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#ventiquattro ore nella vita di una donna
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Breve ma intenso ❤️
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lettriceimbranata · 30 days
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“The chain”
~ Trama ~
"Mi chiamo Rachel Klein e fino a pochi minuti fa ero una madre qualunque, una donna qualunque. Ma adesso sono una vittima. Una criminale. Una rapitrice. È bastato un attimo: una telefonata, un numero occultato, poche parole. Abbiamo rapito tua figlia Kylie. Segui le istruzioni. E non spezzare la Catena, oppure tua figlia morirà. La voce di questa donna che non conosco mi dice che Kylie è sulla sua macchina, legata e imbavagliata, e per riaverla non sarà sufficiente pagare un riscatto. Non è così che funziona la Catena. Devo anche trovare un altro bambino da rapire. Come ha fatto lei, la donna con cui sto parlando: una madre disperata, come me. Ha rapito Kylie per salvare suo figlio. E se io non obbedisco agli ordini, suo figlio morirà. Ho solo ventiquattro ore di tempo per fare l'impensabile. Per fare a qualcun altro ciò che è stato fatto a me: togliermi il bene più prezioso, farmi precipitare in un abisso di angoscia, un labirinto di terrore da cui uscirò soltanto compiendo qualcosa di efferato. Io non sono così, non ho mai fatto niente di male nella mia vita. Ma non ho scelta. Se voglio salvare Kylie, devo perdere me stessa....".
~ Genere ~
Thriller
~ Voto ~
⭐️⭐️⭐️⭐️⭐️
~ Recensione ~
Mi è piaciuto molto questo libro, una storia davvero avvincente e che ti tiene legato alle pagine fino alla fine.
Consigliato !
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comodebeser · 1 year
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Vierundzwanzig Stunden aus dem Leben einer Frau
Título: “Vierundzwanzig Stunden aus dem Leben einer Frau” (“Ventiquattro ore nella vita di una donna”) Autor: Stefan Zweig Año: 1927 País: Alemania/Austria (autor de Austria) Idioma: italiano (traducción); alemán (original)
Stefan Zweig es una pequeña obsesión mía. Y le llamo “obsesión” porque, antes de este, sólo había leído dos libros suyos, y sin embargo lo cuento entre mis autores favoritos. En realidad, creo que hay algo personal en la manera en la que “descubrí” “El Mundo de Ayer” (reseña previa), y por lo tanto le tengo cariño a él como autor (o como persona). En todo caso, cuando vi este libro en venta durante un viaje en Italia, y estando en una región de Italia caracterizada por ser el puente entre el mundo latino, el mundo germánico y el mundo eslávico (Trieste), no dudé en comprarme el libro. Sin embargo, el libro me decepcionó un poco. No es que sea malo, pero es un poco superficial. Los eventos están encadenados y bastante lineales, lo que hace que el libro se lea rápido y fácil. Y hay una temática similar a “Ungeduld des Herzens” (reseña previa), porque la mujer quiere creer en el personaje que conoce, y quiere salvarlo y redimirlo, pero el personaje está más allá de la redención. Pero creo que no está tan bien narrado como Ungeduld des Herzens, y es más predecible. Por otro lado, me gustó mucho situarme mentalmente en el momento histórico en el que ocurrieron los eventos narrados. No se especifica el momento con precisión, pero estimo que es alrededor de 1900, que es la época que más le interesa a Zweig. Es la época de su temprana juventud, cuando él era optimista y tenía muchas esperanzas para el futuro de Europa. Él ve a ese momento europeo como un momento de fraternidad y tolerancia. En realidad, aun sin saber nada sobre ese momento, está claro que él sólo tenía una percepción muy limitada de las cosas, que en esencia sólo captura lo que hoy llamamos Europa occidental. Aun así, para su época, él conoció muchas naciones: el Imperio Austro-Húngaro (que, de por si, era multicultural), Alemania, Bélgica, los Países Bajos, Italia, Francia. Y eso fue lo que le dio esa mentalidad. ¿Por qué me gusta a mí leer sobre eso? Quizás me gusta esa idea de fraternidad y globalización que no viene acompañada de una lengua hegemónica como el inglés. Es una idea idealista y anacrónica, pero me gusta leer sobre ese tiempo (real o inventado).
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corallorosso · 3 years
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CE LO DISSERO LE MOSCHE 39 ANNI FA LA STRAGE DI SABRA E CHATILA di Robert Fisk “Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare. Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera. All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto. Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento. Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.» Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra. Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote. Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? (...) Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria. In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato. Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto. Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta. Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore. (...) Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena. Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo. Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro. (...) . I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato. (...) Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa. Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato. Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi. Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile (...) (Occhi sul Mondo)
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[ARTICOLO] Isaac, il fiorista preferito dei BTS, racconta dell’incontro con il gruppo, di TikTok e del perché ama i fiori
“-Dopo aver incontrato i BTS la mia aspettativa per una star globale è questa: deve avere la capacità di amare e apprezzare chiunque, senza guardare dall’alto in basso gli altri dalla sua posizione rialzata-.
In un mondo intossicato dal dolce aroma delle rose, dei lillà e della lavanda, Kim Isaac - che potresti aver già visto la scorsa settimana mentre insegnava ai BTS come destreggiarsi tra i fiori - si è trovato di fronte ad un dilemma riguardante il suo fiore preferito: non ha un odore.
Questa particolarità rende l’anemone un’anomalia tra i suoi profumati colleghi, lo rende unico. Isaac sa cosa si prova. In un certo senso, il fiorista ventinovenne è l’anemone del suo settore in Corea del Sud dove, ha detto, ‘qualsiasi lavoro associato ai fiori’ è spesso considerato come ‘lavoro da donna’. Nei sei anni durante i quali è subentrato al posto dei suoi genitori a capo della loro attività da fiorista e l’ha resa propria, ha ottenuto la licenza per insegnare a livello internazionale, è stato nominato direttore fioraio per il festival Ultra Music in Corea e ha collaborato con marche come Nespresso. 
Ma poiché non assomiglia e non si comporta come il ‘tipico’ fioraio, ha avuto difficoltà a sentirsi accettato dalla cultura coreana. ‘Se sei leggermente diverso dalla norma, le persone all’estero potrebbero etichettarti come -unico-’ ha detto allegramente parlando con Teen Vogue attraverso un traduttore dal suo negozio a Gangnam, un distretto di Seoul. ‘Ma in Corea ti vedono solo come una persona -strana-.’
Ed è stata proprio questa sua ‘particolarità’ a dargli la possibilità di incrociare sul proprio cammino i BTS, superstar globali, un tempo anche loro considerati ‘strani’. Nel 2013 RM, Jin, Suga, J-Hope, Jimin, V e Jungkook hanno debuttato con un messaggio, uno stile e un atteggiamento che li ha fatti risaltare tra gli altri gruppi. Loro erano l’anemone del mondo del K-pop e, alla fine, a renderli così amati sono state proprio queste qualità che li rendevano diversi.
La scorsa estate, il team di produzione del reality show ‘Run, BTS!’ dei BTS ha contattato anonimamente Isaac, affermando di essere il rappresentante di un nuovo gruppo idol formato da 10 membri. Il produttore ha spiegato che apprezzavano tutto ciò che lo rendeva ‘unico’ tra tutti gli altri fioristi coreani: lo sfondo floreale che aveva realizzato per il festival, la sua giovane età e il suo genere.
Isaac ancora non ne aveva idea, ma secondo i produttori sarebbe stato in grado di instaurare con i BTS una connessione speciale come nessun altro fioraio avrebbe potuto fare. Un giorno prima delle riprese, gli è stato comunicato a chi avrebbe dovuto insegnare: ‘Quando mi hanno detto che si trattava dei BTS...tutto, nella mia testa, si è semplicemente fermato’, ha raccontato Isaac con uno sguardo ancora incredulo. ‘Ero senza parole’. Meno di ventiquattro ore dopo, il team di produzione del ‘Run’ ha preso possesso del negozio di Isaac, schermato le finestre per assicurare la privacy e piazzato luci e telecamere. Ai genitori di Isaac, che di solito lavorano con lui al negozio, è stato chiesto di andar via insieme a Shih Tzu, il gatto di famiglia. 
Quando sono arrivati i BTS, Isaac è rimasto in disparte: ‘Sono famosi, quindi...non è stato facile per me avvicinarmi a loro’. Era nervoso. Cosa avrebbe detto? Sarebbe anche solo riuscito a parlare, davanti a loro? La tensione è andata scemando nel momento in cui i membri hanno iniziato a tempestarlo di domande. ‘Sarai il nostro insegnante di oggi?’, gli hanno chiesto. ‘Sei apparso in Produce 101 (N/B: un reality show coreano)? Mi pare di averti visto da qualche parte!’, ‘Sei un attore?’. Questa loro apertura ha reso Isaac, impegnato anche come modello e un tempo trainee presso un’agenzia per idol, ma non attore, ‘molto felice e mi ha aiutato a rilassarmi e sentirmi più vicino a loro’. 
L’episodio del ‘Run’ registrato con Isaac era ispirato al format, molto popolare nella televisione coreana, della ‘lezione di un sol giorno’, un laboratorio nel quale le persone possono cimentarsi in attività di artigianato e hobby come la cucina, il ricamo e la pittura. I produttori avevano precedentemente chiesto ad Isaac di preparare un segmento dedicato ai fiori del compleanno che, ha spiegato il fioraio, in Corea hanno un significato culturale molto più profondo che in altri Paesi, anche perché aiutano a ‘dare un senso alla vita di ognuno’. Iniziate le riprese, ‘c’è stato un momento in cui non ricordavo i fiori corrispondenti alle date di nascita di ciascun membro’, ha rivelato Isaac, ma un Jungkook molto gentile e premuroso ‘se ne è reso conto velocemente e mi è venuto in soccorso dicendo di sapere già quale fosse il suo!’. Per tutta la durata delle riprese, Isaac è stato molto toccato dal modo in cui ognuno dei membri ha contribuito a coprire i suoi piccoli errori. 
Girando, Isaac si è ritrovato poi in mezzo a V e RM ed è stato particolarmente divertito e attratto dalla loro insaziabile curiosità: ‘Amo sempre lavorare con studenti che hanno un sacco di domande da pormi’, ha detto Isaac. 
'Capisco perché RM sia diventato il leader dei BTS. Analizzava sempre, interpretava situazioni ed eventi e chiedeva non solo dei fiori, ma in ogni situazione (domandava), -Come funzionano le cose?- -Perché fai cose del genere?-’ Isaac ha aggiunto che, anche se ‘tutti i membri esprimevano il loro amore per gli ARMY, in particolare ho notato come RM li mettesse in tutto quello che faceva’.
Per quanto riguarda V, ‘Penso che gli piacciano le piante’, ha detto Isaac. Il cantante era particolarmente curioso riguardo al tipo e alla cura. ‘Mi ha detto di averne alcune a casa e che era interessato nel coltivarne una più grande. Ho trovato molto dolce il fatto che sia rimasto accanto a me per essere sicuro di fare le cose correttamente’.
Quando l’episodio è stato trasmesso all’inizio della settimana scorsa, i fan sono rimasti sorpresi dalle battute dei BTS con Isaac. A Suga, Isaac è sembrato ‘così bello’, come un attore in un drama. Jimin si è complimentato per i suoi capelli e il suo stile. V ha detto che Isaac sembrava avere lato inaspettato, e gli ha chiesto se per caso gli piacesse la musica hip-hop (per la cronaca, ad Isaac piace, ma è un fan ancora più grande dell’EDM, di Dua Lipa e Doja Cat). ‘Dovremmo essere interessati ai fiori, ma siamo più interessati all’insegnante’, ha concluso J-Hope, mentre precedentemente Jimin scherzosamente aveva supplicato Isaac di raccontare loro qualcosa sulla sua ragazza.
La reazione più grande del gruppo è arrivata mentre facevano i fiori all’occhiello. J-Hope ha chiesto se Isaac fosse triste nel tagliare e buttare via le foglie di così tanti fiori. Quando Isaac ha risposto (secondo i sottotitoli inglesi di Vlive) che ‘non dovresti aver paura nel gettar via le cose che non ti servono’, la stanza è esplosa in urla e richiami impressionati di ‘swag!’. ‘Questo è qualcosa che dico ogni giorno’, ha detto Isaac confuso. ‘Loro stessi sono così fantastici, ero sorpreso di ricevere una reazione così grande. Per i membri dei BTS, complimentare qualcuno gli risulta naturale. Sentivo che lo dicevano sul serio, che veniva dal cuore, quindi non era imbarazzante. Ero davvero riconoscente’.
