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#classica world
mikimeiko · 1 year
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Albums I listened to in 2023
Classica - Radiodervish and Orchestra Sinfonica di Lecce e del Salento (2019)
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kon-igi · 4 months
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CHIAMA I RICORDI COL LORO NOME
Nel 2019, la mia compagna, le mie figlie e io decidemmo di intraprendere un percorso che alla fine ci avrebbe portato a diventare la famiglia affidataria di un minore e questo implicava un sacco di incontri, singoli e di gruppo, con cui assistenti sociali e operatori valutavano la nostra capacità di accudimento e contemporaneamente ci informavano e ci formavano su cosa significasse prendersi cura di un minore in modo continuativo ma parallelamente alla famiglia biologica, con la quale dovevamo rimanere sempre in contatto.
(anticipo che poi la cosa finì in un nulla di fatto perché poco dopo scoppiò il caso Bibbiano - 30 km in linea d'aria da Parma - e per precauzione/paura tutti gli affidi subirono un arresto. E poi arrivò il Covid)
La mia riflessione nasce alla lontana da un video che youtube mi ha suggerito questa mattina presto - è poco importante ai fini della storia ma è questo - che mi ha ricordato una caratteristica della mia infanzia...
Difficilmente riuscivo a essere felice per le cose che rendevano felici gli altri e quella vecchia canzone - che è considerato l'Inno del Carnevale di Viareggio, mio luogo di nascita e dei primi 20 anni di vita - ne è l'esempio emblematico, direi quasi sinestesico.
Tutti i viareggini la conoscono e la cantano nel periodo più divertente e frenetico della città ma io la associo a un'allegria dalla quale ero sovente escluso, odore di zucchero filato che non mangiavo e domeniche che significavano solo che l'indomani sarei tornato a scuola, preso in giro dai compagni e snobbato dalla maestra.
Vabbe'... first world problem in confronto ad altri vissuti (in fondo ero amato e accudito) però l'effetto a distanza di anni è ancora questo.
Tornando al quasi presente, una sera le assistenti sociali chiesero al nostro gruppo di futuri genitori affidatari di rievocare a turno prima un ricordo triste e poi uno felice.
E in quel momento ebbi la rivelazione che la quasi totalità dei presenti voleva dare amore a un bambino o a una bambina non propri perché sapeva in prima persona cosa significasse vivere senza quell'amore: gli episodi raccontati a turno non era tristi, erano terribili... violenza, abbandono, soprusi, povertà e ingiustizie impensabili nei confronti di bambino piccolo e, ovviamente, quando arrivò il nostro turno (la mia compagna non ne voleva sapere di aprire bocca) mi sentivo così fortunato e quasi un impostore che, in modo che voleva essere catartico e autoironico, raccontai di quando la maestra in terza o in quarta elementare chiamò un prete che davanti a tutta la classe mi schizzò di acqua santa perché - a detta della vecchia carampana - sicuramente ero indiavolato.
Ribadisco che la cosa voleva essere intesa come un modo per riderci su e detendere l'atmosfera pesante che il racconto dei vissuti terribili aveva fatto calare sul gruppo ma mentre sto mimando con una risatina il gesto del prete con l'aspersorio, mi accorgo che tutti i presenti hanno sgranato gli occhi e hanno dilatato le narici, nella più classica delle espressioni che indicano un sentimento infraintendibile...
La furia dell'indignazione.
Cioè... tu a 10 anni hai visto tua madre pestata a sangue da tuo padre e fatta tacere con un coltello alla gola ed empatizzi con me che ti sto raccontando una stronzata buona per uno sketch su Italia Uno?
Mi sono sentito uno stronzo, soprattutto quando la furia ha lasciato il posto a gesti e parole DI CONFORTO per quello che, evidentemente, sembrava loro una prevaricazione esistenziale orribile (cioè, lo era ma, per cortesia... senso delle proporzioni, signori della giuria).
Mi sono quindi rimesso a sedere, incassando il supporto con un certo qual senso di vergogna, finché poi non è arrivato il momento della condivisione dei momenti felici.
Silenzio di tomba.
Nessuno parlava.
Nessuno riusciva a ricordare qualcosa che lo avesse reso felice.
Con un nodo in gola - perché avevo capito che razza di vita avevano avuto le persone attorno a me - mi rendo conto che io ne avevo MIGLIAIA di momenti felici da condividere ma che ognuno di essi sarebbe stato una spina che avrei conficcato nel loro cuore con le mie stesse mani.
E allora mi alzo e rievoco ad alta voce il ricordo felice per me più antico, quello che ancora ora, a distanza di decenni, rimane saldo e vivido nella parte più profonda del mio cuore...
-Le palle di Natale con la lucina rossa dentro. Quando ero piccolo, durante le vacanze di Natale aspettavo che mio papà e mia mamma andassero a letto e poi mi alzavo per andare a guardare l'albero... non i regali sotto, proprio l'albero. Era finto, di plastica bianca spennachiosa, ma mia mamma avvolgeva sempre intorno alla base una striscia decorativa verde a formare una ghirlanda e mio padre stendeva tutto attorno ai rami un filo con delle palle che, una volta attaccate alla presa elettrica, si illuminavano di rosso. Io mi alzavo di nascosto e nel caldo silenzio della notte guardavo le luci intermittenti dipingere gli angoli del divano e del tavolo, con un sottile ronzio che andava e veniva. Ero al caldo, ero protetto, voluto e amato. Se allungo le mani posso ancora tastare quel ronzio rosso che riempe la silenziosa distanza tra me e l'albero e niente potrà mai rendere quella sensazione di calda pienezza meno potente od offuscarne la completezza. Quello era l'amore che mi veniva dato e che a nessuno sarebbe mai dovuto mancare.
A un certo punto sento una mano che mi si poggia sul braccio (avevo chiuso gli occhi per rievocare il ricordo) e accanto a me c'è la mia compagna che sorride, triste e piena di amore allo stesso tempo.
E attorno a me tutti stanno piangendo in silenzio, esattamente quello che col mio ricordo semplice volevo evitare e che invece doveva aver toccato lo stesso luogo profondo del loro cuore.
E in mezzo alle lacrime (che figuriamoci se a quel punto il sottoscritto frignone è riuscito a trattenere) cominciano a scavare tra i ricordi e a tirarli fuori... il cucciolo che si lasciava accarezzare attraverso il cancello della vicina, il primo sorso dalla bottiglietta di vetro di cedrata, la polvere di un campetto da calcio che si appiccicava sulla pelle sudata, l'odore della cantina, il giradischi a pile...
E nulla. Non so più cosa dire e nemmeno cosa volessi dire.
Forse che sembriamo così piccoli, malmessi e fragili ma che se qualcuno ci picchietta sulla testa e sul cuore siamo capaci di riempire il mondo di cose terribili e meravigliose.
Decidere quali ricordare e quali stendere davanti a noi è una scelta che spetta non a chi picchietta ma a chi permette che essi fluiscano da quella parte profonda di sé a riempire lo spazio tra noi e il domani.
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jeannereames · 27 days
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And Alexander Wept for Hephaistion....
If you don’t mind, I wanted to ask, you said something along the lines of: by the time Alexander was coming closer to his death, he had recovered from the grief of Hephaistion’s death (if I’m remembering this correctly; I’m so sorry I have a fuzzy memory) how long do you think he mourned Hephaistion?
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This was an ask via message, so putting it here to reply publicly, as it may be of interest to others.
First, however, I want to mention a pair of articles I wrote many years ago now, but which are still valid:
“The Mourning of Alexander the Great,” Syllecta Classica 12 (2001), 98-145.
“Some New Thoughts on the Death of Alexander the Great,” with Eugene N. Borza (lead author), The Ancient World 31.1 (2000), 1-9. (I wrote the last 1/3 of it.)
The first, in particular, is an in-depth analysis of Alexander’s behavior after Hephaistion died. I’m still rather proud of it, as it brings together two quite diverse fields: bereavement + Alexander studies. If I had a critique for it now, it’s that I didn’t analyze the stories inherent in the primary sources, but that also wasn’t my intention in writing it. I specifically say that I do not plan to pick apart which reports of Alexander’s behavior are likely authentic and which aren’t. My goal was to evaluate all of them in terms of possible evidence of pathological bereavement, according to the (then) DSM III-R (et al.).
TL;DR version of the article: Alexander’s mourning was NORMAL and followed recognized patterns, if one allows for the loss of someone extremely close, a spouse/similar.
Yes, there were complicating factors. BUT he did not go crazy with grief.
Unfortunately, this article is far less known than the “An Atypical Affair” article on Alexander and Hephaistion’s relationship. That’s too bad, as the “His grieving was extreme!” persists among even some of my colleagues, never mind those outside the field of Macedoniasts. (It’s also admittedly possible that they were simply unconvinced by my arguments, but in that case, one usually cites and says so.)
If I could put a giant blinking neon light on one of my earlier articles to get it more attention, that would be the one I’d point to.
The second article—or my 1/3rd of it anyway—deals with the possible effects of deep mourning on the immune system of adult males of Alexander’s age group. Yes, according to some limited research, it does have an impact that increases susceptibility to infectious disease. Add his poor overall physical health after all those battles (and Macedonian-style symposial drinking), and he was just too spent to fight off the typhoid or malaria or whatever fever disease got him.
Ergo, he died roughly 8 months after Hephaistion. We don’t have a date for the latter’s death, but sometime in October or November of 324 BCE is the window. Alexander died June 10th, 323 … or possibly a day or so later if he were in a paralysis too deep for his breathing to be ascertained. (As per Gene’s part of the article.)
The dating is important, as it affects where he (probably) was in his mourning process.
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Mourning follows a somewhat predictable pattern, and one of the biggest mistakes made by those unfamiliar with human mourning is to underestimate (often by a lot) just how long mourning takes … even perfectly normal, healthy mourning.
