Tumgik
#chissà cosa intendeva
der-papero · 1 year
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Venerdì sera, nella mia usuale uscita fuori con Elena, è successa una di quelle cose sceme che poi alla fine ti rimangono e ti fanno pensare un po' a quello che sei e a come ti relazioni con gli altri.
In un momento complicato, accaduto due giorni prima, dove ci scrivevamo su Whatsapp, le scrivo una di quelle frasi il cui senso doveva essere farle sentire la mia vicinanza e comprensione verso il suo stato d'animo in una condizione difficile, un qualcosa del tipo "vorrei non riportarti a quello ti fa stare male", ma scritto in un modo che doveva per metà essere la scintilla di un sorriso, dall'altro un abbraccio forte.
Bene, venerdì, davanti a delle fetenzie giapponesi al vapore e tanti scherzi, mi ha detto di getto (ecco perché lo ritengo un giudizio sentito) che ero stato creepy. Non è un problema, sono abituato a gestire situazioni che mi possono mettere potenzialmente a disagio, infatti ho detto due cagate e abbiamo ripreso a ridere come pochi secondi prima.
Il punto di questo post non è tanto il messaggio in sé e la sua reazione, ma quanto una riflessione generale. Non è la prima volta che succede con gli altri 8 miliardi di umani, ormai do per scontato di venir frainteso di default, manco mi dà più fastidio, perché le persone, e lo dico battendo i pugni sul tavolo a mo' di rivendicazione, non sanno vedere la sincerità delle mie parole, iniziano sempre a costruirci sopra architetture di cui non sarei capace per limiti personali e di malizia, però qui mi ha dato da pensare, perché io e lei ci conosciamo, ma per davvero, sono quasi quattro anni che dividiamo tutto, gioie, dolori, speranze, delusioni, pensieri, nostalgie, paure, penso che sia la persona che forse su questa Terra conosce ogni aspetto di me, anche quelli che non condividerei con nessuno, eppure, ed è qui che un po' non mi capacito, non è stata in grado di leggere le mie parole nel modo in cui io le avevo scritte. Forse ci sarà arrivata dopo, boh, dicendo "ok, Totò intendeva questo", però la prima lettura è stata l'opposto di quella che io intendevo. Detto in altri termini, le ha lette come le avrebbe lette una persona conosciuta tipo tre settimane prima, una persona alla quale avrei mostrato solo la parte vendibile di me, non per vantarmi di chissà cosa, ma unicamente per mia protezione.
E allora ho cominciato, visto che lei è in quella fascia che io considero "l'estremo superiore dei miei legami", a chiedermi se ho proprio un problema di traduzione dei miei sentimenti in parole, se proprio non riesco a farmi capire pur con tutta la buona volontà, se sono condannato ad una gabbia che mi costringe a non essere mai vicino a nessuno, è come se sapessi far ridere quando le cose van bene ma poi non riesco a far sentire il mio affetto quando le cose vanno male. Ci potrei vivere con questo limite, intendiamoci, devo solo capire se è davvero così e imparare ad accettarlo.
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deathshallbenomore · 1 year
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mamma mia che fastidio le infatuazioni che poi devi lanciare i segnali capire i segnali ma che è tutta ‘sta segnaletica ma neanche a scuola guida signora mia e poi le storie da visualizzare e chissà se ha visto la mia e cosa intendeva con quella particolare combinazione di parole cristo signore aiutami perché se devo capire se una persona mi sta sul cazzo ci metto un millesimo di secondo ma quando si tratta di sentimenti sono un’analfabeta nemmeno troppo funzionale
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sasdavvero · 1 year
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San Valentino 2022
[italiano: Ao3/EFP - English: Ao3]
OC FlashFic
Pairing: Salvatore/Niccolò
Tags: Angst, Canonical Character Death, Grief, Implied Character Death, Cemetery, Conversation with a Tomb
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Il freddo di febbraio gli ghiacciava le ossa.
Non faceva troppo freddo, ma Salvatore l'aveva sempre sentito molto, il freddo, sempre, sempre, e anche ora non riusciva a sopportarlo, si strinse nel misero giacchetto di pelle che indossava, tirò su a coprire il naso la sciarpa blu a scacchiera che gli avvolgeva il collo, continuò a camminare.
Non che ci fosse molto da camminare, il Cimitero Monumentale di Milano era giusto fuori la fermata della metro viola, lì, si salivano le scale e si entrava nella grande piazza vuota, negozietti di fiori sparsi al suo confine, poca gente circolava a piedi, il traffico era sempre lo stesso.
Tutto era sempre uguale.
Salvatore sospirò, camminando verso l’entrata, il mazzo di fiori che aveva in mano pesava in un modo impossibile, sette rose rosse, aveva letto online che serviva un numero dispari in un giorno come quello, lui non se ne intendeva, ma il sette era un bel numero.
Chissà.
Il Cimitero era vuoto, poche, poche persone, lui si muoveva in automatico, come se fosse andato lì chissà quante volte.
Una sola prima di quella, eppure, la strada alla sua tomba gli era rimasta impressa da quel momento.
C’erano dei bei fiori gialli, alcuni rosa, non li conosceva, gli dispiaceva toglierli.
Le rose ci sarebbero state bene, lì.
Si chinò a poggiare il suo mazzo vicino a questi, rimase chinato davanti alla tomba.
Niccolò Gentile.
Sorrise.
“Ciao,” parlò al vento che soffiava, al silenzio dei morti, “mi sei mancato.”
“Io tutto bene, so… non lo so, tutto un casino, ma tutto bene, le cose si sono calmate, credo, non mi ricordo il tempo, eppure, va tutto bene, o andrà tutto bene, non lo so.”
“Non so bene a cosa credere, tu che mi dici? Dici che riuscirò mai a far passare tutto?”
“Non lo so.”
“Mi manchi, mi manchi non sai quanto, ho paura di dimenticarti, così tanta paura che non lo so nemmeno io, sai? Ascolto quelle canzoni che mi hai fatto sentire e ti penso di continuo.”
“Non penso che sia passato un giorno senza piangere pensando a te, magari oggi è quello buono.”
Dal bruciore dei suoi occhi, dal tremore della sua voce, Salvatore non pensava davvero che quello sarebbe stato il giorno.
“Ho già detto che mi manchi? Perché mi manchi.”
“Penso di averti amato, o almeno mi piacevi, o almeno… almeno avrei voluto provare con te, no? Provare ad avere qualcosa di vero, no?”
“Tu invece?”
Sorrise. “Mi sa che non lo saprò mai davvero.”
Premette i palmi delle mani agli occhi, tirò su col naso, e scostò le lacrime dal suo viso. 
Si alzò in piedi. “Ti amo, credo, forse no, ma mi piace pensarlo, mi aiuta a stare meglio e peggio, sai? Buon San Valentino, ci vediamo… la prossima volta che avrò coraggio.”
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scienza-magia · 2 years
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Significato esoterico e linguistico del quadrato magico di Sator
L’antichissimo enigma del Quadrato del Sator. Probabilmente lo avete visto scritto su qualche muro, su qualche parete di anfiteatro romano oppure a lato di una strada, sulla facciata di una chiesa o chissà dove altro. Forse vi siete chiesti cosa rappresentassero tutte quelle parole, magari costituiscono un primo tentativo di parole “intrecciate” dell’antichità, magari un semplice rompicapo degli antichi romani. Non vi siete sbagliati di molto, e non ne sapete molto di meno dei tantissimi che hanno tentato di trovare una soluzione al quadrato “Sator”, risalente al tempo dell’antica Roma. In realtà ci troviamo di fronte a un gioco di parole curiosissimo, che viene descritto da un numero impressionante di aggettivi per parole e frasi.
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“Sator Arepo Tenet Opera Rotas”, la lettura delle parole che viene fatta nel tradizionale sistema latino da sinistra a destra, dall’alto in basso, è una frase che può avere molti significati, li vedremo dopo, ma prima di tutto possiamo notare che è palindroma, quindi può esser letta anche da destra a sinistra. Ma non solo. Se leggiamo le parole in verticale, partendo dalla colonna a sinistra dall’alto in basso e seguendo a destra, leggiamo sempre “Sator Arepo Tenet Opera Rotas”, così come se leggiamo partendo dalla colonna di destra ma dal basso verso l’alto. Come lo si legga lo si legga vien fuori questa frase, ma cosa significa? Tentiamo di dare una prima interpretazione per soddisfare l’esigenza dei più curiosi. Sator è il soggetto della frase ed è interpretabile come “seminatore”, in qualsiasi significato lo si possa intendere. Può essere figurato nel senso di divinità oppure seminatore nel senso agricolo, oppure seminatore anche nel senso di padre. In tutti i casi l’accezione da dare alla parola è questa, non ci sono tanti dubbi. Il vero problema è con la seconda parola, “Arepo”. Questa non compare in altri testi latini. Nessuno. E’ esclusiva del quadrato Sator, ed è per questo risulta tanto criptica. La prima possibile interpretazione è quella di un nome proprio, Arepo sarebbe quindi un vocabolo che indica un nome. Però è curioso non compaia in alcun altro scritto, nonostante Arepo sarebbe stato al minimo un nome famosissimo, vista la quantità di quadrati Sator presenti nell’Impero Romano.
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Il quadrato di Sator su una porta di legno a Grenoble (Francia). Fotografia di Tux-Man via Wikipedia Un’altra interpretazione della parola Arepo è quella di “Roncola”, lo strumento che si utilizza per mietere il grano. Nel latino tardo medievale “aripus” significava falcetto, dal greco ἅρπη, uno strumento che veniva associato a Saturno, protettore dell’agricoltura. Quindi “Sator Arepo” sarebbe il seminatore (Saturno) con la roncola. Le tre parole finali sono le più semplici perché siamo sicuri del loro significato. “Tenet, opera, rotas” significa grossomodo: “tiene con cura le ruote”, oppure “guida con cura le ruote”, ma il concetto non cambia. Tutta la frase potrebbe significare quindi: Il Seminatore con la roncola guida con cura le ruote oppure anche: Il seminatore Arepo guida con cura le ruote Altre possibili interpretazioni sono: “Il seminatore, con il carro, guida con cura le ruote”, dal termine gallico “Arepos” che intendeva un carro, oppure anche “pezzo di terra”, quindi “Il seminatore nel campo guida le ruote celesti”. Altri significati attribuiti alla frase sono ancor più distanti e fantasiosi: “Il Seminatore di un arepo mantiene con il suo lavoro il convento”, oppure “Il Creatore delle terre tiene (governa) le ruote celesti”. Insomma ci si può sbizzarrire quanto si vuole andando a cercare significati per Arepo e di conseguenza un’interpretazione fantasiosa delle altre parole, ma la realtà è che Arepo costituisce un “Hapax legomenon”, ovvero una parola che non compare altrove in nessuna forma, e quindi non è identificabile con certezza. E se le parole fossero acronimi e acrostici? Quelli di cui vi ho parlato sono i significati leggendo in modo tradizionale le parole del quadrato del Sator. Ma la parole potrebbero anche essere degli acronimi, quindi nascondere significati più complessi. Ad esempio Arepo potrebbe essere “Aeternus Rex Excelsus Pater Omnipotens” (Eterno re eccelso, Padre Onnipotente), e tenet potrebbe essere “Tota Essentia Numero Est Tracta (“L’intera essenza è ottenuta con il numero”) o Tecta Erat Nocte Exordio Terra (“In principio la Terra era ricoperta dalle tenebre”), e così via. Chi l’ha inventato si è divertito parecchio, e ha realizzato un componimento in grado di far scervellare gli appassionati di enigmi per secoli. A quando risale il quadrato del Sator? I primi esempi conosciuti del quadrato risalgono a un periodo certamente precedente l’eruzione di Pompei. Nella città sotto il Vesuvio sono stati infatti ritrovati diversi quadrati del Sator, almeno tre, di cui uno nella villa di Paquio Proculo e uno in una colonna della Palestra Grande. Dopo l’eruzione si continuò a riportare il quadrato un po’ ovunque. Lo troviamo in Inghilterra a Cirencester, antica Corinium,  ma anche in Francia a Rochemaure, Le Puy-en-Velay, a Oppède in Vaucluse, oppure a Santiago di Compostela in Spagna, nelle rovine della fortezza romana di Aquincum in Ungheria, a Riva San Vitale in Svizzera, e in Italia nelle abbazie di Veroli e Montecassino, nella Pieve di San Giovanni a Campiglia Marittima, nelle chiese di Santa Maria Maddalena in Campo Marzo a Verona e di San Michele di Pescantina, nel Duomo di Siena e in tanti, tantissimi altri luoghi.
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Quadrato del SATOR sul fianco nord del Duomo di Siena. Fotografia di G.steph.rocket via Wikipedia CC BY-SA 4.0 E’ interessante notare come il Quadrato del Sator sia stato trovato in contesti spesso legati al cristianesimo, e di come non se ne conoscano esempi antecedenti alla diffusione della nuova religione. A Pompei fra l’altro è certa la diffusione del cristianesimo prima dell’eruzione, quindi i cristiani avrebbero fatto appena in tempo a lasciarci la testimonianza scritta, poco prima di esser sepolti dalle ceneri e lapilli del Vesuvio. Che il Quadrato del Sator sia un simbolo cristiano? La soluzione al quesito è interessante, perché “Sator” potrebbe essere interpretato non come Saturno ma come “Dio Padre”, e quindi la frase assumerebbe un significato profondamente differente. La traduzione nel senso più cristiano potrebbe essere “Il Creatore, l’autore di tutte le cose, mantiene con cura le proprie opere”, ma il quadrato può essere anche anagrammato nel modo che vediamo sotto in figura:
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Dove la parola “Paternoster” ricorre in una croce greca con quattro lettere di scarto, A e O, alfa e omega, che potrebbero significare, nella simbologia cristiana, l’inizio e la fine (sono la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco). Secondo l’interpretazione religiosa il quadrato del Sator potrebbe essere un simbolo per i cristiani, un riconoscimento fra gli adepti alla nuova religione durante le persecuzioni romane. In questo caso la storia fa acqua da tutti i buchi perché le prime persecuzioni su larga scala avvennero in epoca molto più tarda rispetto all’eruzione di Pompei, nel III e IV secolo, e quindi questa interpretazione mi sento di dire possa esser considerata una storpiatura della realtà storica. Un simbolo Apotropaico? Il quadrato del Sator potrebbe essere un simbolo, un augurio di fortuna e prosperità in grado di scacciare il malocchio, qualcosa di scaramantico. Questa tesi trova vigore nel suo impiego medievale, quando in pergamene, chiese e scritti di diverso tipo viene usato il Quadrato del Sator con funzione benaugurante per un parto, per far catturare un criminale, per migliorare i raccolti e via dicendo. Un amuleto contro il malocchio, da impiegare quando ce n’è più bisogno. Cosa possiamo dire per concludere? E’ intrigante pensare che 5 semplici parole latine possano nascondere tanti significati nascosti, un bell’esempio di quanto poco conosciamo del nostro passato. L’interpretazione semplice “Il Seminatore con la roncola guida con cura le ruote” si presta a tantissime deviazioni del significato, e (a parere di chi scrive) potrebbe celare semplicemente un proverbio, un modo di dire che noi moderni tentiamo in tutti i modi di capire senza riuscirvi.
