would be so hard
Non era stato facile. Non era stato per niente facile tracciare quelle lettere
Per tre volte, aveva tracciato la forma del proprio nome, ben sapendo che così si stava finendo di annullare completamente
Tre segni e niente più Ermal
Tre Fabrizio Mobrici, e non era più Fabrizio Mobrici-Meta
Tre firme ed erano entrambi divorziati, non più sposati.
Era stato facilissimo, in un certo qual modo. Erano bastate tre firme per annullare nove anni dopotutto, sedici se si contava anche quando erano insieme senza essere legati dal matrimonio 
Eppure, era stato difficilissimo.
Scrivere il suo nome non era mai stato tanto difficile in vita sua. Quando aveva finito, si sentiva spossato, svuotato, senza più neanche un filo di forza nel corpo dolorante.
Non riusciva nemmeno a piangere, nonostante sentisse gli occhi lucidi pungere
Ermal si era ripreso le carte con cura, reggendole come se fossero un tesoro prezioso
Non sapeva se era a causa del riflesso delle luci, ma a Fabrizio sembrava che pure lui avesse gli occhi lucidi. Solo che lui non sembrava triste, sembrava quasi...commosso.
“Grazie” aveva mormorato riconoscente, mettendole via con cura “Le farò avere all’avvocato il prima possibile”
C’era sollievo nel suo tono.
Fabrizio non lo metteva di certo in dubbio. Era già bello che non ci sarebbe andato appena uscito di lì.
Si era messo il cappotto, guardandolo.
“Ho chiamato Andrea e Claudio. Mi hanno detto che non ti sentono da un po’, ma verranno per riportarti a casa e stare un po’ con te se vuoi. Io devo andare” 
Fabrizio l’aveva guardato, perplesso, quasi ferito. Era tutto lì dunque? Firmate le carte se ne andava e basta, così.
“Andare?” aveva chiesto.
“Si. Mi... devo andare a prendere i bambini a scuola”
I bambini, certo. Fabrizio sapeva che lei aveva dei figli. Due gemelli, da quel che aveva potuto intuire. Non erano suoi, certo che no. Un precedente matrimonio, fallito come il loro. Ma a Ermal non importava. Alla fine aveva avuto l’adozione che voleva, anche se per via indiretta
“Capisco” aveva detto soltanto, evitando di guardarlo
“Bene. Allora... io vado. Grazie per... le firme. Davvero. Spero che questo possa aiutarti, Fabrizio. Dico davvero. Spero che anche tu possa ricominciare, adesso. Addio Fabrizio” aveva sussurrato, facendogli un breve cenno, guardandolo per un ultimo istante, prima di uscire dalla stanza da uomo libero.
Fabrizio l’aveva osservato, godendosi per quella che ormai sapeva essere l’ultima volta i dettagli del suo viso. Le labbra sottili, i ricci indomiti ormai striati di grigio, gli occhi scuri, le lunghe ciglia nere. Il mento, le orecchie, le occhiaie. La fronte, le rughe agli angoli della bocca e degli occhi. Il collo sottile e quel piccolissimo neo sul labbro che era il suo preferito.
“Lo spero anche io” aveva sussurrato alla stanza vuota, chiudendo gli occhi. 
I'm going back to the start
Anche se in cuor suo sapeva che, in fondo, un nuovo inizio per lui non ci sarebbe mai stato.
E’ stato un parto? E’ stato un parto. Spero che ve la siate goduta, perché io non ce la posso più fare. Ho fatto raffreddare anche il te, andate in pace, amen. Anon, se non era quello che volevi mi dispiace. E mi raccomando ragazzi, non è tardi per ricominciare quindi non mi dovete linciare grz
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[Skam Italia] Fic: Monologhi interiori
I’m really not planning to translate this into English, since there is already @skamsnake‘s fic delving into this concept beautifully, with her “Deserters of the balcony” ... But I haven’t seen one in Italian yet, so... Una cosetta veramente senza alcuna pretesa, scritta perché mi andava dopo aver visto questo post di @silenzio-assenzio​ ( http://silenzio-assenzio.tumblr.com/post/181808805604/un-penny-per-il-monologo-interiore-di-nico-durante ) Sospensione dell’incredulità sul fatto che questi monologhi siano in italiano, okay ;D ?  Un giorno riuscirò a scrivere qualcosa di un po’ meno breve... Ma non è questo il giorno.
17 Settembre 2018 - Ore 07:59 Quest’anno andrà meglio. Esagerazione. Quest’anno farà meno schifo dello scorso. Ce può sta’, sì. Quest’anno dobbiamo soltanto arrivare alla matura senza troppe assenze, tenere una media alta che se no mamma ce sta ancora più addosso ed evitare drammi. Non siamo qui per farci amici. Socializzare, okay. Evitare che ci sparlino dietro, pure. Più di così, si vedrà. Vorranno sapere che è successo al Virgilio, ma non mi va di parlarne. Non mi andava nemmeno di uscire dal letto, in verità, ma se avessi mancato il primo giorno so che avrei dovuto mettermi a ridiscutere la scelta di non andare ad una scuola privata con i miei. Okay, Niccolò, vediamo di che morte dobbiamo morire.