I due membri più chiassosi erano di gran lunga il ballerino J-Hope, che si può sentire cinguettare come un canarino per tutto l’episodio, e Jin, che è sempre pronto a sacrificare la propria immagine (e a volte la propria dignità) per fare da controparte comica del gruppo. Durante il loro progetto finale con Isaac, Jin ha usato il suo stravagante senso dell’umorismo per creare una corona di fiori che da vicino assomigliava di più ad antenne floreali (o a occhi di una lumaca, come ha detto Jungkook). Il risultato ha fatto scoppiare tutti a ridere. Al termine delle riprese, Jin l’ha avvicinato per spiegargli che ‘siccome molti membri sono un po’ timidi, ha cercato di vivacizzare l’atmosfera e renderla divertente usando certe parole o azioni’, ha detto Isaac. ‘Ha chiesto scusa se qualcosa che aveva detto o fatto fosse risultata maleducata o offensiva. Sono rimasto molto colpito. Mi sono davvero divertito con loro, ma Jin pensava sempre a come le sue azioni e parole potessero influenzare qualcun altro. Personalmente mi piacciono molto le persone come Jin, che pensano fuori dagli schemi. Alcuni potrebbero pensare che è strano, ma significa solo essere diversi’. Durante l’episodio Isaac ha suggerito che lui e Jin dovrebbero lavorare insieme nel futuro, e diceva sul serio. ‘Lavorare con Jin a qualsiasi cosa che abbia a che fare con i fiori sarebbe molto interessante’.
Alla fine della giornata, i membri hanno portato le loro creazioni floreali a casa, con grande gioia di Isaac. Immagina che li abbiano consegnati a qualcuno a cui tengono. ‘Nei paesi occidentali la gente compra fiori per le proprie case, li mette in un vaso e li ammira’, ha spiegato. Questo è estremamente insolito in Corea, dove ‘i fiori vengono consegnati o scambiati in occasioni speciali’, e vengono  spesso fatti seccare e pressare poco dopo.
Quando gli è stata chiesta un’ultima impressione sui BTS, Isaac non ha esitato. ‘Sono persone buone e oneste. Con loro, nulla è mantenuto nell’ombra’, ha detto, usando un’espressione coreana che letteralmente significa ‘in loro non ci sono menzogne’. ‘Quando ci siamo incontrati erano nel mezzo del tour mondiale -Love Yourself- ed erano probabilmente estremamente stanchi.
Ma sono stati così simpatici e premurosi. Sia sullo schermo che fuori, erano i loro veri sé. Dopo aver incontrato i BTS, la mia idea di star globale è questa: hanno il potere di amare e comprendere chiunque, senza guardare dall’alto gli altri’. L’esperienza ha reso Isaac un ARMY. ‘Le loro canzoni Boy With Luv e Mikrokosmos sono le mie preferite’, ha detto con un sorriso.
La messa in onda dell’episodio all’inizio di questa settimana è arrivata in un momento difficile per Isaac, che dice di sentirsi ancora fuori luogo in Corea, nonostante le cose sembra stiano migliorando da quando ha creato il suo account TikTok a Settembre. In (quest’account) fa appello all’allenamento da idol dei suoi vent’anni per esibirsi in cover di ballo e fare dei video carini nel proprio negozio. Ha rivelato che in Corea TikTok è considerata ‘un’app imbarazzante per bambini’, ma il sostegno che riceve dalla comunità internazionale della piattaforma l’ha aiutato a sentire che ‘le cose stanno iniziando davvero a districarsi e ad aprirsi’ per lui. Recentemente un amico ha scherzato (dicendo) che la reazione alla personalità di Isaac è così diversa tra il pubblico coreano e quello occidentale che sarebbe dovuto nascere negli Stati Uniti. Adesso Isaac sta ‘studiando duramente’ l’inglese così da poter comunicare meglio con i fan e sogna di lavorare a progetti oltreoceano.
Nel mezzo delle sue insicurezze, la collaborazione con i BTS ha aiutato a confermare ad Isaac che è sulla strada giusta. Il gruppo (e le più di 120,000 persone che hanno seguito il suo (account) Instagram dopo il rilascio dell’episodio) ha visto del valore in ciò che lo rende diverso e questo gli ha dato speranza per il proprio futuro. ‘Continuerò a fare ciò che mi rende felice’, ha detto, ‘e la felicità non scende a compromessi’.
Quando gli (è stato) chiesto perché sia così appassionato al suo lavoro, Isaac ha spiegato: “I fiori hanno il potere magico di far piangere o ridere qualcuno; possono evocare sentimenti complessi. Lavorando con i fiori, posso creare il mondo che immagino, quindi dico sempre ai miei studenti, -In questa composizione (floreale) vive la tua fantasia-. Spero che molte persone possano vivere (quest’esperienza), provare la vera felicità attraverso i fiori. Non posso fare a meno di amarli.”
Traduzione a cura di Bangtan Italian Channel Subs (©jimindipityR, ©Xina, ©MoMo, ©maru, ©soshimmie) | ©TeenVogue
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maybeweexisttobleed · 4 years
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Carnage
Avevano dovuto lasciare la camionetta della scientifica vicino all'imbocco del vicolo stretto, proseguendo a piedi, in fila indiana, per raggiungere il Basket Court nella South Side. Era una zona rischiosa quella, soprattutto quando ci si trova a dover svolgere un lavoro in divisa. Quella stessa divisa che, alle volte, può trasformare un poliziotto in un bersaglio mobile. Qualcuno aveva ben deciso di farsi giustizia da solo e ora, il cadavere impiccato e appeso alla recinzione del campetto da basket, nel suo silenzio, chiedeva solo di essere rimosso da lì. Dell'incarico se ne stava occupando il Capitano Kris Nguyen, un giovane ragazzo venuto dalla miseria di Haiti. Possedeva quei classici modi schietti e ruvidi della strada tipica dei ragazzi della South, con la differenza che aveva deciso di entrare nel reparto della S.W.A.T. della Polizia di Philadelphia. Chiamava Alexandra senza la rigida compostezza degli altri Capitani, ma d'altronde quando entri in un reparto votato all'azione e alla soluzione di situazioni ad alto rischio, certe etichette diventano superflue e il pragmatismo è fondamentale. 
« Dove sono cresciuto io ti chiamavano con il nome del ferro che ti portavi dietro. Poi ognuno fa come vuole, ma per quanto mi riguarda... »  nello spazio della pausa indicò l'imbocco del vicolo con il mento « tengo a mente che c'è una discreta possibilità che qualcuno compaia per spararci addosso: non c'è tempo per queste cazzate »  
La rimozione del cadavere sarebbe stata una mansione ben poco edificante e, con ogni probabilità, del tutto inutile, ma andava comunque fatto. Trasportarono la barella con sopra un borsone della scientifica, all'interno di esso avevano tutto il materiale necessario per il recupero del corpo e per i primi rilievi. L'area era stata circoscritta, oltrepassarono i divieti e si recarono dritti alla recinzione dove trovarono Carnage.
« Well, Carnage: ecco il tuo uber.  »
Il black humor del Capitano non sembrava disturbare Alexandra. Durante il suo primo anno in polizia, la giovane donna aveva avuto modo di incontrare altri cadaveri: alle volte erano persone anziane e abbandonate, altre erano vittime di incidenti o violenze. Aveva visto corpi dilaniati da feroci assassini così come quelli provati dallo stato di decomposizione. Dopo tre anni di servizio aveva superato il blocco psicologico. Ogni salma aveva un nome e una storia da raccontare, non di rado i poliziotti si trovavano a conversare tra loro e a rivolgersi, direttamente, al cadavere che avevano sotto gli occhi come se si trattasse di un caro amico ancora vivo.
Stavolta il cadavere era stato pubblicamente esposto da circa ventiquattro ore, lasciato a torso nudo, un cappio alla gola e un foro di proiettile alla tempia. Come se ciò non fosse abbastanza, gli avevano messo un cartello appeso al collo:
"Carnage ed il gruppo chiamato Prison Break ricattavano poveri innocenti e li costringevano a combattere per il divertimento di anonimi spettatori. Carnage ora è davanti a voi, con un cappio alla gola. Perché è questo ciò che merita la feccia."
Era stato marchiato a fuoco con il logo dei Night Soldiers, un'organizzazione illegale che come dei Giustizieri della Notte andavano a "ripulire" le strade sostituendosi a polizia, tribunali e carceri. Non avrebbero trovato tracce evidenti, quella scena era stata architettata ad arte per inviare un messaggio diretto alla “feccia”. Il Capitano e l’agente di polizia indossarono i guanti, iniziando una fitta conversazione: parlarono di morte, di vita, giustizia e soprattutto di ingiustizia. 
Alexandra mise da parte le formalità « Ora che abbiamo abbracciato un cadavere possiamo anche scambiarci queste confidenze, a quanto pare  »  quando voleva sapeva anche tirare fuori qualche battuta.  
« Ce lo porteremo dentro la tomba, right, Carnage? » fu la risposta del Capitano.
Spostarono - con non poca fatica - quel cadavere per adagiarlo nel sacco della scientifica e una volta raggiunto il camioncino, il Capitano si fece più serio e le chiese se volesse una sua opinione sulle relazioni tra colleghi. Per Alexandra, il Dipartimento di Philadelphia sembrava un posto più tollerante verso i rapporti sentimentali nati tra quelle mura e non riusciva a concepirlo, era sempre rimasta ligia all'etica professionale e alle indicazioni del Sergente NYPD che l’aveva seguita. Lei non se lo fece ripetere due volte, voleva davvero conoscere il pensiero del collega. Kris era giovane, ma sembrava aver già vissuto tre vite, nonostante lui stesso avesse riconosciuto, in Alexandra, quella pelle dura che hanno tutti quelli che hanno sofferto molto e altrettante volte si sono dovuti rialzare per non soccombere. 
« Philadelphia è l'inferno. Non importa quanto tu abbia sofferto, questa città troverà il modo di peggiorare il tuo dolore fino a spezzarti. Arriverà un momento - tra un mese, tra cinque - in cui dimenticherai che forma ha il tuo appartamento, cosa mangia di solito il tuo gatto, che roba seguivi su Instagram. Un momento in cui non sarai più un poliziotto, ma una donna in guerra. In quel momento, proprio in quel momento... l'unica cosa che ti impedirà di soffocare, è avere qualcuno o qualcosa lì fuori. » il viso di lui insegue il vento, il profilo dei palazzi, della città. « Qualcuno che non sia parte di questa guerra, che ti ricordi che c'è ancora un mondo reale. Una birra, una scopata o quello che ti piace fare nel tempo libero. Quindi non farlo: non ti condannare a non avere più una via di fuga. »
Lei non poteva capire. Veniva da una metropoli dove il crimine delle maschere era insidioso, ma il tasso di violenza seppur notevole non era alle stelle come quello di Philadelphia. « Mi sento ancora un'estranea. Puzzo ancora di New York, di caffè stantio, di casi da scrivere a penna e di serate a bere birra in bottiglia facendo un brindisi a chi ha chiuso un caso. La divisa, il distintivo, per me hanno ancora un valore... di una famiglia, di fratelli e sorelle. » raccontava quello che sentiva e viveva, concedendo un'occhiata cupa alla strada stretta della South « Forse arriverà quel giorno, ma quando succederà... lo capirò...» ma era così scettica, come se in fondo, quella prospettiva fosse davvero così remota, lontano da lei.
Salirono a bordo del mezzo della scientifica, avevano un cadavere da consegnare, dovevano bloccare quel processo di deperimento e sapevano che molti fenomeni cadaverici erano scomparsi a favore d’altri. Così come sapevano di essersi esposti, di aver parlato dei loro morti, quelli più cari che ancora invadono sogni e pensieri, loro che non lasciano in pace i vivi.
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unrelletable · 4 years
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Uno degli obiettivi che mi ero prefissata di raggiungere nel 2020 era quello di impegnarmi per leggere di più. Lo scorso anno avevo deciso che avrei letto almeno venticinque libri, e, dal momento che allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre ero riuscita a superare la quota con un vantaggio di undici, per quest’anno ho alzato l’asticella a quaranta. Se la pandemia non avesse colpito il nostro pianeta, è alquanto improbabile che sarei stata in grado di trovare tutto il tempo necessario per riuscirci addirittura prima dello scadere dei primi sei mesi dell’anno.