For a major loss, main mourning takes up to a year. No joke. That’s why bereavement counselors try to keep the bereaved from making any permanent decisions within that year. They’re still very much being buffeted by the winds of grief, even if they want to pretend they aren’t. But even after the year anniversary—and marking it with some sort of formal ceremony helps!*—mourning continues off-and-on (sometimes really intense for a few hours or even a few days) for up to 5 years. Again, no joke. Some bereavement studies experts don’t really consider a person truly recovered (note I never say “over it”) for as long as 10 years.
Additionally, ANY deep loss triggers mourning; it doesn’t have to be death. A divorce will result in mourning, even if the people in the marriage wanted to divorce. It’s still a “death” of sorts. Moving some distance away, graduation, and retirement can all set off mourning. This surprises people, that mourning can attach even to “happy” circumstances. Anything that includes an ending will set off mourning, albeit it may not be that intense.
But THE #1 and #2 most devastating losses are the loss of a child and the loss of a spouse/spouse-like figure. Period.
So, a slight correction to the question, I didn’t say he’d recovered from his mourning, but that he was beginning to emerge from the deepest parts of mourning.
What do I mean by that? There are (roughly) 3(-4) major phases of mourning. The speed at which we pass through these varies, dependent on the type of death and our closeness to the deceased. (The first article goes into that in more depth.)
Shock phase, which is typically anywhere from a few days to about 2 weeks.
Deep mourning phase, where the bereaved must come to terms with the loss. The bereaved cycles through a series of stages (not the best term) and, more importantly, struggles with certain TASKS of mourning (as per Worden). Again, the length of this phase can vary, but for serious losses, it can take up to 8-9 months, with the worst of it usually hitting 3-6 months. There is an intense focus on the deceased and the bereaved person may want little to do with new people and vacillate between wanting to talk a lot about the deceased or wanting to give away all their stuff because it’s too painful. Anger, bargaining, depression, self-blame … all are typical of this phase. It’s INTENSE. It really does take months, and people routinely underestimate it.
Re-emergent phase, where the bereaved begins to take an interest again in the external world, may make new friends and new plans that don’t involve the deceased. The deceased is far, far from forgotten, but the bereaved is learning to live without the dead person.
Continued bereavement would be a fourth phase past the one-year anniversary, where the bereaved will still experience grief, sometimes very intense when triggered by a particular memory, a birthday, or anniversaries. But the overall “worst” part of mourning is past.
Finally, especially in the deepest part of mourning, the depression felt by the bereaved is on par with clinical depression, but (except for rare cases) the bereaved absolutely should not take or be prescribed antidepressants as these interrupt the mourning process.
Yes, it hurts like hell but one can only go through, not over, around, or under. Through.
In some cases, however, bereavement becomes “complicated,” resulting in what’s referred to as pathological bereavement, by which I mean only not normal (I wouldn’t even say abnormal). Sudden death (as with Hephaistion) IS one factor that can complicate mourning, but it doesn’t necessarily lead to full-blown pathological grief. In the article, I evaluate all Alexander’s listed behaviors and explain why my final conclusion is that his bereavement was sharp, but not pathological.
Alexander’s behavior in the last few months showed aspects of the third phase. He was planning (or probably returning to planning) his next campaign and thinking about improvements to the city of Babylon apparently with the intention of making it his eastern capital. Yes, he was also planning Hephaistion’s funeral, but the other two things were new and show re-engagement.
So Alexander’s mourning had not ended before he died himself, only shifted. Even if he’d lived another 5 years, he’d still have experienced bereavement off and on.
Remember, grieving takes TIME. More time than you expect.
If you know someone going through grief, especially for a family member, beloved, or very close friend … give them space. Let them cry. Encourage them to talk about the lost person if they want to, but don’t force it if they don’t want to. Don’t argue with their theology/beliefs about death or their gallows humor, but also don’t shove your theology/beliefs about death, or your gallows humor, onto them. Read the room.
MOST OF ALL, JUST BE PRESENT. It matters less what you say than that you’re there. They may not even remember what you say later; they will remember you showed up.
—————-
* In fact, world cultures that have traditional, one-year anniversary ceremonies routinely show better outcomes for mourning individuals.
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hetalia-club · 1 year
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Places on Earth that look like they are from another planet. Part 1
Pack your bags because we are going on a trip. 
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Looks like snow but it is pure white sand and soft like powder. Or, for a Classica de Americana past time, This is a pretty fun place to go sandboarding. All the fun of Snow boarding with the aesthetic but it’s nice and toasty. 
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There are a lot of pink body’s of water in the world even several in Australia. But I think Lake Hiller is just...idk there is something majestic about it....
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First time I saw this place I thought it was CGI. Spectacular. I say ‘saw’ as if I've been there. 
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The pitch black volcanic ash beach with the polished glacier chunks spanning from diamond like to a stunning deep turquoise washing ashore. You should see in during Polar nights with the aurora painting the sky, it’s for sure worth the Google It’s so gorgeous!
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I thought this was a deep fake when I first found out about Kawah. That’s right blue lava. Not much to add other that...look at that shit! it’s blue! Forbidden baja blast. I know it would kill me. But I want to take a sip. 
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This is not a screen shot from a Falmer cave in Skyrim. Those are millions of glow worms lightening up this place. I want to eat these too. my cave man brain sees ‘blue’ and thinks ‘mmm berry flavor...’
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Vote to call this place the Smokey Mountains instead of the ones in America. This place looks prehistoric. This volcanic plate never got the memo that the ground doesn't just explode all the time everywhere anymore. 
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Stunning hot springs looking over some of the most beautiful skylines you will ever see. This place is so slept on as a natural wonder. I don’t even have to say it, you know I want to stick a straw in. 
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Not everything has to be natural. The Golden bridge in Vietnam just looks like it would be straight from a sci-fi or fantasy novel. 
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kaitropoli · 9 months
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The Colossus of Rhodes
The Colossus of Rhodes was a statue of Helios, the Greek sun God, which stood over the Greek island city Rhodes. Notably known as one of the Seven Wonders of the Ancient World, the Colossus was erected by Chares of Lindos in c. 282 B.C.E. to celebrate the defeat of Demetrius I Poliorcetes, who had besieged the city for over a year.
Made of bronze, the statue was reported to stand at 70 cubits (105-110ft ; 32-33m) tall--about the same height as the Statue of Liberty, and acting as the tallest statue of the ancient world--and took almost twelve years to construct. Presiding over Mandrákion harbour, it is dated back to 1395 C.E. by the writings of an Italian who visited the island that the statue straddled the harbor (see painting above).
Tragically, around 227-225 B.C.E., an earthquake hit the island of Rhodes, snapping the Colossus at the knees. The collapsed statue was left untouched until 653-654 C.E. when *supposedly* Arabian forces, acting under Mu'awiya I, raided Rhodes. Pieces were said to be sold, totaling more than 900 camel loads.
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Reconstruction
Ptolemy III offered to help pay towards the reconstruction of this statue, but the Oracle of Delphi made the people of Rhodes believe that Helios was offended, thus the offer met refusal.
Another reason for reconstruction being refused is due to the seismically unstable location Rhodes found itself belonging to. Having multiple devastating earthquakes cemented the unlikeliness that the statue could withstand existing if built again.
Misconception
The misconception towards the Colossus's stance, particularly from medieval interpretations, was disputed by simple explanations in John Lemprière's Bibliotheca Classica (Classical Dictionary). Lemprière states that construction would have blocked the harbor, and when the statue was finally built, builders would've needed to clean everything from the harbor in order to reopen. Additionally presented, when the Colossus met its dismay, it would have blocked the harbor and been left unseen on land (which we know isn't true considering many stories of Rhodes being a tourist destination just to see the fragments of Helios left scattered).
Furthermore, if you apply physics, you'd understand that the weight met with its legs-wide stance would crumple on its own.
The statue of Rhode's patron God is unknown by appearance besides that it may have curly hair and halo of spiked flame due to engravings on Rhodian coins which pictured Helios. The Colossus's pose is disputed, though historians believe Helios hovering his arm near his eyes to block light, attributing this possibility to a nearby temple's relief which shows the God performing the aforementioned action.
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Credits
Beginning Piece:
"Le colosse de Rhodes"
by Louis de Caullery
Oil on Panel Painting, before 1622.
Louvre Museum.
Last Piece:
"Colosse de Rhodes"
by Sidney Barclay
Engraving, circa 1875.
Sources Used:
Art In Context
Britannica
Wikipedia (hey, they have good sources listed, I could've lied about what I read and put all of those here instead).
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multiverseofseries · 2 months
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Dune
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LA RECENSIONE IN BREVE
- Dune mette in scena solo la prima metà del romanzo, gettando solide basi per reggere una storia estremamente complessa.
- Villeneuve prende decisioni che possono piacere o meno, ma dimostra piena consapevolezza della materia narrativa che sta adattando.
- Il minuzioso world building non rappresenta una premessa, ma è essenza stessa di Dune.
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«Io sono un seme» è ciò che dice Paul Atreides a circa metà del romanzo scritto da Frank Herbert nel 1965. Una rivelazione indottagli della spezia geriatrica, la droga che altera la percezione spazio-temporale, e che impregna l’aria di Arrakis, o meglio conosciuto come Dune. È in quel momento che il ragazzo smette di essere, improvvisamente, solo un ragazzo. E per la prima volta, Paul, figlio del Duca Leto Atreides e Lady Jessica, educato dalla donna alle sacre vie del Bene Gesserit, esprime consapevolezza di sé, trovando alcune dolorose risposte alle sue domande, nella conclusione del primo arco narrativo del suo personaggio. Primo arco narrativo di molti, tanti quanti sono i nomi con cui verrà chiamato all’interno del libro: Muad'dib, Usul, Lisan al Gaib, Kwisatz Haderach, Madhi. Un seme, creato con un determinato scopo, certo, ma dalla crescita imprevedibile, che penetra in profondità, si diffonde, si trasforma, e modifica il territorio circostante.