8 Ottobre 2018 - Ore 13:04 Che palle. Altri 8 mesi e mezzo così no. Cioè, son circondato da gente tollerabile - fatta eccezione per Covitti, a cui probabilmente brucia il culo di non essere più la star della classe? bo’, davvero, non capisco quale sia il suo problema - ed i prof non sono né più né meno pesanti rispetto a quelli che c’avevo ma... Altre occasioni per conoscerli meglio? O per liberarmi di ‘ste cazzo di ore di alternanza? In cui magari, per una botta di culo, trovo anche il ragazzo pieno di lentiggini che ho intravisto nei corridoi? Quello che c’ha un amico che non butteresti via manco lui - il fascino dell’occhio azzurro - esatto.  Seh. Vabbé. Sogna, Niccolò. Sogna.  C’avrà di meglio da fare, sicuro. A parte il gruppo di teatro, il nulla cosmico. Interpreto già la parte di un sano di mente tutti i giorni, quindi grazie ma anche no grazie.
“Ehi, ciao! Avete mai pensato di avere di un vostro programma in radio?” No, non ci hai mai pensato. Chi cazzo l’ascolta, poi, una radio scolastica? Nessuno. Ma è un modo come un altro per far passare il tempo. Per far sembrare le giornate meno monotone e tutte uguali. E poi te lo chiede Sana. Glielo devi, dopo che l’hai tagliata fuori dalla tua vita per storie tue con suo fratello... no? Sempre meglio che andare a pulire i cessi al McDonalds, di sicuro. O stare a sentire Maddi e le sue interessantissime cronache delle giornate all'università. In cui non ribadisce mai, figuriamoci, che se fossi stato più attento a seguire la terapia ed i suoi consigli magari a quest’ora il diploma ce l’avrei. Non lo fa apposta. Non lo dice apertamente. Lo fa intuire.  Quand'è che ci decidiamo a mollarla, comunque?  Nell'anno del mai, perché poi con chi c’andiamo a lamentare quando stiamo uno schifo? Chi è che c’è sempre stato? Ecco, già abbiamo la risposta.  Bravo Niccolò, bravo. 11 Ottobre 2018  - 17:43 C’è. C’è!  Okay. Piano d’azione al volo: non voltiamoci, non lo guardiamo, facciamo finta che non esista e di non sentire che ci sta fissando. Lui mica lo sa che c’abbiamo ‘sta paranoia che la gente non c’abbia di meglio da fare che starci con gli occhi addosso e che abbiamo sì imparato a fregarcene... Ma fatto sta che se entro in una stanza io do per scontato che la gente mi stia ad osservare.  Incluso lui.  Ma se mi volto e lo guardo poi magari finisce che mi strozzo con la torta, o m’inciampo nel banco. No. Un minimo di dignità, ora che abbiamo un pubblico. Salutiamo le ragazze. Studiamo con grande interesse il piatto di plastica e voltiamoci verso la lavagna. No, Nico, non distogliere lo sguardo neanche per un attimo. Mantieni questa tua aria misteriosa e distaccata, finché puoi. Magari lo stani... Ehi. No. Stop. Dove stai andando, tizio carino di cui non so manco il nome? Non te l’aspetti che io ti segua, eh? Che io me ne stia seduto oltre il vetro, a luce spenta, a sentirti cazzeggiare con il microfono della radio? Che esattamente la ragione per cui lo farò, metti mai che succeda qualcosa di elettrizzante. Qualcosa che non so manco io che vorrei che fosse, ma che non m’aspettavo sarebbe stato il trovare qualcuno con cui non pesano i silenzi.  Con cui mi escono sorrisi che non sono falsi, con cui parlare senza starmi a chiedere cosa potrei mai dire per far colpo e rendere memorabile la conversazione.  E non mi era mai successo prima, perciò mi raccomando Niccolò: non mandare tutto a puttane come tuo solito immaginando cose che non ci sono. Cerchiamo di conoscerlo meglio, prima, e di vedere se questo suo interesse è soltanto qualcosa di vago - un ‘non t’ho mai visto prima, da dove esci fuori?’ con aggiunta di ‘uao, mi ha rivolto la parola uno di quinto’ che non è mai da sottovalutare - o se c’è qualcosa su cui possiamo lavorare. Lavorare per portare dove? C’è Maddalena, te la ricordi? Sì, ora non corriamo. Nessuno sta partendo con film in cui te stai a pacca’ sto ragazzo - che ancora non sai come si chiama: ma ce la fai a chiedergli il suo nome, Colino? - sul terrazzo della scuola. Nei bagni. Nella sala di registrazione della radio. Nessuno. Zero film proprio. Stiamo a scambiarci sguardi, passandoci il fumo, e va bene così. Ovvio che deve arrivare ‘sta tipa. Che io non sono da antipatie a pelle, di solito, ma ‘sta qui m’irrita già solo dalla confidenza che dà al mio compagno disertore. Vi conoscete? State insieme? Non sono cazzi miei? Posso tollerarti giusto perché mi dai l’occasione di presentarmi, anche se lui ancora non lo fa. Però, ecco, potresti cogliere quando ti si ‘sta sottilmente invitando a sloggiare che qui si vorrebbe rimanere soli un altro po’.  No, okay, forse ho parlato troppo presto quando t’ho definita più simpatica di tuo fratello. Covitti. Un cognome, una garanzia. 