Considerato che nonostante le misure restrittive si siano leggermente allentate, per lo meno in Italia, molte persone si ritrovano ancora con immensi spazi vuoti da dover riempire nelle proprie giornate, ho pensato che condividere l’elenco di quanto letto finora potesse essere utile per dare qualche spunto sulle prossime pagine da sfogliare.  Oltre che per alimentare ulteriormente la mia vena di egocentrismo che deriva dall’essere riuscita a completare questo compito autoimposto. I titoli sono in ordire cronologico e i giudizi che saranno al loro fianco non rispecchiano altro che la mia semplice, e priva di qualsiasi competenza in ambito letterario, opinione. Quindi, take it easy.
1. China Girl, Don Wislow (3/5): preso in prestito per sbaglio - il mio obiettivo era King Kong Girl, ma devo aver avuto un momento di confusione di fronte allo scaffale della biblioteca - si è rilevato come niente male. Forse un po’ troppo pedante su certe descrizioni, ma con un colpo di scena finale decisamente inatteso.
2. Divorziare con stile, Diego de Silva (5/5): è divertente, ironico e con un pizzico di scetticismo riguardo alla vita di tutti i giorni. Ho fatto fatica a trattenermi dalle risate su un regionale pieno zeppo di gente.
3. Cat person, Kristen Roupenian (4/5): tanti piccoli racconti più o meno verosimili che, una volta terminati, sembra ti abbiano scagliato contro un bel numero di pugni dritti allo stomaco.
4. Gli uomini mi spiegano le cose, Rebecca Solnit (4/5): il primo non-fiction dell’anno e il primo non-fiction in cui mi sono finalmente sentita compresa. Un passaggio obbligato per la letteratura femminista.
5. Chilografia, Domitilla Pirro (5/5): un’esistenza fin troppo comune con un finale tutt’altro che banale. L’ho adorato.
6. Io Khaled vendo uomini e sono innocente, Francesca Mannocchi (5/5): è uno di quei libri a metà tra finzione e realtà; non si capisce dove cominci una e finisca l’altra e forse, per le nostre coscienze occidentali, è meglio non porci proprio la domanda. 
7. L’amore che mi resta, Michela Marzano (5/5): nella classifica dei libri ‘pugni allo stomaco’, questo si piazza senza dubbio sul podio. Un viaggio doloroso alla scoperta di sé e della legittimità dei propri desideri.
8. Testosterone Rex, Cordelia Fine (4/5): non sono un’appassionata di scienza, ma se trecento pagine servono a smentire scientificamente che il testosterone sia la causa naturale dei comportamenti maschili allora mi troverete a leggerle dalla prima all’ultima.
9. Vita segreta di noi stesse, Wednesday Martin (5/5): un inno alla necessità e all’importanza della libertà femminile, in tutti i campi. Quello sessuale in primis.
10. Ultima fermata Delicious, James Hannaham (5/5): struggente, intenso e realistico a dir poco. A riprova che, in certe condizioni, l’amore di una madre per il proprio figlio possa incontrare degli ostacoli insormontabili.
11. L’anno in cui imparai a leggere, Marco Marsullo (5/5): un libro che racconta una storia d’amore decisamente anticonvenzionale. Vi scalderà il cuore.
12. Citizen, Claudia Rankine (5/5): uno spaccato crudo e vivido di cosa significhi affrontare la vita di tutti i giorni nella pelle e nel corpo di una donna afroamericana. Se dovessi descriverlo con un solo aggettivo, quello sarebbe ‘potente’.
13. Due o tre cose che so di sicuro, Dorothy Allison (5/5): l’unico modo per poter capire di cosa tratti questo libro è quello di leggerlo. Con attenzione, delicatezza e rabbia.
14. La libertà possibile, Margaret Sexton (4/5): tre generazioni che si incrociano e faticano a comprendersi. Affascinante.
15. Confidenza, Domenico Starnone (1/5): forse non l’ho compreso del tutto, ma purtroppo è il libro che mi ha lasciato poco o nulla. Lo stile non è male, ma è la storia a non reggere più di tanto. Ripeto, si tratta solo del mio giudizio personale.
16. King Kong Girl, Virginie Despentes (5/5): tutto quello che ho sempre pensato e sostenuto messo nero su bianco con una maestria impeccabile. E’ diventato la mia nuova Bibbia.
17. Psicologia del maschilismo, Chiara Volpato (5/5): vale quanto detto sopra. Uno scorcio sui meccanismi che regolano la nostra società, e la realtà italiana in particolare.
18. Donne, razza e classe, Angela Davis (5/5): se mai qualcuno potesse avere dubbi sul fatto che il femminismo debba abbandonare l’idea di proporsi come movimento per la liberazione femminile attraverso un’ottica esclusivamente bianca e occidentale, gli dia un’occhiata. Un’altra pietra miliare per comprendere un po’ di più le realtà che ci appaiono estremamente lontane, ma che sono più vicine di quanto non siamo disposti a credere.
19. Irresistibile, Adam Alter (2/5):  la spiegazione con dati alla mano del perché non riusciamo a staccarci dalle nostre nuove appendici digitali. Non dà troppi consigli pratici su come liberarsene, ma dopo averlo terminato ho cercato di tenere il cellulare il più lontano possibile.
20. Half of a yellow sun, Chiamamanda Ngozi Adichie (5/5): ne ho parlato e riparlato almeno un milione di volte. Probabilmente il mio romanzo preferito in assoluto. 
21. Acciaio, Silvia Avallone (5/5): il libro che ha inaugurato la stagione delle riletture dopo che la mia biblioteca è stata chiusa per l’emergenza coronavirus. Potente e straziante come la prima volta.
22. Da dove la vita è perfetta, Silvia Avallone (5/5): le pagine che sanno fin troppo di casa. Nel bene e nel male. 
23. Perduti nei quartieri spagnoli, Heddi Goodrich (2/5): tutto il fascino di Napoli raccontato dagli occhi innocenti di una studentessa universitaria. Mi ci ha fatto innamorare di nuovo.
24. Shantaram, Gregory David Roberts (5/5): un inno d’amore per l’India e tutto ciò che essa rappresenta. Struggente.
25. Noi, ragazzi dello zoo di Berlino, Christiane F. (3/5): la sensazione di disagio comincia alla prima pagina e non abbandona mai. E’ proprio lì, alla bocca dello stomaco, e non se ne va nemmeno dopo aver posato gli occhi sull’ultima frase.
26. Il potere di adesso, Eckhart Tolle (1/5): gli spunti sono interessanti, ma non vengono approfonditi quanto sarebbe necessario. La scrittura è a dir poco terribile, e dubito che sia tutta colpa della traduzione.
27. La paranza dei bambini, Roberto Saviano (5/5): la prima opera di Saviano che abbia mai letto e che mi ha affascinato dalla prima riga. La sua Napoli è ineguagliabile.
28. Bacio feroce, Roberto Saviano (4/5): i sequel tendono sempre a non entusiasmarmi quanto gli originali. O forse avrei solo voluto un finale totalmente diverso. Quattrocento pagine vissute sul filo di un rasoio sperando in una boccata d’aria che non arriva.
29. Non ti muovere, Margaret Mazzantini (4/5): da leggere tutto d’un fiato, come si vivono le storie clandestine che, alle volte, sono decisamente più autentiche di quelle legittime.
30. Non ho mai avuto la mia età, Antonio Dikele Distefano (3/5): il tema è fortissimo e alcune pagine sono di un’intensità spaventosa. Una citazione ha preso posto anche nella mia tesi di laurea.
31. Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti?, Antonio Dikele Distefano (2/5): è quello che deifinirei un comfort book. L’equivalente di un panino del McDonald’s o delle cucchiaiate direttamente dal vasetto di Nutella dopo una rottura con il fidanzato. Non per tutti i giorni, ma solo per quelli in cui si ha un bisogno quasi viscerale di essere certi di non essere gli unici a provare determinate emozioni.
32. Us, David Nicholls (5/5): una storia d’amore anticonvenzionale, o fin troppo convenzionale. Non so se preferisco questo a One Day. Irriverente e leggermente sbadato come il suo protagonista.
33. Le luci delle case degli altri, Chiara Gamberale (4/5): ne avevo sentito parlare come di un assoluto capolavoro, e forse le mie aspettative ne sono state influenzate. L’idea di fondo è geniale, ma si perde un po’ nel finale.
34. La ragazza del treno, Paula Hawkins (5/5): letteralmente trangugiato in meno di ventiquattro ore perché non sopportavo l’idea di andare a letto senza conoscere tutta la verità. O, più realisticamente, non sarei riuscita ad addormentarmi con l’angoscia addosso.
35. Isola di Neve, Valentina d’Urbano (5/5): una piacevolissima sorpresa. Il colpo di scena finale vi emozionerà.
36. La bambina che scriveva sulla sabbia, Greg Morteson (2/5): non si tratta del mio genere preferito, e il mio giudizio ne ha risentito. Una storia di speranza senza, per fortuna, quella mania di protagonismo assoluto dei volontari occidentali.
37. Il pianista di Yarmouk, Aeham Ahmad (2/5): la guerra in Siria da un punto di vista che troppo spesso viene trascurato, quello di coloro che l’hanno vissuta - e la stanno vivendo - sulla propria pelle. 
38. Dritto al sodo, Greg McKeown (4/5): se avete bisogno di un segno che vi dica di smettere di fare ciò che odiate e di dedicarvi a quello che vi rende felici, eccolo qui. Semplice, efficace e motivante.
39. Prima che tu venga al mondo, Massimo Gramellini (5/5): una lettera d’amore ad un figlio che deve ancora nascere. La dolcezza equivale, almeno in quantità, la simpatia. Bellissimo.
40. L’amore che dura, Lidia Ravera (5/5): il libro giusto al momento giusto. Non saprei come altro descriverlo.
- i miei (primi) 40 libri del 2020
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avevo-un-nome · 5 years
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La storia nascosta.
Ci ho pensato un po’ prima di scrivere questa cosa, perché nella mia vita sono sempre quella forte e indistruttibile e invece non è così. 
Chi sono io? Apparentemente la ragazza con la vita perfetta: ho al mio fianco un ragazzo che mi ama e che mi sostiene in tutto, ho tanti amici ai quali posso parlare di qualsiasi cosa, sono a un passo dalla laurea e ho già diverse offerte di lavoro che mi attendono al varco. Vengo da una famiglia sufficientemente benestante e ho sempre avuto gli inviti per i party più esclusivi della riviera.  La mia vita sembra perfetta, no?
È da quando ho più o meno quindici anni che il peso dell’aspettativa pende sulla mia testa. La famiglia si aspetta che mi laurei in una determinata facoltà, con determinati voti, entro un certo limite di tempo e che trovi lavoro subito dopo, ma non un lavoro qualunque, un lavoro attinente al mio corso di laurea. Gli esami sono stressanti, soprattutto quando ti manca solo l’ultimo esame prima della laurea ed è la quarta volta che lo ridai. Persino i miei amici o sconosciuti hanno determinati piani su di me e io non posso fare altro che accettarli a mo’ di Spada di Damocle che pende sulla mia testa.
Io l’ho fatto, io ho provato simultaneamente ad accontentare tutti nel limite delle mie ventiquattro ore giornaliere. La mia giornata tipo era: sveglia alle sette e biblioteca fino all’una, pranzo con l’amica di *** che ti potrebbe fare ottenere una raccomandazione per ***, di nuovo in biblioteca fino alle cinque, poi dalle cinque alle sette allenamento, dalle sette alle undici lavoro e poi via, da qualche parte o con gli amici o col ragazzo.
Volete sapere com’è finita? Il mio organismo ha provato ad uccidermi, no, non sto esagerando il mio organismo ha veramente provato ad uccidermi. Mi sono ritrovata con un’emicrania tensiva dovuta da stress così forte da indurre il mio organismo a rimettere tutto ciò del quale si nutriva. Il mio medico di base mi ha mandato direttamente al pronto soccorso, dove sono stata dichiarata grave fin dal primo istante. Dopo mezz’ora ero già dentro uno stanzino con una donna che mi faceva domande che non ricordo nemmeno e una flebo di barbiturici. Dopo quaranta minuti un tecnico simpatico mi aiutava a posizionarmi nella TAC, avevano paura ci fosse del sangue nel mio cervello. Un’ora dopo una signora felice mi parlava di quanto era bello il mondo con i barbiturici.