Dune di Frank Herbert, è uno dei romanzi di fantascienza più influenti di sempre, il libro ha dato origine a una saga che ha cambiato profondamente l’immaginario collettivo a partire dalle sue fondamenta, è esso stesso un seme. Lo è nel suo modo di contenere tutta una serie di idee, temi, suggestioni, capaci di sbocciare in luoghi e situazioni sempre diverse, senza però perdere specificità. Perché, questa saga, dietro la sua facciata di epica eroica di tradizione classica, che sembra solo apparentemente seguire il monomito, ovvero il viaggio dell’eroe (di cui, in realtà, Dune rappresenta un’aspra critica), la storia di Paul e dei Fremen, il popolo nativo di Arrakis, è invece un romanzo che a volte sembra un trattato di filosofia, di psicologia, di etica o di religione. Altre acquista connotati politici, parlando di lotta di classe e degli effetti del colonialismo, mettendo in discussione sia le figure messianiche che i leader carismatici. Altre ancora assume la forma di un’eco-narrazione che anticipa alcune delle problematiche che oggi sembrano più urgenti che mai.
Anche la prima parte dell’adattamento di Denis Villeneuve, in cui è Timothée Chalamet ad interpretare Paul Atreides, è un seme. O perlomeno, il primo stadio di un qualcosa che sembra destinato ad acquistare forma. È, però, necessario prima piantarlo per poi poter godere dei suoi frutti, ed è quello che Villeneuve ha provato a fare con il suo Dune, che segue piuttosto fedelmente la storia di Herbert, ma risulta anche intimamente villeneuviano,(scusate l’aggettivazione). È qui che forse c’è un equivoco di molti: il ricercare compiutezza in un’opera che per sua natura rappresenta un inizio. Questa versione di Dune è un tentativo di gettare solide basi per reggere una storia ancora più complessa, non tanto nell’intreccio, quanto nella stessa costruzione del suo stesso mondo. Di fatto, si tratta della prima parte di un dittico, e come tale deve essere considerata.
In molti lo hanno ripetuto così tante volte da farlo divenire un logo comune: Dune è un libro impossibile da trasporre al cinema. Potrebbe essere vero ma solo in parte, nel senso che un adattamento presuppone sempre il dover fare alcune scelte, perché a un cambiamento del mezzo di narrazione deve seguire, necessariamente, un cambiamento della stessa materia narrativa. Sta di fatto che il romanzo di Herbert è così denso, stratificato e colto, da per poter essere raccontato in un altre forma che non sia il libro, figuriamoci quella filmica che ha durata limitata. il libro di Herbert lo si può paragonare a un prisma dalle molte facce, che riflettono la luce in modo diverso a seconda di come le si guarda. Ora immaginate di dover dipingere quel prisma. Prima di tutto è necessario scegliere come orientarlo e farlo colpire dalla luce. È quello che fa Villeneuve, insieme ai co-sceneggiatori Jon Spaihts e Eric Roth, prendendo delle decisioni che possono piacere o meno, ma dimostrando una profonda consapevolezza. Mancano dei personaggi questo è vero e alcuni snodi non sono ancora esplicitati, ma non era difficile aspettarsi qualcosa di diverso da questo. 
Il Dune di Frank Herbert è realmente uno strano oggetto letterario. Ha un approccio molto concreto al mondo che racconta, costruendo nei minimi dettagli interi ecosistemi per soffermarsi poi in maniera particolare a delineare il contesto dal punto di vista politico e socio-economico. C’è una parte del romanzo in cui il Duca Leto (nel film interpretato da Oscar Isaac) discute dei salari da offrire agli estrattori di melange, la sostanza presente solo su Arrakis e che permette i viaggi interstellari, il cui monopolio è detenuto dalla Gilda spaziale. Leto ha, infatti, ricevuto dall'Imperatore Padiscià Shaddam IV, che governa l’Universo, l’ordine di trasferirsi dal suo pianeta natale Caladan ad Arrakis, subentrando ai nemici di sempre, gli Harkonnen, per gestire la raccolta di spezia.
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Shai Hulud è il termine usato dai Fremen per indicare i vermi delle sabbia, ossia l'incarnazione fisica della loro unica divinità.
Si tratta di una scena, quella di cui sopra, rievocata nel film di Villeneuve di sfuggita, con una sola linea di dialogo, non particolarmente importante ai fini della trama, eppure per me sufficiente per comprendere il tono dell’adattamento. Una situazione che poco c’entra con una storia nota per le atmosfere lisergiche e un certo gusto per l’eccesso, elementi enfatizzati dai due prodotti culturali più noti legati al libro: il grandioso e folle progetto naufragato di Jodorowsky nel 1975, raccontato in Jodorowsky's Dune, documentario del 2013 di Frank Pavich, e l’affascinante quando confuso disastro di David Lynch con Kyle MacLachlan del 1984 - a cui, nonostante tutto, voglio benissimo, anche solo per aver ispirato l’avventura grafica omonima, quella sì un capolavoro, di Cryo Interactive del 1992.
Dune è anche questo: l’approccio è spesso pragmatico, l'atmosfera più mistica che lisergica, il tono più solenne che eccessivo. Il film di Villeneuve è così, presenta un’austera grandiosità estetica, coerente con la visione d’insieme. La fotografia di Greig Fraser è caratterizzata da toni scuri, metallici e terrosi, mentre nella scenografia ricorrono forme geometriche e massicce, soprattutto negli edifici di Arrakeen, modellati sulle ziqqurat mesopotamiche, o nei fregi dei palazzi che ricordano i bassorilievi neoassiri. Antichità e futuro si incontrano quasi per alludere a un tempo fuori dal tempo, e non si è  fuori strada si parlasse di «tempo del mito». Mentre il vasto deserto, territorio dei Fremen dei giganteschi Shai Hulud, i vermi della sabbia, fa il resto.
Anche se narrativamente sobrio, Dune colpisce per la semplicità con cui racconta gli eventi, senza banalizzare o semplificare una vicenda parecchio strutturata già di per se. Villeneuve fa delle scelte e, per esempio, tutto il contesto religioso (e in particolare il ruolo del Bene Gesserit, ordine religioso matriarcale che muove i destini dell’Impero e che sarà al centro di una serie TV attualmente in pre-produzione), viene relegato un po’ sullo sfondo, presente solo in alcune pennellate. È anche vero che il libro è fatto di parole, pensieri, annotazioni. D’altronde, ogni capitolo del libro è corredato da estratti tratti dai testi storiografici della principessa Irulan, figlia dell’imperatore. Mentre il film di Villeneuve, puntuale nell’esporre l’intreccio, costruisce il suo mondo e delinea i rapporti anche attraverso sogni, allusioni, piccoli dettagli e, soprattutto, sguardi e gesti. Un linguaggio corporeo che va a sostituire il flusso costante di pensieri dei personaggi letterari.
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Il Bene Gesserit è la sorellanza che muove i destini dell'Impero, il cui compito è quello di incrociare e conservare le linee genetiche delle casate.
Villeneuve utilizza così le lingue, anche quelle dei gesti, in modo fluido, forse anche più del romanzo, dove l'uso di nomi e termini mutuati dalla lingua araba erano comunque fondamentali nella costruzione culturale di Arrakis. Ma non è la prima volta che il regista dimostra una certa attenzione verso tematiche come il valore fondante del linguaggio nell’identificazione culturale, il suo ruolo nell’intrecciare relazioni e la possibilità di alterare la percezione del mondo. Lo aveva fatto nel suo film più peculiare: Arrival del 2016. Che anche in quel caso si trattava di un testo letterario molto difficile da trasporre. A Villeneuve, del resto, piacciono le sfide e spesso non sembra nemmeno interessato a dare al pubblico quello che vuole o si aspetta.
Riprendendo il discorso sul linguaggio, e in particolare a come nel film è stata resa la famosa Voce, ossia una tecnica Bene Gesserit che influenza il subcoscio di chi l’ascolta attraverso la modulazione del tono, presta il fianco anche a un altro aspetto dell’opera che non lascia indifferenti: suono e colonna sonora contribuiscono in maniera attiva alla definizione del mondo stesso. Il sound designer Theo Green, che aveva già lavorato con Villeneuve in Blade Runner 2049, fa qui un lavoro impressionante nel modulare intensità e volume, giocando con l’assenza di suono in brevi, ma significativi momenti. In questo, lavora in sinergia con Hans Zimmer, che compone una roboante colonna sonora, certamente ingombrante, ma di grande importanza narrativa. Il risultato è una base sonora costante, granulosa e avvolgente su cui si innesta il racconto, e che dà costantemente la sensazione di arrancare e sprofondare nelle sabbie di Arrakis.
Giocando sulla contrapposizione tra i campi lunghi degli sconfinati paesaggi, i primi piani e dei dettagli, la macchina da presa indugia spesso sui volti dei personaggi e in particolare gli occhi. Sono gli occhi blu - per effetto della spezia geriatrica - di Chani (Zendaya) che appare nei sogni di Paul; quelli del popolo di Arrakis che accoglie il giovane duca al suo arrivo sul pianeta al grido di Lisan al-Gaib, «la voce da un altro mondo»; quelli forti, consapevoli ma spaventati di Jessica, mentre cerca di far convivere gli obiettivi del Bene Gesserit con i propri, in un’interpretazione notevolissima di Rebecca Ferguson.
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I Fremen sono i misteriosi abitanti di Arrakis. Vivono in insediamenti segreti chiamati sietch.