16 Ottobre 2018 - 11:55  Andiamo a fumare? Sì, perché no? Diamo casualmente al nostro nuovo amico - uno di quei pochi con cui hai vagamente legato, in questa scuola di merda - appuntamento sul quel balcone. Quello che ti permette di buttare l’occhio in IVB e magari beccare Marti di sfuggita.  Marti che sarebbe Martino Rametta, da quanto hai letto sui fogli di entrata/uscita della radio, ma che sei liberissimo di chiamare come ti pare nella tua testa. Fatti valere, Niccolò.  Che magari c’è Marti, lì dentro, che te sta’ a spogliare con gli occhi. Te piacerebbe. Può darsi benissimo che non sia così, certo, ma può darsi anche che sì, okay? Infatti: guarda un po’ chi c’è?  Indoviniamo pure chi s’è appena dato una sigaretta sui denti, troppo distratto da ‘Sono o non sono l’uomo dei tuoi sogni, eh? Eh? Guardami ancora, Martino, guardami!!’ per avere pure idea di dove stessi ficcando quella cazzo di sigaretta? Avrebbe potuto andare peggio, avrei potuto mettermela su per il naso. E l’ho fatto pure sorridere. Adoro farlo sorridere.  Magari posso invitarlo a casa mia uno di questi giorni, e farlo sorridere ancor di più?
Maddalena! Ci sta sempre Maddalena, Niccolò! Perché non ti preoccupi di far sorridere lei, piuttosto? Ultimamente c’ha sempre ‘sta aria da martire, che è anche comprensibile dopo tutto quello che le ho fatto passare in ‘sti 3 anni... e okay, diciamole che ci vediamo venerdì sera per andare al cinema che è tipo un secolo che non usciamo - ma non da soli, che me sale l’angoscia solo a pensare di star solo con lei e forse questo dovrebbe dirmi qualcosa ma... ma BLABLABLA vaffanculo, come direbbe il Vate - e torniamo ad occuparci di Martino. Distratto da Sana, non ci siamo! Che crede che tu stia qui ad aspettare i suoi comodi?  Ritirata, soldato Fares! Torneremo all'attacco un altro giorno.  E vediamo di liberarci di quella fastidiosa vocina che fa  “S'informano i signori viaggiatori che Niccolò Fares sta sotto tutta Trenitalia ed Italo per Martino Rametta, ci scusiamo per il disagio.” ogni volta che incroci il suo sguardo, già che ci siamo. 19 Ottobre 2018 - 14:22 Martino? Che ci fa qui? Non mi pare che prenda ‘sto autobus per andare a casa.  Di sicuro non è per seguire me, che manco m’ha notato. Che ‘sta a guardare su quel cellulare? Messaggi della Covitti? I cazzi miei mai, no. Quelli non sono interessanti, m’hanno rotto. Facciamo le persone educate e salutiamo, non facciamoci distrarre né dai suoi occhi né dalle sue labbra - impresa difficile ma non impossibile - e sbirciamo. Sana. Che non sembra avergli dato la risposta che sperava. Magari posso aiutare, chiedere non costa nulla. E mi stai forse dando la scusa perfetta per invitarti da me, Marti? E ti pare che io non ne approfitti? Quando mi ricapita di sapere che musica ascolti, che libri leggi, guardarti e pensare a quanto vorrei sdraiarti sul divano o inginocchiarmi ai tuoi piedi e... No. Quelle fantasie teniamocele per noi, Nico. Non facciamolo scappare a gambe levate già da subito. Godiamoci questo venerdì pomeriggio insieme, sentendoci il cuore scoppiare per come anche solo stare a meno di un metro da Martino ci faccia sentire vivi come prima d’ora.  Maddalena chi? 19 Ottobre 2018 - 19:30 Maddalena. Maddalena, sì. Me la ricordo, vagamente. Gliene volevo parlare, a Martino, ma non mica potevo uscirmene di punto in bianco con un ‘Ah, ci starebbe ‘sta tipa con cui esco da 3 anni ma niente di serio. Te dimmi che ce stai ed io la mollo, giuro.’ Un conto sarebbe se ce stessa a prova’, ma non me pare. Cioè, forse sì. Più che provarci ci sta, ma ancora non sono sicuro fino a che punto. Metti che ora mi alzo e lo baci, dopo essermi tolto il sapore di ‘sta merda - e ne vado pure orgoglioso di averla cucinata, perché Marti pareva davvero colpito dal mio estro gastronomico, eh! -  dalla bocca con un sorso di birra, posso essere sicuro al 100% che non mi ficchi la faccia nel piatto e se ne vada? No. E allora perché parlargli di Maddalena? Non c’è motivo. Troverò il momento per dirgli di lei. Be’, ora che m’ha scritto ci si vede stasera per il cinema, e tra pochissimo passa da me con Matteo ed Elisa pare che l’abbia trovato Maddi, il momento. Perché ti pare che mi so’ ricordato di averla invitata io fuori, quando c’ho Marti in casa. Che continua a scherzare e sorridere, facendomi quasi sperare che sia io a metterlo di buon umore. E so che è da infame baciarla così, davanti a Martino. Senza nemmeno avergli menzionato prima la sua esistenza. Ma ‘sti cazzi. Non sono esattamente una bella persona, non creiamogli false illusioni. Piuttosto, teniamo d’occhio la sua reazione oggi e nei prossimi giorni. Chissà che non ci possa dire qualcosa.