 Sono rimasta in ospedale solo tre giorni e le uniche due persone che sapevano di questo soggiorno, oltre ai miei genitori, erano il mio ragazzo e la mia migliore amica. Sono stati tre giorni infiniti, tre giorni lunghi e noiosi, ma sono anche stati tre giorni dove ero sempre intontita dalle medicine, in cui tutto sembrava dannatamente semplice e rilassante. 
Poi questa mattina ho avuto una lunghissima chiacchierata con il neurologo, è stato gentile con me, un po’ come un padre. Mi ha spiegato quello che era successo alla mia testa e mi ha spiegato che è più pericoloso di quello che si possa pensare. Mi ha riempito di domande sulla mia vita e mi ha spiegato come, probabilmente, quella tensione che gli altri mostrano con le lamentele io la tengo completamente dentro di me, fino agli estremi. Il mio organismo ha bisogno di una pausa, e io con lui. Poi mi ha detto un qualcosa di ancora più importante, un qualcosa che ricorderò per sempre: 
“Io posso darti tutte le medicine del mondo, posso darti tanti farmici che ti promettono sia la felicità che il loro raggiungimento senza sforzo, ma questo non cambia il fatto che se continui a stressare così la tua mente e il tuo organismo, il tutto sarà solo finto.”
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theatenablog-blog · 5 years
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Recensione: La donna dei miei sogni, di Nicolas Barreau.
Prima di cominciare a parlare effettivamente del libro vorrei soffermarmi per poche righe sullo scrittore. 
Di Nicolas Barreau si sa davvero poco, considerando che la sua unica biografia ci è fornita sul retro della copertina del suo romanzo. Prima di scrivere una qualunque recensione è mia abitudine documentarmi sullo scrittore e attingere a qualche curiosità o evento della sua vita che possa in qualche modo aiutarmi a comprendere sempre di più il romanzo e la storia. Ogni scrittore lascia un po’ di se stesso nella propria opera e, infatti, Nicolas Barreau nasce a Parigi, la capitale della Francia dove sono ambientati i suoi romanzi. 
“La donna dei miei sogni” è il suo romanzo di esordio, la cui prima pubblicazione risale al 2007. A primo impatto la trama sembra molto semplice ma nella sua estrema e lineare semplicità sa sorprendere il lettore, il quale si troverà fin da subito immerso in un contesto ironico e coinvolgente. Il giorno il cui mi è stato regalato il libro, rigorosamente dal mio fidanzato, ero sommersa dagli esami all’università. Decisi di cominciare a leggerlo tra una pausa e l’altra dallo studio ma in realtà ne fui così presa da dimenticare per ventiquattro ore i miei impegni. Antoine, il protagonista, si innamora a prima vista della donna seduta al Caffè de Flore, proprio come è capitato a me di innamorarmi di questo libro alla prima frase. Il tema dell’amore pazzo e irrazionale trionfa sulla monotona vita di tutti i giorni. Attraverso la storia si possono incontrare personaggi singolari e comici, le cui vite si intrecciano, anche se solo minimamente, con quella del pazzo innamorato. La scrittura semplice e scorrevole permette al lettore di immergersi nella storia senza sforzo, mentre l’amore a prima vista del protagonista ci fa sperare nella rinascita di un romanticismo ormai quasi del tutto scomparso. L’umanità dei singoli personaggi emerge nei piccoli gesti spontanei descritti alla perfezione dallo scrittore, dalle scene comiche che ognuno di noi si è sicuramente trovato a vivere nella vita di tutti i giorni. Finito il libro ho avuto la sensazione di dover abbandonare un amico di vecchia data, di lasciare un posto dove sono stata bene e serena. La Parigi di Barreau, magica e romantica, mi ha cullato per quel breve giorno, lasciandomi il cuore sporco di zucchero e gli occhi sognanti. 
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gracetempest99 · 5 years
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Esistere
Ogni individuo costituisce un ecosistema a sé. Fermo restando che l’affermazione “nessun uomo è un’isola” potrebbe anche risultare veritiera, ciononostante è inconfutabile che ogni uomo, donna e bambino sia il nucleo di un piccolo mondo a parte, assolutamente scollegato dai mondi altrui, non percettibile. Non si può trovare e, cosa più importante, non vuole essere trovato. Non si tratta della comune sfera privata, è qualcosa di ancora più intimo. Ognuno di noi vede, pensa, percepisce in modo diverso dagli altri e il groviglio cognitivo e sensoriale che si viene a formare non sarà mai completamente compatibile con quello di un’altra persona. Magari troveremo qualcuno che sembra capirci più degli altri, ma non ci capirà mai del tutto e questo ci farà soffrire. Ci farà chiedere se forse non siamo noi gli eccentrici, stravaganti, magari anche psicotici della situazione. Ci porterà a riflettere sul fatto che forse siamo socialmente inadatti, imbarazzanti, incapaci di stringere significative e durature relazioni, amichevoli, romantiche, affettive, fisiche. E così, dopo un paio di decenni, quando ci sembrerà di avere davvero provato di tutto, ma trovandoci nella stessa sconfortante e poco stimolante situazione di un complessato quattordicenne, non sapremo che pesci prendere e come rimediare a quel problema che ci affligge da quando, lasciati inconsapevoli le stanze dei giochi dell’asilo, ci siamo buttati nella vita scolastica e, fin dalle elementari, abbiamo tentato di sopperire a quella bestia che ti divora lo stomaco ventiquattro ore su ventiquattro e, nei momenti di ozio, ti porta mille miglia lontano, e non in preda a magnifici e fantasiosi sogni avventurosi ma in una pozza oscura, profonda dalla quale, col passare del tempo, è sempre più difficile districarsi. E alla fine erano sabbie mobili. Ad un certo punto, presa piena consapevolezza del casino in cui ti trovi, cominci a dibatterti con tutte le tue forze, pienamente e finalmente cosciente del pericolo in cui ti trovi. E non la vuoi fare quella fine. Perché dalla vita qualcosa in più te l’aspettavi. Purtroppo, quello che credi di meritare raramente coincide con quello che ti capita. E sì, sei arrivato a vent'anni e sei sola.
Vorrei poter dire che un tempo non era così. Che è un periodo di transizione, di cambiamento. Ma sarebbe una bugia. Salvo saltuari e brevi momenti in cui il pericolo sembrava scongiurato, accantonato, in realtà la tua verità è sempre stata quella. Il tuo ecosistema è regolato da leggi che ne determinano l’assoluta, irreversibile, nemmeno parzialmente, incompatibilità con qualsiasi altra esistenza. Non è colpa di nessuno. Ad alcuni capita. Puoi pensare che sei nato nel luogo e nel tempo sbagliato, ma probabilmente non è vero. Forse, piuttosto che prendersela con qualcuno di immateriale dovresti riflettere sul fatto che, magari, quello che ha fatto un errore sei tu. A un certo punto della tua vita, ma sempre agli inizi della tua vita, hai fatto una scelta sbagliata. E poi un’altra. E poi un’altra ancora, da più grande. Nel pieno dell’adolescenza ti ritrovi con un carico di errori che nemmeno sai di avere, ma ormai te li devi accollare. Sei uscito dai binari del tuo destino, se ne esiste uno. Ti stai allontanando sempre di più dalla strada maestra, che magari è anche quella più lunga, meno agevole, ma è quella che era stata stabilita per te, se qualcuno aveva avuto la cura di tracciartene una, o forse era quella che in un mondo astratto, irreale, senza ingerenze che ti condizionassero, in un mondo utopico ti avrebbe reso massimamente felice. Quando te ne accorgi, se te ne accorgi, puoi provare a riavvicinarti, ma ormai quel treno è partito. Non ci puoi più salire, nemmeno da clandestino. Semplicemente, non ti appartiene più.
Dunque, cosa si fa a questo punto? Puoi fare come me ed abbandonarti ad un flusso di coscienza che chiunque, tranne chi lo ha scritto, riuscirebbe a leggere per più di due o tre righe. La questione è, dopo aver sprecato tempo a battere sulla tastiera del pc, farai qualcosa di concreto? Userai questo groviglio che ti appartiene e ne farai un’opera d’arte (non necessariamente letteraria, anche una vita può essere un’opera d’arte) oppure chiuderai il pc, andrai a dormire e domani mattina farai finta di non esserti mai lasciata andare a queste elucubrazioni? Così facendo, probabilmente, tra qualche settimana sarai di nuovo qui, a mettere nero su bianco altri pensieri, affini a quelli già espressi, bloccata, impantanata, come sempre. Potrebbe anche darsi che la vera soluzione sia il rimboccarsi le maniche e riprendere in mano la tua vita che no, non è sprecata. Perché hai vent'anni. Cos'hai sprecato a vent'anni? Venti anni. Contro cento non sono nulla. Neanche contro ottanta. Per arrivare a quaranta ce ne sono altri venti. In questi primi venti hai imparato un sacco di cose. A scrivere, a leggere, a disegnare, a correre, a camminare, hai imparato a parlare la tua lingua più un’altra straniera. Hai conosciuto un’infinità di persone, anche se, come già appurato prima, sei sola. Magari ne vale la pena di scoprire se, conoscendo altre persone, rimarrai in questa solitudine o tutto cambia. Personalmente, non credo che le cose cambino immensamente. Voglio dire, non sei stata in un certo modo per un considerevole periodo, perché dovresti cominciare ora? Ragionamento che non fa una piega. Però a questo punto, se nulla cambia, probabilmente potremmo vivere tutti fino a venti anni e poi smettere, tanto cosa vuoi che succeda di più. E invece no, perché con testardaggine ci trasciniamo e ci aggrappiamo alla vita con le unghie e coi denti fino a novanta, cento anni. Dunque, cerchiamo di fare qualcosa di produttivo nelle nostre vite. Qualcosa di significativo. Magari non vinceremo mai il Nobel o l’Oscar, il nostro nome non sarà ricordato nei secoli e, tristemente ma più probabilmente, le persone che conosciamo mentre siamo vivi e vegeti non si ricordano come ci chiamiamo, però possiamo avere delle belle vite. Da soli. Che significano qualcosa perché teniamo a qualcosa o a qualcuno, anche se quella cosa o quel qualcuno non tengono a noi. Non tutto deve essere corredato dalla reciprocità. Noi esistiamo e costituiamo un nostro ecosistema. Personalmente, il mio ecosistema prende atto dell’esistenza di altri ecosistemi e ne è curioso. Gli altri ecosistemi non sono curiosi del mio. Pazienza, non tutti sono animati da un vivace spirito di ricerca. Per alcuni vivere è facile e senza complicazioni. Non c’è bisogno di farsi troppe domande. Nel mio ecosistema tutto, invece, è continuamene messo in discussione, e gli altri nemmeno lo sanno, perché non è percepibile, come già menzionato. Ma va bene così. Viviamo collegati ma non siamo interdipendenti. La ricerca è infinita, e così la scoperta. Si può cambiare.
-SL
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fogliblu · 6 years
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19 aprile 2018
Cara Nonna,
come al solito le mie parole arrivano in ritardo sui tempi, arrivano in ritardo di ventiquattro, quarantotto o settantadue ore. Altre si perdono e non arrivano mai a destinazione è sempre stato un mio grande difetto, ho le parole a scoppio ritardato, sono a scoppio ritardato.
Ieri mentre piangevo, mentre tutti ti dicevamo addio il mio cervello era bloccato, inerme, preda di un dolore che ancora brucerà vivo dentro di me per anni. Stamattina, quando mi sono svegliata ho sentito la tua voce, i tuoi passetti rumorosi farsi strada nella mia testa.
Cara nonna, sei stata fortunata ad essere circondata sempre da un amore che non sempre capivi, da un amore un po’ a modo nostro, con immensi silenzi e risate prolungate. Tu con il tuo sorriso pulito e la pelle liscia come quella di un bambino, roba da non crederci alla tua età.
Sei stata una guida, un esempio, un pozzo di sapere per ognuno di noi e non importava se non prendevamo strade che ci avevi indicato, se mentivamo qualche volta, se piangevamo, ci arrabbiavamo o pregavamo poco, ce lo facevi pesare certo, ma non importava mai davvero, tanto tu pregavi per ognuno di noi, ci amavi così com'eravamo, giusti, sbagliati, pieni di difetti, ordinariamente umani. Con le altre persone parlavi di noi come se fossimo tutti angeli, avevi una parola buona per ognuno di noi, facevi vedere agli altri tutti il buono che forse nemmeno noi vedevamo in noi stessi. Dal più grande al più piccolo eravamo i tuoi nipotini, le dieci piccole stelline da appuntarsi sul petto con orgoglio, che avessimo cinque, dieci o trent'anni, fino in fondo hai cercato qualcosa di buono in ciò che facevamo.
