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#ragazza senza prefazione
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“So di esser ruvido, di carattere. Ho degli spigoli e molto orgoglio. Avrei potuto... [...] Non l’ho fatto. Uno pensa di poter fare questo o quell’altro, ma poi, un momento, ti dici, meglio non far niente, per non sbaglia­re. Ho pensato così. Perché a sbagliare è un attimo, e gli errori che si fanno poi non passa nessuno a toglierli. Ri­mangono lì, come le transenne.”
— Luca Tosi, “Ragazza senza prefazione”.
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gregor-samsung · 10 months
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“ Roma, fino al 19 luglio [1943], era una città fuori del mondo. Chi vi arrivasse da qualunque parte, rimaneva sbalordito e irritato. Chi di lontano ne sentiva parlare, soffrendo della guerra, ne provava un sordo rancore. Il bombardamento di Roma è stato accolto in qualche città lontana e già provata, da brindisi di gioia. Chi stava a Roma da venti anni, non finiva di stupirsi di Roma solo a uscire di casa. Gente vestita bene, tranquilla; e le signore non affrettavano il passo neppure quando suonava la sirena d'allarme, mentre altrove si moriva. Roma è entrata nel dolore comune. E quelle stesse persone vestite bene e tranquille in un modo irritante, ora a vederle per la strada preoccupate della loro grazia nel pericolo, sono piú vicine all'umanità. Quello che pareva cinismo diventa dignità, la cura di sé stessi in circostanze tanto drammatiche, un segno di personalità, la vanità strafottenza, la leggerezza superiorità. Cosí alcuni difetti diventano virtú.
Una famiglia del popolo, rimasta senza tetto, veniva avanti per un viale di villa Borghese. Il vecchio portava appesa a una mano la gabbia del merlo casalingo, e sotto l'altro braccio, una coperta. C'era una donna esile con un medaglione ricordo sul petto, e una ragazza che aveva dimenticato di darsi il rossetto sulle labbra. Spiegavano a un passante che non avevano piú casa. Sotto gli alberi c'erano altre persone coi loro fagotti. Sull'erba secca avevano disposto il fiasco del vino e la merenda. Non avevano se non quello che portavano con loro. Cacciati dalle mura domestiche, formavano qualcosa di intimo sotto gli alberi sterili e ombrosi del parco pubblico. Mentre prima avevano parlato della loro casa distrutta come d'un paese natio abbandonato, ora, intorno al loro posto, formavano l'immagine di un provvisorio focolare. Non ho notato un solo sguardo di odio o di invidia verso i due passanti che si fermavano perplessi a guardare, e poi tiravano via impensieriti, e alcuni vestiti bene, e certo con una casa in piedi.
Longanesi ha diffuso una delle sue spiritosaggini a proposito dei bombardamenti delle città italiane: « Ci stanno rovinando gli originali delle fotografie Alinari ». È lo stesso autore di alcuni manifesti di propaganda di guerra. È sempre pronto al disprezzo dei caduti, come tutti quelli che disprezzano se stessi e il proprio paese. Egli trova facilmente il ridicolo in tutto. È la forza dei deboli.
Collezionista di morti. I bollettini ufficiali, mentre durava l'azione di bombardamento su Roma, già lo registravano. La radio ne dava i particolari mentre si sentivano le bombe da San Lorenzo. Trentamila morti. I giornali ci si sono buttati sopra con tanta avidità da rendere teatrale anche questo. Vogliono commuovere l'opinione pubblica, e nello stesso tempo ripararsi dietro le memorie e la Chiesa e i bambini e le donne. La città è mutata. Si vede gente preoccupata; visi lunghi come per un torto e uno scomodo personale.
Uno di quelli che vivono sul bilancio delle sovvenzioni ai giornali di propaganda, mi diceva che la colpa è interamente del popolo italiano. “
Corrado Alvaro, Quasi una vita: giornale di uno scrittore, Bompiani, prefazione di Geno Pampaloni, Bompiani, 1951; pp. 355-356.
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lamilanomagazine · 6 months
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Campobasso: la memoria come turbamento, Paolo Di Paolo incontra il pubblico di Ti racconto un libro.
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Campobasso: la memoria come turbamento, Paolo Di Paolo incontra il pubblico di Ti racconto un libro. Una passeggiata lungo le rive di un grande lago, i ricordi che riaffiorano, la memoria da ricucire. Nomi, volti, vite solo apparentemente dimenticati che riemergono sullo specchio d’acqua che accorcia la distanza tra il presente e il passato. Nel suo Romanzo senza umani, edito da Feltrinelli, Paolo Di Paolo interroga i disastri climatici delle nostre singole vite. Gli anni senza estate, i desideri furiosi come acquazzoni tropicali, le secche della speranza, il gelo che intorpidisce e nasconde. E poi il disgelo, che finalmente riporta alla luce. Prossimo ospite di Ti racconto un libro 2023, il laboratorio permanente sulla lettura e sulla narrazione promosso e realizzato dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani, con la direzione artistica e organizzativa di Brunella Santoli e il patrocinio della Provincia di Campobasso, Di Paolo affronta un tema poco esplorato: la memoria è turbamento. C’è chi ricorda troppo, chi ricorda meno, chi non percepisce lo scorrere del tempo. Siamo tutti congelati fra versioni sconnesse del passato. Non è facile leggere la vita mentre accade. In questo romanzo gli umani sono a fuoco più che mai. Come Mauro Barbi, storico di professione, che cerca di aggiustare i ricordi degli altri – le persone che ama e ha amato – proponendo la sua versione dei fatti. Cerca di costruire una “memoria condivisa” che lo riguarda. Ma che impresa è? Forse c’entra una Piccola era glaciale privata, un processo di raffreddamento che ha spopolato la sua esistenza. Dove sono Fiore, Arno, il vecchio Cardolini, Meri, la Ragazza belga di Madrid? Dov’è Anna? Dove sono tutti? Forse il lago a cui ha dedicato anni di studio può dargli le risposte che cerca. Vede, anzi immagina, l’immensa lastra di ghiaccio che lo copriva da sponda a sponda quattro secoli e mezzo prima. Il sole pallido su una catasta di uccelli morti. Un lunghissimo inverno che travolse l’Europa con i suoi venti polari, le grandinate furiose, le inondazioni. Una remota stagione estrema che faceva battere i denti, perdere la speranza, impazzire. Come se ne uscì? Come se ne esce? Le immagini del passato ci ingannano sempre. Barbi prova a rientrare nel presente, con tutta l’ansia e la fatica che richiedono i gesti semplici. Uno in particolare potrebbe cambiare tutto. L’incontro con l’autore è in programma lunedì 6 novembre, alle ore 18.30 nel Circolo Sannitico di Campobasso. Con lui dialogherà lo scrittore Paolo Massari. Nella mattina di lunedì 6 novembre, Paolo Di Paolo incontrerà gli alunni delle scuole medie di Campobasso per parlare del suo libro Trovati un lavoro e poi fai lo scrittore, edito Rizzoli, divertente storia di una passione che sfida i pregiudizi e anche il buonsenso. All’incontro parteciperà Stefania di Mella, editor del libro. Venerdì 17 novembre, alle ore 18.30 nella Sala della Costituzione a Campobasso, Ti racconto un libro festeggerà la pubblicazione nella collana Bur di Rizzoli di Corpi estranei, il primo romanzo dello scrittore molisano Pier Paolo Giannubilo che dopo quindici anni torna nelle librerie in una nuova versione, rivista nella lingua e nella struttura e ampliata con un capitolo finale inedito. La prefazione al libro è firmata dallo scrittore Mirko Zilahy, autore di romanzi dal successo internazionale. INCONTRI CON L’AUTORE Lunedì 6 novembre ore 18.30– Circolo Sannitico – Campobasso ROMANZO SENZA UMANI- Ed. Feltrinelli, incontro con PAOLO DI PAOLO in dialogo con PAOLO MASSARI Un uomo cammina lungo le rive di un grande lago tedesco. È partito all’improvviso, dopo avere provocato una serie di “incidenti emotivi”, come lui stesso li definisce. È ripiombato nella vita di persone che non vedeva da tempo. Ha risposto a email rimaste lì per quindici anni, facendo domande fuori luogo. Ha provato a riannodare fili spezzati. Mauro Barbi, storico di professione, cerca di aggiustare i ricordi degli altri – le persone che ama e ha amato – proponendo la sua versione dei fatti. Cerca di costruire una “memoria condivisa” che lo riguarda. Ma che impresa è? Forse c’entra una Piccola era glaciale privata, un processo di raffreddamento che ha spopolato la sua esistenza. Dove sono Fiore, Arno, il vecchio Cardolini, Meri, la Ragazza belga di Madrid? Dov’è Anna? Dove sono tutti? Forse il lago a cui ha dedicato anni di studio può dargli le risposte che cerca. Vede, anzi immagina, l’immensa lastra di ghiaccio che lo copriva da sponda a sponda quattro secoli e mezzo prima. Il sole pallido su una catasta di uccelli morti. Un lunghissimo inverno che travolse l’Europa con i suoi venti polari, le grandinate furiose, le inondazioni. Una remota stagione estrema che faceva battere i denti, perdere la speranza, impazzire. Come se ne uscì? Come se ne esce? Le immagini del passato ci ingannano sempre. Barbi prova a rientrare nel presente, con tutta l’ansia e la fatica che richiedono i gesti semplici. Uno in particolare potrebbe cambiare tutto. In questo suo Romanzo senza umani, dove gli umani sono a fuoco più che mai, Paolo Di Paolo interroga i disastri climatici delle nostre singole vite. Gli anni senza estate, i desideri furiosi come acquazzoni tropicali, le secche della speranza, il gelo che intorpidisce e nasconde. E poi il disgelo, che finalmente riporta alla luce. Che cosa ricordano, gli altri, di noi? “Paolo Di Paolo affronta un tema poco esplorato: la memoria è turbamento. C’è chi ricorda troppo, chi ricorda meno, chi non percepisce lo scorrere del tempo. Siamo tutti congelati fra versioni sconnesse del passato. Non è facile leggere la vita mentre accade. Un romanzo magnifico e audace.” André Aciman PAOLO DI PAOLO è nato nel 1983 a Roma. Ha pubblicato i romanzi Raccontami la notte in cui sono nato (2008), Dove eravate tutti (2011; Premio Mondello e Super Premio Vittorini), Mandami tanta vita (2013; finalista Premio Strega), Una storia quasi solo d’amore (2016), Lontano dagli occhi (2019) Premio Viareggio-Rèpaci, tutti nel catalogo Feltrinelli e tradotti in diverse lingue europee. Molti suoi libri sono nati da dialoghi: con Antonio Debenedetti, Dacia Maraini, Raffaele La Capria, Antonio Tabucchi, di cui ha curato Viaggi e altri viaggi (Feltrinelli, 2010), e Nanni Moretti. È autore di testi per bambini, fra cui La mucca volante (2014; finalista Premio Strega Ragazze e Ragazzi) e I Classici compagni di scuola (Feltrinelli, 2021), e per il teatro. Scrive per “la Repubblica” e per “L’Espresso”.  ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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houseofdaena · 1 year
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Guerre d’Hamavaran
Volume 1
Prefazione
Grazie a un nuovo sforzo per l’assunzione di nuovi autori e al fenomenale successo del concorso “Questo romanzo è fantastico!”, abbiamo ricevuto molte opere davvero originali da futuri autori di tutto il mondo. Vorremmo cogliere quest’opportunità per ringraziare i nostri autori internazionali per il supporto che offrono al mercato delle light novel di Inazuma e vorremmo inoltre ringraziare il commissario di Kanjou Hiiragi Shinsuke per la sua cortesia e la sua generosità. È grazie a tutti voi se siamo riusciti a portare oggi ai lettori di Inazuma tante opere così meravigliose.