Timothée Chalamet è un Paul abbastanza coerente con il personaggio del libro, ma forse troppo monocorde. Di certo, non ha avuto la possibilità di emergere completamente. In questa parte della storia, Paul è un ragazzo in balia di forze che hanno segnato il suo destino, alla ricerca di se stesso.
La vera sfida d’altronde, non è cercare il Dune di Frank Herbert in quello di Villeneuve, ma provare a capire cosa il regista stia cercando di dirci attraverso Dune. In questa prima parte di un progetto più articolato, si può certamente intuire il percorso intrapreso da Villeneuve, all’interno dei tanti offerti da Frank Herbert. È un seme, come detto in precedenza, e bisogna capire dove piantarlo e cosa nascerà.
È comunque difficile guardare a un film come il Dune di Denis Villeneuve senza però sentire la voce di tutta la tradizione precedente e senza farsi influenzare dal peso dell’opera originale o dalle visioni dei diversi autori. Dune è, forse esagerando, il Gilgamesh del nostro tempo, o almeno la cosa più simile a un poema mitologico declinato in forma post-moderna. Contiene, come le grandi epopee antiche, molti dei temi della cultura da cui ha preso forma. Ma allo stesso tempo, è uno dei principali modelli per tutte le storie di fantascienza che sono venute dopo. Non solo un libro inadattabile ma il libro che forse più di tutti può ambire allo status di mito, quando si parla di narrazione investita di sacralità e significatività. A livello estetico, il film è eccezionale. Si questa solennità può essere, in un certo senso, interpretata come mancanza di originalità, ma in verità credo che la forza di questo adattamento di Dune sia nelle cose molto più piccole. Proprio nei piccoli dettagli sullo sfondo, nei gesti dei personaggi che hanno tutti, sempre un significato, nonostante esso spesso non sia esplicitato. Nella cura con cui una parola, detta in un determinato modo, alluda invece a un mondo intero. In questa storia, del resto, il world building non rappresenta solamente una premessa ma ne è essenza stessa. Quello che manca in un film che forse sarebbe stato meglio chiamare Dune Parte I è, letteralmente, l’epica. Ma quella verrà dopo, perché in questa fase della storia non era prevista. In questa fase abbiamo il racconto di una crisi, dello smarrimento, di morte e rinascita. L’epica verrà dopo, si spera.
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2014 grey stallion (Thee Fifth Element x Classica)
Pedigree.
Arabian Horse World
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sguardimora · 9 months
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Nei giorni scorsi ho assistito a una prova aperta di The Garden, il nuovo lavoro di Gaetano Palermo, con Sara Bertolucci e Luca Gallio, che quest’anno è stato selezionato per la quarta edizione di ERetici_le strade dei teatri, il progetto di accoglienza, sostegno e accompagnamento critico, ideato e curato dal Centro di Residenza dell’Emilia Romagna.
In scena una black box ospita al suo interno un unico fermo immagine che solo alla fine si smaterializza lasciando lo spazio vuoto. Una donna, vestita con una sottoveste rosso mattone, è riversa a terra sul fondo destro del palcoscenico e lì resterà immobile, mossa solo da un respiro lento e profondo.
 La dimensione immaginifica e di spaesamento che si crea per lo spettatore è dettata dalla drammaturgia sonora, che ad ogni cambio di brano amplia l’immaginario in nuove visioni, e dall’impianto luminoso, che resta statico dopo una prima accensione a lampi di neon. Per rifarci al titolo ci troviamo davanti a una natura morta, che fa però permeare di vita quell’immagine statica in ogni attimo che passa.
Fotografia o cinema? Teatro o dj set? Installazione o durational performance? O tutto questo insieme? L’impianto del lavoro è decisamente teatrale: come si diceva in principio, c’è una scena nera che si illumina quasi cinematograficamente per restare così, con la stessa tonalità di colore e luce, fino alla fine. Poi c’è la drammaturgia sonora che è ciò che da movimento a un’immagine altrimenti immobile e fa sì che lo spettatore proceda nella giustapposizione di immaginari e di significati. 
Il dispositivo che il collettivo artistico mette in opera viene così definito da un crash mediale che fa collasse il cinema nel teatro, il teatro nel dj set, la fotografia nell’installazione e così via. Questo meccanismo inoltre sembra operare su quel piano di reinvenzione del medium di cui parla Rosalind Krauss (2005): facendo collassare sulla scena molteplici media il collettivo porta lo spettatore dentro il processo stesso, rendendo percettibile, grazie alla ripetizione all’infinito della stessa immagine, la finzione della rappresentazione e il funzionamento dell’immaginazione. 
La mente così vaga tra le immagini della memoria: da un’apparizione lynchiana a una classica vittima del cinema di Hitchcock, da un corpo collassato durante un rave party al corpo a terra di Babbo Natale nella clip de La Verità di Brunori sas, dai corpi della cronaca nera a quello di Aylan riverso sulla spiaggia greca e così via, continuamente si creano e distruggono immagini nella mente di chi guarda.
In questa pratica mediante la quale si crea un ibrido, per restare anche nella metafora naturale, che incrocia più media, si assiste a una sorta di Iconoclash (Latour, 2005): accade allora che chi guarda si ritrova in una sorta di terra di mezzo, di indecisione dove non sa l’esatto ruolo di un’immagine, di un azione perché, nel caso di The Garden, questo si modifica non appena viene assimilato dell’occhio di chi guarda; e su questa scena ciò che accade è proprio questo: lo spettatore è messo davanti ad un’immagine iconica che cambia costantemente di significato e senso, passando dal sentimento del tragico a quello del comico fino a dissolversi svanendo ironicamente, rompendo il quadro della rappresentazione.
Una delle caratteristiche fondamentali delle immagini è, sempre per Bruno Latour, la loro capacità di scatenare passioni ed è proprio su questo meccanismo che sembra lavorare il collettivo guidato da Palermo che a settembre presenterà al pubblico una prova aperta di questo lavoro presso la Corte Ospitale di Rubiera dove si chiuderà il progetto ERetici.
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*Krauss, R. (2005). Reinventare il medium. Cinque saggi sull'arte d'oggi, a cura di Grazioli E., Mondadori, Milano. 
* Latour, B. (2002). What is iconoclash? Or is there a world beyond the image wars. Iconoclash: Beyond the image wars in science, religion, and art, 14-37.
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kneedeepincynade · 9 months
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Ops! Looks like the propaganda machine of the collective West is having some difficulties
The post is machine translated
Translation is at the bottom
The collective is on telegram
😂 L'ultimo capolavoro dei "media occidentali", ovvero l'enorme complesso di propaganda anti-Cinese promosso dagli USA e dai loro leccapiedi in Europa e in Giappone 🤡
😂 Nella loro indole anti-Cinese, sono perfettamente in grado di promuovere messaggi anti-Cinesi in contrasto tra loro 🤹‍♂️
🤡 A volte promuovono la ridicola "China Collapse Theory", un miscuglio di anti-Comunismo e rabbiosa sinofobia che - nei decenni - si è sempre scontrata con la realtà: la Cina non è collassata, non collasserà, ma - anzi - ha continuato a crescere 📈
🔍 Approfondimenti:
😂 Ogni ciclo della "China Collapse Theory" si è concluso con il collasso della teoria stessa, e anche questo ciclo non farà eccezione 😂
😂 Ogni previsione Occidentale sul "Collasso della Cina" è fallita 😂
🐲 某人的疯狂幻想并不能改变现实 - le folli fantasie di qualcuno non cambiano la realtà 😀
🤡 Altre volte, questi 小丑 promuovono la "Teoria della Minaccia Cinese", con la classica frase: «China is the biggest World threat», dimenticandosi del fatto che non è la Cina ad aver piazzato 750 Basi Militari nel Mondo (di cui 313 con le armi puntate contro la Cina), non è la Cina ad interferire negli Affari Interni degli altri Paesi e non è la Cina ad aggiungere benzina sul fuoco dei conflitti 👌
🤣 Così come, qualche giorno fa, si leggeva sempre «trema l'economia mondiale» o si promuoveva il terrorismo psicologico su una «nuova Lehman Brothers», e poi - 24 ore dopo - certi articoli già ritrattavano le posizioni con «non travolgerà il mondo come fece Lehman Brothers», ora arriva l'ultima "gemma" anti-Cinese:
😂 Il 29 Agosto del 2023, Bloomberg dichiarava a gran voce che gli ETF della Cina stavano registrando «continui deflussi», ma il giorno dopo, esattamente 24 ore dopo (❗️), il 30 agosto, sempre Bloomberg mostrava un grafico dal titolo: "I flussi degli ETF sulla Cina spiccano ad agosto" | 哈哈哈哈哈哈 😂
❔ Ma come, 24 ore prima c'era un deflusso enorme e 24 dopo veniva registrato il più elevato afflusso di ETF sulla Cina? 😂
😂 对于令人尴尬的反华宣传,我已经不知道该说什么好了。有时它马上就要崩溃,有时它又是世界上最大的威胁。有一天,他们说所有投资者都逃离中国,而另一天,他们又说投资者正在购买创纪录水平的中国股票。西方媒体真是可笑。令人尴尬!这是一个笑话!我说的是美国的期刊和他们走狗的期刊。尤其是英国和意大利的期刊!🤡
😊 Immagine presa su r/Sino, da u/ArmyRus101 | 谢谢 🥰
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😂 The latest masterpiece of the "Western media", i.e. the enormous anti-Chinese propaganda complex promoted by the USA and their toadies in Europe and Japan 🤡
😂 In their anti-Chinese nature, they are perfectly capable of promoting conflicting anti-Chinese messages 🤹‍♂️
🤡 Sometimes they promote the ridiculous "China Collapse Theory", a mixture of anti-Communism and rabid Sinophobia which - over the decades - has always clashed with reality: China has not collapsed, will not collapse, but - on the contrary - has continued to grow 📈
🔍 Further information:
😂 Every cycle of the "China Collapse Theory" has ended with the collapse of the theory itself, and this cycle will be no exception 😂
😂 Every Western prediction about the "Collapse of China" has failed 😂
🐲 某人的疯狂幻想并不能改变现实 - someone's crazy fantasies don't change reality 😀
🤡 Other times, these 小丑 promote the "Chinese Threat Theory", with the classic phrase: «China is the biggest World threat», forgetting the fact that it is not China that has placed 750 Military Bases in the World(of which 313 with weapons pointed at China), it is not China that interferes in the internal affairs of other countries and it is not China that adds fuel to the fire of conflicts 👌
🤣 Just as, a few days ago, we always read "the world economy is shaking" or psychological terrorism was promoted on a "new Lehman Brothers", and then - 24 hours later - certain articles already retracted the positions with "it will not overwhelm the world like Lehman Brothers did", now comes the latest anti-Chinese "gem":
😂 On August 29, 2023, Bloomberg loudly declared that China's ETFs were recording "continuous outflows", but the next day, exactly 24 hours later (❗️), August 30, Bloomberg again showed a graph with the title: " China ETF Flows Stand Out in August" | 哈哈哈哈哈哈 😂
❔ But how, 24 hours earlier there was a huge outflow and 24 hours later the highest inflow of ETFs on China was recorded? 😂
😂 对于令人尴尬的反华宣传,我已经不知道该说什么好了。有时它马上就要崩溃,有时它又是世界上最大的威胁。有一天,他们说所有投资者都逃离中国,而另一天,他们又说投资者正在购买创纪录水平的中国股票。西方媒体真是可笑。令人尴尬!这是一个笑话!我说的是美国的期刊和他们走狗的期刊。尤其是英国和意大利的期刊!🤡
😊 Image taken on r/Sino, by u/ArmyRus101 | 谢谢 🥰
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LIAFF SPECIAL #5: - Star Trek: The Next Generation - La fine di una generazione
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“Space: the final frontier. These are the voyages of the starship Enterprise. Its continuing mission: to explore strange new worlds, to seek out new life and new civilizations, to boldly go where no one has gone before.”