Ci sono un sacco di cose che vorrei dirti, che vorrei raccontarti, che vorrei ricordarti per farti ridere, e tu rideresti ed il tuo naso diventerebbe rosso, come sempre. Poi racconteresti qualcosa tu e mi faresti ridere, magari mentre bevo per farmi sputare fuori tutto, magari guarderemmo le foto e tu mi racconteresti ancora una volta la storia di Licia ed Enrico e io sorriderei al pensiero di quell'amore così grande. Poi verrebbero le tue foto con Nonno, foto di un amore altrettanto grande ma diametralmente opposto. Dopo prenderesti un cioccolatino dalla madia e lo lasceresti rotolare sul tavolo per me e ne scarteresti un altro per te tenendo un dito sul naso per non farci scoprire dalla Zia, perché lo sai anche tu che il cioccolato ti fa male.
Io aspetto Nonna, aspetto sempre di vederti uscire dal bagno da un momento all'altro e fare una di quelle facce buffe di quando ti sei appena messa la dentiera, quella maledetta che volevi far arrotare perché non aveva più un dente buono. Io aspetto ma il silenzio è denso e sembra impossibile doverti già dire ciao. E penso a venerdì quando tutta offesa mi hai detto che non sapevi nulla del mio libro. Domenica mi sono ricordata di avertelo detto a Natale e adesso non lo saprai, adesso non potrò venire in casa e dirti: “Oh, avevo ragione io. Ti ricordi la vigilia di Natale?…” E tu mi diresti che me lo sono inventato e sorrideresti magari aggiungeresti che non sei mica ancora scema, cieca sì, ma scema no.
Nonna ma che cosa hai fatto?
Perché sei andata via di corsa? Tu che non hai mai corso in vita tua. Tu che andavi sempre con calma ma arrivavi ovunque. Quanto mondo hai visto? La Francia, l'Olanda, la Spagna, il Portogallo, l'Austria, l'Egitto, la Terra Santa e poi l'Italia in lungo e in largo. Quando raccontavi avevi una luce negli occhi, un sorriso, una gioia immensa, ti piaceva vivere, vivere fino infondo tutto quello che potevi, vedere, leggere, viaggiare, una vita piena di mondi, piena d'amore perché tu volevi bene, tu amavi a dismisura e pregavi, pregavi quel tuo Dio che forse adesso ti tiene per mano. Nonna, proteggici. Sii la nostra stella, il nostro angelo, sii un nuovo scudo ai nostri imprevisti, mettici una mano quando cadremo e crederemo di non saperci rialzare.
Mi mancherai come un pezzo di cuore, sei stata una nonna, una madre, un'amica, una donna assurda. Assurdamente stupenda. Assurdamente puntigliosa e testarda ma con un pozzo infinito al posto del cuore. Sarai sempre una parte immensa di me, dei miei sguardi, dei miei modi di fare e dire. Mi dispiace non averti potuto dire per l'ultima volta quanto bene ti volessi. Ti porterò ovunque la vita mi porterà. Sei già un vuoto ovunque, un vuoto incolmabile.
Addio Nonna.
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ginnyoceane · 5 years
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𝐄𝐥𝐞𝐧𝐚 & 𝐆𝐢𝐧𝐧𝐲 - #𝐠𝐢𝐧𝐧𝐲𝐬𝐛𝐢𝐫𝐭𝐡𝐝𝐚𝐲
--Dopo le ultime vicende con Fredrik, non ero stata molto in vena di vedere gente o uscire ma quella sera la mia amica aveva fatto il compleanno, ed inoltre aveva pure dato il meglio di sé organizzando una meravigliosa festa in piscina, e non potevo né dovevo mancare. Mi ero leggermente incupita, e la solita spavalda Elena si era decisamente rammollita, come se fossi diventata stranamente più apatica e asociale, come se non avessi più voglia di parlare con la gente, nè tanto meno con gli uomini. Cosa mi stava accadendo? Non ne ero certa, ma dovevo far qualcosa per tornare ai tempi d’oro, ed una festa era proprio quello che mi ci serviva. Entrai nella villa che era piena zeppa di gente di cui mi importava ben poco, e cercai attentamente con lo sguardo quella che di sicuro doveva essere la più bella della serata, e alla fine la vidi. Ci andai in contro, e le porsi il mio regalo di compleanno /un abito rosa antico lungo, con la schiena di fuori/. <<Sai che non amo fare complimenti, ma tu stasera lasci senza fiato. Buon compleanno Ginny>> le diedi un bacio sulla guancia e le accarezzai la spalla, non ero tipa da effusioni amorevoli però quello per me era già tanto. <<Come stai?>>
Ginny R. Océane Lagarce
Compiere gli anni non era cosa da poco in casa Lagarce, e fin da quando era piccola Ginny attendeva quel giorno come se in quelle ventiquattro ore potesse avverarsi ogni suo desiderio. Dai desideri più futili a quelli più importanti, la veggente sentiva perfino il bisogno di fare una lista con tutte le attività da svolgere durante quella giornata: eppure crescendo, questa cosa di fare le cose in grande e festeggiare il suo compleanno in pompa magna non era diminuita. Palloncini bianchi adornavano l'immenso giardino, tavolini finemente decorati accerchiati da puff e divanetti creavano la giusta location per una festa che si sarebbero ricordati in molti, o almeno era ciò che sperava. A poco a poco il grande parco cominciò a riempirsi, il brusio che si sentiva inizialmente fu sostituito da un chiacchericcio più forte e successivamente dalle canzoni che via via si susseguivano. In giro mantenendo quelle pubbliche relazioni in cui Ginny stava diventando sempre più abile, vide un volto famigliare venirle incontro. Fin da subito, un sorriso si dipinse sulle di lei labbra, salutò Elena con un rapido abbraccio e prese il regalo che le porse. « Elena! Oh andiamo, sei di parte... E grazie per essere venuta! » Mostrò un sorriso decisamente più ampio a quel complimento, lasciò andare lo sguardo sull'organizzazione che aveva messo in piedi e silenziosamente non poté fare a meno di darsi una pacca sulla spalla. « E' un abito bellissimo, grazie! Direi bene, nonostante la sessione estiva sia alle porte... Ad ogni modo, ora meglio... » Confessò la veggente ritrovandosi ad abbassare per un momento lo sguardo prima di posarlo nuovamente sull'amica. Elena era, infatti, una delle poche persone a conoscenza di quanto gli effetti collaterali della sagra cittadina e di quell'aggressione si fossero abbattuti su di lei. Ginny fece così un lungo sospiro, e come sempre indossò quella maschera che ormai stava diventando quasi una seconda pelle. « E tu invece? Non dirmi che non hai nulla di cui raccontarmi perché non ci credo... »
Elena Teriton
Conosceva Ginny da ormai molti anni visto che col suo splendido corpo si era rivelata essere l'indossatrice perfetta per gli eleganti abiti che adornavano il negozio della Teriton, e la bionda teneva molto all'immagine di qualcosa che le apparteneva quindi aveva scelto con cura la ragazza che avrebbe dovuto rappresentarla in un certo senso. Ginny era fisicamente perfetta: fisico statuario, lunghi capelli biondi e splendendi, due occhi azzurri brillanti e vivaci e un sorriso magnetico e splendente. Ma la cosa meravigliosa, era che quella ragazza sebbene potesse sembrare un po' viziata /visto che ogni anno i suoi compleanni si potevano paragonare ad una sorta di met gala da Red Carpet/ era davvero dolcissima e umile. Non erano tante le persone che ad Elena entravano nel cuore e davano una gran bella impressione, ma le due col corso del tempo erano diventate amiche ed essere entrambe veggenti aveva in qualche modo fortificato quell'amicizia. <<Sicura di stare meglio? Insomma si ti trovo benissimo, ma so bene cosa significhi nascondere ciò che si sente davvero...>> disse abbassando il tono di voce, non voleva rovinare la festa alla sua amica ma non si vedevano da molto tempo e le stava a cuore sapere come stesse. La tirò delicatamente per mano, in modo da mettersi in una zona leggermente più appartata della grande villa, in modo da poter scambiare qualche parola con molta più calma. <<Anche io potrei dirti che sto bene, ma mentirei. Ho passato anche io un periodo davvero pessimo Ginny.. è per questo che sono un po' sparita ultimamente, e mi dispiace.>>
Ginny R. Océane Lagarce
Il rapporto tra la Lagarce e la Teriton era tutto in divenire, soprattutto perché la veggente aveva lasciato alle spalle quella maschera che indossava ogni volta che sentiva qualcuno farsi più vicino. Aveva compiuto errori in passato, eppure ora stava crescendo, ed in qualche modo era cambiata, almeno all'apparenza. Era difficile che Ginny si trovasse così bene con qualcuno, fatta eccezione di quella piccola cerchia ristretta, eppure Elena sapeva toccare le corde giuste e in qualche modo entrambe sembravano vederla allo stesso modo su tante cose. V'era poi un'altra cosa che legava così tanto le due veggenti, ed era il fatto che sembravano essere più legate di quanto non volessero ammettere e la cosa era testimoniata dal fatto che Elena sapeva sempre cosa dire al momento giusto. La Lagarce si ritrovò così a distogliere lo sguardo dall'amica per un momento prima di mostrarsi, ancora una volta, la ragazza forte che non aveva bisogno di nessuno. « Davvero, sto bene. » Si affrettò a dire Ginny, senza davvero credere alle sue stesse parole. Eppure era la sua festa di compleanno e il solo pensiero di affrontare ciò che le era successo tempo prima, era un ostacolo troppo grande da affrontare in quel momento. Chiuse gli occhi per un momento, allungò le mani su quelle dell'amica ed annuì con un semplice cenno del capo. « Ho voglia solo di divertirmi, ma non devi dispiacerti di nulla. Siamo state entrambe prese, abbiamo avuto momenti difficili ma siamo qui, no? Voglio sapere ogni cosa, ma allo stesso tempo questa serata è fatta per divertirci e per non pensare... »
Elena Teriton
Elena aveva compreso che parlare di ciò che fosse accaduto a Ginny non facesse del tutto bene, e le dispiaceva davvero tanto rovinare la sera del suo compleanno con spiacevoli ricordi. Ma non voleva sembrare un'amica strafottente e per quella aveva avuto premura di chiedere se andasse tutto bene, ma nel momento in cui aveva compreso che la sua amica non ne aveva assolutamente voglia /non in quel momento/ aveva preferito non indugiare oltre. Le regalò un sorriso con annesso sospiro. <<E non sarò di certo io a non farti divertire.>> disse sollevando appena le spalle continuando a sorriderle <<Mi basta solo sapere che adesso stai meglio. Avremo modo di parlare in altre sedi. Anzi, quand'è che vieni a trovarmi? Non parlo solo al negozio, ma anche a casa. Sai, sono ancora brava a bere il vino che TU dovrai portare>> esclamò con un tono felice e spensierato, anche se non era del tutto convinta che avesse davvero superato quel periodo nero o quella era l'ennesima maschera che stava indossando per fingere davanti al mondo che tutto andasse bene e che Elena Teriton era indistruttibile. Probabilmente lo avrebbe capito col tempo, ma non doveva fermarsi a pensare proprio in quella seraa, al compleanno della sua cara amica. <<Allora, cosa mi dici a proposito di ragazzi? Qualcuno è riuscito a catturare il tuo interesse?>>
Ginny R. Océane Lagarce
Era stata troppo frettolosa nel rispondere, nel liquidare così la questione, lo sapeva Ginny, eppure in quel momento desiderava solamente godersi quella festa di compleanno che aspettava ogni anno con ansia. Si ritrovò così a sorridere in modo cordiale, ringraziandola silenziosamente per quella comprensione che non era affatto scontata. Strinse maggiormente la presa sulle mani dell'amica con un sorriso sincero che venne sostituito da quella proposta che non avrebbe mai rifiutato. « Presto, anzi prestissimo. Con la sessione estiva ho fatto fatica a destreggiarmi con i vari impegni, ma non potrei mai rifiutare. Abbiamo tanto di cui parlare, Elena. » Confessò la veggente mentre osservò i meravigliosi occhi della Teriton. Spesso era stata la veggente a isolarsi, a circondarsi di quella solitudine che talvolta soffocava, eppure anche Elena era bravissima nel nascondere ciò che realmente stava vivendo, indossando una maschera. Lasciò andare le mani dell'amica mentre con una leggera scrollata di spalle, Ginny ridacchiò. « Oh andiamo, sai che per catturare davvero il mio interesse ce ne vuole di fatica... E al momento nessuno davvero ha le carte per giocare una partita perlomeno decente. E tu piuttosto? Non dirmi che sei venuta sola. »
Elena Teriton
<<Allora ne parleremo senz'altro in un altro contesto, per adesso è giusto che tu ti goda la tua meravigliosa e pomposa festa>> sorrise dolcemente, perchè voleva assicurarsi che Ginny avesse capito che Elena non si era affatto arrabbiata per quella risposta frettolosa, era una donna matura e capiva bene le situazioni e le persone. Tutti la consideravano una stronza senza cuore, ma in realtà Elena lo era solo con chi credeva che potesse nuocerla. E con gli uomini, naturalmente. <<Sai che non nutro molta stima per gli uomini, anche se ho passato tutta la vita a giocare con loro. Ma adesso mi hanno stufato, non voglio averne più a che fare>> si affrettò a dire, omettendo dettagli come che un suo ex l'aveva torturata e martoriata fino a quasi morire, e che quello l'aveva fatta oltremodo cambiare. <<Ma avremo modo di parlare anche di me in altri contesti. Adesso vai e goditi la tua festa, io andrò a cercare l'ottimo champagne che ci concedi ogni anno e mi ubriacherò. Se vedrai qualcuno annegare in piscina, sarò probabilmente io.>> sorrise ancora e lasciò libera la sua amica in modo che potesse dedicare del tempo agli altri ospiti, e godersi come doveva la sua serata.