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Il Quadrato del Sator a Oppède. Fotografia di M Disdero via Wikipedia CC BY-SA 3.0 Se avessimo incontrato un pompeiano qualunque nel 78 d.C. di fronte a un Quadrato del Sator ci avrebbe detto con estrema facilità il suo significato. Pensiamolo di fronte a un bambino curioso che gli chiede il significato: “E’ un proverbio, significa che bisogna saper guidare il carro per raccogliere le messi”, oppure avrebbe risposto diversamente ma con uguale semplicità. Magari Arepo era un nome proprio, come suggerito da alcuni, una maschera divertente come “Arlecchino”, e chissà che significato assumeva per i latini inserito in quella frase. La realtà è che probabilmente non sapremo mai cosa si nasconde dietro “Sator Arepo Tenet Opera Rotas”, fa parte di quel patrimonio culturale popolare ormai perso fra le sabbie del tempo, un enigma dei nostri avi che ci racconta quanto, senza precisi riferimenti che ci consentono di interpretarlo, il passato, anche abbastanza prossimo come l’epoca Imperiale di Roma, possa risultare completamente inintelligibile, imperscrutabile a noi moderni. E dire che se l’avessimo chiesto a qualunque ragazzino in giro per Pompei ci avrebbe risposto con facilità: “Significa quello. Sì appunto. Sator Arepo Tenet Opera Rotas. E’ lampante”. Facile per lui, impossibile per noi. Read the full article
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voxina · 8 months
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Io comunque un po' di cose su questo ennesimo stunt di Harry e la situazione in generale le devo dire, perché me le tengo da troppo tempo e vedo certi commenti che mi fanno pensare come molte persone non solo - come dicono gli inglesi- vivano sotto un sasso, ma gli piace pure.
E allora ecco il mio lungo sfogo non richiesto (magari un giorno parlerò anche del tatuaggio che inizia con la O, ma tranquilli quel giorno non è oggi).
Questo discorso del "break" sta diventando davvero noioso, poiché certa gente ha deciso che questo significasse che dovesse scomparire dalle scene e per chissà quanto tempo (salvo poi lamentarsi dell'eventualità, con buona pace della coerenza d'idee). Harry non ha mai detto che sarebbe scomparso, ma semplicemente che avrebbe preso una pausa dalla musica. Cosa del tutto normale e meritata dopo un tour mondiale infinito. Quando nella foto post Campovolo ha salutato dicendo "I'll see you again when the time is right", si riferiva ai concerti, al tour, all'esibirsi dal vivo davanti a migliaia di persone. Non si riferiva certo al suo lavoro in generale. I tempi e le modalità di questa pausa non spettano certo ai fans stabilirli. Eppure, non si sa bene come e perché, qualcuno ha deciso che questo significasse quasi un addio. Mah! Le teorie, le speculazioni (fino a un certo punto), le opinioni, i pensieri generali vanno bene (sempre nel rispetto dell'artista in primis, ovvio), ma da qua a farne una scienza esatta di ciò che deve o non fare anche no grazie! Anche perchè tante, troppe volte ho visto persone prendersela con l'artista di turno perchè le sue azioni non corrispondevano a quello che pensavano avrebbe fatto o dovuto fare. Noi non siamo letteralmente nessuno per dire a un uomo adulto come vivere la propria vita quotidiana.
E, onestamente? Non mi lamenterò né mi sorprenderò se Harry dovesse prendersi una pausa prolungata. Ha lavorato (troppo) quasi ininterrottamente per più di un decennio. Una pausa è perfettamente normale per gli artisti anche per lunghi periodi. Può essere estremamente preziosa e necessaria per ricaricarsi, per trovare nuove ispirazioni, per migliorare e progredire come artista. Non va in pensione, non scomparirà come ho visto teorizzare qualcuno. E anche se fosse così, non lo biasimerei. Senza dimenticare che quello che a molti è sembrato un addio definitivo, può essere interpretato come l'addio a un'epoca, a quest'era conclusasi con la fine di questo tour. Magari farà come fece David Bowie con il suo alter ego Ziggy Stardust, dopo un tour trionfante a supporto del suo album intitolato The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders From Mars. Allora titoloni di giornali "Bowie lascia la musica", "Bowie non suonerà mai più"... e i fans distrutti per il suo lungo discorso d'addio. Ovviamente la verità era che intendeva semplicemente "mandare in pensione" il suo personaggio, non intendeva certo il suo ritiro dalla scena musicale. Infatti, meno di un anno dopo, Bowie era di nuovo in viaggio in Nord America con il suo tour The Year Of The Diamond Dogs.
Bowie stava solo chiudendo un capitolo della sua carriera (e della sua vita), non il libro. E lo fece con un autentico e mirabile coup de théâtre che, seppur in un primo momento disorientò tutti, contribuì ad alimentare il mito di Ziggy Stardust. Mito che vive ancora oggi.
Perchè mai Harry dovrebbe abbandonare adesso la musica rimane per me un mistero. Ma poi dico io, sappiamo forse quali sono i suoi piani a livello lavorativo? No! Devo forse ricordare che ha intrapreso anche una carriera d'attore? Quindi per quale motivo dovrebbe scomparire?
Discorso analogo per lo stunt. E per analogo intendo: ma davvero le persone sono così naive (per usare un eufemismo)?
Potrei anche capire che chi non fa parte del fandom e/o non ha alcun interesse in certe dinamiche e strategie non riesca a capire che questo è uno stunt a tutti gli effetti, ma i fans sia di uno che dell'altro? Certe volte tutta questa "ingenuità" la invidio. Certe volte.
Ma poi perché stupirsi?! Questo non significa che glorifico o giutifico questa situazione. Parafrasando una famosa battuta: "È lo show business, bellezza! E tu non puoi farci niente!" Beh, piò o meno. Perché quando impari a riconoscere certi tentativi manipolatori da parte dei media, sai come difenderti. Anche se vedi svolgere sotto i tuoi occhi il solito vecchio noioso copione che si ripete stunt dopo stunt, questo non ha più alcun effetto su di te. C'è del conforto nella familiarità, nella ripetizione. Possono spingere qualsiasi narrativa, ma non mi convinceranno mai della genuinità di questa coppia. Anzi, più ci provano e più imbarazzante e patetico -per loro- questo circo appare.
Basta vedere quello che stanno combinando con quelle biciclette. Persino nell'ultimo video sembrano loro le protagoniste ed Harry e Taylor gli attori secondari di questa farsa, accompagnati dal giullare di corte Harry Lambert.
Mentre tu diventi sempre più indifferente. E questo può rivelarsi "pericoloso": un fan indifferente a ciò che accade al proprio idolo, non è più un fan. Proprio quello che sta accadendo con questa pagliacciata: in tantissimi hanno perso interesse in Harry, non lo seguono più. Tolto il divertimento, cosa rimane? Non ne sta uscendo affatto bene. C'è stanchezza, noia, delusione. E questo all'interno del fandom. Non voglio nemmeno parlare di come lo vede chi è al di fuori. La percezione che se ne ha non è delle migliori, si sa. E prima che sia troppo tardi il suo team dovrebbe correre ai ripari.
E neanche voglio intraprendere il discorso closeting, perché davvero si aprirebbe un vaso di Pandora. Dico solo che se il prossimo passo è un video di loro due che si baciano, rientra tutto nel copione. "It's all planned." Ma, per quanto ami Harry, non accetto che venga dipinto come una vittima. Tutti colpevoli, tranne lui povero bimbo. Eh no! E nemmeno che tutto faccia parte di un "Masterplan". Delle due, una. La verità sta nel mezzo, come sempre. E ogni PR stunt richiede sempre accordi reciproci. Cerchiamo di tenerlo a mente.
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lui: la micia ci ha salvato la vita
lei: già... non sai le volte che la micia ha salvato me
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ma-pi-ma · 3 years
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Non servirà più a trovare un lavoro ben remunerato, ma la cultura conserva ancora la fama di filtro delle passioni. Perciò ha fatto scalpore il professor Gozzini dell’università di Siena, che ha sfoderato l’intero bestiario delle volgarità per attaccare Giorgia Meloni. Gozzini intendeva rinfacciarle di non avere mai aperto un libro, ma con quell’eloquio da taverna social dimostra soltanto quanto poco giovamento abbia tratto lui nel leggerli.
Il prof si ritrova in ottima compagnia. Anche nelle classi colte l’ironia è stata sostituita dalla comicità greve e l’umorismo dal sarcasmo. Per strappare l’applauso, o semplicemente per farsi capire, bisogna esibire un gestaccio, dire una parolaccia, storpiare in modo becero il nome del bersaglio dialettico. La pelle dei cosiddetti intellettuali si è talmente inspessita che, se ti azzardi a usare il fioretto al posto della più comoda clava, rischi di non lasciare il segno. La mitezza è sinonimo di debolezza, quando non di connivenza. Ricordate il Veltroni che si rifiutava di nominare Berlusconi nei comizi? Passò per ipocrita. L’avversario va aggredito e dileggiato, mescolando il disprezzo alla violenza verbale. Chissà che cosa si direbbe oggi del feroce ma elegantissimo scambio tra lady Astor e Churchill: «Se io fossi vostra moglie, vi avvelenerei il caffè», «E se io fossi vostro marito, lo berrei». Dal momento che non le diede della vacca, siamo sicuri che al vecchio Winston la signora stesse davvero sullo stomaco?
Massimo Gramellini
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gloriabourne · 3 years
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Nel ragionamento dell'altro Anon c'è una assurdità parecchio grave di fondo. Anche se non l'ha detto esplicitamente, si percepiva fra le righe (e a proposito, complimentoni a lei per l'italiano super perfetto, accidenti) che con "cose effimere e gossippare" intendeva dire la vita di Ermal con Chiara. Ma come si fa ad essere così cattivi? Chiara potrebbe essere, per quel che ne sappiamo, la sua ragione di vita a parte la musica, e Anon me la chiama una cosa "effimera" in stile giornaletto?
Dà anche la "colpa" a lei di un presunto cambiamento di Ermal... ok, e se anche fosse? È ovvio che trascorrendo tempo a contatto della persona amata si possa cambiare, talvolta anche radicalmente. Da come parlano certe persone, santo cielo, sembra che non siano mai state innamorate in vita loro, mi fanno tanta pena. Io venderei tutto quello che ho per poter essere felicemente fidanzata, come Ermal dimostra di essere... Perché devono sempre inquinare le cose belle con le loro lamentele?
"Chiunque voglia cambiarlo non gli vuole bene veramente" dice anon... a me sembra si verifichi il contrario! Sono le fan come lei, dannose ed egoiste, che vorrebbero congelare Ermal nel tempo, vederlo statico perenne, come piace a loro, per compiacere solo loro. Ma non va bene, "i nostri consigli non li ha ascoltati, non ci ha dato retta" ma scendete un attimo dal piedistallo, non siete nessuno per lui! Siete possessive e presuntuose. (Non mi riferisco a te Gloria, sia chiaro)
Certa gente è invidiosa e basta. Ermal senza Chiara postava spessissimo contenuti ugualmente "effimeri" (fermo restando che, di nuovo, non è nostro diritto distinguere cosa è o non è importante nella vita di Ermal). Quante cose effimere ha postato Ermal in compagnia di Fabrizio a Lisbona, per esempio, escluse ovviamente le interviste importanti e più "serie"? Una tonnellata! Eppure chissà perché nessuno si lamentava... dai, siete così prevedibili e palesi.
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Ma infatti non mi spiego tutto questo odio che, come dici tu, è palese che sia scaturito dalla sua relazione con Chiara.
Per quanto una persona - Chiara in questo caso - possa non piacere, non riesco a capire cosa spinga le persone a odiarla così tanto.
Capisco che sia difficile mantenere la razionalità in certe situazioni, ma certe uscite sono davvero infelici ed eccessive.
Poi sul cambiamento concordo, come ho già detto in passato. Le persone cambiano, è una cosa normale, e penso che Ermal non debba rendere conto a nessuno dei suoi cambiamenti.
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imcharliebrown · 4 years
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RICORDANDO STORIE RUBATE
Quando il calore della sigaretta gli arrivò d'improvviso sull'indice, si riscosse con un tremito. Fissò la brace per qualche secondo, assaporando il lieve dolore fisico, poi la spense sul posacenere davanti a sé.
Dal lato opposto del tavolino, c'era lei. Lei e una tazzina di caffè con una macchia di rossetto sul bordo. E, proprio al centro, tra loro, un abisso incolmabile di parole non dette, di silenzi mai infranti, di lacrime ricacciate nel fondo degli occhi. Un abisso che si era allungato per dieci anni, disteso su settemila chilometri di terra e d'oceano e ora, compresso a forza in quei pochi centimetri – quindici, forse venti, tanto che gli sarebbe bastato distendere le dita per arrivare a sfiorarle la mano – sembrava perfino più terribile, profondo, invalicabile. Peggio di un muro, pensò tra sé, che per superare un muro devi salire verso l'alto, ma l'abisso, Dio, l'abisso si supera precipitando. Si deve cadere, rovinare a terra, schiantarsi.
E lui, lui era già caduto. Si era rialzato, però. Da solo, in silenzio, aveva scosso via polvere e fango dalle ginocchia. Poi aveva deciso di partire. Erano passati dieci anni, ormai, ma a ripensarci gli sembrava che quel giorno non si fosse mai concluso del tutto.