Come tutti saprete, prima della promulgazione del Decreto Sakoku, diversi samurai affermati provenienti da molte terre diverse offrivano i loro servigi a Inazuma. Uno di loro, Hamavaran, proveniva dalla lontana nazione di Sumeru, ricca di foreste pluviali, ma giunse fino alla terra del bagliore del tuono per servire gli ideali della cavalleria. Sebbene le storie delle gesta di Hamavaran vennero seppellite durante il culmine dell’eternità immutabile sotto Sua Eccellenza la Shogun, è stata donata loro nuova vita grazie all’estro narrativo di una mia buona amica, l’autrice debuttante Pursina.
E ora, senza ulteriore indugio, vi auguriamo una buona lettura delle Guerre d’Hamavaran.
Volume 2
“Non è la tempesta in mare che mi preoccupa, ma l’idea di diplomarmi in ritardo...” Era questo il pensiero che occupava la mente di Hamavaranodurante il suo lungo viaggio verso Inazuma...
“Sei preoccupato di non riuscire a terminare in tempo la tua tesi ed essere costretto a rimandare il conseguimento del tuo diploma, non è vero?” La voce familiare proveniva dall’esterno della cabina.
“Silenzio... E tu chi saresti?!?”
“Chi, io? È importante?”
“Giusta osservazione. No, non sei tanto importante...”
“Ehi...”
...
E così, mentre la tempesta infuriava, scuotendo mari e cieli, Hamavaran iniziò a bisticciare con la voce sommessa che proveniva da fuori dalla finestra, mentre tutte le preoccupazioni in merito alla tempesta e al non completare la tesi in tempo passavano in secondo piano.
Ma, stranamente, quando Hamavaran raggiunse la costa, la persona la cui voce aveva sentito non sembrava essere da nessuna parte.
“Forse era il fantasma di un naufragio...” Hamavaran considerò questa possibilità.”
I fantasmi non sono altro che ricordi dei morti delle linee geomantiche, rifletté Hamavaran. È un fenomeno completamente naturale che si verifica per via della risonanza tra il passato e il presente. Certo, è molto improbabile che ciò accada nel mezzo dell’oceano, ma per nulla impossibile.
“A chi stai dando del fantasma? Il fantasma sarai tu!” Hamavaran aveva appena prodotto un’ipotesi soddisfacente per spiegare i sintomi del suo delirio ed era passato a raccogliere i bagagli, quando la voce familiare gli parlò ancora una volta.
Volume 3
...
“Quindi sei davvero un fantasma?”
“No! Non sono ancora morta!”
“Ma non sei mai stata nemmeno viva, giusto?”
“Ehm... Sì, suppongo si possa dire così...”
La ragazza chiaccherona, che sosteneva di essere una shikigami, divorò degli appiccicosissimi dango di riso con una velocità tale da far temere a Hamavaran che si sarebbe strozzata.
“Se dovessi spiegartelo, direi che la mia situazione è più simile all’evocazione di un fantasma.”
“Quindi, avevo ragione, sei un fantasma...”
“Nooo, non quel genere di fantasma!”
Dopo un altro litigio, Hamavaran finalmente capì quello che la ragazza definiva “evocare un fantasma” equivaleva più o meno a quello che a Sumeru si chiama “sigillare uno spirito”. Entrambe le pratiche prevedono la sottoscrizione di un patto usando il proprio vero nome. L’idea che si possa controllare qualcuno quando si conosce il suo vero nome è comune alle tradizioni mistiche di molte popolazioni, ed evidenzia una paura fondamentale degli umani: la paura di essere sotto il controllo di qualcun altro.
Inseguendo questi pensieri selvaggi, Hamavaran si pentì ancora una volta di essersi specializzato nella tanto trascurata disciplina della biologia marina anziché nel misticismo...
“Prima faccio vela alla volta della lontana Inazuma, poi mi tocca sorbirmi l’incubo senza fine che è la difesa di una tesi...”
“Forse, però, l’imbattermi in questa chiaccherona è stata una fortuna...”
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letteratitudine · 2 years
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Il 3 novembre esce “Dopo?”, il nuovo romanzo di Cristina Leone Rossi 
Bookabook editore, con prefazione di Mauro Corona:
“Ha un talento fuori discussione, ha una forma delicata, misteriosa, quasi nascosta di scrittura coinvolgente che crea l'immediata curiosità di voltar la pagina"
presentazione ANTEPRIMA al pubblico giovedì 3 novembre, ore 18:00
presso il Madè Bistrot, in Via Taranto 42 - Roma
Presente l’autrice, modera Andrea Venditti, legge Toni Fornari (previsti ospiti a sorpresa).
SINOSSI
Una ragazza alla ricerca delle sue origini, del suo passato. Un uomo alla ricerca della poesia, quella vera, in cui fermare per sempre un attimo.
Sonia e Fabio, inaspettatamente e contro ogni immaginazione, si imbattono una nella vita dell’altro, ritrovandosi legati indissolubilmente da un filo rosso che non può essere spezzato, poiché ancora prima di vedersi, si sono scritti: le anime di carta, una volta diventate reali, non possono più separarsi.
È una storia d’amore, di forza d’animo, di consapevolezza che le cose impossibili lo sono solamente se noi diamo loro il potere di esserlo. Un amore che forse avrà il folle potere e la sfrontata presunzione di sfidare le leggi fisiche e ridurre il termine “impossibile” a sole nove lettere. 
CRISTINA LEONE ROSSI.
È nata nel 1998 a Venezia, da qualche anno vive a Roma. Si è diplomata al liceo delle scienze umane e oggi è iscritta al DAMS, Università di cinema di Roma Tre. Ha frequentato un’accademia di recitazione per inseguire la carriera di attrice, ma poi ha capito che più che interpretare la vita preferisce raccontarla. Essere una scrittrice è per lei un privilegio e farà tutto il necessario per continuare a farlo. “Dopo?” è il suo secondo romanzo dopo “Non trovo più parole” (2021, bookabook) con la prefazione di Andrea Purgatori.
PREFAZIONE AL ROMANZO DI MAURO CORONA
Čechov diceva: «Bisogna agevolare in ogni modo i giovani talenti, circondandoli d'affetto e facilitazioni di ogni genere». Mi capita spesso ricevere manoscritti di giovani talenti, a volte anche gente matura o addirittura anziani. Per quel poco che mi compete, essendo nell'editoria ormai da venticinque anni, cerco sempre di aiutare coloro che vorrebbero pubblicare un libro. Conosco l'emozione di stringere tra le mani la prima opera fresca di stampa. Per questo produco ogni sforzo affinché questi nuovi scrittori ricevano dalle case editrici un minimo d'attenzione. A volte sono riuscito nell'intento (molto raro), altre il tentativo è sprofondato nelle paludi dei libri a macero. Eppure, non vi è testo, il più fallito e mal costruito si possa immaginare, che non contenga almeno una riga sulla quale meditare a fondo e farsi cambiare la vita. È chiaro che mi sono imbattuto inmanoscritti la cui qualità lasciava a desiderare, ma forse era colpa mia che non capivo tali lavori senza capo né coda. Lo scrittore esordiente è sempre convinto di aver creato il capolavoro. Hai voglia dargli qualche dritta per metterlo sul sentiero libero da rami e pietre. Mi sovviene una frase di Barbey d’Aurevilly, scrittore caustico e magistrale, nato a Parigi nel 1808 e ivi deceduto nel 1889. Nei confronti di un autore privo di umiltà e soprattutto di talento disse: «I suoi libri, che lui reputava geniali, conobbero l’onta del disinteresse». Non è il caso, credetemi, di questa ragazzina: Cristina Leone Rossi. E del suo libro dal titolo enigmatico “Dopo?”. Oltre al talento fuori discussione, ha una forma delicata, misteriosa, quasi nascosta di scrittura coinvolgente che crea l'immediata curiosità di voltar la pagina. Dove andrà a parare questa ragazzina? Vedrete, leggete, vi aspettano sorprese. Si capisce subito che l'autrice è giovane. Una gioventù però di tempi odierni, sana, tecnologica, che guarda e vede lontano. Non quelle antiche gioventù, che tendevano al poetico-lamentoso, scadendo spesso nel patetico. I cicli culturali sono cambiati perché sono mutati biologicamente gli esseri umani. Che oggi pretendono e chiedono letteratura adeguata ai tempi e ai gusti di quel moderno che ha cambiato il modo di pensare e agire dei giovani. Cristina Leone Rossi lo sa. Ha percepito, indagato a fondo, studiato e messo in pagina l’oggi perché lei stessa fa parte del pensiero giovane, attuale che suscita invidia affettuosa in chi giovane più non è. Che però apprezza e legge volentieri coloro che hanno fatto passi avanti nel tempo letterario moderno. Un libro non deve avere preferenze di lettori, un libro deve andare bene a tutti. Poi sarà il gusto di ognuno a dire se piace o no. Isentimenti sono quelli che ghermiscono l'uomo da sempre in questa, come la definiva Pessoa, “Tragedia chimico-fisica chiamata vita”. Mozart affermava che “La musica è tra le note”. Ecco, la verità e lo scoprimento delle cose, nel testo di Cristina Leone Rossi, stanno proprio tra le righe. Pagina dopo pagina, si seguono eventi, fatti, sorprese ma, allo stesso tempo si percepisce qualcos'altro. Un messaggio misterioso, latente, pronto a uscire a tempo debito. Con sorpresa, ve lo assicuro. Non conosco di persona all'autrice. Ma, se come usa dire, ognuno è quello che fa o scrive, penso a questa giovane come persona, schiva, umile, mite, ma pure decisa, determinata e forte nel puntare lontano. Una persona moderna che preferisce l'ombra guardando la luce all'orizzonte. Che si avvicina luminoso.