---------------- A/N: Non so voi, ma quando parlo tra me e me a volte mi do del ‘tu’, a volte parlo al plurale “noi” e butto là qualche osservazione in prima persona, ma non uso MAI esclusivamente quest’ultima. Magari è soltanto qualcosa che faccio io, ma mi andava di dare questa impostazione anche a Nico... 
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len-scrive · 6 years
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Per questa serie che ho appena battezzato
Viaggio all’interno del cervello di una che scrive di Hannibal e dell’Hannibal Extended Universe con la stessa solerzia con cui mangia biscottini
oggi parlo di Attimi.
Sulla scia di In Alternativa, nella mia testa che pensava a Will e Hannibal costantemente (ciò non è mutato in questi due anni, sono solo aumentati i personaggi, quindi se non penso a Hannibal e Will penso a Tonny e Grigg, tanto per fare un esempio incomprensibile ai più) si è fatta strada una serie di storielle brevissime, più che altro dialoghi, momenti, scene di vita casalinga, che ho messo giù sotto il titolo Attimi per sottolinearne il minimo word count.
Alla fine sono ancora oggi le storie all’ordine del giorno, quelle che ci metto poco a buttare giù e che non hanno mai una fine precisa, sono solo spaccati di vita quotidiana.
A ben pensarci ne ho da postare forse tre o quattro scritte mesi fa e che sono rimaste lì, poveracce, scavalcate da tutte le loro colleghe più lunghe e importanti.
Prima o poi arriveranno anche loro.
Fissazione Orale
Qui la fissazione più che altro è la mia. Di kinks ne ho in quantità, ma i morsi con Hannibal e Will sono diventati una specie di regola scritta… E orale.
Resistenza al Dolore
In realtà questa storiella nasce da altri due miei personaggi, però ho potuto adattarla anche a Hannibal e Will perché, seriamente, a quei due fanno di tutto e non si lamentano mai. A me non si può neanche dare un pizzicotto che prima urlo e poi cerco di vendicarmi con una difesa maggiore dell’offesa, tipo una coltellata, ma Hannibal e Will rendono l’apertura del cranio tramite sega elettrica roba che puoi fare la sera e nessun vicino ti suona per dirti che stai facendo rumore…
Però Will mi dà l’idea di uno che proprio se ne strafrega del dolore. Da lì la convinzione che di un paio di costole rotte nemmeno si accorgerebbe.
Scorciatoia
Will, Hannibal e i cani.
Non mi stanca mai.
  Discussioni Familiari
Dunque… Non amo particolarmente inserire figli in una storia. Mi capita di parlare dei figli dalla parte dei figli, ma quasi mai mi cimento nel parlare di genitori e quando lo faccio solitamente i genitori ci perdono di brutto.
Ma capita che mi vengano in mente attimi con Abigail, di come sarebbe potuto essere, di che tipo di famiglia assurda sarebbero potuti essere.
Ecco, sono solo attimi, però, non riuscirei a vedere più in là di così. Non credo che Abigail sia mai stata parte del disegno, almeno nell’ottica di Hannibal.
  Amare
Era un periodo che si discuteva molto nel fandom a causa di un post fatto da non so più chi che lamentava quanto l’Hannibal passivo fosse assurdo e senza basi.
Questa è una fic nata innanzitutto perché è come li vedo io, ma anche in risposta a qualcosa che mi disgusta profondamente.
Non è compito di nessuno stabilire cosa un uomo debba fare a letto per risultare uomo.
Un uomo è un uomo e basta, ciò che decide di inserire nel proprio corpo sono fatti suoi.
Anche un eterosessuale può decidere di farsi penetrare e ciò non lo rende meno uomo. Essere uomo dipende da ben altre cose che riguardano tutte l’anima di una persona, non il suo corpo.
Perciò sentir dire che Hannibal che sta sotto non è un uomo mi fa schifo, sentire dire che Hannibal che sta sotto è dominato, è passivo, è sottomesso mi fa ridere. Perché di solito è proprio il ruolo di noi donne e se le donne si sentono passive, dominate, sottomesse quando fanno sesso è un problema grosso.
Ecco per me questi due si godono il sesso esattamente come si deve fare, in tutte le sue sfaccettature e senza nessuna inibizione che dipenda da ruoli prestabiliti.
Poi da chi, vorrei sapere.
  Un Giorno è Lungo
Questa è puro romanticismo che cola da Will, non è colpa mia, prendetevela con lui. Qui Hannibal non è neanche un cannibale e nessuno lavora a casi di omicidio. È tutto molto fiabesco e carino.
Solo Jack è sempre un rompipalle. Quello non cambia mai.