Ginny R. Océane Lagarce
Nonostante la differenza d'età tra le due donne, il loro rapporto era sempre stato basato sulla sincerità e il sulla consapevolezza che l'altra ci sarebbe stata per qualunque problema. Il loro carattere così simile le aveva avvicinate fino a farle diventare amiche, confidenti anche di quei segreti che Ginny manteneva saldi nel suo cuore. La veggente si ritrovò così a fare un semplice cenno del capo, annuì mostrando un sorriso più che comprensivo. « Sei davvero sicura che chiudere con il genere maschile, ti farà davvero bene? Ma hai ragione, è meglio se ne parleremo in altra sede. » Allungò una mano per posarla sulla spalla della donna, cercando così quegli occhi che avrebbe capito come quelli di una sorella che non aveva mai avuto. Passò solamente un minuto in cui avvenne quella semplice conversazione silenziosa prima di ricambiare quel sorriso che diceva più di mille parole. « Promettimi che non sparirai, e usa questa serata per conoscere qualcuno... E non per lui, ma per te stessa! » Con quell'augurio, Ginny strinse maggiormente la presa della sua mano sulla spalla dell'amica prima di ringraziarla ancora una volta della sua presenza e del regalo che le aveva donato. Aveva un sacco di invitati ancora da ringraziare, eppure la presenza di Elena aveva il suo toccasana.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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acasadisarina · 5 years
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Rune futhark: libri e introduzione
Domenica 21 Aprile 2019 ore 15.00 Nuvolo Parlando di Rune (futhark) si tratta di argomento vastissimo, che non può certo essere liquidato con quattro nozioni, tre immagini e due giochi divinatori e che richiede studio e quindi tempo. Ne possiedo diversi set: di legno, di sasso e di pietre semi-preziose, le ho studiate molto, capite meno e usate poco, ma non le ho mai abbandonate. 
Avevo in casa due libri sulle rune:
"Rune frammenti di Stelle" di S Benetton - Ed. Cerchio della Luna
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É un libricino più che tascabile che, dopo una breve introduzione sull'esperienza dell'autrice, con i simboli fa un lavoro più meditativo che divinatorio, ma anche questo aspetto può essere di certo apprezzato.
"Il nuovo libro delle rune" di R. Blum - Hobby&Work Italiana Editrice
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É decisamente più completo (conteneva anche un bel set di rune) anche se non esaustivo, fa un po' di storia/mitologia/archeologia, prende in esame l'esperienza dell'autore con la meditazione ed infine l'oracolo vero e proprio.
Entrambi prendono in esame la venticinquesima runa, quella bianca/vuota detta "di Odino" e in entrambi c'è ancora il prezzo in Lire Italiane O_O
Quando, dopo così tanti anni ho riletto la sezione delle rune sul MaterTerra e ho preso in mano questi due libri per riscriverla, mi sono sembrati "inadeguati" e così mi sono procurata: Runemal- Il grande libro delle rune di Carmignani Bellini - Ed. L'Età dell'Acquario
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È un grosso librone che prende in considerazione l'argomento da molti punti di vista e che, per quanto mi riguarda (e mi serve), tratta l'argomento in modo fin troppo vasto. Leggendo diverse recensioni su altrettanti siti, c'è chi lo considera una bibbia indispensabile, chi lo crede inesatto: quale sia la verità, probabilmente non lo sapremo mai. Il libro inizia con un'introduzione storica, quindi (la parte che mi ha interessato di più) mette in relazione le rune vichinghe (Futhark) con altri "alfabeti" indoeuropei. Continua prendendo in considerazione altre notazioni "runiche" dilungandosi esageratamente su Antico Futhark, Futhork Anglosassone, Futhork Giovane, r. Gotiche, Ungheresi, Siberiane, Armaniche, Segrete e molte altre, includendo infine anche il Cirth, cioè la notazione inventata da Tolkien per le lingue dei suoi libri e qui devo dire che ho "storto un po' il naso"..
La parte di descrizione dei simboli e degli archetipi associati che segue, è a dir poco poderosa, l'argomento viene sviscerato da molteplici angolazioni (storico/mitologico/religioso/meditativo/archetipico/tradizionale) e un'altra cosa che mi è piaciuta molto, è che nella descrizione dei simboli, l'autore usa un filo conduttore, come se un simbolo fosse il proseguimento dell'altro in una ipotetica visione della vita, dei problemi e delle motivazioni che ci spingono a risolverli per migliorarci. Il libro non prende in considerazione la venticinquesima runa, nemmeno vi accenna.
Ma torniamo all'inizio. Per un attimo mi sono chiesta se fosse il caso di continuare a studiare un argomento "apparentemente" nemmeno riconducibile alle tradizioni italiche, ma ma ma.. Da quando abbiamo avuto accesso a internet e quindi i nostri "orizzonti stregoneschi" si sono allargati, ho sempre avuto una speciale attrazione per questi simboli "nordici", e con la nuova esperienza di studio, ho appurato che la mia insolita attrazione per l'esotico, non è poi così strampalata. Però, solo per elaborare qualcosa di decente, non troppo scarno ne troppo vasto e particolareggiato per il primo simbolo, ci ho messo una settimana; terminare l’argomento in un solo post avrebbe richiesto un'eternità. Quindi alla fine ho pensato che è meglio che condivida ogni mio "progresso" nello studio di questo "linguaggio", in modo che chiunque abbia cognizione possa correggere, integrare e portare il proprio contributo/esperienza.
                               RUNE - FRAMMENTI DI STELLE
                                      Al principio era il tempo:                                             Dio vi dimorava;                                    non c'era ne sabbia ne mare                                             ne gelide onde;                                       terra non si distingueva                                             ne cielo in alto:                                       il baratro era spalancato                                        e in nessun luogo erba.
                          Edda Poetica - Profezia della veggente
Si narra che il Dio Nordico Odino, per apprendere l'arte delle rune e quindi la saggezza, immolò se stesso rimanendo appeso al frassino Yggdrasill, l'albero cosmico della vita (o del mondo), oscillando al vento per nove giorni e nove notti, ferendosi con il filo della sua stessa spada, quando dalle radici dell'albero, immerse in un pozzo di saggezza, ricevette le rune e che, disceso dall'albero e divenuto saggio a sua volta, le incise su legno, pietra, osso e zoccolo di cavallo.
In realtà le rune sono un antico alfabeto nordico giunte fino a noi grazie a numerosi ritrovamenti che vanno dalla Scandinavia a molte parti d'Europa sino a giungere nelle Americhe. Probabilmente i simboli non hanno mai dato vita ad una lingua parlata ma venivano usati per la divinazione, per incidere il metallo (elmi e spade) e grandi steli di pietra. I sacerdoti tramandavo oralmente i loro segreti, quindi questi non sono sopravvissuti al tempo, in più, dal Medioevo in poi, con il definitivo tracollo del paganesimo, le rune vennero degradate dall'intolleranza religiosa e, aboliti e assorbiti gli antichi culti, feste e divinità, ad opera della demonizzante propaganda cristiana, le rune, insieme a scopa e calderone, diventarono i giocattoli delle streghe. UNA, SANTA, CATTOLICA E APOSTOLICA (...) Pare quindi che, come si può immaginare, le rune derivino da simboli più antichi diffusi in ampie zone di tutta l'Europa da stanziamenti di popolazioni indoeuropee, nei cui simboli vi fu una radice comune, che furono uno l'evoluzione dell'altro, che i popoli viaggiavano e migravano e che portavano la propria notazione nel luogo dove andavano e che questa veniva assimilata ed adattata, che mutava e che a sua volta veniva diffusa.
Per quanto riguarda la notazione Futhark (acronimo delle iniziali delle prime sei rune: Fehu, Uruz, Thurisaz, Ansuz, Raido, Kenaz), che inizialmente era formato da ventiquattro segni e che è quella prevalentemente diffusa e usata oggi , vi sono diverse teorie: forse derivano dall'alfabeto fenicio, o forse da quello greco.. (Quando ho letto questo passaggio ho finalmente capito la mia insolita attrazione verso qualcosa di non italico. Sul libro di storia alle scuole medie, c'era uno specchietto con l'alfabeto fenicio e io lo avevo imparato per tenere i miei affari lontani dai curiosi..), ma più probabilmente derivano da una scrittura appartenente al gruppo delle cinque principali varietà di alfabeto italico settentrionale derivato dall'alfabeto etrusco.                                                                       E parlando di storia e mutazioni alfabetiche potremmo scrivere per ore, ma nemmeno questo è il mio intento e spiegarvi quale sia non è così facile. Quando ho saputo dell'esistenza delle rune e le ho maneggiate per la prima volta, ho sentito subito il loro "potere magico". Sperimentare concretamente il vero presente, per la maggior parte di noi è estremamente difficile perché per nostra natura umana, sprechiamo buona parte della nostra esistenza soffermandoci sui rimpianti del passato e fantasticando sul futuro; eppure ci capita spesso di vivere il presente anche per brevi attimi, (ad esempio quando perdiamo un oggetto caro legato al passato, una fotografia, o delle pagine di diario), ma non ce ne rendiamo conto. Quando camminiamo lentamente o guidiamo per lunghi tratti ci mettiamo quasi automaticamente a riesaminare idee e pensieri.. Poi all'improvviso ci "svegliamo", molti chilometri dopo, senza nemmeno esserci resi conto del vento, degli alberi o di aver respirato l'aria. Le rune mi danno il "potere" di ancorarmi al presente, di godere del momento temporale, di vedere e sentire ciò che mi sta attorno e quando ho imparato a farlo, ho capito cos'è veramente la magia. Le rune fanno si che il fruscio che sovrasta e confonde la mente, lasci il posto al silenzio che mi tiene ancorata all'attimo presente. È un esercizio per niente semplice, che riesce solo se nella nostra vita spirituale ci consideriamo sempre e solo all'inizio e non desideriamo continuamente correre avanti. Quando infine sperimentiamo il vero presente, ci rendiamo conto che le cose, accadono qui e ora.
                        Perché io sono colei che è prima e ultima                        Io sono colei che è venerata e disprezzata,                           Io sono colei che è prostituta e santa,                                    Io sono sposa e vergine,                                     Io sono madre e figlia,                     Io sono sterile eppure sono numerosi i miei figli,                             Io sono donna sposata e nubile,           Io son Colei che da alla luce e Colei che non ha mai partorito,                   Io sono colei che consola dai dolori del parto.                                     Io sono sposa e sposo,                            e il mio uomo nutrì la mia fertilità,                                 Io sono madre di mio padre,                                    io sono sorella e marito,                             Ed egli è il figlio che ho respinto.                                     Rispettatemi sempre,            Poiché io sono colei che da scandalo e colei che Santifica. Inno ad Iside, rinvenuto ad Nag Hammadi, Egitto, risalente al III-IV secolo a.C. </p>
CONSULTARE LE RUNE
E dopo tanta teoria (cosa in cui sono molto portata), a descrivere la pratica mi trovo in difficoltà, pertanto vado a sfogliare nuovamente i tre libri in mio possesso, e mi viene la faccetta con la bocca tutta curve tipo così:  :-S "Determinate ore del giorno.. ..incenso.. ..candele.. panno di velluto nero, viola, rosso, fucsia, leopardato.. ..preparazione psicologica/concentrazione/preghiera.. .. meditazione con i simboli.. ..respirazione..