Carissimi lettori, ben ritrovati con un nuovo appuntamento con LIAFF SPECIAL, la rubrica dedicata all’approfondimento di personaggi e temi nel mondo dell’intrattenimento. Come forse già saprete, non è stato possibile pubblicare l’approfondimento per il mese di Marzo, così per questo Aprile abbiamo pensato a un tema molto particolare, volto anche a concludere un importante capitolo della fantascienza televisiva. Infatti per questo speciale vi parleremo di Star Trek: The Next Generation, affrontando la nascita della serie e la sua importanza all’interno della storia del franchise, fino ai suoi gloriosi anni fra televisione e cinema, fino al ritorno per l’era Kurtzman e all’epica conclusione andata in onda la scorsa settimana.
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The Next Generation: le origini
La saga di Star Trek ebbe inizio nel 1966 con la serie classica, andata in onda su NBC per tre stagioni e cancellata dall’emittente a causa dell’elevato budget, nonostante una massiccia campagna portata avanti dai fan portata avanti già da prima del rinnovo per la terza stagione attraverso una serie di lettere spedite ai dirigenti dell’emittente. A dispetto della cancellazione, la serie classica vide una crescente popolarità negli anni successivi, tanto da portare la Paramount a considerare la produzione di un film già a partire dal 1972, con il franchise che vide una breve parentesi con la serie animata, andata in onda per due stagioni. Con l’arrivo nelle sale di Star Wars Episode IV: A New Hope nel 1977, la Paramount non ritenne saggio competere in sala sul genere fantascientifico, e così puntò sul creare una nuova serie televisiva, che avrebbe visto gli interpreti della serie classica nei loro rispettivi ruoli, con nuovi set, modelli e costumi creati appositamente per il progetto, denominato Star Trek: Phase II, che fu però accantonato nel 1978, quando la Paramount annunciò la produzione di un lungometraggio, trattasi di Star Trek: The Motion Picture, seguito da The Wrath of Khan, The Search for Spock e The Voyage Home, tutti usciti nelle sale fra il 1979 e il 1986. Questi film hanno contribuito ad accrescere la popolarità del franchise, al punto che l’allora presidente della Paramount Frank Mancuso Sr. dichiarò di voler preservare quella che per lui era una “risorsa inestimabile”, decidendo di optare per una serie televisiva guidata da nuovi personaggi, anche alla luce dei problemi di budget sorti durante la produzione del quarto film. Nonostante le prime preoccupazioni sull'eventualità che una nuova serie potesse eclissare il lavoro fatto in passato e il fatto che Gene Roddenberry inizialmente non voleva prendere parte al progetto, Star Trek: The Next Generation entrò ufficialmente in produzione il 10 Ottobre 1986, con il cast che fu annunciato pochi mesi più tardi. Roddenberry supervisionò il progetto, volendo al suo fianco Rick Berman, il quale lo avrebbe poi sostituito come guida del franchise alla sua morte, avvenuta nel 1991, e anche alcuni sceneggiatori della serie classica, da cui hanno preso in prestito anche alcuni elementi della colonna sonora (la sigla di Jerry Goldsmith è una ripresa del tema principale del primo film) e alcuni set. Dopo una massiccia campagna pubblicitaria, agevolata anche da repliche della serie classica e remunerativi accordi di trasmissione, la serie esordì il 28 Settembre 1987 con il famosissimo episodio pilota "Encounter at Farpoint", che fece ascolti molto più elevati del previsto e riportò ufficialmente la saga di Star Trek al centro dell'attenzione.
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Make it so!: I sette anni dell’Enterprise-D
Star Trek: The Next Generation è andata in onda per sette stagioni, con un totale di 178 episodi, dal 1987 al 1994.
La prima stagione (26 episodi) fu accolta in maniera piuttosto mista, anche alla luce di divergenze di carattere creativo fra Roddenberry e gli altri sceneggiatori, col primo che sembrava voler apportare cambiamenti significativi rispetto alla serie classica, che per ovvi motivi non ebbero luogo (come ad esempio l'introduzione di una coppia gay). La critica bocciò alcune scelte portate avanti nel primo ciclo, come ad esempio il voler far risolvere la maggior parte delle situazioni a Wesley Crusher o l'uso pessimo di effetti speciali, ma promosse l'interpretazione dei singoli protagonisti, in particolare di Patrick Stewart, e il fatto che i personaggi avevano una caratterizzazione aperta a un maggior sviluppo rispetto alla serie classica, motivo per cui una buona fetta di pubblico faticò ad accettare l'equipaggio di Picard come erede di quello di Kirk. Nonostante tutto, la prima stagione fu teatro di importanti avvenimenti all'interno del franchise, come l'introduzione di Q, la (ri)apparizione di razze antagoniste come i Ferengi e i Romulani, l'esplorazione della cultura Klingon grazie al personaggio di Worf e l'improvvisa uscita di scena di Tasha Yar (Denise Crosby), la quale fu il primo protagonista della saga a morire definitivamente.
Con la seconda stagione (22 episodi) ci furono una serie di cambiamenti, come la sostituzione di Beverly Crusher con Kathryn Pulaski (Diana Muldaur), l’introduzione di Guinan (Whoopi Goldberg) e del famoso bar Ten Forward, e soprattutto la riduzione degli episodi causata dallo sciopero degli sceneggiatori avuto luogo nel 1988, ma nonostante ciò il secondo ciclo fu accolto in modo migliore rispetto al precedente, con la critica che ha sottolineato un miglioramento delle dinamiche fra i personaggi e la scelta di dare maggiore spazio all’elemento comico, nonchè una maggiore attenzione alla struttura dei vari archi narrativi, fra cui spiccano sicuramente l’esordio dei Borg e il percorso di Data.
La terza stagione (26 episodi) fu teatro di cambiamenti significativi in ambito creativo, su tutti l’ingresso di Michael Piller (come sostituto di Maurice Hurley), il quale, assieme a Rick Berman, ebbe il compito di portare avanti la serie, dato che Roddenberry iniziava ad avere problemi di salute. La stagione vide il ritorno di Gates McFadden nel ruolo di Beverly Crusher, l’ingresso di Ronald D. Moore come co-sceneggiatore, il quale si occupò di scrivere diversi episodi, specialmente quelli riguardanti i Klingon, e di Ira Steven Behr, che sarebbe poi divenuto lo showrunner di Star Trek: Deep Space Nine. Il terzo ciclo fu elogiato dalla critica, soprattutto per la sua conclusione, con la prima parte “The Best of Both Worlds”, considerato a tutt’oggi uno dei momenti più fondamentali del franchise, nonché uno dei migliori cliffhanger della storia della televisione.
La quarta stagione (26 episodi) vede l’ingresso di Brannon Braga e Jeri Taylor nel team degli sceneggiatori e rappresenta un punto di svolta per l’intera serie, poichè ha comportato il sorpasso in lunghezza rispetto alla serie classica con l’episodio “Legacy” e ha portato la serie al traguardo dei 100 episodi, raggiunto con il finale di stagione “Redemption”, celebrato dal cast e dalla troupe sul set. In questa stagione furono introdotti i Cardassiani, che avrebbero avuto un ruolo predominante in Star Trek: Deep Space Nine.
La quinta stagione (26 episodi) fu una dedica vera e propria a Gene Roddenberry, morto il 24 Ottobre 1991, contenuta nel famosissimo episodio “Unification”, che vedeva l’apparizione speciale di Leonard Nimoy nel ruolo di Spock (il nome di Roddenberry appariva fra i produttori anche dopo la sua scomparsa). La stagione ottenne diverse nomination di rilievo, specialmente per l’episodio “The Inner Light”, considerato uno dei migliori dell’intero franchise, e vede l’ingresso di Ro Laren (Michelle Forbes), uno dei personaggi ricorrenti più amati dai fan.