Era di pomeriggio, giovedì, le tre e un quarto. Sole pigro di ottobre, ma solo fuori dalla finestra: dentro schianti di tuono, fulmini a rendere l'aria elettrica, pioggia sporca, vento. Aveva radunato sul letto qualche t-shirt, dei jeans slavati, due libri da cui non voleva separarsi, una vecchia macchina fotografica e il passaporto fresco d'inchiostro. La foto lo mostrava serio, come sempre, con lo sguardo che evitava l'obiettivo per perdersi in un punto più a destra, guardando chissà cosa, un riflesso, un bagliore che aveva attirato la sua attenzione più della luce fredda del flash. Non lo sopportava, il flash: era una menzogna. Aveva cercato in quel dizionario ingiallito riposto sulla mensola più alta della libreria di suo nonno: fotografare veniva dal greco; significava scrivere con la luce. Lui, che di fotografia non si occupava ancora, già si intendeva molto di luce, ma di luce vera. La luce del flash era artificiale, appiattiva, cancellava ombre e sfumature e lui la detestava: era umana, quindi destinata all'imperfezione. La luce vera, invece, era un'altra storia: divina, impalpabile eppure così concreta. Era ovunque. La luce vera era ovunque: bisognava solo avere la pazienza di lasciar abituare gli occhi al buio, di modo che potessero scorgerla. Rigirava quell'idea in testa come un amuleto tra le dita, a volte la pronunciava ad alta voce per ascoltarne il suono nelle orecchie e memorizzare i movimenti che lingua e labbra compivano.
Richiuse il passaporto, coprendo quel volto impersonale che nulla aveva da dire sulla sua identità, stipò ogni cosa, ordinatamente, nel fondo di una valigia di cuoio. Poi, con lo stesso metodo, ripiegò tutti i sentimenti, tutte le emozioni – belle e brutte, nessuna distinzione –, ogni grammo di rabbia, ogni stupida incertezza mai provata fino a quel momento e le ripose in un angolino remoto del petto, con la speranza che occupassero poco spazio e non trovassero mai la strada per uscire fuori.
Dieci anni, ed era ancora al punto di partenza.
Un paesino di provincia, tremila anime appena, e tutte intrappolate lì dentro, in riva al mare, a fingere che le sbarre fossero meno fitte, che l'orizzonte fosse più vicino, che si potesse costruire una strada, che si potesse partire con facilità. Non era stato facile, invece, neppure per lui che a quel posto non aveva mai pensato d'appartenere. Ed ora, ora che era tornato, la notizia aveva rapidamente percorso ogni vicolo, ogni finestra aperta, ogni orecchio. All'inizio quasi non l'avevano riconosciuto. Ma poi, oh, poi si erano ricordati di lui: il figlio di, il nipote di, o – semplicemente – il ragazzino che chiamavano bastardo, colpevole d'esser nato da padre incerto, d'esser cresciuto senza lo scudo di un cognome rispettato. Non si curavano che sua madre potesse sentire, allora. Non si curavano che lui, o i loro stessi figli potessero sentire e, inevitabilmente, ripetergli quelle sillabe rabbiose contro, fargliele pesare sulla testa come un ergastolo. Mangiava la polvere ogni giorno, dopo la scuola, quando decidevano di buttarlo a terra dietro il campo da calcio e cantilenare i loro insulti in rima. Quel bastardo, però, era cresciuto e lo sguardo di sfida che aveva imparato a sfoggiare faceva morire sulla bocca ogni brusio, almeno finché era presente. Conquista di poco conto, dato che il silenzio imbarazzato e le patetiche frasi cortesi che riceveva in cambio erano coltellate molto più profonde di un qualsiasi insulto. Ditelo, stronzi. Ditelo: bastardo. Guardatemi in faccia e ripetetelo ancora. Scandite ogni lettera. Incidetemela addosso, codardi. Avrebbe voluto urlarglielo in faccia. Attaccarli a viso aperto, distruggerli: ora sapeva di esserne capace. Invece no, ricacciava in gola ogni parola, non prima di averla assaporata sulla punta della lingua con tutto il suo livore, e se ne andava per la sua strada. Non era tornato per quello. Era tornato perché doveva sistemare delle cose, mettere dei punti fermi, smettere di rimandare. Voltare pagina, ma stavolta davvero. Aveva aperto la porta di quella casa, chiusa da dieci anni a tripla mandata, e si era sistemato nella stanza al pianterreno, che era stata di suo nonno. Il ripiano dell'armadio traballava un po’ sotto il peso dei suoi vestiti, così come il suo petto tremava ad ogni ricordo: decise di ignorarli entrambi. Poi, in soggiorno, squillò il telefono. E quando un telefono squilla in una casa che è rimasta disabitata per dieci di anni, significa una sola cosa: guai.
Sollevò la cornetta e rimase in ascolto. Un respiro, e nient'altro per dieci secondi.
Poi: “Sei tornato”. Non rispose. Non ce n'era bisogno: non era una domanda.
“Vorrei vederti. Solo vederti, prima che tu riparta” - silenzio - “Perché ripartirai, vero?”.
“Sì”, rispose stavolta. “Sì a cosa?”, fece lei, un impercettibile tremito nella voce a misurarne l'attesa. “Sì, ripartirò. E sì anche al resto”, replicò lui calmo, senza lasciare che il suo tono tradisse alcuna emozione: sapeva farlo benissimo. Eppure, eppure il cuore gli batteva forte in gola, e sulle tempie, e nel profondo delle viscere. Gli batteva un po’ ovunque, sordo e implacabile.
Così si era ritrovato seduto a quel tavolino, sul lungomare, a guardare i riflessi del sole sull'acqua fino a farsi lacrimare gli occhi. Lei era in ritardo. Copione consunto, replica di mille altri giorni uguali a quello, congelati in un passato non troppo lontano. Ordinò un aperitivo al banco e poi tornò a sedersi rivolto verso l'acqua. Arrivò qualche minuto dopo, ondeggiando sull'acciottolato con dei tacchi che gli parvero terribilmente fuori luogo. La studiò da lontano e comprese che i ruoli si erano invertiti: ora era lei, coi suoi quindici anni in più, a volerlo impressionare. Si alzò e la salutò con un frettoloso bacio sulla guancia, scostando la sedia per porgergliela. I primi minuti furono tesi, impacciati, fatti di come stai? - che fai? - ti ricordi di? - e tu? - ed era come conoscersi di nuovo, annusarsi a distanza di sicurezza per capire chi era la persona di fronte, così familiare e così estranea insieme.
Era ancora bella, anche coi suoi quarantacinque anni. Una bellezza fragile, generosa, esposta. L'occhio clinico di lui si soffermò su alcune inquadrature, valutando tempi di scatto e esposizione per riprodurre fedelmente il biancore di latte di quella pelle, la discesa dolce di quelle curve, la morbidezza; poi soppesò i suoi lineamenti, le rughe che prima non c'erano e trovò belle anche quelle. Quando lei tolse gli occhiali da sole, però, rimase frastornato per qualche secondo. Il suo sguardo era andato per istinto a cercarne gli occhi, ma non li aveva trovati: indossava delle lenti a contatto colorate, d'un blu innaturale, che le regalavano un'espressione vuota e stupida. La fissò per un attimo, incerto sul parlare o tacere, desiderando solo che si rimettesse gli occhiali per non dover più inciampare in quello sguardo di vetro. Di che colore erano i suoi occhi? Non riusciva a ricordarlo, ma sapeva che erano stati belli, e vivi, e tristi.
Parlarono per qualche ora.
Lui le raccontò di aver avuto un discreto successo come fotografo, a New York, e di aver viaggiato molto per lavoro; le parlò del suo cane, del suo appartamento ancora da pagare, dello stordimento che ancora dopo tutti quegli anni gli causava vivere in una città talmente vasta, lui, che era cresciuto in un paesino in cui le strade si possono misurare contando i passi. Vista così, al netto delle difficoltà, sembrava persino una vita invidiabile, la sua. Ma sì, lo era. Era la sua vita, e lui se l'era presa, l'aveva conquistata palmo a palmo. L'aveva scelta e le voleva bene, come si vuole bene ad una persona che si conosce da anni, di cui si sanno a memoria tutte le piccole imperfezioni, di cui si ricordano gli errori, ma a cui si guarda sempre con complicità e affetto, pronti a difenderla da qualunque attacco.
Lei gli disse, col solito tono a mezza via tra noia e depressione, che niente era cambiato, lì. Prevedibile anche in questo. Si sentiva strangolata, e suo marito – “oh, non farmene parlare, ti prego” – suo marito era il solito stronzo. L'aveva sposato quando era ancora troppo giovane per capire che certi sentimenti non erano destinati a durare, e poi ci era rimasta per non dare un dispiacere ai suoi genitori. Gli disse di essere stata molto male, e le dita scattavano ancora nervosamente mentre afferrava l'ennesima sigaretta. “Non ho più nessuno, nessuno a starmi accanto, mi sento così sola.”
Era sempre stata brava con le parole, pensò lui: anche ora, si ritraeva come la protagonista infelice di un romanzo, ammantando tutto d'una vena malinconica, parlando di alti sentimenti, di dolore incomunicabile, dell'essere umano destinato sempre alla solitudine. Le era sempre piaciuto crogiolarsi nell'idea di un fato ineluttabile. Ma ora, dall'altra parte, ad ascoltarla non c'era più quel ragazzino incantato, perso d'amore, desideroso di diventare la sua via di fuga. Non riusciva più a provare un briciolo di empatia per lei, nemmeno a vederla così fragile, insicura, a cercare disperatamente di attirarne l'attenzione, anzi – si corresse –, la compassione. Avrebbe voluto contraddirla, dirle che era colpa sua, solo sua, e non di un destino già scritto: era lei ad essersi arresa, ad aver preferito la sicurezza del fallimento, le comodità di un matrimonio che disprezzava. Invece rimase zitto, il labbro stretto tra indice e pollice, a chiedersi se fosse lui ad essere cambiato o lei a non essere mai stata niente di speciale. L'aveva amata, certo, ma ad un certo punto l'amore non era bastato. Si era stancato. Di essere dato per scontato, di sentirsi sempre meno, di essere trattato come un bambino. Di essere presente. Perciò si era fatto assenza, si era fatto mancanza. E i cattivi sentimenti da cui era pervaso, e che frenava a stento, erano il frutto maturo di quell'assenza.
Vide la bocca di lei che continuava a muoversi, non la ascoltava ormai da qualche minuto. Solo quando si accorse che gli rivolgeva un qualche tipo di domanda si concentrò di nuovo sulle parole.
“Scusa…dicevi?”
“Dicevo…vorrei che mi fotografassi, prima di andare via.”
Sollevò lo sguardo, confuso.
“Vorrei un mio ritratto, fatto da te.” continuò lei, quasi pensasse di non essere stata chiara, aggiungendo alle parole ampi gesti con le mani che ne tradivano l'urgenza.
Prese coraggio e la guardò dritta negli occhi, quegli occhi che aveva cercato di evitare per tutto il pomeriggio, quel blu innaturale, quel vuoto. D'improvviso, comprese che l'unica cosa che a lei era mai importata di lui, era se stessa. O, più precisamente, il suo riflesso, l'idea che lo sguardo di lui le restituiva. Così implorava d'avere l'ultimo feticcio di quella relazione insana, finita da anni e mai del tutto sepolta. Non smise di fissarla un attimo, durante questa presa di coscienza dolorosa. Poi, seppe cosa fare.
“No.”
Si limitò ad una sillaba, una soltanto. La pronunciò con calma, i lineamenti distesi. La sentì esplodere in bocca, piccola, semplice, perfetta.
Definitiva.
Qualche attimo più tardi era sulla strada che portava verso casa sua. Appese un cartello con su scritto vendesi e il numero dell'agenzia immobiliare a cui aveva affidato le pratiche. Ripiegò con lo stesso metodo d'un tempo i suoi vestiti, disponendoli sul letto. Prese la macchina fotografica, la posizionò su un ripiano dell'armadio, aggiustò i parametri e impostò l'autoscatto, poi si mise in piedi di fianco al letto, le braccia lunghe con i palmi rivolti avanti. Quella sarebbe stata l'immagine che avrebbe riportato a casa da quel viaggio: sé stesso, il suo ordine che finalmente era anche mentale, una valigia da riempire sul pavimento, un sorriso ferino che gli sarebbe spuntato sulle labbra ogni volta che avrebbe ricordato il sapore di quel no.
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thebileragger · 4 years
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Marta #2
Io non sono nessuno per descrivere Marta (*). Non sono in grado di riassumere, non sono in grado di contenere Marta qui, ed è un peccato. Posso provare a fare qualche esempio, però. La vita quotidiana di Marta, vista da Flavio.
- Com'è vivere con Marta?
- Ai primi tempi, volava. Dico, provava a volare. Marta non era affetta da nessun disturbo particolare, era estremamente consapevole di quello che faceva, pur nella sua irrazionalità. Un giorno le chiesi cosa stesse facendo in piedi sul tavolo della cucina, vestita solo della mia maglietta. Mi rispose che probabilmente non avrebbe avuto altra occasione di volare. Mi spiegò in brevi, semplicissime parole che quando entri in un nuovo ambiente e hai quella sensazione di spaesamento, quasi da giramento di testa e perdita dei sensi, di doversi confrontare con un ambiente completamente nuovo, il tuo corpo sta suggerendoti di ristabilire un nuovo assetto di volo. Al che stupidamente mi sono ritrovato confuso. “Assetto.. di.. volo?” – replicai. Lei scoppiò a ridere e ancora più entusiasta si chinò dal tavolo per potermi guardare meglio negli occhi: “Scommetto che non hai capito, va bene. Ma sappi che volare è tutta una questione di percezione dello spazio. Quanto più è volatile, più sei volatile tu. Come un gas.”. Fu allora che capii. “Assetto di volo”, le condizioni atte al volo. Intendeva dire che si vola per la vertigine, non per il senso di velocità, nemmeno per il paesaggio. Si vola per la vertigine. Ed aveva perfettamente ragione. Quindi tolsi le scarpe e salii anch’io sul tavolo. Volammo insieme per qualche minuto, fino a perdere la spinta del senso di novità. Fino ad adattarci al nuovo ambiente, fino a che quella non divenne casa nostra. Mi fece capire in un gesto semplicissimo dell’importanza del cambiamento e della stazionarietà, dell’assetto appunto.
- E poi?
- E poi da lì cominciò il periodo che ricordo come il più intenso della mia vita. Non dico felice, perché la felicità e la tristezza si fondevano e si confondevano sempre in Marta. C’era sempre un fondo di malinconia nei suoi gesti, riuscii a leggerlo e me ne spaventai.