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hermioneblk · 2 years
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📖 Jack Frusciante è uscito dal gruppo 🚲 commento 📖
⭐️
ISBN: 8880891901
Lo scrittore è un copione, ha letto Arancia Meccanica e Holden e ha fatto un bel melting pot mettendoci anche un bel niente di suo! Va bene, è stato bravo a ingannare tutti, facendo finta che questo sia il suo stile di scrivere, ma è quello di Arancia Meccanica! Chiunque lo abbia letto si può rendere conto di come lo ha spudoratamente copiato senza però impegnarsi a metterci una trama perché se su arancia meccanica Alex DeLarge …oh! Ma guarda un po’ si chiamano proprio uguali! Il protagonista di questo libro si chiama proprio Alex D.! Insomma se Alex di arancia meccanica parla in questo modo e l’autore lo inserisce in una trama importante e originale ma qui non succede niente… Niente! La storia è veramente noiosa e senza senso se fosse stata narrata normalmente nessuno lo avrebbe considerato e dunque? Copione ! Mi chiedo come possibile che nessuno se ne sia accorto!
La prefazione del libro che tesse le lodi di questo romanzo e lo accomuna a Holden è del tutto patetica e inutile! Ormai uno sta per leggere il libro chi se ne frega di quella sviolinata… Ah già! Forse andando in libreria uno legge la prefazione e rimane incantato tanto da decidere di comprarlo… Veramente assurdo, ci mancherebbe che un editore mette una prefazione che parla male del libro in questione!
Va bene, è stato bravo a imitare lo stile di Arancia, perché io alla sua età di quando ha scritto tutto ciò non l’avevo neanche letto, non sapevo neanche che esisteva, ma dato che ora è uno dei miei libri preferiti e l’ho letto più di quattro volte proprio come Holden mi posso permettere di dire che è stato uno sfrontato copione!
Poi c’è anche la questione del titolo… Non solo ha copiato lo stile di Arancia mettendoci quel modo di dire di Holden che si riferisce agli altri sempre mettendoci l’appellativo vecchio davanti non considerandolo vecchio ma si è inoltre appropriato di una questione di attualità ovvero Jack Frusciante il chitarrista dei Red Hot Chili Peppers è uscito dal gruppo nel momento in cui il gruppo andava meglio e ha usato un po’ questa idea senza però riuscire ad inserirla bene nella trama perché il suo Alex non canta non suona non ha un gruppo e non esce da nessuna parte perché continua la sua vita continuamente. Ha cambiato il nome di Jack con John per non incorrere in problemi ma allora perché non hai messo Alex è uscito dal gruppo? Semplicemente perché Frusciante faceva più figura essendo anche di attualità! C’è questa storia d’amore fasulla che non ha senso e non è neanche credibile si vede proprio che non si è ispirato alla sua vita vera non ci sono sentimenti e sembra tutto messo lì ma perché? Perché doveva andare a copiare anche il piccolo principe e siccome anche questo è un libro che ho letto svariate volte mi sento proprio presa in giro quando vado a leggere questo Jack Frusciante! La storia d’amore è stata messa lì intanto per fare scena e poi per mettere il concetto cardine del piccolo principe dell’amore che la volpe dice di avere per lui dopo che è stata addomesticata con quel concetto di iniziare a sentirsi bene anche prima di incontrarsi… dunque che ci hai messo di tuo? Sullo sfondo c’è una patetica Italia degli anni 90 senza senso, argomenti noti a tutti, stare tra i banchi, zaini, spaghetti, alcolici
… E allora? Alex va a fare una settimana studio a Londra di cui tra l’altro non racconta niente… Poi il dramma della storia, il grande dramma la ragazza di cui Alex si innamora deve andare un anno in America a fare un anno scolastico all’estero e si disperano tutti ma perché ci va allora? Non è obbligata ad andarci se si amavano così tanto perché tutta questa tragedia?
Poi ci mette anche un suicidio, così tanto per riempire un po’ il buco del nulla che ha creato con questa trama assurda…
Anche il booklet di Blood Sugar dei Red Hot ha nominato senza che ce ne fosse bisogno tanti che a volte sembrava solo una lista di annunci pubblicitari di musica!
Mi sono accorta che ne hanno addirittura tratto un film, non sono riuscito a trovarlo ma mi sarebbe piaciuto vederlo, addirittura esaltato da un film! Il mistero del successo! Mi sembra il tutto un processo mediatico, la capacità del marketing di prendere una cosa e farla piacere a tutti, non so come fanno ma ci riescono spesso, perché leggendolo non sono riuscita a capire perché abbia avuto successo! Ma non è neanche colpa della stupida storia di quei due e del fatto che non succede niente quello che proprio non sopporto è che ha copiato i miei amici! Ho sempre ritenuto Alex e Holden e il principino miei amici ma non mi sarei mai permessa di copiarli e non capisco come nessuno non abbia capito che questa è solo una copiatura! Anche Dorian Gray viene tirato in ballo senza una ragione, ok sei stato bravissimo a leggere tutti questi libri prima di me, io li ho letti in ritardo ma non ce n’è uno che ho letto una sola volta e non ce n’è uno che avrei osato copiare per fare poi finta che sia farina del mio sacco!
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pollockdipoesie · 4 years
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DA AMNESTY INTERNATIONAL
Il nostro addio a Luis Sepulveda è attraverso le sue parole. Quelle che ci ha donato scrivendo la prefazione di “Non sopportiamo la tortura“, libro di Amnesty International Italia edito da Rizzoli, Milano, nel 2000.
" Venti anni fa, mi sono fermato davanti alla porta di una casa ad Amburgo. Lì viveva una persona di cui conoscevo appena il nome, Ute Klemmer e, nonostante avessi ricevuto da lei una dozzina di lettere, nel risponderle non mi era mai capitato di chiederle l’età o se avesse una famiglia. Stavo per conoscerla e per questo non dovevo fare altro che suonare il campanello, però una forza poderosa mi impediva di alzare la mano. Era una forza che mi obbligava a rivedere I dettagli della mia vita che mi avevano portato fino a lì.
Nessuno è capace di precisare quale sia la cosa peggiore del carcere, dell’essere prigioniero di una dittatura, di qualunque dittatura, e nemmeno io posso indicare se il peggio di tutto ciò che ho dovuto sopportare sia stata la tortura, I lunghi mesi di isolamento in una fossa che mi appestava, il non sapere se fosse giorno oppure notte, l’ignorare da quanto tempo stessi nelle mani degli sbirri di Pinochet, I simulacri di fucilazione, I compagni morti o la denigrazione costante e sistematica. Tutto è peggio in carcere, e ricordo specialmente un momento in cui I militari quasi ottennero ciò che volevano: che accettassi volontariamente di essere annichilito e condannato all’atroce solitudine degli sconfitti.
Al termine di un processo sommario del tribunale militare in tempo di guerra, tenuto a Temuco nel febbraio 1975 e nel quale fui accusato di tradimento della patria, cospirazione sovversiva e appartenenza a gruppi armati, insieme ad altri delitti, il mio difensore d’ufficio (un tenente dell’esercito cileno) uscì dalla sala dove si celebrava il processo senza la presenza di noi accusati – che aspettavamo in una stanza vicina – e con gesti euforici mi informò che era andato tutto bene per me: ero riuscito a liberarmi della pena di morte e in cambio mi si condannava solamente a ventotto anni di prigione.
Allora io ero un uomo giovane, avevo venticinque anni e non seppi come reagire quando, dopo un calcolo elementare, scoprii che avrei recuperato la libertà a cinquantatré anni.
È anche certo che allora ero un ottimista a oltranza – ancora lo sono – e mi ripetevo che la dittatura non sarebbe durata tanto, ma alle volte, soprattutto durante le lunghe notti, la ragione si imponeva e cominciai ad accettare che forse la dittatura sarebbe stata lunga, molto lunga, e che avrei perso I migliori anni della mia vita tra i muri del carcere.
I compagni, le lettere della famiglia e di alcuni amici mi davano coraggio, anche se non smettevano di ripetermi che per disgrazia non potevano fare più niente per aiutarmi e che l’unica cosa importante era che io fossi vivo. Si. Ero vivo, però la vita cominciò ad avere un terribile sapore di solitudine di fronte all’ingiustizia fino a che, una mattina, un soldato mi consegnò una lettera. La aprii e dopo averla letta seppi che, a migliaia di chilometri di distanza, ad Amburgo, c’era una persona, Ute Klemmer, che era disposta ad aiutarmi fino a tirarmi fuori dalla prigione.
Così iniziò uno scambio epistolare che rese meno brutali I giorni della segregazione. Nelle sue lettere, Ute mi parlava degli sforzi della sezione amburghese di Amnesty International per aiutare I numerosi cileni che si trovavano in condizioni simili alla mia, e le descrizioni della sua città e delle centinaia di atti di solidarietà ai quali assisteva, portavano brezze di libertà fino al carcere di Temuco.
Un giorno nel 1977, grazie al lavoro, alla costanza dei membri di Amnesty International, ottenni che I militari cileni rivedessero il mio caso e alla fine mi cambiarono I venticinque anni di prigione con otto di esilio, che in realtà e a dimostrazione del rispetto dei militari cileni per la giustizia, si prolungarono a sedici lunghi anni senza poter calpestare la terra cilena.
Per questo, detto in maniera più semplice, devo la mia libertà ad Amnesty International, alle sigle di AI, a Ute Klemmer e a tutte e tutti coloro che in tanti paesi lavorano instancabilmente in difesa dei diritti umani, in difesa dei perseguitati in tutti gli angoli del pianeta.
Quella mattina, ad Amburgo, quando ho avuto finalmente la forza, ho alzato la mano e suonato il campanello. Dopo pochi secondi, si è aperta la porta e mi sono trovato di fronte una ragazza dall’aspetto molto fragile.
– Vive qui Ute Klemmer? –, ho chiesto.
– Si. Sono io –.
Quindi ho preso le sue mani e le ho detto “GRAZIE”.
Grazie per la mia libertà e per la libertà di tanti. Grazie per quella forza, per quella coerenza, per quella determinazione nella lotta, per quella generosità che esalta l’essere umano. E oggi, come faccio da vent’anni, ripeto quel “Grazie” nell’unico modo possibile: partecipando a tutte le azioni di Amnesty International e invitando I miei lettori e amici ad appoggiare gli sforzi di Amnesty International, l’unica istituzione che vegli per la dignità umana, per il diritto fondamentale alla giustizia e per il dovere di coscienza di opporsi alle tirannie.
Ad Amnesty International tutta la mia gratitudine, la mia ammirazione e la sempre presente disposizione a collaborare in tutto quanto sia necessario.
Un abbraccio fraterno alla sezione italiana di Amnesty International.