Io credo una cosa sola: le rune non sono come i Tarocchi, non predicono il futuro, ma chiariscono la situazione al momento presente: solo quando nella nostra mente c'è il silenzio di cui sopra, allora si estrae il primo simbolo. Una bella frase del secondo libro dice:" La runa giusta sa farsi riconoscere dalle mie dita" Le domande da porre sono quelle che si riferiscono all'opportunità e/o alla tempestività di un'azione. Per esempio, invece di chiedere: "Dovrei porre fine alla mia relazione?" Dichiarare: "Il problema ORA è la mia relazione". Invece di chiedere: "Dovrei accettare questo nuovo lavoro?" Dichiarare: "Il problema ORA è il mio lavoro. È questione di "focalizzare" il problema e non la domanda: pensateci, è MOLTO diverso. Se non abbiamo un problema specifico, ma desideriamo un quadro generale della situazione, potremmo dichiarare: "Che cosa devo sapere IN QUESTO MOMENTO riguardo la mia vita ADESSO?" Di solito la risposta è istruttiva.
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Lettura Nove rune hanno la stessa lettura indipendentemente da come vengono estratte, le altre sedici si possono "ricevere" dritte  o  capovolte. Per esempio, ricevere Ehwaz, la runa del movimento capovolta, sposta l'attenzione del consultante verso gli aspetti di quella situazione che potrebbero precludere qualunque movimento, oppure indicare che in quel momento è inopportuno muoversi o agire. La comparsa di una runa capovolta non è motivo di allarme ma segnale che sono richieste cura ed attenzione nella nostra condotta, oppure che dobbiamo considerare alcuni aspetti della nostra vita o del nostro comportamento che fino ad ora abbiamo evitato.
Costruire le proprie rune? Sull'onda di un attacco collettivo di faidate altamente infettivo e grazie anche al meraviglioso sito della cara Baubo (che purtroppo non c'è più), per un po' di tempo tutti hanno fatto la corsa a costruirsi il proprio set di rune. Potrebbe essere un'idea, ma in qualunque modo intendiamo farlo, deve essere un'occasione per il suddetto "ancoraggio al presente". Non vorrei però che l'ansia di non essere in grado di meditare, precludesse alla fine ogni nostra azione e ci facesse desistere dall'impresa qualunque essa sia. Proviamo a considerare meditazione/concentrazione/ancoraggio al presente, anche azioni semplici come sottolineare la frase di un libro, curare una pianta, preparare la cena o lavare l'auto.  Realizzare il nostro set di rune può costituire una piacevole e profonda meditazione.
Tenere un diario Non considero le rune un metodo divinatorio così facile da assimilare, come in tutte le cose ci vuole passione e dedizione, l'intuizione invece, secondo me si acquista solo con il tempo. Quando si stabilisce una metodologia di lavoro con le rune e si hanno dei riscontri, è utile annotare e registrare le indicazioni che se ne ricevono. Tenere un diario durante il cammino della stregoneria (non solo sulle rune) è qualcosa che si consiglia sin da subito e che, almeno per quanto mi riguarda, può continuare per sempre (io, andando a cercare, so cosa ho fatto e che tempo faceva un giorno anche di molti molti anni fa). Giorno, ora, situazione generale della nostra vita in qual momento, estrazioni, breve interpretazione. Tenere questi dati ci consente di seguire e verificare la qualità dei progressi fatti nel corso del lavoro con le rune.
Una runa ci guida nella giornata Estrarre una runa la mattina, registrarla sul diario e lasciare che ci faccia da guida nella giornata, annotare ciò che ne è derivato la sera. Annotare tutto ci aiuta ad acquisire maggiore familiarità con l'oracolo e con il tempo ci consentirà di valutarne l'accuratezza nella sua funzione di guida. Una volta raggiunta una certa disinvoltura, si possono sperimentare metodi nuovi e/o più articolati.
Qui finisce questa lunga introduzione alla divinazione con le rune. Ovviamente ci sarebbero decine di pagine da scrivere, ma non voglio di certo sostituirmi a chi studia la tradizione nordica e che quindi fa delle rune non solo un oracolo ma un archetipo della vita stessa. E sinceramente credo che il mio interesse sulle rune si esaurisca in questo modo (E menomale perché a scrivere questa introduzione ci ho messo "solo" otto giorni).
Continueremo questo viaggio un simbolo alla volta poi mi direte se le rune vichinghe non vi sono sembrate magiche.
Per la parte storico/mitologica mi sono servita dei tre libri citati all'inizio.
Sara Tratto dal sito www.materterra.it
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24 e 68
... oggi sono esattamente due anni e 11 mesi dal giorno in cui ti ho "trovata". Ti avevo visto solo due volte, ma la seconda volta è stata quella decisiva. Sei entrata nel mio cuore, nella mia anima, nel mio cervello e nei miei occhi. Non ne sei uscita più. Due anni e undici mesi, e continuo a volerti. Ti voglio più di quel giorno, e se ripenso alle sensazioni che mi hai regalato durante quel incontro, mi sembrano le stesse che provo ora mentre ti parlo. Eh si, io sto parlando proprio a te ora. Non ci separa uno schermo, un sito, od un blog anonimo. Non ci separa il tempo, perchè abbiamo avuto modo e corso il rischio di allontanarci, ma non l'abbiamo fatto. Mi hai fatto una promessa, dopo il nostro primo bacio, una promessa che mantieni ancora oggi. Non credevo l'avresti fatto, una volta saputa la veritá, avevo paura te ne andassi... ma sei rimasta. Non ci separano 24 kilometri e 680 metri, che è la distanza che ci divide, quasi, ogni notte mentre dormiamo nei rispettivi letti. Quando non siamo divisi da questo numero, non siamo divisi affatto. In quelle splendide nottate io sono il prolungamento delle tue spalle, tu quello del mio petto. Un lungo, intimo abbraccio notturno. L'ultimo, meno di 48 ore fa. Siamo divisi, siamo sciocchi, a volte io mento e sono un bugiardo ma sono a fin di bene, ormai devi averlo capito. A volte sei cosi pessima, parlando nel peggiore dei modi nel peggiore dei momenti. Sei fidanzata, e questo è forse l'unica cosa che dovrei considerare, ma non siamo separati. Due anni ed undici mesi mi sono serviti per avvicinarmi, conoscerti, diventare amico delle persone che ti circondavano, diventare un punto fermo della tua vita, farti diventare il sogno più grande della mia. Due anni ed undici mesi, e cosi pochi amici sanno quello che ho fatto. Abbiamo fatto, abbiamo costruito, l'uno per l'altro, nascosti sotto gli occhi di tutto e tutti. Racconterò qui, sperando che qualche ragazzo possa sentirmi e capire che vale sempre la pena, anche quando in realtà probabilmente non ne varrà; che qualche ragazza possa sorridere e non perdere completamente fiducia nei ragazzi e nell'amore; che qualche uomo possa consigliarmi, che qualche donna possa ascoltarmi. Ventiquattro kilometri e 680 metri, è li che tu ora stai dormendo. Non sento minimamente questa distanza, sai? Sono stato tutta la scorsa notte attaccato ai tuoi capelli, il loro profumo è splendidamente saldo nelle mie narici, e mi fará compagnia ancora a lungo. Anche stanotte dormo abbracciato alla tua schiena, stritolandoti ancora un pò. Buonanotte amore mio.
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pangeanews · 4 years
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“Tutto quello che ti chiedo è di non far leggere queste lettere a nessuno”. Quando Virginia Woolf fece risorgere il fratello Thoby, morto di tifo
Alcune ore dopo aver assistito alla morte del fratello ventiseienne, Virginia Stephen scrisse una lettera a una delle amiche più care. Era il 20 novembre 1906 e in quella lettera non fece il minimo accenno alla morte del fratello, non lo nominò neppure. Virginia aveva ventiquattro anni: ne mancavano sei al matrimonio che le avrebbe dato il nome di Virginia Woolf e nove alla pubblicazione del suo primo romanzo. Lei e i tre fratelli erano appena tornati da un viaggio in Grecia e in Turchia, finito in tragedia. Thoby Stephen, il fratello maggiore, vi aveva contratto il tifo.
*
Thoby Stephen, il fratello di Virginia Woolf, muore nel 1906, a causa del tifo contratto in Grecia. Il primo nucleo del futuro Bloomsbury Group conta anche lui
La lettera scritta in quel giorno funesto da Virginia era destinata a Violet Dickinson, che aveva accompagnato gli Stephen in viaggio. Anche lei era rimasta contagiata. Da loro ritorno a Londra le due donne si erano scambiate svariate lettere, nelle quali predominava spesso l’ansia per la salute di Thoby e di Violet. È strano che Virginia abbia omesso di far parola con Violet della morte del fratello. Tuttavia, ancor più strana è la lettera inviata dopo due giorni: questa volta si parla di lui, ma solo per mentire in modo sconvolgente: “Date le circostanze, Thoby non sta poi tanto male. Non siamo in pensiero per lui”.
Virginia continuò a mentire all’amica per tutto il mese successivo. Nelle diciannove lettere inviate nell’arco di ventotto giorni, si inventò una storia colorita sulla lenta ripresa di Thoby. A tre giorni dalla morte: “La situazione è invariata. Nel pomeriggio ha avuto ancora la febbre sui 40, d’altro canto il polso è buono, e riesce a bere del latte”. Cinque giorni dopo: “Thoby sta alla grande”. Nove giorni: “Il nostro caro Thoby è ancora a letto, ma anche da sdraiato la sua vitalità non è da meno di quella di un sacco di gente che va in giro sulle proprie gambe”. Dodici giorni: “Disegna uccelli stando a letto”. Dopo due settimane, Virginia include se stessa nella narrazione: “Abbiamo iniziato a corteggiare le infermiere, le chiamiamo ‘mia signora’ e loro fanno a maglia delle cravattine celesti che gli promettono in dono se fa il bravo”. Dopo circa un mese dalla morte del fratello, Virginia non smetteva di parlare delle loro aspettative: “Sta facendo dei progressi, si parla di rimettersi in piedi, di andar via, e del futuro”.
*
Il futuro. Nella situazione in cui mi trovo a scrivere oggi, ben comprendo il desiderio di Virginia di lasciarsi alle spalle un’atmosfera di malattia, rimettersi in piedi e andarsene, lasciarsi portare verso un futuro che ancora non si intravede, e che potrebbe non arrivare. Desidero saltare in macchina e guidare senza sosta. Talvolta mi sorprendo a pensare che se arrivassi abbastanza lontano potrei raggiungere non solo un luogo diverso ma anche un altro tempo, affrancato dal dolore e dalla paura odierni. Una fantasia frammista a preoccupazione: forse noi, come Virginia, nei nostri infervorati discorsi riguardo a quello che faremo quando “tutto sarà finito” ci inganniamo l’un l’altro, oltre a ingannare noi stessi? Oppure, non potrebbero i nostri sogni di fuga sfociare altrove, sui mondi alternativi in cui vorremmo vivere ma che ancora non sappiamo descrivere? È possibile che il desiderio sia un modo di conoscere?