Una volta tornai a casa e la trovai mezza insanguinata. Era lì, seduta sulle ginocchia al centro della cucina, evidentemente la sua stanza preferita, con un coltello in mano e il braccio destro gocciolante. Non riuscii ad esserne inorridito, e lì capii che la sua manipolazione aveva già fatto effetto su di me. Consideravo quella scena quasi normale, specialmente guardando il suo volto. Aveva un’espressione di contemplazione, di pace e di dolore sommisti. Difficile descrivere cosa provasse ma io in qualche modo lo sapevo. Quando tornavo a casa dopo lavoro, varcata la soglia, sapevo che nel frattempo Marta in quel giorno aveva vissuto almeno tre o quattro vite differenti, formulato nuove teorie, disegnato e probabilmente aveva anche trovato il tempo di lavorare.
- Lavorare? Che lavoro fa Marta?
- Adesso? Chi può dirlo. Al tempo, parliamo di circa due anni fa, aveva imparato in poco tempo a programmare. Era diventata una programmatrice freelancer. Distaccata da qualsiasi azienda o costrizione, aveva comunque una buona schiera di clienti. La sua libertà era benzina per il suo istinto creativo, che si manifestava anche in questo aspetto della sua vita. Marta viveva di sé in ogni istante, e ne traeva il massimo beneficio. Oppure soffriva profondamente, e ne traeva il massimo in ogni caso. La sua sete esplorativa la portava ad indagare i limiti nascosti del suo corpo e della sua mente. Ecco perché smisi di spaventarmi quando la vedevo insanguinata o intenta a darsi fuoco ai capelli.
- Lo ha fatto davvero?
- Darsi fuoco ai capelli? Secondo te? Diceva che era l’unico modo che aveva per capire se fosse una candela o un cilindro di dinamite. O chissà cosa altro.
- E alla fine cosa scoprì?
- Di essere una sorta di incenso. Meditava con l’odore di una parte del suo corpo bruciato che invadeva la piccola stanza da letto. Diceva che raramente si era sentita così estranea a sé e così dentro sé come in quei momenti.
- Io non…
- Non c’è niente che tu possa dire per commentare correttamente una cosa del genere. Prima te ne renderai conto prima farai pace con te stesso e la parte di te che nega che una persona come Marta possa persino esistere. Lei c’è, e la sua esistenza eleva l’umanità intera in una nuova dimensione, quella della profondità del vivere.
- Tu la adori, non è così?
- È esattamente così. Adorazione è il termine adatto.
  (*) Sono soltanto colui che ne scrive. Vorrei poter dire di essere il suo creatore, ma non ne sono sicuro. Per quanto mi riguarda potrebbe essere stata lei ad avermi creato, per avere qualcuno che ne scrivesse.
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pangeanews · 4 years
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Arcano elogio di Marcel Schwob, il costruttore di maschere
La storia ha l’odore di una beffa, ma forse è una parabola. Per motivi coincidenti a una esistenza vissuta sull’argine del caso, mi trovavo a Milano, davanti al portone della casa editrice La Vita Felice, per un appuntamento con Silvio Raffo. Il poeta provvidenziale, più tardi, sulla sua spider arancio, lungo la tratta Milano-Varese, con Giuni Russo in sottofondo, mi avrebbe intimato di vedere almeno due film: Il silenzio di Ingmar Bergman e Roulette cinese di Fassbinder (con chiosa: “cosa gli è saltato in mente di uccidersi a quello lì?, chissà quanti altri bei film avrebbe potuto realizzare…”). Quarant’anni fa, mi diceva Raffo, André Téchiné firma un film meraviglioso su Les Soeurs Brontë, con – rombo di tamburi – Isabelle Adjani, Isabelle Huppert, Marie-France Pisier, “nessuno lo conosce, guardalo!”. Naturalmente, so nulla, annuisco. Poco prima, però, il guru de La Vita Felice, con cui Raffo ha pubblicato l’ultimo libro di poesie, La ferita celeste, mi ha regalato un libro bellissimo. Il re dalla maschera d’oro. Raccolta di racconti miliare, pubblicato nel 1892, firma Marcel Schwob, in libreria tra qualche giorno. “Che trina di parole meravigliose!”, scrisse Léon Daudet al grande Marcel, intendeva complimentarsi. In effetti, quel lieve libro è un paradigma del ‘genere’, ammiratissimo da Jorge Luis Borges: nessuno come Schwob conosce il gesto bizantino di graffiare oro su chicco di riso. Il libro, per altro, è curato da Matteo Noja, che ricordo nei recessi della Biblioteca di via Senato, bibliofilo di platino, conosciuto qualche vita fa. Tutto è perfetto – infatti, il giorno dopo, nel trono del sedile del treno, mi leggo Schwob, fiero di scriverne, sognando i suoi stessi sogni.
*
Eppure, ha avuto la meglio l’incubo. Insomma, ho amato talmente quel libro da perderlo, letteralmente. Torno a casa, lo cerco, non c’è. A dire il vero, a quel punto, cerco anche Vite immaginarie – non l’ho nella traduzione di Irene Brin, ma in quella di Fleur Jaeggy, per Adelphi – perché pare che sia divorato e vomitato da una specie di incantesimo. Non trovo neppure quello: Schwob è scappato dalla finestra di casa. In effetti, per uno scrittore come lui, la cui scrittura è un gioco di specchi, una tela di ragno, l’apparizione di un regno di nuvole sulla superficie di un lago, il destino di sparire è una grazia. Sarà.
*
L’unico libro che riesco a trovare, in uno scaffale remoto, in prossimità di lavatrice, è Il terrore e la pietà, raccolta di “Racconti e scritti vari”, dietro cui alligna Calvino – “Mi sembra doveroso dichiarare che la raccolta antologica qui presentata corrisponde a uno schema stabilito da Italo Calvino e Claudio Rugafiori nel 1979”, dichiara Nicola Muschitiello – stampata da Einaudi, nella bella collana ‘Gli Struzzi’, nel 1992. In quella raccolta ci sono alcuni racconti tratti da Il re dalla maschera d’oro – precisamente: Le milesie, La Grande-Brière, Il paese azzurro, quest’ultimo dedicato a Oscar Wilde – ma non quello che ha folgorato la mia immaginazione, che dunque è inevitabilmente perduto. Questo articolo, dunque, si concentra su ciò che è perso, su un vuoto, su un buco in cui seppellire queste poche parole.
*
L’edizione precedente de Il re dalla maschera d’oro e altri racconti è del 1983, traduzione di Maria Teresa Giaveri e Silvana Turzio, stampa SugarCo. Sfogliando qualche repertorio on line, risalgo al titolo del racconto che mi aveva così colpito. S’intitola Le imbalsamatrici. Con una scrittura domata, ferma, senza sfizi esotici, Schwob racconta di due viaggiatori che visitano un villaggio africano – etiope, mi pare –, ambrato di leggenda, abitato da sole donne. Costoro, di micidiale bellezza, fanno le imbalsamatrici: la descrizione del modo con cui, grazie a particolari uncini, estraggono il cervello dei cadaveri – maschi – dal naso e di come li sviscerano è accurata. Naturalmente, le fatali imbalsamatrici – un po’ amazzoni, un po’ sirene – pensano di tentare, con l’incanto del bello, i due, per scannarli. I temi sono evidenti: l’uomo pupazzo tra le mani della donna; la donna che dà la vita e ha potere di morte; la seduzione come incantamento letale. Il racconto starebbe bene sulle palpebre di Borges: il villaggio delle imbalsamatrici ha struttura labirintica, l’ipotesi dichiara che l’uomo, infine, non è che la contraffazione di una idea originaria, manipolata; il suo corpo è una falena.
*
Il racconto mi fa andare a due avvenimenti della vita troppo breve di Schwob (che ricavo dalla Notizia biobibliografica di Muschitiello). L’anno prima di pubblicare Il re dalla maschera d’oro, Schwob, di famiglia benestante, si accompagna a Louise, “una giovane operaia, forse prostituta, malata di tubercolosi, di modi infantili, le cui lettere sgrammaticate lo riempivano d’incanto”. Schwob ha 24 anni, già sogna di regredire all’infanzia, che vede, per apparizioni, nell’ingenuità di una creatura ‘del sottosuolo’. Schwob ama con totale trasporto questo emblema d’innocenza: nel 1893 “Louise morì, stroncata dalla tubercolosi, nonostante le cure e la devozione di Schwob, il quale diventò come pazzo: piangeva ovunque si trovasse, non voleva mai essere lasciato solo, per paura che la morta potesse morire ancora”.
*
La paura della solitudine come se, solo, scoprisse di appartenere a un’altra specie, non più umana; la possibilità che si possa morire continuamente. Nel 1895, un anno prima di pubblicare il testo più noto, La Croisade des enfants, Schwob si lega a Marguerite Moreno, attrice del Théâtre Français. Ancora una volta, Schwob si innamora di una maschera – la prostituta, l’attrice – e di una idea – gli inferi, il palcoscenico. A Marguerite, che in effetti gli restò al fianco fino alla morte, che accadde nel 1905, Schwob scrisse lettere di straziante potenza: “Farò ciò che vorrai – Capisci. Io non mi appartengo più – non ho paura di nulla – di una cosa soltanto – non lasciarmi mai – o uccidimi, prima di lasciarmi. Vorrei essere ucciso da te. Perché la morte sarebbe ancora te”. Il suo desiderio profondo è quello di morire integralmente nell’altro – d’altronde, la sua arte da scrittura è tutta nel trattenere e nel nascondere, nel levare e nel levigare. Anche il viaggio verso le Samoa, compiuto tra il 1901 e il 1902, in onore di Robert Louis Stevenson, malato, arde di un profondo desiderio di morte.
*
Il breve saggio che apre Il re dalla maschera d’oro – che ho recuperato altrove – celebra l’idea letteraria di Schwob. “Ho scritto un libro dove ci sono maschere e volti coperti; un re con la maschera d’oro, un selvaggio dal muso di pelliccia, viandanti italiani dalla faccia appestata e viandanti francesi con un viso finto, galeotti con un elmo rosso, fanciulle invecchiate improvvisamente in uno specchio, e una folla singolare di lebbrosi, imbalsamatrici, eunuchi, assassini, indemoniati e pirati, verso i quali, prego il lettore di credermi, io non ho preferenze di sorta, perché sono certo che essi non sono così diversi tra loro… volentieri dirò che la differenza e la somiglianza sono dei semplici punti di vista”. Mentre lo scrittore contemporaneo ha per obbiettivo primo lo ‘smascherare’, Schwob aggiunge maschera alla mascherata umana. Non disvela ma vela, all’apparenza – in effetti, già il nostro volto è maschera, le nostre parole sono puro travestimento, pur travisate dagli altri. Lo scrittore intaglia le maschere per appropriarsi del rito della scrittura. D’altronde, nel discorso sul simile e il differente e il loro miscuglio – per lo scrittore tutto è nuovo, diverso, e a tutto si avvicina, si fa simile – è evidente la formula alchemica. (d.b.)
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deathshallbenomore · 3 years
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in tutto ciò. per tornare alle nostre attività abituali, perché la mia collega mi ha detto “chissà quando ci daranno questa legge [zan]” PERCHÉ. COSA INTENDEVA. È UN QUALCHE TIPO DI SEGNALE? e soprattutto, perché non capisco mai un cazzo? MAI SIGNORA MIA, MAI
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len-scrive · 5 years
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Commento in tempo reale
Tempo fa usavo commentare film interi, come fosse stato in tempo reale mentre li guardavo. Per intenderci come usano fare gli attori negli extra dei dvd solo che a me andavano via pagine e pagine, ore e ore, perché a scrivere ci si mette di più che a parlare.  
Ne uscivano infatti chilometriche assurdità che ancora oggi mi chiedo come cavolo ho fatto a produrre.
Tra le tante salvo solo questa, che voglio condividere perché più schematica e facile da seguire delle altre e perché fruibile perfino da chi non ha visto il film.
Per tutti voi che avete tempo da buttare e volete fare la conoscenza di questi due individui ecco a voi: Paranormal Activity.
    Adoro i piani ben riusciti
  Paranormal Activity è un film di Oren Peli girato però come fosse un documento vero (stile The Blair Witch Project) dai due protagonisti Micah e Katie al fine di registrare gli eventi paranormali che si verificano in casa loro.
Mi dimenticherò che questo è un film e lo commenterò proprio per il documentario che è. E, udite udite,  userò la versione italiana visto il finale decisamente più carino e il doppiaggio azzeccatissimo che mi fa morire dal ridere.
  Conosciamo meglio i nostri due amici che vivono insieme e hanno una relazione da quattro anni.
Lui, Micah Sloat, è un ragazzo dallo sguardo assente e il cervello fluttuante. È ammaliante quanto una lampadina e ha i processi cognitivi di un libro di Moccia aperto a pagina cinque. Di mestiere mi pare di aver capito che vende cose su internet mentre attende che la fidanzata si laurei per sposarla. È anche un fanatico dell’elettronica e un giorno, di comune accordo con se stesso, decide di comprare una mega telecamera professionale con l’intento di documentare i fatti strani che accadono nella villetta in cui vive.
Lei è Katie Featherston e ha due gravi macchie nella sua vita. La prima è quella di aver attirato l’attenzione di un demone che le rompe i coglioni da quando aveva otto anni. La seconda è quella di aver deciso, quattro anni prima, di iniziare una relazione con quel decerebrato del suo ragazzo.
Nel corso del documentario vedrete che tutto ciò che di più brutto può capitare a Katie le capita proprio a causa del suo fidanzato e delle sue trovate geniali.
  Trovata geniale numero 1.
La telecamera. Sempre accesa anche quando non serve.
Ché a noi di vedervi mangiare e suonare la chitarra non ce ne frega un cazzo.
  San Diego, 18 Settembre 2006. Vedrete come ad un pirla bastano ventuno giorni per far incazzare un demone.
Katie torna a casa, parcheggia, e subito si ritrova puntata in faccia una telecamera. Il geniale cameraman è il suo ragazzo Micah, che ha speso metà del suo guadagno giornaliero per acquistare tale aggeggio fenomenale.
C’è da dire che vista la macchina di lei, vista la villetta con piscina e vista la quantità di apparecchi sofisticati che si ritrovano in casa, la nostra non sembra una famigliola che se la passa male.
Dev’essere questo che infastidisce il demone.
Katie stessa non spicca per intelligenza, al pari del suo ragazzo, infatti lo guarda e gli chiede “Cos’è quella? È quello che penso?”