Luis Sepulveda
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fotopadova · 4 years
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No, non è la Vivian Maier russa
di Carlo Maccà
-- C'era da aspettarselo. Dopo il fortunoso ritrovamento della Valigia Messicana con gli originali delle foto di Robert Capa, Jim Seymour e Gerda Taro (povera ragazza! vittima due volte: delle bombe dell'armata franchista e della pluripremiata fantabiografia d'una scrittrice che di fotografia non ne capiva una beata favola, volume presto ospite del mio cestino), e dopo il fortunato acquisto e disvelamento del baule di Vivian Maier (anch'essa oggetto di una biografia finta alla quale, vista la precedente esperienza, mi mancò l'ardire di accostarmi), c'era da aspettarsi che altri "inattesi" tesori venissero più o meno (ma sempre!) avventurosamente recuperati e poi offerti all'ammirazione del pubblico.
Non si vuole negare che possano esistere autori di corpus fotografici meritevoli d'essere scoperti o riscoperti. Quello che è avvenuto di recente per Gerda e Vivian, si era già prodotto in passato: si pensi, tanto per fare degli esempi, alle lastre fotografiche di Bellocq salvate da Lee Friedlander, all'Atget parigino valorizzato solo in fin di vita ma soprattutto dopo la morte da Berenice Abbott. Metterei nel numero anche Lartigue, che solo vicino ai settant'anni cominciò lui stesso a rivelare la stupefacente produzione fotografica della propria infanzia e adolescenza.  
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                                        E. J. Bellocq, da Storyville Portraits, c.a 1912.
Da un paio d'anni, con crescente frequenza, un altro baule sta riversando su tutti i media cartacei e virtuali, come dentro a sale d'esposizione in giro per l'Europa, il contenuto fotografico d'un baule russo. Niente d'illegale, niente d'illecito, nessun contrabbando. C'è solo vedere se il materiale merita veramente l'enfasi con cui viene presentato. Per esempio, Rassegna stampa/web di fotografia del mese di Dicembre 2019 curata dalla Redazione di Fotopadova riprendeva da http://www.artslife.com uno scritto di Massimo Mattioli dal titolo "La Vivian Maier russa. Esplode il caso di Masha Ivashintsova, grande fotografa scoperta dopo la morte". Un articolo su Il Fatto Quotidiano del 30 dicembre scorso enfatizzava in un'intera pagina il "Talento Svelato" di Masha: L'Unione Sovietica nascosta negli scatti di una donna - cautamente e saggiamente evitando ogni riferimento alla Maier. Costei invece era tirata in ballo fin dai titoli da innumerevoli siti di attualità d'arte e di fotografia italiani e stranieri che, in massa, si occuparono della miracolosa scoperta:
Masha Ivashintsova la Vivian Maier russa scoperta nel 2017
Masha Ivashintsova, una nuova Vivian Maier?
Masha Ivashintsova and the Discovery of the "Russian Vivian Maier"
https://www.darlin.it/inspiration/gli-splendidi-scatti-ritrovati-della-vivian-maier-russa/2/
https://www.artuu.it/2018/03/27/scoperta-la-vivian-maier-russa/curiosita/
https://cameranation.it/masha-ivashintsova-la-fotografa-ritrovata-come-vivian-maier-ma-in-russia/
Altri:
www.mardeisargassi.it/masha-ivashintsova-la-fotografa-ritrovata
https://www.internazionale.it/foto/2018/07/10/masha-ivashintsova-foto
il confronto lo fanno nel testo. E nemmeno il profilo della Russa in Wikipedia può esimersi di citare la bambinaia fotografa Franco-Americana.
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           Masha Ivashintsova,Tbilisi, Georgian SSR, 1989 vs. Vivian Maier
Soltanto un titolo è fuori dal coro; Masha Ivashintsova, non è la nuova Vivian Maier. (www.pmstudionews.com › NEWS › NEWS ultimissime!)  [il grassetto è nostro] ma il testo si limita a ripetere la negazione: " Nuova Vivian Maier? Non proprio" [il grassetto è nell'originale] senza giustificarla criticamente, accontentandosi di descrivere le condizioni politiche, sociali e culturali nelle quali Masha fotografava segretamente: che fossero totalmente diverse da quelle in cui la Maier viveva e che catturava, e involontariamente "immortalava", è fin troppo banale.
Banale è pure il fatto che la vicenda della Maier non venga mai apertamente citata in tutte le operazioni di Asya Melkumyan ai fini della promozione dell'opera della madre Masha Ivashintsova. Ciò non basta a evitare il sospetto che si tratti d'una operazione accuratamente pilotata a imitazione del fenomeno americano: la valigia dimenticata, il ritrovamento casuale, le fotografie mai mostrate a nessuno (non soltanto mai messe in mostra), i molti negativi non sviluppati ... In rete era stato postato perfino un filmato che ricostruiva la scoperta: la scaletta appoggiata al soppalco, la salita, l'estrazione della valigia attraverso la porticina, l'apertura del tesoro ... Molte delle fotografie presentate nel sito ufficiale (www.mashaivashintsova.com) includono nell'inquadratura anche i fori di trascinamento della pellicola 135, forse da intendere come certificazione di autenticità: DOCG, immagine come è uscita dal negativo ritrovato e mai stampata, e forse neppure sviluppata, dall'autrice?
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          Masha Ivashintsova, 1° Maggio, Leningrado, USSR, 1974, vs. Vivian Maier (1972?)
Ma il nodo principale della questione è: il richiamo a Vivian Maier avrebbe un significato sostanziale, oltre che episodico? significherebbe un approccio simile alla materia fotografata nella scelta dei soggetti e nel sentire nei loro riguardi - che è quello che conta? E qui non ci siamo. Manca del tutto in Masha lo sguardo pungente verso l'ambiente - soprattutto la strada -, la gente e la società russe, quello sguardo con cui la bambinaia franco-americana penetra la città in cui vive e i suoi abitanti, e spesso bersaglia con palese ironia. Sguardo che avvicina Vivian Maier allo zurighese Robert Frank (più che a Lisette Model, Diane Arbus, Walker Evans e ad altri citati da Geoff Dyer nella prefazione al primo - 2011 - dei numerosi libri a lei dedicati), come se quel tipo di sguardo fosse una peculiarità di osservatori che vengono dal di fuori.
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          Vivian Maier, New York, vs. Robert Frank, Prima cinematografica, Hollywood
Infatti, seppure newyorkese di nascita, ma di padre austriaco presto sparito all'orizzonte e di madre immigrata dalla Francia, Vivian aveva passato i suoi anni più formativi in Francia, assieme alla madre ritornata temporaneamente al paesello natio. Quando rientrò nella Grande Mela, poteva già guardarsi attorno con occhio disincantato. E, colla maturità, trovare un prodigioso equilibrio formale fra quello che vedeva con quell'occhio e valutava colla mente, e quello che inquadrava attraverso l'obiettivo e fissava sulla pellicola. O probabilmente già le rimaneva composto nella mente, tanto che non occorreva neppure che controllasse materialmente il risultato attraverso la stampa.
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          Robert Frank (Salone d'albergo - Miami Beach) vs Vivian Maier
Nulla a che fare coll'occhio bonario con cui la russa guardava la città, i passanti, i bambini, gli amici, gli amanti. E che fissava sulla pellicola con esiti livello amatoriale, seppure ottimo, ma non distinto da un particolare carattere personale.
La Maier è stata giustamente celebrata fin dalla prima uscita come fotografa di strada: Vivian Maier - Street Photographer è il titolo del libro con cui John Maloof la presentò al mondo anglosassone. La sua è fotografia di strada in tutti i sensi: come ambiente, come approccio pratico e come spirito. Perché non diventa street photography ogni fotografia fatta in istrada (mentre sono ormai accettate come tali immagini in ambienti differenti ma risultanti da un identico approccio fattuale e concettuale), ed è difficile trovare fotografie scattate da Masha in piazze o strade che appartengano pienamente e consapevolmente a tale categoria.
Quanto alla Maier, sarebbe importante sapere se il famoso cassone acquistato da Maloof contenesse anche il resto dell'archivio - libri, riviste e giornali - e se fra questo ci fosse materiale attinente alla fotografia. E se vi comparisse in qualche modo anche Ben Shahn, pittore molto in voga a quell'epoca, e fotografo da considerare il vero iniziatore della street photography in senso stretto (https://www.fotopadova.org/post/166879545573). Immigrato dalla Lituania da bambino assieme ai genitori ebrei, fu anch'egli capace di osservare la società e la cultura statunitense con un atteggiamento definibile come "partecipato distacco".
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          Vivian Maier vs Ben Shahn, July 4 Celebration, Ashville, Ohio, 1938.
Se proprio si vuole cercare un punto di contatto fra le personalità di Masha e di Vivian, lo si potrebbe trovare nel ricorso compulsivo all'autoritratto, sia diretto di fronte all'obiettivo, sia indiretto negli specchi e nelle vetrine. Ma questo riguarda un ambito che concerne il rapporto con il sè, piuttosto che con l'altro. Da affidare agli psicologi studiosi del dilagante fenomeno del selfie, piuttosto che alla critica fotografica.
Altri "fortunati ritrovamenti" di valigie, bauli, casse, cassette e cassettine, borse, buste, magari anche sacchi e zaini, si sono susseguiti dal Veneto al Molise, dall'Essex alla Moldavia, e probabilmente da una parte all'altra del mondo. Generalmente si tratta di depositi dimenticati di prodotti di professionisti o mestieranti di provincia, che possono interessare tutt'al più per la cronaca (non la Storia) del luogo e dei suoi abitanti. Oggetti nel migliore dei casi validi per manifestazioni e archivi locali, anche quando sono stati esaltati dai sagaci scopritori e dai loro eventuali esegeti come opere memorabili o finanche capolavori. Fra i loro sconosciuti o dimenticati autori, nessun Malik Sidibé.
Chi volesse portare avanti iniziative che possano valere come scoperte, dovrebbe piuttosto dedicarsi a recuperare e a riproporre l'opera di fotografi di grande valore del passato anche recente, che hanno dato un contributo originale all'avanzamento della fotografia nell'ambiente culturale in cui hanno lavorato, ma che inopinatamente sono passati nel dimenticatoio. Con Fotopadova si tenta di recuperare alla notorietà, nel ricordo delle opere di grande impatto esposte in varie occasioni a Padova attorno agli anni '60, il toscano Paolo Pellegrineschi, grande fotografo e maestro d'una generazione di fotografi toscani. La rete conserva solo rarissime, puramente casuali, tracce suo nome e si i ringrazia Libero Musetti per le presenti e future informazioni sull'autore che considera il proprio Maestro, e chiunque altro voglia contribuire con notizie e materiale in proprio possesso.
Oltre alle poche (5) immagini conservate nell’archivio 3M perché pubblicate nella Rivista Ferrania dal 1959 al 1965, altri documenti si dovranno cercare nelle riviste Tutti Fotografi e Popular Photography di quei decenni; introvabili finora i suoi tre libri sul ritratto fotografico, sul trattamento del negativo e sull’ingrandimento fotografico, che dovrebbero essere illustrati a titolo di esempio, da sue opere.