  La mia Pace
La scena del finale alternativo di Hannibal, presa così com’è, è poesia pura.
Così, senza contesto e senza spiegazioni.
Ma se cerchi di spiegartela può diventare complicata e dolorosa.
Di chi è il palazzo mentale in cui si sono incontrati e in cui stanno insieme? Chi dei due è sopravvissuto all’altro?
Ecco… Onde evitare di soffrire su questo sono contenta che il vero finale di Hannibal sia un altro e ho preso quell’immagine solo per giocarci un po’ e poi risolvere le cose a modo mio.
  Inclinazioni
Come ho detto anche nelle note della storia stessa mi rifiuto di chiamare perversioni qualunque cosa due persone adulte e consenzienti decidano di fare nella loro camera da letto. Non me ne frega proprio niente di che cosa può essere. Il termine perverso mi sa di qualcosa di negativo.
Se avete notato in italiano ci sono molte poche parole che aiutino a descrivere una scena di sesso senza scadere o nel volgare o, dall’altro lato, nel totalmente didattico.
Quando poi si cercano termini per pratiche specifiche non ci sono proprio. E se li hanno inventati e me li sono persi il problema rimane, perché evidentemente non sono abbastanza conosciuti da tutti.
Ecco, qui ci sono lievi accenni a cose di cui parlerei volentieri anche in modo più dettagliato, il problema è che mi dovrei rifare a qualsiasi altra lingua piuttosto che alla mia e ciò mi rincresce.
Ahimè, la mia amata lingua continua ad essere in netto contrasto col sesso. Un’ingiustizia che probabilmente trova le sue radici nel bigottismo che ancora oggi ci contraddistingue in quell’aspetto della vita umana.   
  Il Silenzioso Affronto
Ah! Tutta una storiella, tutto un dialogo tra questi due per mettere su carta l’urlo di dolore di Hannibal alla stupida decisione di Will.
  Leggero Ritardo
Questa è stata una graditissima chiacchierata con una Fannibal che mi ha poeticamente descritto il suo personale inizio tipo da quarta stagione. E siccome mentre leggevo le sue parole la possibile storia si è praticamente svolta nella mia testa, le ho chiesto il permesso di utilizzare le immagini così evocative della sua idea per scrivere questo piccolo omaggio ai Murder Husbands in piena attività.
  Il Mattino Dopo 
Amo Hannibal e Will perché parlano. Non ci posso fare molto.
L’azione è stupenda, tiene viva la fantasia su di loro ed è bellissimo vederli agire, sia nella serie che nella mia testa. Ma parlare… Quella è l’attività per cui li amo anche di più.
E quindi figuriamoci se non trovano il tempo di parlare, proprio il mattino dopo, di quello che hanno fatto la notte prima.
Anzi… La fanfic è pure breve, parlerebbero molto ma molto di più.
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OMG sono la ragazza che ha lasciato l'ultima recensione su Messed up e sono venuta sul tuo blog per curiosità e ora scopro che sei italiana e non so come reagire- ancora tante grazie per la tua fic, veramente, non penso di averne letta una che mi abbia dato così tante emozioni in non so quanto tempo. Messed up è quello che definisco catartico. Mi ha distrutta dal primo paragrafo (in senso positivo) ma alla fine, guance bagnate e morsa al cuore, mi sono sentita... Bene. Tanto bene. Grazie ancora.
Ciao! Scusami se ci ho messo così tanto a risponderti, questa volta sono io quella ad avere un brutto momento ^^; Sia questo messaggio che la tua recensione mi hanno resa davvero felicissima, non so come ringraziarti. Le tue parole sono davvero dolcissime e sono felice che le mie storie riescano ad aiutare qualcuno. Ultimamente sto vendo problemi con la mia scrittura e la vita in generale (ok suono davvero melodrammatica, ma ormai ci sono abituata ad avere questi periodi, ne uscirò), e leggere questo messaggio mi ha fatto sorridere per davvero dopo una giornata stressante. 
Grazie.
Ti auguro davvero tutta la felicità del mondo, te la meriti. 
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torredellestelle · 6 years
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Titolo: King Fandom: Final Fantasy XV Personaggi: Regis Lucis Caelum, Clarus Amicitia Relationship: Male/Male Pairing: RegClar Genere: Introspettivo Avvertimenti: Transgender, Pregnancy, Minor Character Death Rating: SAFE Conteggio parole: 2480 Intro:
Regina Lucis Caelum era la Principessa di Insomnia, nonché la futura sovrana di quel regno in guerra da ormai anni con l'Impero di Niflheim. Quella, tuttavia, era una definizione in parte sbagliata e che avrebbe avuto più senso se riformulata al maschile.
Regina Lucis Caelum era la Principessa di Insomnia, nonché la futura sovrana di quel regno in guerra da ormai anni con l'Impero di Niflheim.
Quella, tuttavia, era una definizione in parte sbagliata e che avrebbe avuto più senso se riformulata al maschile.
Regis Lucis Caelum, nato Regina, era il Principe ereditario di Lucis. Educato dai migliori precettori della capitale sotto lo sguardo fiero di suo padre, e sempre con la guida di quest'ultimo, era solito prendere parte ad ogni evento pubblico, volto a caricare e dare supporto a chi combatteva fuori dai confini di Insomnia.