E a meno che lei non pensi che sia un frullatore a doppia velocità che Micah si porta in giro su una spalla guardandoci dentro, direi che sì, quella è una telecamera e sì, probabilmente il tuo ragazzo te la sparerà in faccia per le prossime settimane ventiquattr’ore su ventiquattro.
Lui dice “Penso che sarà interessante riprendere qualsiasi fenomeno paranormale che ci sia o non ci sia” e qui già si intuisce il grado di deficienza di quest’uomo. Chissà quali sono i fenomeni paranormali che non ci sono, saranno quelli nel suo cervello.
La telecamera è accesa da appena mezz’ora e già i due sparano cazzate come fossero mitragliatrici.
Lui sostiene che se lascia sempre accesa la telecamera riuscirà a riprendere qualunque cosa quando succederà e potrà lasciarla come documento ai posteri, in più se entrambi sapranno con cosa hanno a che fare potranno farvi fronte senza problemi.
Certo, io mi chiedo in che mondo vive quest’uomo che pensa di poter combattere contro un’entità paranormale; la sua baldanza dovrebbe far preoccupare la sua ragazza. Lei invece si limita a dire “Sì, così potremo riguardare i filmati e ricordare il passato”.
Eh certo, c’è chi fa i filmini delle vacanze e chi riprende il demone domestico.
La serata trascorre tra cena e prove varie per saggiare le capacità del nuovo acquisto di Micah. Lui chiede addirittura a Katie se ha un modo per “farlo succedere” dimostrando fin da subito di non avere rispetto per questa entità e di non averne per la sua ragazza che penso non abbia nessuna voglia di vederla apparire.
Finché non è ora di prepararsi per andare a dormire.
L’idea è quella di piazzare la telecamera, accesa per tutta la notte, su un treppiede e puntarla verso il loro letto, come nella miglior tradizione dei film porno casalinghi, in questo caso nella speranza di cogliere il simpatico inquilino di casa con le mani nel sacco.
Ma Micah ‘sta cazzo di telecamera se la porta avanti e indietro tra bagno e camera da letto nella speranza di convincere la sua ragazza a battezzarla con un bel filmatino di loro due che si accoppiano, mentre lei è restia alla cosa primo perché al demone potrebbero salire colazione e pranzo nel vederli e secondo perché la telecamera ha scopi più elevati.
Come ‘st’aggeggio viene posato si possono spegnere tutte le luci e andare a letto.
  Prima notte – 18 Settembre 2006
I protagonisti dormono tranquilli nonostante lei, prima di addormentarsi, abbia proclamato “Mi sta guardando” che io, al posto di Micah, mi sarei alzata e avrei optato per stare sveglia tutta la notte in piedi in cortile cantando “Diavolo in me”.
E va beh, durante la notte passi ovattati in sottofondo e niente di più.
Al mattino la bella sorpresa del demone per i due giovani è un mazzo di chiavi buttato per terra.
E anche qui, non sto a commentare l’idiozia del demone che fra tutti i dispetti che può fare loro si limita a spostare delle chiavi… Ma santo cielo voi due dovreste già cagarvi sotto, perché lo sapete che le chiavi erano sul mobile, ne avete la certezza.
E poi non guardate la registrazione della notte passata, no, tanto cosa riprendete a fare? Non domandatevi se non sia il caso, forse, di prendere provvedimenti seri.
Quello che veramente disturba è che per fare il film non ci si può limitare a riprendere di notte, quindi durante il giorno i due deficienti si esibiscono in dialoghi da organismi unicellulari e prodezze in piscina.
Questo per intrattenerci prima dell’arrivo del sensitivo, unico bel personaggio del film che dimostra anche di avere delle facoltà mentali, oltre che paranormali.
Micah, per non tradire la sua natura imbecille, non apprezza granché l’arrivo di questo esperto nel paranormale (normalmente darei ragione al ragazzo, ma nel loro caso direi che un aiutino farebbe comodo) così ci scherza su e se ne burla chiedendo se è normale che un sensitivo arrivi in ritardo (perché dovrebbe sapere prima se c’è traffico) e se sarà così gentile da dirgli qualche cavallo vincente.
Il tizio arriva e grazie alla sua presenza finalmente scopriamo cos’è che turba la vita di Katie e adesso, per sfiga comune, anche quella di Micah.
All’inizio pare che il dottor Fredrichs bene si inserisca nel contesto di fesseria generale, perché chiede se per caso i fenomeni riscontrati dai due non siano dovuti a scricchiolii della casa o a tubature che fanno rumore. Poi, riflettendoci, capisco che l’esperto ha solo dedotto che tra Katie e Micah non c’è materia cerebrale sufficiente a comporre una frase e da qui la necessità di accertarsi se per caso non lo stiano prendendo per il culo.
Quando Katie racconta del suo vissuto, però, il dottore (dottore in cosa, poi, vorrei capirlo) cambia subito umore e afferma che con un demone non vuole avere nulla a che fare perché “mi mette molto a disagio trattare coi demoni”.
Eh, guarda, che strano.
Quest’entità è di una simpatia unica; in pratica ha cominciato ad infastidire Katie a otto anni, poi le ha incendiato casa, perché si vede che non gli piaceva più andare a trovarla dove viveva, poi l’ha lasciata perdere per un po’; è tornata da lei a tredici anni e poi di nuovo sempre a intervalli regolari.
Secondo me la motivazione per cui da qualche tempo ha ricominciato ad infastidire è perché Katie ha deciso di fidanzarsi con quel robo lì.
L’esperto viene portato in tour per la casa e gli viene mostrata la telecamera. Ispirata la sua domanda “Quindi andate a dormire con la luce accesa e la telecamera in funzione…lo fate spesso?”
Chissà cosa intendeva chiedere veramente.
Micah continua a domandare come far succedere il fenomeno e bisognerebbe dirgli, ridirgli, spiegargli e fargli un disegnino per convincerlo che non è che succede, l’entità è già lì con loro, anche adesso, li ascolta pure mentre dicono cazzate, Micah poi è campione mondiale nel settore.
Non c’è verso di infilargli in quella testa bacata che giocare con queste cose è pericoloso, infatti il dottore lo insulta nemmeno troppo velatamente quando il giovane afferma di voler comprare una tavola Ouija.
Gli dice “Non usare la tavola perché se gli chiedi di comunicare lui troverà un varco per entrare e lo farà, non comprare la tavola perché quello che vuole il demone è Katie, quindi che glielo chiedi a fare cosa vuole? Non comprare la tavola Ouija...mi hai capito bene?”
“Sì, sì, la seguo” risponde Micah.
“Speriamo.”
Ma il dottore ha poco da sperare.
“Andrà tutto bene” dice poi prima di andarsene, ma l’unico aiuto che dà è scrivere ai due il numero di telefono di un suo amico demonologo, poi fugge veloce da casa loro lasciando dietro sé non solo due pirla e un demone, ma anche una buona dose di sfiga colossale.
Il numero del demonologo i due ce l’hanno, ma forse si azzardano a chiamarlo? Ovviamente no, perché lei è spaventata ma ha anche un ragazzo tonto che le dice di non chiamare assolutamente il tizio. E tra la sua paura e il ragazzo tonto lei chi ascolterà?
“Se peggiora…se peggiora lo chiamo” afferma lei. Chissà cosa vuole dire, per lei, trovarsi in una situazione peggiore.
Ma scusa, deficiente, con tutto il bene che puoi volere al tuo ragazzo e con tutta la buona volontà che puoi mettere nel prendere le decisioni insieme a lui perché siete una coppia…ma cazzo, sei tu che hai l’ombra che ti si appoggia sul letto la notte e che ti sussurra “Katie” nell’orecchio. Questo nel mio caso batterebbe tutto l’amore per chiunque, decido IO cosa devo fare e QUANDO farlo. Eccheccazzo.
Ma Micah vince contro il demone di nuovo e siamo solo alla terza notte.
  Terza notte – 20 Settembre 2006
Il demone, come si può notare, si sveglia sempre verso le due di notte e comincia a rompere. Stavolta apre e chiude una porta e fa un po’ di rumore, del resto dovrà pure vendicarsi delle cazzate che sente durante tutta la giornata.
Il giorno successivo finalmente i due guardano il filmato, ma ancora non si cagano addosso a sufficienza e, evidentemente, la situazione non è ancora “peggiorata”, perché Katie non chiama nessuno.
Però notiamo che lei ha davvero delle gravi disfunzioni perché il filmato della porta che si apre e si chiude da sola non le suscita granché, ma la vista di un ragnetto la fa urlare come una gallina e mi immagino quanto il demone sia infastidito dalla cosa.
Poco dopo Micah si sente di prendere la telecamera in mano e prodursi in cazzate.
  Trovata geniale numero 2.
Insultiamo il demone, dai.
  “Sei ancora qua?” chiede Micah riprendendo la porta e la maniglia della porta. “Mi vuoi dire cosa significava? Che parte del tuo grande piano consiste nel muovere la porta? Oppure fai solo delle cose a cazzo?”
Risposta del demone.
“No, Micah, io non ho un piano preciso, sto solo facendo i cazzi miei perché io posso mentre tu no, sostanzialmente. E non è che devo fare una cosa in particolare per essere un demone, posso fare anche cose a cazzo, perché io posso e tu no. Questa è casa tua, ma io posso fare tutto ciò che voglio…e tu no. Mi avrai capito?”
Ma Micah non è solo spavaldo come Don Chisciotte, è anche tardo come un trattore e prima di andare a letto ci rende partecipi delle sue scoperte affermando “O è un fantasma o è un demone”.
Pensa, non l’avevamo mica capito; però è un demone, caro, te l’ha detto anche il dottore.
“Noi seguiamo le prove e io farò le mie ricerche e scoprirò di che si tratta.”
È un demone, porca troia!
E poi che ricerche devi fare che già non ti trovi il cervello?
La fidanzata gli rispiega tutto da capo.
“Da quello che dici dev’essere proprio un demone” conclude lui.
Complimenti per la sagacia e per il numero di ricerche che hai dovuto fare.
Ma non è finita.
Katie ribadisce che questa cosa non è umana e quindi non è un fantasma e Micah “Allora forse hai ragione il che è un male perché i demoni sono potenti”.
Sento il demone che tira un sospiro di sollievo e dice “Cazzo, ci ha messo i suoi due o tre mesi ma forse adesso gli è tutto chiaro”.
“I demoni ti perseguitano per anni e a volte trovano dei metodi anche molto intelligenti per spaventarti.”
Eh, certo, il problema è quando si ha a che fare con chi l’intelligenza non ce l’ha manco in prestito un paio di volte all’anno...
A questo punto uno si rassicura sul fatto che Micah abbia capito che è il caso di non scherzare troppo sulla faccenda.
Ma no.
“È un fenomeno molto raro, è una figata averlo ripreso.”
Il demone spara un’imprecazione poco signorile e si organizza per rovinare ad entrambi l’ennesima nottata.
Il decerebrato controlla che l’allarme sia inserito affermando “qualunque cosa entri non ci sfuggirà” e probabilmente si riferisce ai cani randagi e ai ladri di telecamere nel quartiere, perché il demone invece sarà alle spalle che gli chiede “ma che cazzo lo metti a fare l’allarme se sono qui?”
E perfino la sua ragazza fa notare che il demone può fare e disfare a suo piacimento, ma Micah risponde “E tu che ne sai?” facendoci crollare per sempre la speranza che si possa uscire da questa situazione illesi.
  Quinta notte – 22 Settembre 2006
Stavolta il demone si alza un po’ più tardi, verso le tre; prima provoca gli incubi a Katie e poi muove i mobili al piano di sotto.
Questi due sono svegli nel cuore della notte dopo essersi presi un colpo sentendo i rumori e Micah chiede “È tutto quello che sai fare?”
Ma lo vedi che devi essere privato degli organi fonatori? Lo vedi che stai chiamando la morte a gran voce?
Come si fa ad essere così coglioni?
Dalla registrazione di questa fortunata notte viene fuori anche un bel ringhio del demone che Micah fa ascoltare a Katie e quando gli viene chiesto che cos’è lui che fa ricerche, che sfida il demone, che ci pensa lui perché è casa sua risponde “L’ho ascoltato per ben sei volte e non ci capisco niente, (pensa che novità) non è una lingua che riconosco, (che può essere una qualsiasi) non è un camion… io penso che sia questa cosa che vuole comunicare (ma dai! Tu dici?)”
Tutto questo per ritornare a rompere con la tavola Ouija sulla quale ormai si è fissato. Katie gli ripete per l’ennesima volta di non comprarla, ma dovrebbe riconoscere ormai lo sguardo vacuo del suo fidanzato di quando dice “va bene” ma non ha capito un cazzo.
Infatti prima di andare a dormire (che è sempre un bel momento per far incazzare il demone) il giovane riprende la trovata geniale degli insulti.
“Il tuo demone non vale niente, non vali niente! Sei solo un incapace!” per un attimo pensavo gli dicesse “sei solo chiacchiere e distintivo”, ma si vede che Micah non conosce la citazione.
  Tredicesima notte – 30 Settembre 2006
Infatti alle tre e un quarto il demone riappare più incazzato che mai. Stavolta provoca un bel casino di sotto mettendosi anche a ringhiare e facendoli spaventare di brutto entrambi.
Era ora.
Visto che insultarlo non è stata una bella idea?
Tornano a letto terrorizzati.
Eh, certo, mi sembra logico.
Ma cazzo, io non riuscirei mai a rimettermi a letto, al buio, dopo una cosa del genere. Io mi dispererei, per cominciare, e poi non spegnerei più una luce in casa, per quello che può servire.
Ma Katie già convive con quella disgrazia del suo fidanzato, effettivamente il demone è un problema secondario.
“Io spero che quel tipo, quella cosa o quello che è ci faccia vedere un po’ d’azione” esclama Micah il mattino dopo.
O quest’uomo ha la memoria a breve termine sputtanata o davvero ha coraggio inutile che gli esce dal naso.
Ma chissà se per loro la situazione ha subito il famoso peggioramento…
  Trovata geniale numero 3.
Il microfono nel quale il demone dice ciò che più ti aggrada.
  Micah registra la stanza vuota alla quale fa domande a caso.
A parte “C’è qualcuno qui?” che vince il premio come Miglior Domanda Posta Ad Un Demone Infestatore, e “Qual è il tuo colore preferito?” una delle tante è “Vuoi comunicare con una tavola Ouija?”
Nel riascoltare la registrazione Micah nota che il demone (assolutamente zitto tutto il tempo) ringhia alla domanda fatidica.