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Le immagini sono state ricavate, per finalità di diffusione culturale, dalle seguenti fonti:
Masha Ivashintsova: www.mashaivashintsova.com
Vivian Maier: Vivian Maier Fotografa, GEDI 2017
Robert Frank: Gli Americani, Contrasto 2008
Ben Shahn: Ben Shahn Photographer, Da Capo Press, 1973
E. J. Bellocq: Wikimedia Commons.
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bettalatalpa · 2 years
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La foto meno natalizia possibile per chi come me ha simpatia solo per il buon vecchio Yule pagano 🍀 ieri ho terminato di leggere un libro piuttosto famoso per la versione cinematografica…con cui non c’entra assolutamente nulla, per altro! #ilcoloreviola di #alicewalker edito @edizionisur non parla di razzismo come pensiamo di solito, bensì di altre cose importantissime che l’autrice spiega nella fantastica prefazione. Dio è il destinatario delle missive che Celie scrive, distrutta dalla violenza strutturale all’interno della sua famiglia, afroamericana senza vincoli di schiavitù eppure nata con un senso di forte sospetto verso i bianchi, violentata e picchiata per tutta la sua vita fino al momento in cui capisce come ribellarsi, a modo suo. La trama parallela riguarda l’altro destinatario delle lettere, la sorella minore Nettie, che per sfuggire alla vita già scritta di una bella ragazza approda perfino in Africa come missionaria. Sarà qui che lei scoprirà il paternalismo e la discriminazione che stanno dietro al movimento missionario europeo e imparerà a crescere. Già, perché Dio non sta nè nelle parole che lei pensa di portare ragionevolmente alla tribù degli Olinka nè nei personaggi di cui Celie legge le avventure nell’unico libro che sa leggere, La Bibbia: Gesù ha i capelli crespi perché non è un bianco caucasico e Dio si trova più nei campi di lavanda e nel canto di Shug Avery, mattatrice del romanzo, che in quelli della chiesa. Ho parteggiato moltissimo per Celie, per la sua arrendevolezza e poi per la sua evoluzione, ma soprattutto per Alice Walker, per le sue parole dirette e sincere che se ne fregano del buon costume e delle convenzioni. Meraviglioso ❤️ #reading #christmas #narrativa #razzismo #racism #againstviolence #romanzo #books #blacklivesmatter #nodiscriminacion #leggere #leggeresempre #25dicembre #christmastime #bookstagram #booklover #bookaddict #bookobsessed #ticonsigliounlibro #libridaleggere #libridaleggereprimadimorire https://www.instagram.com/p/CX6KFuIsy43/?utm_medium=tumblr
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Le sospensioni romanzo di Domenico Miceli Amazon libri Leggi estratto
Domenico Miceli
      Le sospensioni
               Indipendently Published
    PREFAZIONE
   E' un romanzo che si legge tutto d'un fiato sia perchè fin dall'inizio risulta particolamente avvincente  sia perchè scorrevole nella forma che per il richiamo, in premessa, che l'autore fa di un grande evento del nostro tempo, il trapianto di cuore.
Il protagonista del racconto è, quindi, non a caso, un cardiochirurgo, non come medico però, ma come paziente trapiantato  e che, come tale, viene a confronto, nella nuova condizione, con se stesso e con gli intricati interrogativi del suo animo.
Ed è in questo ambito che l'autore si consegna a chi legge il libro, oltre che come competente in campo medico-scientifico, come un approfondito conoscitore dell'animo umano e delle piu' complesse dinamiche esistenziali, attraverso una narrazione gradevole, senza difficoltà di gestione e perciò avvincente.
Con questa pubblicazione l’autore è alla sua prima esperienza letteraria, che risulta ben riuscita e di cui può ritenersi soddisfatto.
 Emilia Servidio
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         Quando il californiano Shumway e il sudafricano Barnard s’incontrarono alla University of Minnesota nei primi anni ’60, erano soltanto giovani medici di belle speranze che conducevano esperimenti sugli animali. Le loro ricerche erano all’avanguardia, ma neppure nei loro sogni più sfrenati avrebbero immaginato che di lì a pochi anni sarebbero entrati nella storia della medicina come i padri del trapianto di cuore.
Ai tempi, gli Stati Uniti ponevano ostacoli politici, sociali e religiosi a questo tipo di operazioni, mentre Barnard, sfruttando le conoscenze maturate proprio in America, riuscì nel suo paese natale a eseguire il primo trapianto di cuore umano il 3 dicembre 1967. L’organo fu espiantato da una ragazza di venticinque anni vittima di un incidente d’auto e impiantato nel petto di Louis Washkansky, un droghiere ebreo di sessantacinque anni affetto da cardiopatia in stadio avanzato e irreversibile.
Washkansky morì dopo soli diciotto giorni. Colpa del rigetto, il nemico numero uno dei trapianti, che fu neutralizzato soltanto nel 1983, quando l’FDA approvò l’uso della ciclosporina, farmaco immunosoppressore che impediva il riconoscimento del cuore trapiantato come nemico, consentendone il funzionamento. Questa è la prima pagina di una storia che a oggi registra più di seimila trapianti di cuore nel mondo.
   Come è facile immaginare, donare o ricevere un cuore si carica di significati che vanno al di là della semplice tecnica.
Il cuore, dicono, è molto di più che il miocardio rivestito dal pericardio: è un organo sovraccarico di simboli in quanto reputato sede dei sentimenti, delle emozioni, degli affetti e, in un momento successivo alla concitazione del dare e del ricevere, accende complesse e interessanti interpretazioni e sviluppi, costruendo un ponte ideale tra il trapiantato e il donatore. Ma io a tutto questo non avevo mai creduto, perlomeno non ci pensavo più di tanto: per me il cuore era un pezzo da sostituire e basta.
Mi chiamo Michele Santonicola, ho cinquantasette anni e di mestiere cambio cuori.
  uno
         Una mattina montai sulla mia Lexus fiammante e, come tutti i giorni, mi diressi in ospedale.
Ottocentotrentacinque watt di potenza per diciassette altoparlanti: la musica dell’impianto stereo Mark Levinson era a palla e m’avvolgeva col suo effetto discoteca. Era mia abitudine stordirmi di note per non pensare a nulla mentre guidavo. Giunto al parcheggio, a malincuore troncai le prime note di un pezzo di De André.
Ero un bell’uomo, alto, dal ciuffo bianco e liscio che cascava su fronte e occhi, che con gesti talvolta casuali ma più spesso studiati riportavo di continuo al suo posto. Le donne mi guardavano con ammirazione, soprattutto in ospedale – pazienti, mogli e figlie di pazienti, infermiere, colleghe –, anche se sapevo di attrarre il gentil sesso soprattutto per il ruolo: basti pensare a quanto fascino possono esercitare le mie mani, quelle di uno che prende un cuore in mano, lo manipola, lo aggiusta, lo cambia. Come un dio disceso tra i mortali.
Da piccolo avevo un debole per i lavori manuali: ero figlio unico e trascorrevo molti pomeriggi da solo in casa. Il mio divertimento era smontare tutto quel che mi capitava per le mani: frullatori, orologi da tavolo, lumetti. Ero spinto da un’innata curiosità per tutto ciò che si poteva fare a pezzi e provare poi a ricostruire, ma mio padre, direttore dell’ufficio postale di Bisceglie, che ogni mattina usciva con me alle sette e trenta per portarmi a scuola, era molto severo. Quando trovava qualcosa di rotto mi metteva in punizione – niente fumetti per una settimana o niente dolce a fine pranzo.
Facevo il secondo anno del classico quando uno zio ebbe una malattia al cuore. Sentendone parlare in casa, avevo manifestato l’intenzione di fare il medico. Annuncio al quale s’era aggiunto il commento di mamma.
- Il medico è un professionista che non muore mai di fame, Michè. E se ci sa fare può garantire a sé e alla sua famiglia una vita più che agiata.
Già, non era stato esattamente un impulso umanitario a spingermi verso quel corso di studi, ma la prospettiva del successo economico – peraltro non facilissimo da conquistare, vista la lunghezza del corso e l’impegno che avrei dovuto profondere. Ma ce l’avrei messa tutta pur di fare una vita da ricco.
Così mi ero iscritto a Medicina a Roma e la passione per il cuore continuò a pompare motivazione e voglia di darci dentro: papà, felicissimo di avere tirato su un figlio medico (si chiama ascensore sociale, no?), con la liquidazione mi avrebbe poi aiutato a perfezionarmi in Cardiochirurgia in Francia, dove avrei conosciuto veri e propri maghi del cuore, che usavano il bisturi come una bacchetta dai poteri prodigiosi.
Anche mio padre sottolineava i vantaggi economici della mia scelta e con lungimiranza aggiungeva: - Il mondo va verso la superspecializzazione. Se farai il cardiochirurgo, impara alla perfezione una sola cosa. E punta a far dire alla gente che per quel problema specifico tu e soltanto tu sei l’eccellenza. Vedrai quanto profitto te ne verrà.
Rimasi in Francia due anni, per poi rientrare a Roma dove m’attendeva il professor Cammilli, che fu maestro di chirurgia ma soprattutto di vita. La cardiochirurgia è vedere, osservare, e poi fare, e il professor Cammilli ripeteva che, tra le operazioni che si potevano compiere sul cuore, le più semplici, o per meglio dire le meno complesse, erano il trapianto cardiaco e i bypass coronarici, detti pontage, la prima cosa che in terra d’Oltralpe insegnavano agli specializzandi.
Perciò fin dall’inizio avevo cavalcato i due filoni, impegnandomi a dare di me l’immagine di un meccanico di sala operatoria: sia interventi alle coronarie, anche a cuore battente con tecnica mininvasiva, ovvero con un taglietto anziché con la segatura verticale dello sterno – su questo mi ero particolarmente specializzato, seguendo i consigli paterni –, sia i trapianti di cuore.
   A Roma avevo un direttore del dipartimento di chirurgia, in pratica un mio superiore, anche se non l’ho mai riconosciuto come tale. Gli andava a genio ricoprire un ruolo squisitamente gestionale, così m’aveva affidato la responsabilità del Centro Trapianti, un’unità operativa detta dipartimentale, sulla quale riferivo a lui giusto per questioni generali.
Avevo un confortevole studio con bagno e doccia collegato a un ambulatorio dove due volte a settimana visitavo i pazienti in privato, generalmente prima e dopo l’intervento. Approfittando delle visite per suggerire la possibilità d’essere operati da me a pagamento, sempre in ospedale, saltando la lista d’attesa, potevo quadruplicare lo stipendio mensile, toccando i venti, venticinquemila euro, mentre il trapianto cardiaco, che non è eseguibile in regime privato anche per le implicazioni legate alla gestione successiva, mi serviva come bandiera, cioè per mettermi in mostra e alimentare la mia reputazione. E per rimpinguare quindi il conto in banca. Ricordo il mio primo trapianto di cuore: quando avevo avuto tra le mani, freddo di frigorifero, il pezzo di muscolo da impiantare, non avevo provato emozione, se non quella legata alla gloria e al denaro che m’avrebbero garantito quelle masse troncoconiche. Il mio comportamento, pur rispettoso della legge e del fisco, ma eticamente non irreprensibile, non riduceva la mia clientela, ma la moltiplicava.