Tutti ammiravano la sua figura ma pochi sapevano quanto quell'adolescente, dagli ordinati capelli corti e dalle canottiere contenitive, si sentisse a disagio quando si rivolgevano a lui usando termini femminili e mentre suo padre tendeva ad ignorare le sue continue richieste di ascolto, solo il privato, con i suoi amici e collaboratori più stretti, Regis riusciva a dimenticare il suo sesso di nascita per venire invece identificato come un uomo.
Indossava abiti maschili, e non era costretto a chiedere scusa nell’assumere atteggiamenti poco consoni ad una Principessa, per usare le tipiche parole di suo padre. Era se stesso ed era felice di poterlo fare almeno con quel piccolo gruppetto di persone. Si sentiva accettato e sperava, un giorno, che anche la popolazione di Lucis potesse vederlo per chi era realmente.
Per quel motivo, andando anche contro il volere di suo padre - che continuava a sostenere la sua teoria della Fase di Capricci Infantili - iniziò l'iter per poter affrontare in futuro la vera e propria transizione da quel corpo di donna, che non gli apparteneva, fino a quello maschile.
Non fu semplice, soprattutto senza il supporto paterno, ma grazie alla sempre costante presenza di Clarus, il suo Scudo, riuscì a superare passo dopo passo ogni ostacolo... anche quando lasciarono al città per affrontare l'Impero.
«Una Principessa non dovrebbe andare al fronte», aveva detto il Re per cercare di fermarlo, e Regis con sicurezza e orgoglio, pronto ad affrontare sia suo padre che tutto il Consiglio della Capitale, aveva risposto con un fiero: «Ma un Principe sì».
Aveva affrontato suo padre, e lo aveva fatto non solo davanti ai suoi collaboratori - Cid ancora ghignava compiaciuto per il suo coraggio - ma anche davanti a quelli del Re. Aveva espresso in modo ben chiaro la sua presa di posizione, la sua scelta di vita, ed era certo che da quel momento in poi tutti avrebbero smesso di guardarlo e trattarlo come se fosse un 'maschiaccio' - perché era così che spesso veniva definito -, per iniziare a considerarlo in modo diverso.
Non era uno stupido e sapeva che da quel momento in poi la sua affermazione si sarebbe trovata sulla bocca di tutti, ma sperava di poter tornare a casa vincitore dal suo viaggio politico ad Altissia, e di conquistare in quel modo il rispetto di tutta la popolazione.
Prima di tutto però, fu costretto ad affrontare il rifiuto dei soldati che incontrò nel territorio di Lucis. Vi erano numerosi avamposti sparsi per le varie regioni del regno e Regis, li visitò tutti: uno per uno .
Abiti maschili, binder per nascondere il seno e fermezza nel presentarsi, davanti ai Generali, come il Principe Regis Lucis Caelum. Era pronto ad affrontare sia la guerra contro l'Impero che quella contro l'ignoranza.
Infatti, trovò sempre non poca opposizione da parte dei soldati e alcuni Capitani lo pregarono addirittura di porre la parola fine a quella sua follia. Affrontò inoltre commenti sessisti, accompagnati da altri di disgusto, sussurrati alle sue spalle quando credevano che lui non potesse sentirli. Ma Regis tenne sempre la testa alta, ricordando ai suoi quattro compagni di viaggio - e soprattutto a quella testa calda di Cor Leonis, che non accettava che il suo Principe venisse bistrattato in quel modo -, che erano lì per combattere e aiutare i soldati e non per litigare e creare ulteriori malumori tra quelle fila già provate dalla guerra.
Con tenacia e caparbietà riuscì a fatica a conquistare la fiducia di alcuni Generali e dimostrò la sua abilità soprattutto ad Altissia, con il Primo Ministro Camelia Claustra. Una donna forte e controllata, ma che fu ugualmente la prima ad accoglierlo ufficialmente con il nome che aveva scelto per sé. Era una vittoria, un primo passo verso quel futuro che tanto desiderava e che, suo malgrado, si ritrovò ad affrontare come un fulmine a ciel sereno.
Il Re Mors, già indebolito dalla Barriera e dalla magia dell'Anello, in seguito a dei collassi fisici, venne ritenuto inadatto a continuare a proteggere il Regno. E Regis, in quanto suo unico erede, fu costretto a lasciare le trattative di alleanza con il Primo Ministro di Altissia per rafforzare con la sua presenza la Barriera attorno alla capitale.
Lì iniziò a fare le veci di suo padre, ma anche ad eliminare dalla bocca di tutti il nome 'Regina Lucis Caelum' , per venire invece riconosciuto solamente come 'Regis'. Suo padre alla fine si spense nel sonno, e lui venne ufficialmente eletto Re di Lucis.
Si scontrò con numerosi rifiuti, sia da parte del consiglio che della stessa popolazione, ma non fece mai un passo indietro, neanche quando i giornalisti più invadenti gli rivolgevano domande del tipo: «Perché proprio Regis? Cosa c'è dietro la scelta di questo nome, Vostra Altezza?»