Così, convincendosi che un ringhio sta per sì e due per no, all’unanimità con se stesso, Micah può finalmente acquistare ‘sta benedetta tavola.
Che poi 1) se la tavola è pericolosa come ha detto l’esperto è logico che il demone voglia fartela prendere, pirla. 2) magari due ringhi stavano per “no, coglione, non mi facilitare così il lavoro che già sono avanti sulla tabella di marcia per portarvi alla morte dolorosa e tu mi fai risparmiare pure tempo…”
  Quindicesima notte – 2 Ottobre 2006
Stavolta il demone pensa bene di servirsi di Katie per fare i suoi comodi. La fa alzare in piena notte e la fa stare in piedi a guardare quel capolavoro del suo ragazzo per ore. Poi la fa camminare fino al piano di sotto finché Micah non si sveglia e la va a recuperare in giardino seduta sul dondolo. Lei non è presente, sembra non capire nulla di quello che succede, non ascolta il ragazzo quando le chiede di tornare a letto e chiede di essere lasciata in pace.
Tutto ciò sempre a telecamera accesa perché Micah, qualunque cosa faccia, se la porta sempre dietro, anche se sono le quattro del mattino e lui è mezzo rincoglionito dal sonno.
In più il demone da dentro fa casino e la cosa è sempre ripresa dalla telecamera. Katie torna in sé come se niente fosse e si rimettono a letto.
Anche qui…ovvio.
Alla quattro del mattino trovo la mia ragazza fuori di sé sul dondolo in giardino al freddo. La chiamo e mi dice di andarmene. Dalla stanza si sente un rumore, corro di sopra e c’è la tele accesa, la mia ragazza rientra e mi dice “Che fai? Torna a letto” come niente fosse... E io torno a letto! Non vado a chiamare un esorcista, no.
Il giorno dopo Micah mostra il filmato a Katie e lei si limita a dire “Oddio!”
Ma dai!
Ma se proprio non vuoi andare a pensare ad un demone (che ormai pare palese) almeno vai a farti una TAC, almeno preoccupati per il tuo cervello, no?
No.
La situazione non è peggiorata ancora, evidentemente.
“Ci vuole solo terrorizzare, ci spaventa tutti e due” conclude Micah.
Peccato non ci sia un applauso scrosciante sotto queste affermazioni di livello superiore.
“Non farti influenzare, non facciamoci influenzare.”
Ma bello mio, quella di stanotte cos’era secondo te?
Io direi una bella possessione demoniaca e se proprio non ti pare logica questa conclusione, perché fai fatica da sveglio figuriamoci mezzo addormentato, almeno ammetti che la tua fidanzata proprio a posto non è.
Preoccupati un po’!
Sii dotato di cervello per due secondi!
“Far venire qualcun altro, un esorcista o chi ti pare magari peggiora le cose.”
Eh certo, perché le cose non sono già peggiorate. Come abbiamo visto finora, i peggioramenti in questa casa chissà quali saranno.
  Trovata geniale numero 4.
La tavola Ouija che dura il tempo di un vaffanculo.
  Esclamando “Ecco fatto stronzetto” Micah piazza davanti alla telecamera la tavola Ouija appena presa. Così, mescolando ben due trovate geniali insieme, gli insulti e la tavola, dà il via all’ennesimo esperimento che la sua mente eccelsa ha partorito per risolvere la situazione.
La telecamera è posizionata, la tavoletta pure, ma come Katie la vede si incazza e lo ricopre d’improperi. Finisce che entrambi escono di casa lasciando il demone libero di mostrare a tutti noi cosa ne pensa della tavola Ouija.
Se avesse potuto farci i bisogni sopra l’avrebbe fatto sicuramente, in realtà si limita a darle fuoco (è un demone della specie piromane) e a lasciarci un messaggio sopra che poi starà a Micah decifrare.
Il demone è carino perché crede in Micah e nelle sue capacità anche se finora non ha avuto nessun buon motivo per farlo.
Che poi, quando lo scemo mostra la tavola alla telecamera, sfido chiunque a capirci qualcosa nelle macchie lasciate sopra dal demone, Micah tirerà ad indovinare e ci azzeccherà nell’unica botta di culo della sua vita.
Tra l’altro sa benissimo che Katie è incazzatissima per questa idea che ha attuato eppure le continua a chiedere “Aiutami a capire cosa ci ha scritto sopra” che io gliela spaccherei in testa dal nervoso quella cazzo di tavoletta.
Lei infatti lo butta fuori dalla camera insultandolo e lui “Mi sa che è incazzata, non è un buon segno”.
È davvero il più grosso tonto mai partorito.
La risoluzione di tutti i loro problemi, pensate a quanta idiozia risiede in questa casa (povero demone), è fare un giuramento di fronte alla telecamera in cui Micah afferma che da quel momento in poi tutte le decisioni saranno prese da Katie.
Eh sì.
Uno…ormai siete nella merda fino al collo, l’unica soluzione per te, Katie, era abbattere il tuo ragazzo molto tempo fa. Due…il giuramento sarà disatteso giusto fra qualche ora.
Pace fatta. E proprio prima di addormentarsi lui chiede “Vuoi sapere cos’è successo alla tavola Ouija?”
Ma sì, prima di dormire, che già le nostre notti sono così serene, tu raccontami cose macabre che, fra l’altro, non sono manco inventate ma stanno succedendo davvero, grazie. Così dormo meglio.
Lui è un pesce lesso e lei è spacciata.
La scena più bella viene subito dopo dove vediamo Micah alle prese con la risoluzione del messaggio cifrato lasciato dal demone.
Cioè…ti riprendi mentre stai lì a guardare la tavola cercando di ricordarti l’alfabeto? Ma quanto scemo sei?
E hai pure una faccia impegnata da antologia, come se volessi farci credere che stai davvero riflettendo su qualcosa.
Beh, Katie gli dà retta, perché l’amore offusca la capacità d’intendere e di volere, così lo raggiunge e lo ascolta pure mentre lui, tutto fiero di sé, prima afferma di essersi dedicato alla comprensione del messaggio per quanto? Sei, sette ore? Poi ci delude per l’ennesima volta con la frase “Non sono riuscito a capire esattamente”.
Guarda, non avevamo dubbi, ormai abbiamo imparato a conoscerti.
In pratica il messaggio significa, a scelta: Edina, Diane, Nadine senza due “N” (che vai a capire che nome è Nadinne e dove l’ha mai sentito Micah) e tutte le svariate combinazioni con queste lettere che sono poche.
Sul suo quaderno poi si leggono, insieme ad altre venti lettere diverse (per cui il demone potrebbe aver detto qualsiasi cosa), anche un “goodbye Di-anne” che fa sbellicare dalle risate. Il “goodbye” da parte del demone gli piacerebbe, mentre il “Di-anne” con quel trattino in mezzo chissà cosa rappresenta per Micah. Mah…
Che poi il fesso ha guardato il filmato per risalire a queste lettere e, dico io, non puoi usare l’ordine con cui il demone le ha indicate, se l’hai seguito? Il demone la tua lingua la sa, sei tu che non sai né la tua né la sua.
E dopo queste preziose scoperte (del resto l’aveva detto Micah che avrebbe svolto delle ricerche) le cazzate non sono finite, eh?
Katie lo guarda con compassione, perché un po’ si sarà accorta che lui ha problemi gravi, però continua a fidarsi invece di chiamare uno bravo. Anche uno psicologo, basta che sia bravo.
“Ci sono molte possibilità, potrei anche sbagliarmi, non so” continua lui.
Ma no, dai, non ti buttare giù così. Tra i dieci probabili nomi, il “goodbye Di-anne” e le lettere a caso secondo me sei vicino ad una soluzione.
Quella che preferisci, tanto qualunque cosa va bene.
Sconsolata Katie si confida con un’amica e quando questa, giustamente, fa notare che bisognerebbe fare qualcosa, lui risponde “Tranquilla, ho un piano”.
Ricordatevi queste parole perché sono tra le ultime cazzate che sparerà questo ragazzo.
“Qual è il tuo piano?”
“Ho un piano.”
E anche qui, io credo che Micah non sappia cosa sia in realtà un piano.
Perché sentite il piano.
  Trovata geniale numero 5.
Il borotalco per sapere se c’è il demone in camera.
  Cioè… Micah vuole cospargere i dintorni della camera con del borotalco.
Ma perché?
Solo per vedere le impronte della bestiola lasciate sulla polvere bianca, no?
E quindi?
Se lo sai che c’è il demone a cosa potrà mai servire?
E lei pure che gli dice “Puoi fare l’esperimento, ma se non funziona chiamo il demonologo”.
Ma non funziona come?
Non funziona nel senso che le impronte non ci sono?
Allora significa che non c’è il demone? Oppure significa che il demone non deve per forza camminare, magari vola in quanto entità inconsistente.
O intendi che non funziona perché non risolve niente?
E bella mia, che cavolo deve risolvere questa cazzata inutile?
Davvero, io fatico a capire. E non sono manco fidanzata con Micah.
Sta di fatto che la sera stessa, dentro la camera e nei corridoi fuori, viene fatta una gettata di borotalco che nemmeno nelle pubblicità dei pannolini.
Lui “Dobbiamo capire con cosa abbiamo a che fare prima, poi possiamo scatenarci”. Io non commento nemmeno più queste frasi perché ormai si è capito il motivo per cui il demone si accanisce su queste due creature.
Sereni e appagati per la vana opera compiuta i fidanzatini si ritirano sotto alle lenzuola, non prima che Micah abbia detto le preghiere della sera.
“Nessuno può entrare in casa mia, fare lo stronzo con la mia ragazza e passarla liscia.”
Mi pare che qui l’unico che sta facendo lo stronzo con la tua ragazza sei tu, la stai conducendo per mano alla distruzione.
“Questa è casa mia e tu sei la mia ragazza, risolverò questo cazzo di problema.”
Strano che Micah non senta il demone fargli un pernacchione, perché io l’ho sentito. Le convinzioni di quest’uomo sono uno spettacolo di cabaret.
  Diciassettesima notte – 4 Ottobre 2006
Il demone non vuole deludere le grandi aspettative di questo genio dai piani così ben studiati e verso le tre e un quarto, con comodo, si presenta e fa un po’ di rumore.
Come i due si svegliano trovano una bella impronta a tre dita sul borotalco e hanno pure l’ardire di sorprendersi e spaventarsi.
Che imbecilli.
Micah fa notare che c’è un’impronta che entra ma nessuna che esce; infatti è probabile che sia l’ennesima presa per il culo che il demone ha deciso di giocarvi. Lui fa ciò che vuole e come vuole, se non avesse voluto farsi vedere non avrebbe camminato sulla polvere.
Ma Micah immagino si senta un grande stratega; afferra la telecamera e deambula per casa seguendo le tracce.
Vuole scoprire da dove arrivano le zampate e così si avventura nel corridoio con Katie alle sue spalle che lo avverte “Potrebbe essere una trappola”.
Ma quale cazzo di trappola deve tendervi ‘sta creatura? Fate tutto già da soli, non c’è nemmeno gusto a sfidarvi perché vi mettete nella merda senza aspettare l’aiuto di nessuno.
Micah arriva fino allo sgabuzzino (eh beh, i demoni dove devono vivere?) e lì trova il passaggio verso il solaio aperto.
Katie si sente di chiedere “Dimmi che l’hai aperto tu” al fidanzato, ma risulta palese anche ad uno gnu che il demone l’ha lasciato così perché vuole che salgano nel sottotetto.
Katie “Non ci vai lì, non ci vai Micah, non ci devi andare lassù.”
Stranamente Micah comprende e dice “No no, non vado lì su.”
Oh, bravo, vedi che quando vuoi…?
“Devo solo…voglio dare un’occhiata.”
Niente, è senza speranza, non sa nemmeno parlare correttamente la sua lingua perché se si dice “no non vado” poi non si può continuare con “vado solo a dare un’occhiata”.
Comunque fa sporgere il suo testino dalla porticina del solaio e sarebbe bello se il film finisse con il demone che decapita questo uomo triste e lo libera dalla sua voglia di dare alla luce piani discutibili. Invece ammetto che l’idea del demone è meglio della mia, perché fa trovare loro una foto di Katie da piccola tutta bruciacchiata, probabilmente unica cosa salvata dal famoso incendio della loro prima casa. Salvata dal demone, fra l’altro, che gentile.
Katie afferma “Questa foto non dovrebbe essere qui.”
Eh, appunto, non dovrebbe esserci la foto e non dovrebbe esserci manco il demone, però c’è sia l’una che l’altro e chissà se adesso la situazione ti pare un pochino peggiorata?
Il giorno dopo non è che lei chiama il demonologo e basta, no. Prima chiede a Micah.
E lui non vuole!
Guarda le riprese delle zampette del demone per terra, ha passato la notte in bianco tra rumori e belle sorprese in soffitta ma “Ho tutto sotto controllo, sto facendo progressi” afferma lui e a questo punto lo spettatore non vede proprio l’ora di assistere alla loro brutta fine, soprattutto quella di lui. Lo spettatore lo desidera dal profondo del cuore.
“Non hai il controllo di niente, il demone ce l’ha e se pensi il contrario sei un povero idiota” Katie dice la prima cosa sensata allo scoccare dell’ora di film. Il fatto è che lui è idiota in ogni caso e tu pure che lo ascolti.
Il loro dialogo la dice tutta.
“Può essere ovunque, sentirà anche quello che ci stiamo dicendo.”
Katie ci tiene a dire banalità.
“Ehi, e tu che cazzo ne sai?” chiede Micah che, poverino, abbiamo appurato quanto faccia fatica a fare collegamenti e sillogismi.
“Non hai assolutamente alcun potere.”
“Ma questo non è vero e lo sai bene.”
Oh, guarda come lo sa bene lei che hai il potere. Si capisce da tutte le soluzioni che hai trovato al problema e da tutte quelle che hanno funzionato tra queste.
Via, chiamiamo il demonologo, Micah, hai già giocato tutte le tue carte, hai chiuso.
Katie chiama e scopre che il demonologo è partito.
“Ah, meno male” sospira Micah ed è strano che non venga raggiunto dal cordless in mezzo alla fronte, perché gli sarebbe stato bene.
Allora lei richiama il dottor Fredrichs perché non sa cosa fare e questi promette di raggiungerli l’indomani.
Katie però ormai ha realizzato che la situazione è peggiorata e così afferma “Se sopravviviamo fino a domani”. Alla buon’ora, ce l’abbiamo fatta almeno a stabilire che siete nella merda.