E i soldi arrivavano. Un costante flusso di quattrini per solleticare l’ego e soddisfare i desideri. Dagli abiti griffati ai ristoranti stellati, per non fare menzione della mia più grande passione, le auto: cambiavo vettura ogni due anni e la curavo con diligenza maniacale. Bastava un graffio per portarla dal carrozziere o un rumorino per fiondarmi in assistenza.
Avevo una figlia, Andreina, graziosa, ventidue anni, che studiava Lettere moderne e ora faceva l’Erasmus in Gran Bretagna, con la quale avevo un buon rapporto. E avevo un figlio, Federico, di tre anni maggiore della sorella; gli mancavano due esami alla laurea in Medicina e chissà perché voleva fare il medico legale: ragazzo intelligente ma viziato. Due figli che non ho saputo o potuto educare, lasciandoli in balìa di una pessima madre, e che si rivolgevano a me soprattutto per denaro e regali – al pari di Luciana stessa. La nostra famiglia era simile a un puzzle che raramente si componeva e che, se tornava tutt’intero, bastava voltarsi un attimo per ritrovarlo disintegrato.
Avevo l’appuntamento fisso del tennis. Giocavo due o tre volte alla settimana. Sempre contro il maestro: mai e poi mai confondersi con gli altri iscritti al circolo. Lo pagavo profumatamente perché fosse disponibile per partitelle in notturna.
Avevo Luciana, mia moglie, una coetanea che avevo conosciuto tanti anni prima a Roma. Dirigeva un’agenzia immobiliare e si trattava bene: shopping nelle boutique di via Cola di Rienzo, gioiellerie, estetista tutte le settimane, tornei di bridge, ma anche volontariato – proprio come molti vip, che a mio avviso lo fanno per perdonarsi e farsi perdonare lussi e capricci. La nostra relazione era logora da un pezzo. Vivevamo separati in casa, dove avevo ricavato la mia oasi in uno studiolo con una poltrona letto. Il nostro rapporto era di natura burocratica e si limitava a qualche riflessione su piccole incombenze di routine. Di sesso neanche a parlarne: già da un pezzo non c’era più spazio per quello. Talvolta ci si accordava sugli impegni per il fine settimana, per esempio per vedere quelli che definivo falsi amici, agli occhi dei quali, per esplicita volontà di Luciana, ci presentavamo come una coppia ancora solida e innamorata. Soltanto su una cosa eravamo d’accordo: lagnarci dell’uso spericolato che Andreina faceva dell’American Express su a Londra.
Luciana l’avevo conosciuta curiosando nella sua agenzia immobiliare. Ricordo fosse un sabato mattina. Bella e briosa, s’era presentata bene, col sorriso che solo i venditori più scafati sanno sfoggiare. Poi aveva fatto il resto da sola, intuendo come un fidanzato prima e un marito cardiochirurgo poi le avrebbe assicurato prestigio e danaro, che era quel che cercava. Nel frattempo, al momento del matrimonio, la casa ai Parioli ce l’aveva messa lei. Le ho sempre rimproverato la cura ossessiva del corpo, superiore persino a quella che io usavo con le mie auto, chiedendomi come facesse a buttare circa settecento euro ogni mese in estetista, massaggi, palestra, creme, tinte, messe in piega – una cifra che potevamo permetterci ma eccessiva in termini assoluti –, per poi condividere il talamo nuziale, fin quando c’era stata una condivisione, incollandosi al viso un’orrida maschera idratante la maggior parte delle notti.
   - Buongiorno, Anna.
Anna Vinciguerra, la caposala, era sempre la prima ad arrivare in ospedale. Una presenza storica.
- Buongiorno, professore.
Gli specializzandi del trimestre erano in piedi davanti alla porta dello studio, mentre sulle sedie, assieme alla mamma e alla fidanzata, c’era Alessandro, un giovane da tempo in lista per il trapianto. L’università ci assegnava ciclicamente tre specializzandi in cardiochirurgia per frequentare reparto e sala operatoria. In quel periodo c’erano due ragazzi e una ragazza e, come di consueto, anche in quel terzetto c’era qualcuno più incline alla ricerca che alla pratica. Ne approfittavo per fargli selezionare aggiornamenti dalle riviste scientifiche, che mi tornavano utili per le relazioni ai convegni a cui dovevo partecipare per mantenere il mio ruolo.
Dopo aver rivolto un cenno di saluto al ragazzo e alla famiglia, feci entrare gli studenti.
- Professore… - esordì Ludovico, lo scienziato di turno, quello che alla sala operatoria preferiva la biblioteca e i database sulla Rete - Alessandro aspetta di parlare con lei. È stato chiamato perché è arrivato il cuore, però…
- Però? - chiesi mentre leggevo la mail di Anita, la mia segretaria, con l’elenco delle visite private del giorno dopo.
- Però se ha un attimo volevo esporle sinteticamente il risultato di questo lavoro uscito su «Lancet» a proposito delle suture chirurgiche riassorbibili, che ho esplicitato in dieci diapositive.
Mi porse un pacchetto di fogli A4.
- Metti qua. - Mi ravviai i capelli mentre lanciavo uno sguardo a Carmen, una specializzanda molto volitiva, col carattere giusto per sostenere, anche fisicamente, molte ore consecutive in sala operatoria. - Guarderò con calma e ne riparliamo.
Provavo un’istintiva simpatia per gli studenti che, come ero stato io da giovane, preferivano dedicarsi alla manualità, alla pratica. Certo, l’aggiornamento è una reale necessità per un medico e non potevo farne a meno se volevo presenziare ai convegni; tuttavia imparare, come diceva Cammilli, a buttare le mani, ritenevo dovesse essere l’aspirazione suprema per un cardiochirurgo.
- Be’ - dissi - una volta tanto un trapianto che non si farà di notte. Tra espianto e impianto si farà al massimo il pomeriggio. Chi di voi si vuole lavare? - aggiunsi usando la tipica locuzione del chirurgo che s’accinge all’intervento.
Ovviamente si fece subito avanti Carmen.
   Il trillo del cordless nella tasca del camice.
- Professore.
- Federico.
Era il mio braccio destro. Mi informava che era già partita l’équipe destinata a prelevare e portare a Roma il cuore. L’organo veniva da Cagliari e apparteneva a una donna di trent’anni deceduta per un incidente d’auto. L’aereo militare doveva già essere stato avvisato del volo da compiere, mentre in Sardegna, dopo l’accertamento della morte cerebrale ma con persistenza di attività elettrica del cuore, chiedevano ai familiari il consenso per far rivivere un altro essere umano grazie all’organo del loro congiunto. Il trapianto di cuore non rappresenta la guarigione, bensì trasforma un malato in un altro tipo di paziente, alla mercé di farmaci, controlli continui, dubbi o sospetti su sintomi di rigetto, prevenzione delle infezioni e altro, il tutto con l’obiettivo di guadagnare anni di vita.
Con Federico stabilimmo gli ultimi preparativi e, mentre l’équipe dell’espianto era già al lavoro in Sardegna, mi accertai dell’organizzazione della sala operatoria per l’impianto. Dopodiché, alla presenza dei tre studenti, feci entrare Alessandro coi familiari. Come tutti quelli che aspettavano un cuore nuovo, lo conoscevo bene. Veniva sempre a salutarmi dopo i controlli: trentaquattro anni e occhi neri e profondi come un pozzo, che mi fissavano in maniera talvolta inquietante. Una di quelle persone che sapeva nascondere il dolore dietro una finta sicurezza; però, quando ci salutavamo, aveva l’abitudine di girarsi sulla soglia della porta e guardarmi, come fosse sul punto di chiedere qualcosa che poi non chiedeva mai.
Il colloquio fu breve.
I pazienti in lista d’attesa si preparano con un lavoro preventivo che contempla anche un percorso psicologico e chiarisce loro che la legge proibisce di rendere noti i dati del donatore. Si predispose subito il necessario per portare Alessandro in sala operatoria. Dal momento dell’espianto all’impianto non devono trascorrere più di quattro ore. Col volo militare Cagliari-Roma saremmo ampiamente rientrati nei tempi. A quel punto le due équipe via telefono si coordinano: non appena arriva il segnale OK CUORE, il torace del ricevente viene aperto per accogliere l’organo che sta volando da lui.
due
         Centrale Acquisti, Procedure di Approvvigionamento Appalti e Lavori: era scritto a iniziali maiuscole su una targa appesa sotto il simbolo dell’università, sulla porta in fondo al corridoio. Se il nome era grandioso, altisonante, l’ufficio era piccolo, appena sufficiente per due scrivanie dotate di computer, in un casermone grigio con un balconcino da cui si intravedevano il Lungarno di Firenze e il fiume che luccicava sotto il cielo opaco. I tavoli erano ingombri di carte e un unico telefono su un tavolino separava il posto di lavoro di Marta Ripoli da quello della collega Agnese.
Nel corridoio lastricato di piastrelle verde chiaro, fra tre armadietti metallici e la fotocopiatrice Xerox, c’era la porta della stanza del dottor Attilio Bisaglia, il dirigente responsabile. Aveva poco più di sessant’anni. Nativo di un paese dell’Abruzzo, era un po’ rustico nei modi ma sempre rispettoso delle colleghe. Sotto la scorza era un uomo buono e Marta ne apprezzava la capacità di mettere a fuoco i problemi. Un funzionario sensibile quanto bastava alla puntualità e alla regolarità delle pratiche, ma senza rigidezze mentali: non si impuntava mai sull’orario della presenza ma guardava al risultato. Un uomo intelligente che mostrava padronanza della macchina amministrativa. Bisaglia era il primo ad arrivare e l’ultimo ad andar via, e aveva solamente una cosa a cui teneva e che ripeteva come una litania: la qualità di un ufficio pubblico è inversamente proporzionale agli squilli che il telefono fa prima che venga sollevata la cornetta. Un principio che costringeva Marta e Agnese a non lasciare mai sguarnite le postazioni della stanza.
Quel casermone, quel corridoio e quella stanza erano da anni il mondo di Marta, il luogo dove, immersa in un mare di numeri e testi in burocratese, trascorreva più di metà della giornata.
   Marta Ripoli aveva quarantasei anni e non li dimostrava. Biondina, esile, bassina. Un po’ maniaca del cibo – non mangiava fritture né carni rosse, il colmo per una fiorentina d.o.c.; soltanto pollo, verdure, frutta, orzo, farro e legumi in genere.