La sesta stagione (26 episodi) fu rilasciata in concomitanza con Star Trek: Deep Space Nine, portando Rick Berman e Michael Piller ad alternarsi fra le due serie ed ha avuto una serie di notevoli guest stars, fra cui James Doohan, che ritorna nel ruolo dell’amato Scotty, l’astronauta Mae Jemison e un cameo di Stephen Hawking.
La settima stagione (26 episodi) fu la conclusiva della serie, nonostante il cast era sotto contratto per otto stagioni, e vide l’introduzione del movimento ribelle dei Maquis, che sarebbe riapparso in Star Trek: Deep Space Nine e Star Trek: Voyager. Il finale della serie, “All Good Things...”, fu uno degli episodi più visti del franchise, con tanto di evento organizzato allo SkyDome di Toronto. Paramount decise di chiudere la serie dopo sette anni a causa di problemi concernenti il budget e optò per riportare il cast principale direttamente sul grande schermo.
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Blue Skies: L’approdo al cinema
Alla fine della settima stagione di Star Trek: The Next Generation, il cast principale passò direttamente alla produzione di Star Trek: Generations, che sarebbe stato il settimo lungometraggio del franchise. La pellicola fu concepita come un vero e proprio passaggio di testimone dal cast della serie originale, che aveva visto il proprio percorso concludersi in Star Trek VI: The Undiscovered Country, a quello di The Next Generation. A questo scopo nel film riappaiono James T. Kirk (William Shatner), il quale ha un ruolo centrale nella trama, come anche Scotty (James Doohan) e Pavel Chekov (Walter Koenig), che appaiono nella sequenza d’apertura del film, precedente agli eventi riguardanti l’Enterprise-D. Il film fu diretto da David Carson, già regista di alcuni episodi all’interno del franchise, e scritto da Ronald D. Moore e Brannon Braga, i quali esplorarono varie opzioni prima di optare per la trama che vede il ponte generazionale fra i due equipaggi. Il film, uscito nelle sale nel 1994, non fu accolto benissimo dalla critica, il quale lo definì dozzinale e deprimente, nonostante il massiccio uso di effetti speciali. All’uscita della pellicola, Paramount incaricò Braga e Moore di curare la produzione del prossimo film, Star Trek: First Contact, i quali intendevano includere i Borg nella trama, con Rick Berman che voleva invece una storia riguardante i viaggi nel tempo. Le due idee furono combinate e, dopo aver scartato l’ambientazione dell’Europa Rinascimentale, si scelse di ambientare la storia nella metà del 21esimo secolo. La regia fu affidata a Jonathan Frakes, interprete del commandante Riker, nonchè regista di diversi episodi, il quale era l’unico, secondo i produttori, che capiva davvero l’essenza del franchise, con le musiche che furono affidate allo storico compositore Jerry Goldsmith. Il film uscì nelle sale nel 1996 e fu accolto positivamente dalla critica, la quale ha elogiato in maniera particolare la potenza della trama, ritenuta più coinvolgente rispetto al film precedente. Sull’onda del successo del film, Paramount diede il via alla produzione di Star Trek: Insurrection, che vide nuovamente Jonathan Frakes alla regia, su sceneggiatura di Michael Piller e Rick Berman, i quali intendevano includere nella trama i Romulani, poi rimpiazzati da due nuove razze, i Son’a e i Ba’ku. Rilasciato nelle sale nel 1998, il film fu accolto in maniera mista, esaltandone la regia ma criticandone la trama, che sembrava essere, citando i critici, “un episodio televisivo molto allungato”. Con l’era Berman oramai prossima al tramonto, arrivò il quarto ed ultimo lungometraggio con il cast di The Next Generation, Star Trek: Nemesis, diretto da Stuart Baird, un regista non proprio esperto, su sceneggiatura di John Logan, Rick Berman e Brent Spiner. Il film fu accolto negativamente alla sua uscita, risalente al 2002, incassando pochissimo al botteghino (anche per il fatto che competeva con film come Lord of the Rings: The Two Towers) e stroncato dalla critica per la trama, ritenuta troppo incentrata sull’antagonista Shinzon, interpretato da un giovanissimo Tom Hardy, e diversi membri del cast ritennero che il film non fosse una buona conclusione per le vicende di The Next Generation.
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The Last Generation: Il ritorno sul piccolo schermo
A 13 anni dalla fine dell'era Berman e dalla dissoluzione del blocco Viacom avvenuta nel 2006, Star Trek torna sul piccolo schermo grazie a Star Trek: Discovery, serie sviluppata da Alex Kurtzman, già coinvolto nel franchise con la trilogia cinematografica dell’universo Kelvin, il quale sarebbe poi diventato il coordinatore di tutti i progetti Trek della nuova era. Grazie all’inaspettato successo della serie, si aprì un nuovo capitolo della saga, portando già a Giugno 2018 a parlare di un possibile ritorno di Jean-Luc Picard, annunciato poi due mesi più tardi con Star Trek: Picard, una serie televisiva con un approccio più volto alla caratterizzazione dei personaggi e molto meno frenetica e movimentata rispetto a Discovery, avrebbe visto Picard a circa vent’anni dagli eventi di Star Trek: Nemesis. Con una durata di tre stagioni, l’ultima delle quali conclusasi il mese scorso, la serie esplora il personaggio di Patrick Stewart dopo il suo periodo come capitano dell’Enterprise, ritrovandosi ora in pensione nella tenuta di famiglia. Attraverso una serie di eventi, la serie rivaluta il passato, il presente e il futuro di Picard, con la prima stagione che vede l’ex-capitano salvare Soji, una giovane androide creata su ispirazione di Data, e impedire un cataclisma di proporzioni galattiche, accompagnato da vecchi volti, come Sette di Nove (Jeri Ryan), il drone della Cooperativa Hugh (Jonathan Del Arco), Will Riker e Deanna Troi (Marina Sirtis), e da new-entry, in particolare Raffi Musiker (Michelle Hurd), ex-collega di Picard, Cristobal Rios (Santiago Cabrera), un ufficiale della Flotta Stellare caduto in disgrazia, il giovane Romulano Elnor (Evan Evagora) e la scienziata Agnes Jurati (Allison Pill). Questo sfaccettato gruppo si ritrova poi nella seconda stagione, il quale deve compiere un viaggio indietro nel tempo, precisamente nel 2024, per superare “l’ultima prova” di Q (John De Lancie) e impedire che la storia della Federazione venga riscritta in negativo, vicenda che permette a Picard di riscoprire il suo passato e riaprire vecchie ferite. La terza ed ultima stagione porta a compimento il percorso di Picard e anche dei suoi ex-compagni di viaggio, dato che è stata messa in piedi una vera e propria reunion del cast di The Next Generation, con Riker, Deanna, un redivivo Data (Brent Spiner), Worf (Michael Dorn), Geordi LaForge (LeVar Burton) e Beverly Crusher, di nuovo insieme per sventare ancora una volta la spietata Collettività Borg e concludere così il loro percorso trentennale, con Sette di Nove e Raffi uniche presenze del team precedente, le quali potrebbero essere l’apripista per il futuro del franchise.
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#STARTREKLEGACY: E adesso?
La terza ed ultima stagione di Star Trek: Picard si è conclusa con un episodio finale a dir poco epico (non a caso proiettato assieme al precedente in alcune sale IMAX degli Stati Uniti lo scorso 18 Aprile), dove Picard e il suo ex-equipaggio sconfiggono nuovamente i Borg, sventando il loro piano di assimilazione ed annientamento della galassia. Tale evento ha portato a compimento il percorso dell’equipaggio di The Next Generation iniziato nel lontano 1987, ma ha di fatto aperto un nuovo capitolo per il franchise, con Sette di Nove ora promossa a capitano, al comando dell’Enterprise-G (precedentemente nota come Titan), accompagnata da Raffi, primo ufficiale, e Jack Crusher, figlio di Picard e Beverly, nominato consigliere speciale del capitano, il quale riceve la sorprendente visita di Q, il quale ha deciso di vegliare sul figlio del suo “umano preferito”. Alla luce di questi eventi, l’intero pubblico Trek si è mobilitato in una vera e propria massiccia campagna, portata avanti sui social media, con post, dediche, commenti positivi e petizioni etichettati con l’hashtag #StarTrekLegacy (Terry Matalas, showrunner della seconda e della terza stagione di Star Trek: Picard, si è unito a questa campagna). A quanto pare le richieste del pubblico sono già arrivate alle orecchie dei dirigenti di Paramount, almeno stando alle recenti dichiarazioni di Alex Kurtzman, il quale ha affermato che i fan sono stati ascoltati e che c’è decisamente ancora moltissimo da raccontare, lasciando intendere che il progetto potrebbe presto o tardi diventare realtà e, se si pensa a quanto avvenuto con Strange New Worlds, allora le possibilità sono piuttosto elevate. Non resta che incrociare le dita e sperare per il meglio, perchè di Star Trek non se ne ha mai abbastanza…
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miselblog · 2 years
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Rare Beauty of Raahe
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Do you ever long for a place of tranquility and beauty that you would very much want to escape to when everything gets too overwhelming around you? Or do you have a place of your dream where you can be alone with your thoughts? 
There were so many tourist destinations nowadays that you can see in blog posts. There are those elegant restaurants and high buildings with the busy streets and people. There are also places where we go to for their natural beauty like these pristine white beaches or clear waterfalls. 
Of course, we cannot rule out the places who are rich in culture and history which you cannot wait to discover and experience yourself. However, don't you ever want to go to a place that will not only give you a beauty but also a story? 