Ci siete soprattutto da quando ha preso in mano la faccenda Micah, cioè dall’inizio del film.
  Diciottesima notte – 5 Ottobre 2006
Alle quattro il demone accende la luce, perché non è che può camminare sempre al buio, e si fa una passeggiata, poi chiude la porta sbattendola per svegliare i due fessi all’improvviso.
Micah con la sua solita sicurezza e la sua acuta perspicacia esclama “C’è qualcosa là fuori” ma noi lo sapevamo già da una quindicina di notti fa, solo che non si può pretendere che lui abbia già stabilito delle cose, sta ancora facendo delle ricerche e degli esperimenti.
Non solo, lui ha anche capacità comunicative degne di un pesce degli abissi ed esce dalla stanza pronto ad esporre al demone una serie di domande una più ispirata dell’altra.
“Chi c’è? (per cominciare, sia mai che il demone si decida a dirgli, dopo venti giorni, chi è, cosa sta portando, dove sta andando... Un fiorino!) Ti stai divertendo? (e qui non c’è bisogno di risposta, a me sembra proprio un divertimento incredibile sentirti dire cazzate tutto il giorno e vederti farle per tutta la notte) Fatti vedere! (che non è proprio una grande idea, visto che già vi sta facendo cagare sotto pur essendo invisibile) Che problema hai?” (e qui mi rotolo dalle risate ogni santa volta perché non si può, dai, non si può. Ma il problema è tutto tuo Micah, e di quella povera ragazza che ti sta dietro; il demone i problemi li crea, non li ha).
A voglia lei a dirgli “Andiamo, andiamo via!” a piangere e a disperarsi, quel fesso non capisce niente di niente.
“Ci sta spaventando” asserisce.
Sì, direi di sì, non c’è bisogno di ribadirlo. Se è a noi che stai dando questa informazione ti assicuro che ci crediamo che siete spaventati, anche se da quello che combinate poi di giorno non si direbbe proprio.
Il demone continua ad aprire e chiudere porte, a camminare a far scricchiolare mobili e loro si rifugiano nel letto uno accanto all’altro.
Le loro reazioni a questa cosa mi lasciano sempre basita.
Il giorno dopo il demone decide di farsi sentire anche nelle ore diurne, perché effettivamente limitarsi alla notte pare uno spreco, con ‘sti due scemi, così dà un cazzotto ad una foto di loro due appesa in corridoio spaccandone il vetro e poi la graffia. Micah si offende pure chiedendo ad alta voce come mai sia graffiata solo la sua faccia e non quella della fidanzata.
Ti elargisco due consigli. Il primo è di mostrare un po’ di galanteria e non rimarcare il fatto che il demone se la sia presa con la tua foto e non con quella di Katie come fosse una brutta cosa. Il secondo è di farti due domande sul perché il demone sia incazzato con te. Micah, non ti può proprio vedere, non ti sopporta più. Eh sì che i demoni hanno pazienza da vendere essendo immortali.
Ma tu spaccheresti le palle anche a Jack Harkness, al Dottore, a Connor MacLeod e a tutti i vampiri del creato. Troverebbero tutti che la tua vita è fin troppo lunga.
“Tutte cazzate” esclama infatti lui e, va beh, che dire ancora sulle sue facoltà mentali?
“Ti era già successo di giorno?” le chiede.
“Sta peggiorando” risponde lei.
Ah, vedete, mi ero sbagliata. Quando Katie ha chiamato il demonologo non era ancora del tutto peggiorata la situazione.
E comunque quel “sta peggiorando” induce a pensare che il processo di peggioramento sia ancora in atto, non è mica concluso, c’è tempo.
Nella scena dopo il dottore si ripresenta a casa loro ed è stupendo il fatto che lui, l’espertone in paranormale, dica loro “No no, io me ne vado, non posso aiutarvi”.
E se ne va!
Li molla lì come due stronzi dimostrando di essere l’unica creatura pensante in questo guazzabuglio di deficienti. Infatti il demone avrà apprezzato la sua genuina paura che è poi la sensazione che dovrebbe suscitare in tutti la serie di avvenimenti successi a questi due qui.
“Ce ne occupiamo da soli” conclude Micah mentre il dottore zompetta lontano e viene tanto da ridere a sentire quest’ennesima cazzata.
Poi non andate via di casa, no. Posso capire che non serva a niente perché il demone vi segue, ma non pare una reazione così tanto sensata? Non pare nemmeno sensato smettere di riprendere e di dire cazzate?
No, perché siete votati alla morte.
Finalmente lei dimostra umanità mettendosi a piangere e lui la consola “Andrà meglio stanotte”.
Eh certo.
  Diciannovesima notte – 6 Ottobre 2006
Il demone si esibisce in tutto il suo repertorio, giusto per smentire la cazzata di Micah e così alle tre i due si svegliano e ricominciano la solita tiritera.
Che poi comunque fino a quell’ora di solito dormono sereni e beati, quindi vorrei capire dove sta il problema. Un essere umano normale non chiuderebbe più occhio dal terrore, ma questi finché il demone non rompe le balle russano come maiali.
“Mi faccio venire un’idea, faccio un po’ di ricerche devono esserci altre soluzioni.”
Micah apre la giornata successiva con questa bella puttanata che se ne sentiva la mancanza.
  Trovata geniale numero 6 (ma è la trovata costante del film).
Le ricerche di Micah.
  Sembra che le ricerche di Micah siano stronzate e che non portino a niente, che non abbiano fondamento e nemmeno criterio.
Infatti è così.
L’unica ricerca che gli riesce bene e che parte da uno dei nomi della tavola Ouija, Diane (tra i tanti si è sentito di scegliere quello, chissà perché, forse era meglio di Di-anne, se ne sarà accorto perfino lui), è anche l’unica che sancisce la definitiva perdita di ogni speranza.
Micah, bravo, in questo sei stato un campione.
Il problema è che questa cosa la capisce solo lo spettatore, perché anche di fronte all’inevitabile i due non sono atterriti più di tanto.
In pratica viene fuori che una certa Diane, in un’epoca addietro, ha subito le stesse cose che sta passando Katie e ha finito col morire.
Katie non pare cogliere la sottile allusione in tutto questo.
Il fatto che il nome te l’abbia lasciato scritto il demone sulla tavola non ti può far pensare che voglia fare con te la stessa cosa che ha fatto con Di-anne?
È passato da lei a te giusto per trovarsi qualcosa da fare, ma non è che può andare avanti per sempre così, eh? Quindi adesso ti farà fuori in qualche modo e poi si troverà qualcun’altra.
Ma non spaventarti più di tanto che la situazione STA peggiorando.
In tutto questo l’ultima decisione di Micah è “Non faremo assolutamente niente e se ne andrà da solo” certezza che lui ha tratto non si sa bene da quale ricerca fatta in precedenza.
La tensione sale, già che fino ad ora erano rimasti belli tranquilli, e ad un’ulteriore sollecitazione di Micah a provare non so bene quale nuova sua idea Katie sbotta e ne nasce una bella litigata. Le recriminazioni sono alla base di quasi tutta la discussione perché lui accusa lei di avergli portato in casa quella roba e le dà la colpa di queste ultime due settimane di sciagure.
Che poi a me sembrava lui si stesse divertendo…
Katie invece vorrebbe studiare (sceglie momenti meravigliosi per farlo, devo dire) così parte con gli insulti e poi incazzata sale al piano superiore con lui che le urla dietro “Divertiti col tuo amico lì su!”
Peccato che poi lui salga a consolarla cinque secondi dopo portandosi sempre dietro la telecamera.
  Ventesima notte – 7 Ottobre 2006
E qui si ride.
Sono le quattro e mezza quando la solita ombra passa sulla porta, poi afferra Katie per i piedi e la trascina per il corridoio.
Micah le corre dietro, ma la cosa dura poco, anche perché non c’è la telecamera dietro a riprenderli: grazie al cielo in questo caso lui ha pensato bene di lasciarla dov’era.
Pochi secondi dopo riesce a strapparla dalle grinfie del demone e la riporta in camera.
Pensavate forse che sarebbero scappati fuori da casa in preda al terrore?
No, invece, si rifugiano in camera (luogo più volte dimostratosi sicuro) e si rannicchiano uno accanto all’altra a piangere e urlare.
A posto. La situazione è ufficialmente peggiorata, infatti Katie il mattino dopo, con la telecamera sempre sparata in faccia (che ormai da documentare vorrei capire cosa c’è) chiede a gran voce di lasciare casa.
Micah si trova stranamente d’accordo, ma fino ad un certo punto perché dice “Me ne andrei, se prima trovo un albergo”.
Sì, è vero, chiedi anche al demone di scegliere quale stanza preferisce perché se non gli piace va a finire che dà fuoco a tutto come al solito.
Comunque si decidono a partire, non prima di aver ripreso il morso che il demone ha lasciato sulla schiena di Katie.
Quando finalmente è tutto pronto per andare Micah trova Katie seduta contro il muro a maciullarsi una mano stringendo un crocifisso.
La banalità della cosa mi travolge come un’onda, ma Micah salva subito tutta la situazione facendo una cosa che di banale non ha nulla.
Brucia il crocifisso nel caminetto.
No…ma sei cretino forte.
Certo avrai pensato: se non ha funzionato niente di appropriato fino ad ora, sarà meglio fare una cazzata incredibile sul finale per vedere che succede. Però il tuo amore per la vita è scandalosamente scarso. Contro un demone l’unica cosa appena appena ragionevole che viene in mente a tutti, perfino agli atei, è quella di schermarsi con un crocifisso…tu lo bruci?
E adesso ti metterai ad ascoltare le canzoni di Marilyn Manson?
Katie è andata del tutto, è sonnacchiosa, assente e dice cose borbottando. Lo capirebbe chiunque che c’è qualcosa che non va, soprattutto sentendola affermare “É meglio se restiamo, non voglio più andare via, sento che stanotte andrà meglio”.
Micah, non ti pare il caso di trascinarla a forza fuori di casa, scappare a gambe levate o piantarle il crocifisso ormai bruciacchiato nel cuore?
No, lui pare un po’ sorpreso dalle richieste della fidanzata, ma accetta.
“Non so che sta succedendo ma è una pazzia” afferma, ed è sensato che la pensi così e rimanga lo stesso a casa a trascorrere un’altra notte?
No, ma è probabile che non capendo cosa succede, come peraltro ha affermato più volte nel corso del film, Micah si senta più tranquillo a fare una cosa molto stupida piuttosto che una un filino più intelligente, almeno rimane in character.
  Ventunesima (e grazie al cielo ultima) notte – 8 Ottobre 2006
Anche i più grandi piani vengono sventati e considerando che qui di piani non se n’è vista l’ombra…
Come Micah abbia il coraggio di dormire vicino a quella donna lo sa solo lui. Sta di fatto che all’una e ventisette, un po’ prima del solito ché stanotte ha tante cose da fare, il demone si impossessa di Katie, la fa alzare e la lascia lì a guardare il fidanzato per quelle tre quattro ore. Chissà che ci trova di divertente il demone in questa attività inutile.
Alle tre e un quarto si stufa pure lui, però, e manda Katie fuori dalla stanza.
In tutto questo Micah dorme sempre come uno stronzo, infatti per farlo svegliare il demone fa urlare Katie dal piano di sotto. Lui si precipita giù e tra le urla di entrambi intuiamo che il poveraccio ha fatto la fine del coglione che scherza coi demoni.
Dei passi annunciano il ritorno in camera di Katie che ci delizia l’esistenza scaraventandoci il cadavere di Micah sulla telecamera per poi fissare l’obiettivo con sguardo indemoniato.
Il tutto si chiude così, e mi dispiace pensare alla povera Katie, sopravvissuta più di vent’anni col demone che invece ha sopportato solo una ventina di giorni il suo fidanzato Micah prima di stufarsi e farli fuori tutti e due.
I finali di questo film sono tre, ma ho preferito questo su tutti perché c’era il cadavere di Micah scagliato con forza contro la telecamera, a dimostrazione di quale fosse il vero oggetto del fastidio provato dal demone per tutto il tempo.
Gli altri due finali vedono comunque sempre la morte di Micah, perciò si capisce che il personaggio ha infastidito perfino gli sceneggiatori stessi.
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dopolamortemirialzo · 2 years
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Scrive “chissà se hai colorato con la matita quel foglietto”. Forse intendeva la lettera che mi ha lasciato quel giorno in cui ha ammesso che sì, era meglio andarsene per strade diverse. O forse era una cosa scritta per qualcun’altra ed io mi sto scervellando per niente…
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jasminepersephone · 3 years
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     🌙🦋     —     𝐍𝐄𝐖 𝐑𝐎𝐋𝐄      𝐣𝐚𝐬𝐦𝐢𝐧𝐞 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐞𝐩𝐡𝐨𝐧𝐞 & 𝐜𝐚𝐦𝐢𝐥𝐥𝐞      ❪    ↷↷     mini role ❫      l      a      g      o       24.05.2021  —  #ravenfirerpg
Era trascorso oltre un mese da quel lunedì mattina che aveva visto Jasmine protagonista di un'incidente che l'aveva portata in ospedale con ferite che andavano dalla commozione cerebrale a contusioni in tutto il corpo. Era stato un periodo lungo quello che aveva trascorso in ospedale sotto osservazione, ma ora sembrava che tutto fosse tornato alla normalità, o quasi. Era stata la sensazione di sentirsi inerme a far sì che la determinazione della veggente fosse ancor più sentita. Sentiva il bisogno di migliorarsi, di diventare più brava, più forte ma soprattutto non voleva più ritrovarsi in una situazione come quella. Aveva sentito i poteri venire meno, e non poter attingere a quella parte di sé la lasciò sconvolta. Quella mattina, però, l'allenamento che aveva in previsione di fare non era solamente per l'amica, ma anche per lei, era un modo per poter cominciare ad affrontare ciò che era successo. Passandosi una mano tra i lunghi capelli scuri, la Harrison strinse maggiormente la coda e tirò un lungo sospiro prima di rivolgersi all'amica.