Viveva sola per scelta, a pochi isolati dai genitori. In fondo Firenze è piccola. Non che li trascurasse. Anzi, li sentiva tutti i giorni e una domenica sì e una no andava a pranzo da loro, ma alla sua età riteneva giusto mantenere una affettuosa distanza. Esserci per loro, sì, ma senza esserne condizionata. E comunque i genitori erano poco più che settantenni, per fortuna senza particolari acciacchi o bisogni.
Marta aveva conseguito la maturità classica con un’ottima votazione in un istituto cattolico, esperienza che l’aveva avvicinata alla religione. La domenica non saltava una messa e riceveva sempre l’eucaristia. S’era iscritta a Giurisprudenza, scelta influenzata dalla lunga frequentazione di Bruno, figlio di notaio, che era stato il suo fidanzato. Finché un giorno il papà di Marta per caso non aveva scoperto un messaggino sospetto sul Nokia del giovanotto, a seguito del quale la ragazza, inflessibile, troncò ogni rapporto.
Nel frattempo Marta aveva trovato un buon impiego nell’amministrazione dell’università, dove ormai stava per conseguire il ruolo di dirigente con la prospettiva di prendere il posto del dottor Bisaglia. Con gli uomini aveva ormai chiuso: d’altro canto non cercava occasioni per incontrarne, stando dal lunedì al venerdì in ufficio di giorno e la sera a casa, consacrando il fine settimana alle pulizie e alla spesa. E, mentre pareva sorda al ticchettio del proprio cuore, gli anni passavano.
Tuttavia una sera, da casa, incuriosita da un banner azzurro e rosa comparso sullo schermo del computer, Sei single? cerchi l’anima gemella?, aveva cliccato e s’era divertita davanti all’articolato panorama umano che un sito di incontri dal nome anglosassone le snocciolava. Giovani, molto giovani, meno giovani, bellocci, bruttini, nerd, ragionieri, di tutto un po’ insomma. Le donne non pagavano l’iscrizione e così, per scacciare la noia delle sere d’inverno, s’era buttata e aveva iniziato a descriversi, stando attenta a falsificare alcuni dati – un po’ presa dallo sciocco timore d’essere in qualche modo individuata, un po’ per scrupolo di coscienza. Sapeva che nella maggior parte dei casi avrebbe pescato uomini con un’unica reale intenzione: il sesso, senza complicazioni sentimentali né tante storie. Che poi, quand’anche fosse comparso il principe azzurro, come si poteva distinguere il vero dal falso attraverso uno schermo?
Un po’ alla volta aveva preso coraggio. Più per trastullarsi che con l’obiettivo di trovare un fidanzato. Marta aveva impostato filtri di ricerca – età, livello di istruzione, professione, residenza, caratteristiche fisiche, addirittura gusti e dettagli – come il fatto di essere un fumatore, o bevitore abituale o occasionale: per dire, le piacevano quelli con un velo di barba incolta. Così prese a collegarsi ogni sera, senza però partecipare attivamente né rispondendo alle decine di richieste, cuoricini, bacetti, inviti che piovevano da ogni parte, come era fatale che avvenisse quando una graziosa nubile di mezz’età si mette in vetrina.
Era andata avanti così per settimane, finché, mentre continuava a dirsi in cuor suo che stava lì solo per divertirsi un po’, dopo avere scartato una ventina di pretendenti, si concentrò su un quintetto di uomini sopravvissuti alla sua meticolosa scrematura: erano gli unici che apparissero interessanti e che, almeno in apparenza, le ispirassero fiducia.
Due erano di Roma, uno della provincia di Bologna, uno proprio di Firenze e l’ultimo, un certo Guido, di Parma. Guido decise di scartarlo, non essendole andato a genio una specie di servizio fotografico che, piazzato lì per farsi conoscere meglio, lo ritraeva in atteggiamenti da spaccone, con giubbotti da biker e bolidi a due e quattro ruote sullo sfondo di infinite campagne.
Eppure, una sera fu lui che la cercò. Un pallino rosso pulsava accanto al nome di Guido.
 Buonasera!
Chi sei?
Chi sei tu che vieni a guardare il mio profilo da qualche giorno? Di dove sei?
 Marta non voleva scoprirsi, così mentì.
 Mi chiamo Ada, abito a Pisa
Io sono Guido, ho quarantanove anni e vivo a Parma. Raccontami qualcosa di te. Vivi sola? Lavori?
 Benché Marta rispondesse senza sbottonarsi troppo, sera dopo sera prese confidenza con quel tizio. Un po’ le ispirava fiducia. Aveva letto un libro, Le ho mai raccontato del vento del Nord, dell’austriaco Daniel Glattauer, romanzo epistolare nell’era di Internet che narrava di una relazione virtuale coltivata via mail, e propose a Guido di passare dalla chat alla posta elettronica. Il cambiamento sgonfiò gran parte dei suoi scrupoli: cavarsi fuori dalla enigmatica e immateriale giungla di quel sito le fece tirare un sospiro di sollievo. E le diede una teorica garanzia di esclusività del rapporto di Guido con lei.
Dopo un po’ la donna cominciò ad aprirsi con lui, fino al giorno in cui Guido le diede il numero telefonico e la conversazione continuò sia per mail sia a voce.
La voce del tizio di Parma le piaceva.
   Fu per un venerdì di marzo che fissarono un incontro. Il loro primo appuntamento. Finalmente si sarebbero visti di persona.
- Guarda! - disse Marta con emozione ad Agnese, che sottobraccio aveva due corpose pratiche. Le mostrò la foto di un uomo moro, dalla barba curata, gli occhi penetranti e il sorriso vivace. Era in sella a una Ducati di grossa cilindrata.
- È lui?
Marta annuì.
- Guido. Fa il consulente finanziario. Ha, tipo, rapporti con banche, aziende, industriali, cose così.
- Ma l’hai visto da vicino?
- No, non ancora. Però ci scriviamo ogni giorno. E parliamo un sacco al telefono. Sai, è molto occupato. Ma stasera lo vedrò da vicino!
Mah, pensò Agnese, le avrà dato di volta il cervello!
Però non aveva resistito e s’era collegata anche lei, in forma anonima, al sito di incontri, presa com’era stata dalla curiosità, e lo aveva trovato – lui, l’uomo di Marta. In effetti, Guido Ceroni era un bel quarantanovenne che si descriveva come commercialista, consulente bancario, amante delle motociclette; e sportivo, tennista, sciatore e altro ancora. Era di Parma. Ma è mai possibile, si disse Agnese, che in tutta Firenze non ce ne fosse uno più o meno così ma in carne ed ossa? Agnese con gli uomini aveva chiuso da un pezzo, e pure precocemente. Sulla soglia dei quaranta, fisico rotondetto e sorriso da educanda, ispirava immediatamente simpatia. Era stata una ragazza madre e ora sua figlia Sofia faceva il secondo anno di liceo. Vivevano a casa della mamma di Agnese, rimasta vedova da qualche tempo. Agnese aveva un fratello carabiniere, Francesco, di tre anni più piccolo.
Dopo quella prima dolorosa relazione, consumata con un soggetto poco affidabile, Agnese non aveva avuto più uomini. Rimasta traumatizzata dal padre di Sofia, che s’era dileguato lasciandola sola con la bimba e un fardello di domande e rimorsi, dopo qualche tentativo andato a vuoto lei non l’aveva più cercato. Alla piccola aveva detto che il genitore era scomparso senza lasciare traccia, in un incidente in mare, giurando a se stessa che un domani le avrebbe dato altre spiegazioni. Nel frattempo era stata assunta all’università. Si rammaricava d’aver rinunciato al sogno di quando faceva l’istituto d’arte, cioè disegnare abiti, anche se abbozzava ancora figure su carta. Sfruttava i rari tempi morti dell’ufficio per impugnare la matita e schizzare linee, aspettando la pausa caffè per mostrare i bozzetti a Marta, ormai sua amica del cuore.
   Era stata una discreta giornata.
Firenze aveva respirato quel pomeriggio. Il cielo era stato limpido, senza un ricciolo di nuvole che fosse uno, con l’aria profumata nei limiti di quanto può esserlo in città. Dopo il tramonto già da due settimane soffiava da ovest un vento appena frizzantino come un prosecco, che ricordava come l’inverno fosse alla fine e la primavera alle porte.
Marta era scappata dall’ufficio per il parrucchiere.
Che mi metto?, pensava.
Optò per un completo pantalone, visto che Guido sarebbe venuto in motocicletta e avevano programmato una corsa a Fiesole. La serata era adatta e, come primo rendez-vous, non era affatto male una cenetta in collina.
Alle venti in punto lo vide da lontano.
Aveva riconosciuto lui e la Ducati nera dalle foto che s’erano scambiati e le parve più avvenente di come s’aspettava. Notò l’aspetto curato: giubbottino di pelle marrone, camicia bianca che dava luce al viso, pantalone di velluto a coste e la barba leggera che le era piaciuta da subito e che, avrebbe scoperto, Guido aveva il vezzo di carezzare di continuo. Marta aveva letto su «Focus» che nel linguaggio del corpo l’uomo che si tocca di continuo la barba è un uomo innamorato. Però, pensò mentre gli andava incontro, forse sto correndo troppo…
- Ehi…
- Ehi.
Sorrisero timidi e l’imbarazzo si accampò tra di loro, finché Marta non si lasciò guidare sottobraccio in una passeggiata prima di partire per Fiesole.
Guido parlava molto: a volte la lasciava andare, a volte le stringeva il braccio, come a sottolineare coi gesti il senso del discorso. Le parlava del lavoro frenetico ma non privo di soddisfazioni; di come fosse single da un paio d’anni dopo una burrascosa relazione con una donna sposata; dei genitori, in particolare del padre padrone che esercitava da avvocato e non aveva mai accettato che il figlio non avesse raccolto l’eredità dell’avviato studio legale di famiglia, dove comunque gli aveva messo a disposizione una stanza per il suo studio di consulenza finanziaria.
Nella corsa in motocicletta verso il ristorante, stretta ai fianchi di Guido, Marta sentiva la consistenza del torace sotto il giubbotto, l’energia del motore, la salita tutta curve, il venticello. Il cibo fu per lei un dettaglio – assaggiò gli antipasti, elogiò la squisitezza della minestra, rifiutò la carne, gustò appena un sorso di vino –, essendo tutta la serata concentrata sul racconto che di se stessa faceva a Guido. Così ripercorse la propria vita, dall’adolescenza agli studi, passando per il rapporto coi genitori. Per Marta era scattata la penosa fase in cui la mamma e il babbo avevano bisogno di lei più di quanto lei ne avesse di loro, ma era contenta d’essere andata a vivere da sola.
Fu il turno di Guido per tornare a parlare e si lanciò in considerazioni sulla Rete e i suoi vantaggi, a suo avviso superiori agli svantaggi.