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If you do, it seems like I have the best place for you. It is a rare place of beauty and peace that is just right for tired souls who want to recuperate and take a break from the chaos of this world. 
This place is especially perfect for lovers of the history as it will transport you back to the 19th history with its old houses and museums. The place is not also rich with the story of the past but also with all the stories of people living in it. 
Are you curious where can you find it? Then, let us now explore the rare beauty of Raahe.
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Raahe is a quaint and warm seaside town in Finland with its old, wooden, and historical attractions. You heard it right. It is a coastal community situated in the Gulf of Bothnia and is even known as the "Town of Sea Winds". A lovely and peaceful town with sea air and a rich history.
It seems the perfect gateway for our longing souls. But wait, it gets more exciting than that. To give you a brief background, the town was founded by Count Per Brahe the Younger, the Swedish statesman and Governor General of Finland, in 1649. 
The plan for the said town was patterned after the ideals of the grid plan of the Renaissance. In fact, the oldest remaining picture of the Old Raahe dates from 1569 which shows the town being surrounded by customs fence with about two customs gates. 
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In 1810 however, the lovely town encountered a huge fire where most of its houses and records were destroyed. From this, a new town plan was drafted for rebuilding the town which consists most of what Raahe is now. Despite this unfortunate events however, the town school and church were saved from the fire. 
Now that you know its history, let us get more familiar with the small wooden town Raahe is known for its wooden town center and historical museums. It also has its own small-town events like the Raahe Music Week, the Brahe Classica, Pekka’s Day, and the Jazz on the Beach Festival. 
Now, let us get to the most famous spot in Raahe, the Old town of Raahe which serves as one of the oldest towns in Finland. There, you can find the Pekkatori Square where the neo-classicist houses of Fontell, Montin, Frieman, Hedmansson and Kivi-Sovio, and Lang are situated. 
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Beyond this, the Old town also has the oldest dwelling in Raahe namely the Sovelius House which was built in 1780. Can you think of anything more interesting and delightful than what this town has to offer?
Whether you want sea air, history, festivities, or just a beautiful and peaceful scenery, Raahe can give it all to you. If the abovementioned sites and features of the town still not convinced you. Then maybe this most essential feature of the will. 
Raahe is known for its welcoming and cozy people coupled with its calming environment. This is the very place for you to just be yourself and shed all those pretenses and pressures from the outside world. 
Here, you can create your own pace and time as you slowly immerse yourself in the rich history and beauty of the town. Indeed, Raahe is rare in its wonder and beauty. The perfect combination of its coast, old wooden houses, museums, and festivities will make you want to get back to it as soon as possible.
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thecava · 1 year
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Coyote & Crow
[English first, poi in italiano]
This game caused quite a stir when it kickstarted, and it definitely delivered. The book's art and content are gorgeous, and the game runs really nicely, hitting that sweet spot of crunchiness that I like. The uncolonized future it describes is a rich and complex world, gaining depth from its cultural base, and bringing it into focus with a lot of character and coherence. The setting felt really vibrant in the sessions I GM'd thanks to just a few details. The system is rather granular, but straightforward, and players smoothly got in stride during the sessions. Abilities, the "science fantasy" part characters first come into contact with, feel right in place with the setting, and are woven into it with enough context to further connect characters and setting. The action economy is pretty traditional and does its job well, and encounters have felt dangerous, making players look first for alternatives, then for every possible advantage, if they couldn't find one.
Un grande successo quando uscì su kickstarter, questo gioco ha mantenuto le sue promesse. Il contenuto e l'estetica del manuale sono splendidi e il gioco scorre veramente bene, raggiungendo giusto quel grado di meccanicità che piace a me. Il suo futuro incolonizzato dipinge un mondo ricco e complesso, che acquisisce spessore dai suoi fondamenti culturali, messi in evidenza con sapienza e coerenza. L'ambientazione ha dato decisamente molto tono alle sessioni che ho masterato con giusto una manciata di dettagli. Il sistema è piuttosto granulare ma diretto e i giocatori hanno colto fluidamente le dinamiche durante le partite. Le Abilità, la prima parte "science fantasy" con cui i giocatori hanno a che fare, sono ben implementate nell'ambientazione, creando un ulteriore legame fra questa e i personaggi. L'economia d'azione è abbastanza classica e fa bene il suo lavoro, inoltre durante gli scontri si è sentito il pericolo, spingendo i giocatori a cercare prima alternative e a sfruttare ogni possibile vantaggio quando non ce n'erano.
Coyote & Crow.
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jeannereames · 1 year
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Dr. Reames, do you think Alexandros really had megalomania?
Alexander and Megalomania
So many, many problems bubble up the minute one asks, “Was Alexander a megalomaniac?”
First, what does one mean by “megalomania”?
You might think that should be obvious. It’s not. It is, however, a good example of non-clinicians (historians or others) dabbling in pop-psychology, which I wish to hell they wouldn’t for reasons I outline in the first four pages of my article “The Mourning of Alexander” from Syllecta Classica back in 2000. The same thing leads people to decide Alexander “went crazy with grief” when Hephaistion died (he didn’t), or that he suffered from an Oedipus Complex (he didn’t), or even that he was a narcissist (he wasn’t).
Second, megalomania is not, itself, a diagnosis. It tends to be understood as narcissism, typically with manic elements, and/or part of a paranoid diagnosis.
Specific diagnostic criteria exist for narcissism (See below). But these criteria (unsurprisingly) are written for the modern world. That’s the second big problem.
His world and ours are quite different.
Additionally, the criteria are typically written for Joe Blow Average Person, and standard tests such as the MMPI* are notoriously problematic. As an older teacher of mine once pointed out, one of the MMPI questions then to indicate narcissism, “Do you think everyone is looking at you when you enter a room?” For most of us, the sensible answer is, “No.” But if you’re, say, Taylor Swift, the logical answer is, “Probably.”
If you’re Alexandros Philippou Makedonon, the answer is a definite, “Yes.”
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Of course that’s just one question and one question does not produce a diagnosis, but you begin to see the problem.
Alexander was the KING around whom an entire court and army revolved. One of the modern short-hand descriptions of a narcissist (like, say, Trump) is that he acts as if he thinks he’s a king.
If you are the king, can that even apply?
Third, Alexander lived in a society that genuinely believed the gods got involved, at least occasionally, in the lives of mortals, even sometimes had children with mortals. Sure, a number of the intelligentsia elite questioned those notions, even made fun of them. And yes, Alexander was a student of Aristotle.
But he was also a child of a fairly Traditional, conservative, and religious culture. Macedonians believed their kings were descended from Herakles. They also believed their kings had a sacred duty to mediate between the gods and their subjects, on behalf of those subjects, via daily sacrifice as well as conducting multiple ceremonies and festivals throughout the year, as king.
Alexander took that responsibility so seriously, he continued to make sacrifices—after he could do little else—until he literally couldn’t get out of bed or be cognizant enough to perform them.
He believed he was special because his people believed he was special, as a Temenid/Argead, and he heard that from the time he could toddle.
Nor was modesty or humility a virtue in ancient Greece or Macedonia. That’s a pretty post-Christian notion. Hubris was a real fear, for which reason boasting needed to be moderated—and Alexander was critiqued for being too boastful even in antiquity—but we must take care with how we believe they “ought” to think or act. Furthermore, critique of Alexander’s hubris comes largely from later writers under Rome, which did have somewhat different notions of proper behavior.
Fourth, we can’t trust some of our evidence, especially when it comes to anecdotal stories, which a lot of folks try to utilize in order to make various diagnoses. Are these stories things he actually did, things people claimed he did, or just things somebody thought he ought to have done or said? If you don’t believe that could happen, I invite you to run a quick Google search on “Alexander the Great + quotes.” The whole lion/sheep quote found EVERYdamnwhere? He never said it. Not in any ancient source. But it’s become so embedded that I had a fight with the scriptwriters for the documentary on which I was historical consultant because they tried to use it. I think it still wound up in the final because they cared more that he “ought” to have said it than that he did. (poetic license)
You see the problem there, right? What you think he “ought” to have said may not be at all what he said, or even what somebody else thinks he ought to have said.
There was no little disagreement, even in antiquity, about what Alexander was really like.
For that very reason, we must be wary of the moralizing, editorializing, and thematic goals of the ancient historians writing about him. By Roman imperial times, Alexander had become an object lesson as much as a real historical figure. Where IS the “real” Alexander behind all of that?
So, with all these caveats, what does the DSM V list as diagnostic criteria? And keep in mind, one must have over half (e.g., 5+ of the 9). I’m going to strike through and put in green those criteria I don’t think can be supported. I’ll put in blue criteria that seem to be true, but can be explained by both his status and cultural expectations. I’ll put in red things that seem to be true. And I’ll put in purple things we have no way of actually knowing. After each, I give a short explanation.
Also, let me say that I’m considering Alexander post-Gaugamela only, after his phenomenal successes.
A grandiose sense of self-importance: e.g., exaggerates achievements, expects to be recognized as superior without actually completing the achievements (Dude totally did most everything he claimed to have done, then went looking to top that.)
Preoccupation with fantasies of unlimited success, power, brilliance, beauty, or ideal love (I’m really of mixed mind here, as, again, his position in society and the success of his father almost required him to attempt amazing stuff. Because, of course. But compared to other Macedonian kings, he did seem to have a big Romantic bone.)
Believing that they are "special" and unique and can only be understood by, or should associate with, other special or high-status people or institutions (He’s a king—of course he hung out with other courtiers, and as time went on, demands on his time increased to the point that access to the king had to be limited; he still interacted, at least sometimes, with the average soldier.)