Quesiti ai quali lui rispondeva con gentilezza e sarcasmo.
«Perché in questo modo non sono stato costretto a cambiare le iniziali nei documenti ufficiali e nei miei fazzoletti personali. Ora, abbiamo qualche altra domanda inerente alla situazione fuori dalla capitale o dobbiamo aprire una rubrica chiamata 'Pomeriggio con il Re'? »
Proseguì per la sua strada, alternandosi tra incontri con il Consiglio e con le cure ormonali che, lentamente, iniziavano a farlo sentire sempre più a suo agio con quel corpo che non gli era mai appartenuto.
Per quanto cercasse di invitare tutti a guardare il futuro, Regis era però il primo a lanciare uno sguardo al passato... perché quasi non gli sembrava vero l'essere arrivato fin lì, non dopo tutti i rifiuti e le giornate passate a chiedersi che cosa ci fosse di sbagliato in lui. Era arrivato tante volte sul punto di arrendersi, di lasciar perdere 'quella follia' - come veniva definita da tanti, forse troppi -, ma alla fine aveva sempre trovato la forza per continuare su quella sua strada.
Cosa che non poteva invece dire per tante altre persone che ogni giorno si trovavano in quella sua stessa situazione. Regis, infatti, sapeva che c'erano tante altri ragazzi e altrettante ragazze che soffrivano di disforia di genere. Persone che non avevano avuto la sua stessa fortuna né il coraggio di accettare se stessi.
Per quel motivo, come Re, non nascose mai il suo passato, non cercò di cambiarlo né di insabbiarlo, perché voleva diventare un esempio per tutti coloro che avevano paura del rifiuto non solo della famiglia ma anche della società. Regis desiderava che questi giovani sapessero di non essere soli e che vedessero in lui la speranza.
Era un sogno forse troppo grande e magari anche acerbo per quel mondo piegato dalla guerra e da ben altre preoccupazioni, ma non poteva farne a meno... anche se era pienamente consapevole di essere stato davvero fortunato. Accanto a sé aveva infatti avuto delle persone fantastiche, che lo avevano sempre supportato, accettando le sue scelte senza mai giudicarlo.
Clarus Amicitia era uno di quelli, la persona che aveva al suo fianco sin da quando aveva memoria. Era stato il suo Scudo non solo per il titolo ereditato dalla sua famiglia, ma anche dai commenti e dalle crudeltà di quel mondo ancora impreparato ad accogliere il primo Re Transgender della storia di Eos.
I primi tempi, Clarus lo aveva riempito di domande. Si era assicurato che non fosse solo una fase o un capriccio, si era informato per capire ciò che il suo protetto stava provando e lo aveva addirittura accompagnato a degli incontri con gli psicologi e gli altri medici che lo avevano preso in cura. Lo aveva accettato, prendendogli la mano e guardandolo negli occhi con sicurezza e orgoglio: «Sei e rimarrai sempre la persona che desidero proteggere anche a costo della mia vita».
Quelle parole lo avevano rassicurato ed erano diventate ciò a cui si era aggrappato nei momenti più difficili. Clarus era e sarebbe rimasto la sua ancora di salvataggio, il suo pilastro: un punto fermo della sua esistenza. Lo era stato quando lui era solo un Principe, confuso a causa di quei disturbi sulla sua identità sessuale, e lo era tutt'ora come Scudo del Re di Lucis.
Provava per lui dei sentimenti forti e sinceri. Sentimenti pienamente contraccambiati da Clarus e che non riguardavano solo gratitudine, fiducia, amicizia e lealtà. Entrambi provavano un qualcosa che, tuttavia, non avrebbero mai potuto avere.
Perché per quanto Regis avesse ormai conquistato il favore sia del Consiglio che quello mediatico, ammettere di nutrire dei sentimenti per il suo Scudo avrebbe aperto una voragine. Uno scandalo che non poteva permettersi, non in quei tempi così fragili.
Aveva ottenuto ciò che voleva, era Regis Lucis Caelum il Re di Lucis, ma in quanto sovrano aveva numerosi obblighi... e quello lo avrebbe costretto a seguire una strada parallela a quella di Clarus. Sempre fianco a fianco, ma troppo distanti per incontrarsi... se non in segreto, quando nessuno poteva giudicarli o vederli.
Chiusi all'interno delle stanze private del Re, lasciavano fuori dalla porta tutto il superfluo. Non esisteva Amarantha, la moglie di Clarus. Non esisteva Aulea, la donna che Regis aveva sposato per dare al Regno una Regina. Esistevano solo loro due.
Restarono insieme nei momenti più felici, ma anche in quelli più tesi e difficili, come quando Clarus annunciò che sarebbe diventato padre, oppure quando, in seguito a un deficit respiratorio, venne portata alla luce la malattia di Aulea. Un morbo sfortunatamente incurabile e che, lentamente, la stava portando ad una prematura morte.
Amavano le loro compagne, Regis stesso provava un fortissimo affetto per la sua Regina che, ancor prima di diventare la sua consorte, era stata un'amica, nonostante ciò niente poteva essere paragonato a ciò che lo legava a Clarus sin dall'adolescenza, quando ancora non avevano coraggio di dare un nome ai loro sentimenti.