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Mi attrae questa corrispondenza giovanile della Woolf – la sconcertante miscela di dolore e speranza, perdita e desiderio – poiché vi riconosco l’audace sperimentazione, da parte di un autore, del potenziale trasformativo dell’immaginazione. Per certi versi, tutte le lettere operano in questo modo: se io oggi ti scrivo una lettera, le mie parole saranno lette da te soltanto a giorni di distanza. La nostra amicizia dovrà estendersi per contenere questa asincronia. Sebbene il presente della mia lettera non esista per te al di fuori di queste pagine, la sutura del mio presente col tuo ci farà uscire entrambi dalle nostre vite, sia pure per un istante, per accedere a una temporalità astratta eppure condivisa. L’asincronia diventa, in campo epistolare, una forma peculiare di intimità. […]
All’epoca della morte di Thoby, Virginia Stephen e Violet Dickinson erano state in corrispondenza da circa cinque anni. Virginia aveva iniziato a scrivere a Violet all’età di venti anni (le lettere figurano tra le centinaia pubblicate nel primo volume delle Collected Letters della Woolf), all’epoca era stato da poco diagnosticato il cancro al padre. Violet ne aveva diciassette più di lei ed era anche più alta di circa trenta centimetri. “Vorrei che tu fossi un canguro”, le scriveva Virginia, in preda all’ansia e a una profonda tristezza a causa del declino del padre, “e che tu avessi una sacca per tenerci i cangurini”. Il desiderio di protezione materna è evidente in una fotografia di quel periodo che ritrae le due donne in piedi l’una accanto all’altra. Virginia si appoggia a Violet e la tiene per mano; vuole essere accolta e guarda l’obiettivo come per comunicare quel desiderio.
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Le lettere diedero alle due donne un modo ulteriore di abbracciarsi. Virginia si definiva la “Sparrowy” di Violet (nomignolo derivato da sparrow, passerotto), e si offriva alla donna più anziana come se fosse un grazioso animale. Nel periodo in cui il padre si stava riprendendo da un intervento chirurgico, Virginia domandò a Violet “Vuoi davvero bene alla Sparrowy? Lei ti tiene tra le braccia piumate per farti sentire il cuore che le batte in petto”. La lettera diveniva il modo in cui Virginia poteva, non solo esprimere un desiderio ma, per così dire, metterlo in atto: serrava l’amica tra le braccia piumate, poi ripiegava il foglio di carta destinato a finire tra le mani di Violet. I supporti della scrittura – penna, inchiostro, carta – sostituivano il corpo distante di Violet. In un’altra lettera scriveva, “lo vedi come l’inchiostro diventa denso a questo punto… così all’improvviso”. Non sappiamo se il desiderio sessuale tra le due donne sia mai andato oltre la pagina: alcuni passi sembrano suggerirlo. “Ti assaporerò con tenerezza”, prometteva Virginia.
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Durante il periodo della loro corrispondenza, due anni prima della morte di Thoby, Virginia aveva perso il padre. Aveva continuato a scrivere a Violet anche nei momenti peggiori. Le lettere si erano fatte più brevi: ragguagli quotidiani sulla febbre, l’umore del padre, aggiornamenti sulle prognosi. Ma notiamo che, in mezzo a quell’orrore, Virginia si rivolgeva a Violet per avere il conforto di una lettera. Mentre assisteva alle sofferenze del padre fino all’amara fine, Virginia scriveva: “Sembra davvero dura. La vita, ne sono certa, non gli dà alcun piacere – sarebbe stato lieto di morire una settimana fa – ma non ci si può fare niente. È così crudele dover aspettare e vederlo indebolirsi giorno dopo giorno. Ma sembra che siano queste le cose che ci tocca subire in questo mondo brutale”. Quindi, dopo aver riconosciuto l’orribile verità, chiedeva, in un poscritto, il balsamo che soltanto una lettera di Violet le avrebbe procurato: “Raccontami dei tuoi vestiti”, scriveva “e dei tuoi successi”.
Sprofondata nel dolore per la morte del padre, Virginia si abbandonava a un esaurimento nervoso. E, a tempo debito, si era lasciata andare tra le braccia di Violet, nella cui casa, a Welwyn, vicino a Londra, Virginia si stava riprendendo. In quel periodo non aveva tenuto alcuna corrispondenza, ma dopo tre mesi, quando si reputò che fosse in grado di riunirsi ai fratelli, scriveva a Violet: “Credo che finalmente il sangue torni ad affluirmi al cervello. È una sensazione davvero strana, come se una parte morta di me tornasse alla vita”. Riprendere a vivere, per Virginia, significava ritrovare la capacità di pensare. Come conseguenza immediata le era venuto un gran desiderio di scrivere: “Voglio cominciare a lavorare. Sono certa di saper scrivere, e un giorno di questi intendo scrivere un buon libro”.
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Le lettere scritte da Virginia a Violet durante la malattia del padre dimostrano il potere della corrispondenza di tenere compagnia, dare conforto, e persino amore. Tuttavia, nelle lettere scritte, due anni dopo, a seguito della morte di Thoby sembra che vi fosse dell’altro in atto. Se il destinatario di una lettera detiene un certo tipo di potere (quello di abitare il mondo di un altro, e di soffermarcisi), il mittente ne ha uno di altro genere, estremo quanto l’altro: il potere di mettere in scena, il potere di essere reticente, e persino quello di ingannare.
Violet apprese della morte di Thoby solo dopo un mese, quando fu menzionata in via incidentale nell’articolo di una rivista. Virginia le scrisse immediatamente: “Mi detesti per aver detto tante bugie? Lo sai bene che dovevamo fare così”. Lei doveva mentire, intende Virginia, allo scopo di proteggere Violet, che stava guarendo dalla malattia. Non vi è dubbio che Virginia si preoccupasse moltissimo per Violet; aveva avuto sotto gli occhi la drammatica prova di quanto poteva essere letale il tifo. Nelle lettere Virginia metteva di continuo in relazione i due casi. Il giorno prima della morte di Thoby – l’infezione gli aveva causato la perforazione dell’intestino e quindi una peritonite – Virginia aveva scritto a Violet: “Non so di che tipo siano le tue macchie. Thoby è sicuro di avere una febbre più alta della tua, e siamo entrambi un po’ sprezzanti del tifo dei Dickinson in confronto a quello degli Stephen”. L’umorismo macabro metteva in ombra la gravità dei sintomi di Thoby, come pure la pressante preoccupazione di Virginia per Violet. Nei giorni seguenti, evitando di ammetterne la morte, Virginia si servì del caso del fratello come elemento di confronto per comprendere più a fondo quello dell’amica: “Immagino che adesso tu ti trovi più o meno nel suo stadio della malattia, credo soltanto che lui abbia avuto una crisi molto più acuta”. Dieci giorni più tardi, Virginia, come una ventriloqua, dà la parola al fratello morto: “Lui vuole sapere se ti è permesso del cibo solido”. La resurrezione epistolare di Thoby messa in atto da Virginia le dava il modo di esprimere il fervido desiderio che Violet si salvasse e tornasse in buona salute. “Ora, cara Violet”, scriveva, dopo circa un mese di bugie elaborate, “prendi le medicine e pensa a me. Ci rivedremo mai?”.
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Tuttavia, la messa in scena di Virginia non fu soltanto a beneficio di Violet. In effetti, aveva anche trovato il modo di fingere, per se stessa, che suo fratello fosse sopravvissuto. Nella magistrale biografia della Woolf, Hermione Lee scrive che queste strane lettere “indicano l’inizio di una fase in cui lei manteneva Thoby in vita facendolo esistere in una fiction”. Negli anni la Woolf avrebbe riattivato questa forma mentale elegiaca, dandole forma compiuta nei romanzi; versioni di Thoby si ritrovano in Jacob’s Room e in The waves (1931), e versioni dei loro genitori in To the Lighthouse (1927). In A Sketch of the Past, un saggio autobiografico intrapreso verso il termine della vita, la Woolf spiegava che era stata la capacità di reagire a uno ‘shock’ a farla diventare una scrittrice. “Solo esprimendolo in parole [lo shock] sono riuscita a guarirlo, facendogli perdere il suo potere di ferirmi; riunire le parti recise mi dà allora una grande gioia, forse perché così facendo elimino il dolore. Questo è forse il piacere più grande che io conosca”.
Il trauma della morte di Thoby – un vero ‘shock’ – avrebbe senz’altro potuto distruggerla. Scrivere quelle lettere a Violet aveva dato a Virginia la possibilità di mantenere un contatto col fratello ormai perduto e di aggrapparsi a un’amica di cui temeva la perdita.
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Per certi versi, le sue menzogne non potevano certo reggere a lungo. Thoby era morto, e Violet lo avrebbe saputo ben presto. Tuttavia, offrendole una temporanea dilazione dalla realtà che incombeva, le bugie di Virginia – per quanto imbarazzanti, agghiaccianti, vergognose – additavano una fonte di sollievo più durevole di sé stesse. La scrittura sarebbe stata, per lei, uno stile di vita. Persino di fronte a una perdita traumatica, la scrittura era in grado di procurarle piacere. E la scrittura epistolare in particolar modo – col suo potere di far scaturire la presenza dall’assenza, di contrastare il corso ordinario del tempo – le avrebbe reso possibile non soltanto di testimoniare il passato ma anche di rianimarlo, farlo confluire nel presente, fargli spazio in un futuro che valesse la pena vivere. Un lavoro che l’avrebbe assorbita del tutto. Proprio nel bel mezzo del suo dolore per Thoby e delle bugie raccontate a Violet, Virginia produsse un’autodiagnosi in una lettera a un’altra amica, Nelly Cecil: “Mi rendo conto che più lavoro e meno parlo meglio è – o almeno il male minore – per tutti quanti al momento”.
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Tornando al periodo in cui Virginia stava a guardare con ansia il padre che si spegneva, disse a Violet che intendeva conservare le lettere ricevute da lei: “Non ho mai tenuto neppure una lettera in tutta la vita – ma dovrebbe restare una traccia della nostra affettuosa amicizia”. Eppure, Virginia non conservò le lettere di Violet, neppure una. Violet, dal canto suo, ricopiò a macchina le lettere di Virginia, rilegandole in alcuni volumi. Nel 1936, molti anni dopo che le due amiche si erano allontanate, in quello che Hermione Lee definisce “un bizzarro momento di rimprovero o di richiamo”, Violet le restituì le lettere. Virginia restò sconcertata dalla versione di sé che vi era sopravvissuta. “Ma ti piace quella ragazza?” domandava, in una lettera. “Io non ne sono affatto sicura”. Virginia Woolf, allora l’autrice cinquantaquattrenne di sette romanzi, implorò l’amica: “tutto quello che ti chiedo e di non far leggere quelle lettere a nessun altro”.
presumibile che la Woolf si sentisse imbarazzata dalle giovanili effusioni di quella ragazza; forse provava vergogna per le bugie che aveva ritenuto necessario raccontare. Doversi confrontare in età matura con la testimonianza scritta delle effusioni di un affetto giovanile equivale a dover rispondere alla domanda da capogiro su chi si è veramente, su quale relazione sussiste con la persona che eravamo; si devono rimettere insieme le diverse identità che si sono succedute nel tempo. Rileggendo le lettere scritte a Violet, Virginia deve essersi resa conto che Thoby non avrebbe mai avuto la possibilità di rimettersi in discussione.
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Dalla morte del fratello qualcosa si era alterato nella vita della Woolf. Nel 1929, il giorno successivo al Natale, scrive nel diario di percepire l’incombere della sua presenza; “L’ombra di Thoby indugia… spettro stravagante”. Eppure, nello stesso tempo, sembra che la attenda nel futuro. Lo immagina ad aspettarla, da qualche parte, al termine della vita.: “Talvolta penso alla morte come al punto d’arrivo di una gita nella quale mi sono avventurata quando lui è morto. Come se al mio arrivo gli dicessi: bene eccoti qua”. Come se la sua scomparsa l’avesse messa in cammino verso la propria morte. Come se la sua non fosse altro che una lettera, e Thoby il destinatario. Come se ogni versione di se stessa – persino la ragazza ventenne, o la donna morta che presto sarebbe stata – potessero in qualche modo restare in vita tra le sue pieghe. Ed era là che lei si trovava.
Kamran Javadizadeh
*Questo articolo è stato pubblicato in forma più estesa sul “New Yorker”; la traduzione è di Anna Rocchi
**In copertina: Virginia Woolf con il padre, Leslie Stephen
L'articolo “Tutto quello che ti chiedo è di non far leggere queste lettere a nessuno”. Quando Virginia Woolf fece risorgere il fratello Thoby, morto di tifo proviene da Pangea.
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shindrake · 4 years
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Recensione: Cities of Last things, di Wi Dong Ho ★★
Recensione: Cities of Last things, di Wi Dong Ho ★★
Il film si divide in due parte, nella prima in un futuro avveneristico in cui l’essere umano può sembrare sempre giovane, in cui la vita è controllata da droidi ventiquattro ore su ventriquattro, in cui la differenza tra ricchi e poveri si amplia, abbiamo un personaggio che agisce e si muove come desideroso di autodistruggersi, picchia una donna, uccide un uomo su un mandato di qualche clan, dice…
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