Requiring excessive admiration (Does seem to have been true, especially when drunk)
A sense of entitlement: unreasonable expectations of especially favorable treatment or automatic compliance with their expectations (Again, he’s a king and a military general; of course he expects people to take his orders)
Being interpersonally exploitative; taking advantage of others to achieve their own ends (While in many ways he doesn’t fulfill this, I’m still tagging it because he did exploit his army to achieve fame for himself, and got angry when they called him on it at various points. So that’s not just a modern reading of him.)
Lacking empathy unwilling to recognize or identify with the feelings and needs of others (He seemed to show unusual sympathy for others even when he didn’t have to, although their relative status mattered.)
Often being envious of others or believing that others are envious of them (Expressing envy/competition as a form of admiration was a cultural “thing” in ancient Greece, so it’s half purple, half blue. It’s hard to say if he were any worse than one would expect given his successes.)
Showing arrogant, haughty behaviors or attitudes (If Plutarch can be believed, he adjusted his expectations for his audience and what they needed a king to be…except when he was drunk, then he got arrogant.)
So, we’re left with three probably/possibly accurate criteria. Another three that can be explained just by who he was, and what he could expect from others because of who he was. At least one we can't really know, and two more that don't apply.
One of the “don't apply”��a lack of empathy—is important to a diagnosis of narcissism, btw. If he has a few, but not that one…I’m gonna go with “not a narcissist.” Especially when the three he does display can be explained otherwise.
It’s much easier to understand Alexander as a product of ancient Greco-Macedonian culture and religion, as well as a victim of his own unbelievable success.
We need to STOP trying to hang modern psychological terms on him. Or at least, not until somebody invents a time-machine and can whisk him from the past, plop him on a clinician’s couch, and ask him a bunch of diagnostic questions—properly moderated for who he was and what he accomplished.
—————
*MMPI = Minnesota Multiphasic Personality Indicator, one of several standardized tools employed to help diagnose clients/patients. Issues with it have been raised many times, ranging from socio-economic, to cultural/racial/sexist, to its uselessness with certain select populations, and the limited pool of the original sample group. In short, it has limited usage and should never replace analysis by trained clinicians. It might could serve as a starting place.
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micro961 · 22 days
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Francesco D’Agnolo “Chronicles of Ephemeral”
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Il concept album d’esordio del compositore romano. La musica di un piano solo come mezzo per compiere un viaggio attraverso le proprie emozioni
«Il progetto si basa interamente su un messaggio principale, che è quello di ascoltare la musica compiendo lo stesso processo dell'artista che lo ha composto. Ovvero quello di contattare le proprie emozioni, di usare la musica come un mezzo per visitarle, belle o brutte che siano, perché è questo l'unico modo per goderne ancora, o per affrontarle e risolvere senza il timore di esserne travolti. Perché è la musica stessa, che così come ci ha portato a visitarle, ci risolleverà e ci porterà altrove. Come immergersi in un fiume in piena, ma legati a riva con una corda solida, indistruttibile, che ci permette di sperimentare la forza travolgente delle rapide, per poi tornare sani e salvi con i piedi per terra. Questa corda è l'arte, questa corda è la musica.» Francesco D’Agnolo 
Da questo progetto nasce l'album "Chronicles of Ephemeral" un viaggio nelle varie circostanze emozionali della vita, scaturite da varie esperienze, che ci segnano, nel bene e nel male, ma che, come ogni cosa che ci riguarda, sono effimere e se ne andranno con noi, non lasciando alcuna traccia. Con questa consapevolezza, che non vuole essere una visione nichilista della realtà, bensì spronarci piuttosto a vivere il tempo che ci è concesso, esplorando e conoscendo, la musica diventa un mezzo per compiere un viaggio, lo stesso viaggio che l'artista ha compiuto a sua volta per comporre l’album, dando quindi la possibilità all'ascoltatore di essere trasportato lì dove lui tiene le proprie emozioni.
ALBUM TRACK BY TRACK
Francesco D'Agnolo, nato a Roma nel 1979. La storia di Francesco si intreccia con quella della Maestra di Pianoforte Elisabetta Pacelli, che abitava nel suo stesso palazzo. Da questo incontro poi i primi passi nel mondo della musica classica. A soli 5 anni, Francesco iniziò lo studio del pianoforte e superò l'esame di teoria e solfeggio in conservatorio prima di compiere 10 anni. Si avvicinò anche alla chitarra e al basso, sperimentando con i primi mezzi informatici per la registrazione e la produzione musicale. Oltre alla sua carriera di musicista, Francesco è stato coinvolto in diversi tour con artisti nazionali e internazionali, toccando palcoscenici in Europa e negli Stati Uniti. 
Da qui inizia anche la ricerca personale che approderà alla sua prima opera solista che va oltre la definizione di pianista, ma che si pone come un autentico brand, portando avanti il valore del contatto emotivo e della connessione interiore. Il 9 gennaio esce “Labyrinth”, prima composizione e primo singolo estratto dalla sua opera prima di inediti dal titolo “Chronicles of Ephemeral” fuori il 29 marzo 2024.
Etichetta: Non Fungible Records NFR
CONTATTI / SOCIAL https://francescodagnolo.it/
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londranotizie24 · 1 month
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circusfans-italia · 1 month
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LA MOSTRA DEDICATA A NANDO ORFEI NEL PROGRAMMA DEL MEMORIAL
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LA MOSTRA DEDICATA A NANDO ORFEI “NandOrfei, la storia del circo” è il titolo della Mostra dedicata a Nando Orfei nell’ambito del Memorial NandOrfei. Inaugurazione lunedì 22 aprile alle ore 18:00 presso la Biblioteca Comunale Giuseppe Gerosa Brichetto (Via G. Carducci, 5 - Peschiera Borromeo (MI))
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Si svolge a Peschiera Borromeo (Milano) il “Memorial NandOrfei – I nuovi talenti del circo nel mondo”, un nuovo evento dedicato alle arti circensi ed alla figura leggendaria di Nando Orfei nel decennale della sua scomparsa. In programma dal 19 al 28 aprile 2024 in vari luoghi della città e presso gli chapiteau dell’Accademia "Piccolo Circo dei Sogni" di Paride Orfei, figlio di Nando, il cartellone prevede spettacoli con un contest aperto ad artisti under 21 e loro performance create su colonne sonore di musica classica, mostre, convegni, film, concerti, conferenze, lezioni di circo, incontri nelle scuole ed altri eventi che coinvolgono il territorio e varie sue associazioni culturali e sportive.
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Lunedì 22 aprile, alle ore 18 presso la Biblioteca Comunale Giuseppe Gerosa Brichetto viene inaugurata “NandOrfei, la storia del circo”, la mostra storica dedicata a Nando Orfei, curata dalla figlia Gioia Orfei.
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La mostra promette di condurre il visitatore in un affascinante viaggio attraverso significative e rare fotografie, manifesti e locandine originali dei più grandi spettacoli realizzati, costumi di scena storici, riconoscimenti e filmati che riveleranno momenti significativi della vita e della straordinaria carriera di Nando Orfei e della sua famiglia.
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Un ruolo di rilievo nella mostra è attribuito ai figli Paride, Ambra e Gioia, ma soprattutto alla moglie Anita Gambarutti, anche lei celebre artista circense nonché autentica colonna portante della famiglia, sia allora che oggi. È stata lei a conservare gelosamente la maggior parte di questi preziosi materiali, in gran parte inediti, mantenendo viva la memoria di una tradizione circense intrisa di passione e dedizione.
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Tra i costumi di Nando ci saranno uno dei celebri che utilizzava nelle sue performance da domatore e uno che utilizzava nei numeri di giocoleria nei primi anni sessanta, tecnica nella quale è stato riconosciuto in quegli anni tra i più grandi al mondo.
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Tra i costumi di Anita ci saranno quello indossato negli spettacoli degli anni settanta “Circorama” e “Il circo delle mille e una notte”, quest’ultima una delle più celebri produzioni che fu realizzata con la regia di Gino Landi.
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Anita Gambarutti è stata equilibrista, acrobata, cavallerizza, addestratrice di tigri ed ha contribuito in modo determinante alla storia del Circo Orfei fin dagli anni '50, portando con sé un bagaglio di talento e passione ereditato dal Circo Gambarutti di famiglia. Il suo legame con Nando, con cui si unì in matrimonio nel 1962, ha rappresentato un fulcro fondamentale nella vita e nella carriera di entrambi gli artisti, consolidando il loro profondo amore per l’arte circense.  
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La mostra rimarrà aperta ad ingresso libero fino a sabato 27 Aprile (chiusa giovedì 25 Aprile) in orario 10.30 – 12.30 e 14.30 – 18.30.
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Il Memorial NandOrfei viene organizzato dall’Associazione Accademia del Piccolo Circo dei Sogni di Paride Orfei, con il sostegno del Ministero della Cultura, con il Patrocinio della Città di Peschiera Borromeo e della Città Metropolitana di Milano, con madrina Liana Orfei e coordinatrice Ambra Orfei, in collaborazione con l’International Salieri Circus Award di Legnago (Verona), con l'associazione culturale Compagnia de Calza "I Antichi" ed associazioni culturali e sportive del territorio. Il Memorial rientra nel calendario ufficiale delle manifestazioni del World Circus Day 2024 e gode inoltre del patrocinio dell’Ente Nazionale Circhi, della Federazione Italiana Spettacolo Popolare, dell’Associazione Nazionale Sviluppo Arti Circensi, del Club Amici del Circo e del Comitato Olimpico Nazionale Italiano. Informazioni complete sono reperibili in www.memorialnandorfei.it LA MOSTRA DEDICATA A NANDO ORFEI Per raggiungere il gruppo l'Impresario Circense su Facebook cliccate sull'immagine sottostante
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Scarica il biglietto sconto speciale amici di Circusfans Italia: ritaglia l’immagine qui sotto e consegnala alle casse del circo prescelto
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