Affrontarono la loro relazione giorno dopo giorno, tra alti e bassi, gioie e dolori. Combatterono anche contro i sensi di colpa per il tradimento che continuavano a perpetrare nei confronti delle loro consorti, ma alla fine tornavano di nuovo l'uno accanto all’altro. Anche quando venne affrontato l'argomento Erede al Trono .
La popolazione si stava interrogando sempre più spesso riguardo il futuro di Lucis e Insomnia, e il Consiglio, un giorno, avanzò l'ipotesi che il Re, che si era sottoposto solamente all'operazione chirurgica di mastectomia, potesse portare in grembo il prossimo sovrano di Lucis.
Regis aveva inizialmente rifiutato, sostenendo che avrebbe trovato un altro modo per poter dare al regno il suo erede, ma alla fine fu Clarus ad essere ancora una volta la voce della ragione. Perché, come gli ricordò, solo un Lucis Caelum poteva salire al trono e venire accettato dal Cristallo come portatore di quell'antico dono dei Siderei.
Ne parlarono a lungo, presero in considerazioni molte altre soluzioni e solo alla fine intrapresero la via più semplice ma al contempo anche la più difficile, perché comportava la creazione di altri segreti. E mentre Regis assicurava al Consiglio che avrebbe consultato dei medici per l'inseminazione artificiale, lui e Clarus smisero semplicemente di usare le protezioni durante i loro incontri clandestini, cercando in quel modo di concepire un figlio nel modo più naturale possibile. Non avevano mai pensato ad avere dei figli, anzi: avevano sempre reputato quell'opzione una sorta di tabù vista l'impossibilità di poter rendere pubblica la loro relazione. Ma in quel modo, pur dovendo mantenere il segreto, potevano ottenere un qualcosa che si erano sempre negati: una famiglia . Non di certo una tradizionale, ma entrambi avrebbero saputo la verità e avrebbero cercato di farsi bastare quella consapevole.
La scoperta della gravidanza portò al tempo stesso anche delle cattive notizie, e il Re, ormai in dolce attesa, dovette affrontare l’aggravamento delle condizioni di Aulea che, nonostante tutte le difficoltà, non perse mai quel sorriso ottimista e fiducioso che l’aveva sempre contraddistinta.
Regis le rimase accanto fino alla fine, ringraziandola ogni giorno per la sua presenza e forza, ma anche della discrezione che aveva dimostrato nel mantenere il segreto riguardo la relazione del Re con il suo Scudo. Perché la donna era sempre stata un'ottima osservatrice, furba e maliziosa, e si era resa conto di quel rapporto da ormai anni ma, per non far soffrire i due interessati, aveva sempre tenuto per sé quella scoperta.
Era una persona fantastica e la sua morte fu fonte di lutto e tristezza per tutta Insomnia e lo stesso Regis risentì della perdita della sua compagna e confidente. Riuscì ugualmente ad affrontare con dignità il periodo di lutto, trovando gioia e confronto solo in Clarus e nella vita che stava crescendo dentro il suo corpo.
Dieci settimane dopo la morte di Aulea, il Re entrò in travaglio e, come descrisse poi a Clarus e a Cor - gli unici ai quali venne permesso di raggiungerlo in ospedale al termine del parto -, quella era stata l'esperienza più dolorosa e spaventosa della sua vita, ma altrettanto magica perché grazie a lui era venuto al mondo un essere umano: il Principe Noctis Lucis Caelum.
L'annuncio della nascita dell’erede fece subito il giro di tutta Eos, e oltre chi vedeva il tutto come un miracolo e una benedizione per il Regno, c'era invece chi continuava a vedere il Re come uno scherzo della natura . A Regis però non importava perché prima di tutto non voleva rovinare la felicità per la nascita di suo figlio in quel modo, e perché in secondo luogo sapeva che sarebbe stata un'impresa impossibile il farsi amare da tutti.
Preferì infatti dedicare anima e corpo non solo a Insomnia, ma anche e soprattutto al piccolo Noctis e alla gioia che provava nel vedere Clarus prenderlo in braccio, guardandolo con lo stesso orgoglio e amore che era solito rivolgere a Gladiolus.
Erano belli, ma era anche altrettanto triste sapere che quel bambino non avrebbe mai potuto chiamare Clarus ‘padre’. Perché per proteggere l'integrità di Insomnia e di Lucis, nessuno, neanche loro figlio, sarebbe dovuto venire a conoscenza della verità.
Era difficile accettare, ma talvolta Regis sentiva di potervi quasi mettere una pietra sopra, perché quando guardava il piccolo Noctis insieme a suo padre, sapeva che quello non era solo frutto di una sterile inseminazione artificiale come aveva dichiarato al Consiglio e a tutta Insomnia. Noctis era il risultato dell'amore proibito con il suo Scudo, e anche se sarebbe stato frustrante e doloroso tenere nascosta tutta la verità, Regis sapeva che non si sarebbe mai pentito di aver scelto di ascoltare Clarus quella notte di quasi un anno prima, quando entrambi presero la decisione di avere un figlio.
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