« E' stata la sensazione peggiore che abbia mai sentito... E cadesse il mondo se voglio ancora sentirmi così. »
Camille Josefine Kebbel
«Mi dispiace Jasmine, davvero tanto.» Erano le parole che la Kebbel disse all'amica, sapeva che aveva vissuto una bruttissima esperienza dovuta al terremoto che c'era stato ormai un mese fa, la città pian piano stava tornando a vivere anche grazie alle numerose opere di beneficenza che i cittadini stavano attuando per aiutare gli edifici privati e quelli pubblici. Anche le persone stavano iniziando a lasciarsi alle spalle quei tragici avvenimento, certo non sempre era facile ma dovevano ricominciare a vivere. La Kebbel quella mattina si trovava con la veggente proprio per quello, ultimamente avevano un po' tralasciato gli allenamenti ma era ora di riprenderli, Jasmine la stava aiutando moltissimo a padroneggiare quella natura che il più delle volte era una sorpresa per Camille. «Da dove vogliamo iniziare? Sei tu l'esperta.» Ed era vero, Camille faceva fatica a padroneggiare i suoi poteri, c'erano momenti dove controllarli era facile altri dove era impossibile, sapeva che anche lo stato d'animo influiva, la Harrison glielo ripeteva sempre.
Jasmine Persephone A. Harrison
Potersi concentrare su qualcosa che le era sempre venuto così naturale in passato sembrava essere quasi un controsenso, soprattutto quando sapeva di poter essere migliore di chiunque altro della sua età e del suo livello. Eppure la sensazione di vulnerabilità che aveva avvertito la venere nera era stata quasi paralizzante. Si limitò ad annuire lievemente la veggente al conforto dell'amica prima di inspirare e alzare le braccia verso l'altro cercando di tirarle per fare un poco di stretching. « L'importante è che ora noi tutti stiamo bene... La città si sta riprendendo, dobbiamo solamente rialzarci. » Commentò abbassando le labbra e avvicinandosi quel tanto da poter parlare all'amica l'una di fronte all'altra. Padroneggiare i poteri da veggente non era sempre, salire di livello era poi ancora più arduo ma non impossibile. « Cerca di liberare la mente, nessun pensiero, nessuna ansia... Il nulla. Immagina una distesa verde, sei tu ad essere padrona del tuo scenario, Cami. Le nostre emozioni sono veicoli che dobbiamo sfruttare e non lasciare che siano loro a guidare noi. »
Camille Josefine Kebbel
Camille cercava di impegnarsi sempre al massimo durante quelle sezioni di allenamento, certo era ancora tutto troppo strano nonostante fosse passato del tempo dagli inizi degli allenamenti con la Harrison. Spesso la bionda si soffermava a pensare a come fosse cambiata la sua vita, a come certi eventi avevano mescolato le carte in tavola rendendo certamente la sua vita non facile, eppure si era rimboccata le maniche e dalle situazioni più brutte ne era uscita vincitrice, quindi poteva andare fiera dei passi avanti che aveva fatto. Chiuse gli occhi e fece ciò che Jasmine le disse, sentendo la testa ancora più leggera e poi visualizzò il porta penne che vedeva alle spalle della veggente. In un primo momento lo vide vibrare ma non spostarsi mentre dopo l'oggetto cadde per terra sparpagliando le penne per terra. «Ops, non volevo questo.» Mormorò cercando di nascondere un mezzo sorrisino, certo non aveva fatto chissà che, ma almeno il portapenne lo aveva spostato.
Jasmine Persephone A. Harrison
Osservare qualcuno impegnarsi in qualcosa in cui credeva ciecamente non era cosa da poco, soprattutto perché in molti si sarebbero arresi alle prime difficoltà. Ma non Camille, la quale aveva sempre dimostrato un temperamento piuttosto forte. Ciò che faceva Jasmine era solamente spronare la veggente a dare il suo massimo, a far sì che il loro talento venisse alla luce. E quando vide il portapenne alzarsi appena, un sorriso soddisfatto cominciò ad aleggiare sulle labbra della venere nera. « E' un piccolo passo comunque! » Commentò con vigore la veggente che si avvicinò per raccogliere le penne e posizionarle nuovamente al loro posto. Si partiva sempre dagli oggetti più piccoli, quelli con un minor peso specifico per poi passare a quelli sempre più pesanti. Era così il suo allenamento personale e così intendeva fare anche con la Kebbel. « Prova ancora, questa volta dovresti provare a concentrarti maggiormente e tenere sospeso l'oggetto... Solamente con tanto allenamento avremo dei risultati. »
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 🌻💫     —     𝐍𝐄𝐖 𝐑𝐎𝐋𝐄       𝐠𝐞𝐫𝐭𝐞 𝐡𝐞𝐢𝐤𝐞,   𝐤𝐚𝐥𝐞𝐛   &   𝐚𝐥𝐞𝐱       ❪    ↷↷     mini role ❫       raven's           cafè        23.12.2020  —  #ravenfirerpg             traccia role #1 Lavorare anche durante la settimana di Natale non sembra entusiasmare la fate, eppure il suo lato stacanovista era ancora lì, pronta ad andare di strada in strada per raccogliere tutte le opinioni possibili. Era realmente interessata a che cosa pensassero tutti i cittadini di Ravenfire sull'operato del sindaco recentemente rieletto, ma soprattutto era curiosa di ciò che teneva viva la comunità di Ravenfire. Nonostante la di lei fantasia fosse giunta ad un punto morto, credeva che andare in giro a raccogliere interviste fosse un modo più che perfetto per farsi ispirare. Quali erano i loro timori, quali erano le migliorie che avrebbero voluto vedere in atto, e soprattutto l'opinione che avevano nel vedere le strade di Ravenfire piene di quegli stand che, a suo avviso, davano un senso di spensieratezza. Erano quelle le domande principali che voleva porre, ma giunta al Raven's Cafè, Gerte decise di prendere una piccola pausa. Un semplice caffè, un po' di calore di quel locale che attraeva sempre decine di clienti e sarebbe stata pronta a ripartire, ma la sua attenzione fu catturata dai due ragazzi in coda. Non conosceva i loro rispettivi nomi, eppure li aveva già visti, prima che lei stessa si accasciasse nella pista del resort appena un mese e mezzo prima. Aveva dato sfoggio delle sue ali, incapace di trattenersi, priva di alcun controllo eppure non aveva ancora parlato con Leah riguardo a quella faccenda. Un passo alla volta, ecco ciò che avrebbe fatto, ma prima era fondamentale avvicinarsi ai due giovani sconosciuti. Kaleb Mieczyslaw Walker * Non vi era una sola persona che non nutriva nei confronti di quella cittadina una serie di sentimenti contrastanti, eppure, immersi in quelle numerose domande che gli eventi devastanti suscitavano di volta in volta, gli abitanti di Ravenfire non facevano che nascondersi nel silenzio più profondo. Ci si chiedeva spesso al telegiornale, nei bar, nella stazione di polizia se prima o poi il silenzio avrebbe aiutato a rimettere al suo posto gli animi ormai scomposti dal male, ma la risposta sembrava ritardare sempre più, segnando inesorabilmente chi veniva attaccato e probabilmente anche chi attaccava. Quella era ormai una verità constatabile: i cassetti, o forse meglio gli scomparti dell'anima di ciascun abitante di quella città erano stati buttati all'aria, scompigliati, rovesciati totalmente, e al singolo non era rimasto che sorvegliare su se stesso in silenzio o annegare nella pura follia delle domande che avrebbero potuto ferire più della verità. Kaleb Walker era uno di quelli che, nonostante i problemi che doveva vivere ogni giorno e i disagi causati dalla sua 'mitica' sedia a rotelle, nuotava nel mare infinito delle domande che riguardavano quella città e a cui non sapeva darsi una vera e propria risposta. Non riusciva a darsele neppure in quel momento in cui, immobile come al solito sulla sua carrozzella, era in fila per fare lo scontrino. Si trovava nel Raven's Café che era un po' come dire che si trovava a casa: adorava quel posto, amava persino il profumo che quel locale aveva, perché era diverso da tutti i locali di Ravenfire, sapeva di famiglia, di chiacchiere, di cioccolato caldo, di.... conoscenza. Ebbene sì, il ragazzo dagli occhi intensamente color nocciola non sapeva che da lì a qualche passo vi sarebbero state delle nuove persone con cui avrebbe condiviso... chissà! * Alex Maxwell Era stato il tedio, quel fardello incomprensibile composto da tanti se e altrettanti ma, a indurlo a uscire dal suo piccolo ma caloroso appartamento. Nonostante le lamentele della signora Graham circa il terreno scivoloso a causa della neve, pericoloso per chiunque, anche per uno come lui – lei intendeva sempre dire strano, non umano – che in assenza di personale, diceva, la coltre bianca non si spalava mica da sola! Nonostante questo rimbrotto continuo e la cicatrice sul polpaccio che si era un po’ arrossata a causa delle basse temperature, Alex si era armato di sciarpa, copricapo di tipo ušanka e cappotto, e si era diretto nel centro mondano della cittadina in cerca di svago e di un calore diverso – certamente non quello che si respirava nel suo b&b. Ma forse più che il tedio a spronarlo era stata la consapevolezza che, anche se si fosse distorto una caviglia o slogato una spalla scivolando sulla ghiaia o sulla neve, come lo aveva avvertito la carinissima signora Graham, dopo l’evento di Halloween niente lo avrebbe spaventato più di tanto. Il ricordo di quella notte era ancora evidente. Il livido intorno al suo occhio era diventato giallino, e la ferita che si era procurato su uno zigomo, sbattendo contro un’ascia decorativa, era quasi del tutto guarita, divenuta visibile soltanto come una sottile linea cicatrizzata e rosea. Il suo amante lo aveva esortato a usare una pomata per quella cicatrice, ma Alex aveva preferito il vecchio rimedio della nonna: impacchi di rosmarino e lavanda; e adesso la sua faccia profumava di primavera – mentre l’umore rimaneva più tetro di una notte invernale. < Un cappuccino e un donut fondente. > Alex depose un paio di banconote sul bancone del ravens e attese in silenzio, guardandosi intorno – le persone che, dietro di lui, in coda insieme a lui, lo ricambiavano disattente. Gerte Heike A. Ivanova Il bisogno di rinnovamento sembrava aleggiare in ogni angolo della città, forse dovuto alla festa di Halloween appena passata, o forse i cittadini avevano semplicemente voglia di qualcosa di nuovo. Per contro, il risentimento che impregnava l'aria di quel locale era ben noto alla fata, un borbottio che si poteva leggere nei volti dei presenti, come nei due giovani che aveva davanti a sé. « Che musi lunghi, ragazzi... Non ditemi che non apprezzate le novità che hanno organizzato in città. » Affermò la fata prendendo l'occasione di intavolare così il discorso su sui voleva andare a parare. Vi era tempo per presentarsi, lo avrebbe fatto con calma e senza spaventare nessuno dei due. La curiosità che spingeva la fata a intervistare anche completi sconosciuti nasceva dal suo bisogno di poter raccontare una storia, che avesse un fondo di verità ma che venisse comunque dalla normalità. S'avvicinò per ordinare un caffè d'asporto, macchiato e con una spruzzata di panna, prima di voltarsi in direzione dei due giovani. « Mi chiamo Gerte Ivanova, lavoro per il Raven's News e mi piacerebbe potervi fare qualche domanda, che ne dite, ci state? » Kaleb Mieczyslaw Walker * Il tedio non apparteneva a Kaleb Walker che, fin da quando aveva memoria, era sempre all'opera e sempre alla costante ricerca di qualcosa che avrebbe potuto rendere la sua esistenza più interessante. Quel qualcosa, nonostante le sfaccettature alquanto inquietanti, era contenuto in quella città, nella /sua/ Ravenfire. Non si era mai spostato da quella città, mai se non si contava qualche breve soggiorno vacanziero quando era decisamente più piccolo. Era per questo che l'affetto e l'attaccamento che provava per quella piccola città era davvero molto per Kaleb. Quei pensieri verso la propria città natìa fecero sì che Kaleb non percepisse le prime parole della giovane, ma l'attenzione le si rivolse quasi subito. Gli occhi curiosi di Kaleb osservarono prima la figura della donna, poi quella dell'altro che si trovava nelle vicinanze. * < Ehm... > * Cercò di dire qualcosa, ma l'imbarazzo lo bloccò per qualche secondo mentre, invece, la figura femminile sembrava essere pronta a presentarsi e a parlare con una certa spavalderia professionale. Fu a quel punto che il nostro giovane corrucciò le sopracciglia e alla fine annuì. * < Sì, ma di cosa si tratta?... E.. vorrei essere comunque un anonimo, sono figlio dello Sceriffo, non voglio mettere in difficoltà nessuno > Alex Maxwell Non immaginava che ordinando un cappuccino avrebbe ottenuto anche la possibilità di essere intervistato da una donnina del Ravens News, non era preparato, e non aveva altro tempo da perdere – nel suo b&b lo attendevano una serie di faccende burocratiche che andavano risolte, per non parlare del nuovo personale chiamato dalla signora Graham che andava approvato, della neve che andava spalata, e del gruppo di turisti proveniente da New York che andava accolto e, no, non poteva permettersi di rilasciare un’intervista e al contempo godersi l’unico bicchiere di cappuccino – consumato direttamente al Ravens – che si sarebbe concesso quel giorno. Si voltò dunque in direzione delle due voci, la prima da donna, una certa Gerte, e la seconda da uomo, a lui del tutto sconosciuta. < Sì, di cosa si tratta? > osservò entrambi mentre prendeva un sorso di cappuccino, attento a non imbrattarsi le labbra di schiuma. Un secondo sguardo più curioso lo aiutò a imprimere nella propria mente il volto di entrambi. La domanda che aveva posto poc’anzi finì per essere scacciata via da un’altra domanda ancora, che elaborò prima che uno dei due potesse dire qualcosa, e questa fu: < Perché non venite entrambi a pranzo da me? Mi trovate... uhm... > insinuò una mano nella tasca del cappotto per trovarvi un suo biglietto da visita, lo porse alla giornalista e lo indicò all’altro con un cenno del capo, facendogli capire che poteva tranquillamente dare un’occhiata anche lui – se voleva. < Nel mio bed and breakfast. Se siete d’accordo vorrei rimanere anch’io anonimo, e al momento non posso intrattenermi oltre. È una città piccola, credo conosciate la strada per arrivare al cimitero, il mio bed and breakfast si trova lì accanto. E ora vogliate scusarmi...> pagò quel che aveva ordinato e si avviò nuovamente verso l’uscita del café. Il cappuccino in una mano e nell’altra la scatola di donut al cioccolato fondente, la signora Graham avrebbe avuto da ridire anche sulla scelta di quella colazione, ma dell’intervista non era certo che avrebbe detto qualcosa.
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