- Non so chi, ma qualcuno ha detto che accedere a Internet è come entrare in uno stanzone pieno di fili che ti conducono dappertutto, ma dove qualcuno ha spento la luce.
- Un bel rebus quindi.
- Sì, ma se sai cercare bene, trovi.
L’uomo aveva accolto senza pregiudizi la novità degli appuntamenti al buio, notando come il web avesse rivoluzionato il concetto d’incontro.
- Pensa - diceva - una volta prima ci si incontrava, ci si conosceva e poi ci si dava un appuntamento per approfondire. Ora ci si può conoscere virtualmente, incrociare eventuali interessi comuni, poi alla fine si decide se fare il salto e incontrarsi. Un ribaltamento epocale!
- Questo ha anche le sue insidie, però.
- Già. Prendi noi. Per quante settimane ci siamo sentiti al telefono, scambiati foto, curiosità personali, opinioni, ma poi? E se la realtà fosse stata diversa? Lo sai che esistono i falsi profili? Per estorcere danaro, per truffare, per giocare sulla illusione delle persone, sulla mancanza d’affetto.
- Non è il nostro caso. Siamo stati prudenti l’uno con l’altra, quasi guardinghi.
Guido annuì.
- Devo confessarti che tante cose che mi dicevi di te le ho controllate, pensa un po’, proprio on line.
- Ah, non ti fidavi allora? - fece lei fingendo d’essere indignata. - A dire il vero ho fatto anch’io così. Mica mi potevo fidare ciecamente.
Lui si carezzò la barba.
- Uno a uno e palla al centro.
- Lo zero a zero è noioso, no?
- Insomma abbiamo avuto qualche giusta perplessità. È anche simpatico dircelo.
- È vero - concluse Marta. - Ma non pensi che si sia fatto tardi? Perché non m’accompagni a casa?
Era quasi mezzanotte e le strade erano vuote. In pochi minuti di motocicletta furono di nuovo a Firenze. Guido le disse che aveva prenotato una stanza in un albergo in centro, non lontano da casa di Marta, così il giorno dopo si sarebbero rivisti. Si prospettavano quasi due giorni pieni per conoscersi meglio.
Marta era felice: voleva sottrarsi al trito e ritrito sali da me a bere una cosa? con tutte le sue forze, sia per il suo carattere che per le sue convinzioni religiose. E poi aveva già dovuto scontare il rimorso d’avere bazzicato un sito dalle finalità non proprio edificanti, ben sapendo che la fauna maschile che avrebbe trovato non sarebbe stata nella maggior parte dei casi affidabile. E poi le piaceva l’idea del corteggiamento, il piacere cristallino di non concedere tutto subito. Si chiese chi avesse detto: in amor vince chi fugge.
Insomma, un bacetto e via, al giorno dopo.
  tre
          Il bicchierino di plastica del caffè ancora scottava tra le dita mentre studiavo l’iPhone: tre chiamate perse, sette messaggi Whatsapp, cinque mail. Non sapevo cosa fosse la noia. Dando la precedenza ai messaggi di Anita, accesi la Winston blu, la mascherina chirurgica abbassata sul collo. Il sofà in finta pelle dell’anticamera della sala operatoria pareva un’ancora di salvezza, una zattera su cui adagiarsi per qualche minuto.
Era il momento della giornata che preferivo.
Non ero in sala operatoria, dunque non dovevo stare attento e concentrato come un raggio laser, ma non ne ero del tutto fuori, là dove la vita continuava e il mondo ingoiava la folla che andava di fretta – ovunque gente al telefono o col grugno tuffato nello smartphone, perduta nel traffico, nei bar, nei negozi, negli uffici, nelle strade, nelle case con un televisore che dipingeva le finestre di luce azzurrina, mentre il pomeriggio scorreva lento, e i bambini facevano i compiti sul tavolo della cucina.
Tutto era andato come di norma.
La parte centrale dell’intervento era finita, i pezzi erano stati rimessi al loro posto, il lavoro successivo lo avrebbero fatto gli altri – ricuciture, sistemazioni, terapia intensiva. Tra poco sarei uscito e avrei ricevuto i familiari del giovane nel mio studio, dove ero atteso da una birra e un tramezzino. Nessun problema su cosa dire loro e come dirglielo: conoscevo a memoria il copione. Spensi la sigaretta.
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annetta-arletta · 4 years
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Sanguineti, teorico e esponente della Neoavanguardia. In una società più complessa, dominata dai mass media e dall’alienazione, il linguaggio non è neutro, ma usato da chi vuole conservare il potere. La narrativa italiana è intimistica, crepuscolare, afferma Giuliani nella prefazione ai Novissimi del 1961. La Neoavanguardia propone una rottura con il passato - a differenza degli sperimentalisti di Officina e del Menabò - distruggere la referenzialità del linguaggio, per liberarlo dall’alienazione: il linguaggio si libera con il linguaggio stesso. Ecco che i Novissimi propongono una schizofrenia del linguaggio, un linguaggio dissociato, caotico, frammentario, asintattico. Il linguaggio deve essere smontato, fatto esplodere. Seguendo Paul Valéry, la Neoavanguardia critica il romanzo tradizionale - la marchesa uscì alla cinque - rappresentato in Italia in questo periodo storico da Bassani.  Sulle orme del Nouveau Roman francese, la Neoavanguardia propone una riduzione dell’io, una sguardo cinematografico sulla realtà complessa. I Novissimi, cioè gli estremi, gli ultimi, propongono una poesia anti-intimistica, rifiutano la lirica introspettiva. Sanguineti, Pagliarani, Porta. Nel poemetto La ragazza Carla, Pagliarani rinuncia al soggettivismo creando il personaggio di Carla, utilizza la tecnica del montaggio sovrapponendo frammenti di discorsi, dialoghi, come se si trattasse di un collage, seguendo Pound, Eliot, Majakovskij. Altra fase di sviluppo della Neoavanguardia - dopo i primissimi esordi nella rivista di Anceschi, il Verri - è la creazione del Gruppo 63. Pasolini, Calvino, Sereni, Zanzotto sono alternative alla "distruzione” neoavanguardista. Zanzotto, come la Neoavanguardia, parte dalla condizione alienata dell’uomo, individua nel linguaggio storicamente denso di significati un veicolo dell’alienazione, però è possibile recuperare direttamente in esso un rapporto più autentico con le cose, forse risalendo all’origine delle parole, forse con un linguaggio pascoliano pregrammaticale, forse con un plurilinguismo e la presenza del dialetto (Idioma, 1986). Zanzotto tenta di ricostruire un rapporto con le cose, invocandole (Vocativo, 1957); c’è dunque un accordo con la Neoavanguardia, senza però eliminare totalmente il passato. Da un lato, Zanzotto tende ad un ricerca della parola autentica, dall’altro spinge il linguaggio nella zona che supera i confini del linguaggio stesso: un gioco libero, creativo, inconscio, l’utilizzo del petel - il linguaggio delle madri. Consapevole della lezione di Lacan, Zanzotto vede nel linguaggio stesso l’accesso ad un dimensione umana, la comunicazione con l’altro. 
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5-1-m-0-n-3 · 7 years
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6 giugno 2017 Ciao cari amici del New Book Club. Anche questo mese un disegno e un racconto. Questo è il primo capitolo di un libro che ho scritto anni fa. Scritto e riscritto più volte. Oggi l'ho riletto. È stata una cosa dolorosa. Mi sono sentito come bloccato, fermo a uno stop. Perso, col motore acceso e la lancetta sulla riseva. Chiedendomi dove sto andando, insomma va riscritto tutto per intero. Ancora una volta. Tutto sbagliato. Sta invecchiando insieme a me e ho quella sensazione che non andrà mai bene. Buona lettura.
Capitolo 1 Alla fine è stata tutta colpa di Bukowski. Lo ammetto. Sono una persona romantica. Un poco dolce. Anche se i miei amici dicono che sono un tipo da carie. Forse per questo il mio "contranome" è "Babà". Contranome è il soprannome che ci diamo per identificarci e come avrete già intuito descrive caratteristiche fisiche o caratteriali. Per esempio il contranome del mio amico Marco è "Zip" per via di una cicatrice che ha sul collo e che ricorda tanto la chiusura a lampo di certi pantaloni. Credo nell'amore vero. Lo so è una cosa da bambini. E i bambini sono fatti così. O è bianco. O è nero. Niente compromessi. Sono disposto a lottare per queste idee. Ad ogni costo. Insomma penso che valga la pena aspettare la persona giusta. Io quella persona però l'ho trovata. E subito ho pagato un prezzo alto. Questa storia che sto per raccontarvi è così. O bianco o nero. Nessun compromesso. Tutto cominciò molti anni prima. Ogni mattina entravo nel liceo con le mani in tasca. Il bavero del giubbetto di jeans alzato. Cercavo disperatamente di assumere un atteggiamento da duro. Odiavo la mia condizione economica. Non avevo un piumino. Non avevo centocinquanta euro per un paio di Sneakers. Potevo al massimo permettermi una maglietta dei Nirvana, un giubbetto blu rubato a mio fratello maggiore e recitare la mia parte da attore in bianco e nero. Al liceo ci andavo con un Benelli verde vomito con tre marce anni 70 ereditato dal nonno. A cosa ti serve un motorino nuovo, c'è quello del nonno. Mi ripeteva mio padre. Intanto con quel coso sembravo uscito da uno di quei film di ritorno al futuro. Penso che lui, mio nonno, avesse scopato molto con quel motorino: alla sua epoca però! Mi sono sempre chiesto come facevo con un motore a tre marce a perdere tutte le gare con le altre moto monomarcia. Credo facesse parte della mia sfiga. Scusa nonno, ma il tuo motorino lo nascondevo dietro la scuola se no la mia aria da duro non reggeva nemmeno i primi dieci minuti della giornata. Odiavo i miei occhi verdi, i miei capelli corti argilla. I miei 68 chili appesi a 176 centimetri. L'idea in generale che avevo di me stesso. Non potevo permettermelo lo so, ma l’unica cosa che potevo fare era fingere di piacermi. Avevo avuto una ragazza, un po’ di tempo prima. Avete presente le ragazze effimere? Lei era una di quelle. Non ebbi nemmeno il tempo di vantarmene; mi scaricò il giorno dopo.
Insomma, ci provavo. Ma per far finta di essere figo, avere soldi e un sacco di amici bisognava avere del talento. Poi un giorno arrivò Sara. E la mi vita cambiò.
 Sara era indescrivibile. I suoi capelli sembravano una cascata d'acqua. Gli occhi un laghetto di montagna. E tutti subito se ne innamorarono. Era bella. I miei amici dicevano che si dava delle arie, ma a parlare era il loro amore non corrisposto. Era simpatica. Le mie amiche dicevano che era una stronza, ma a parlare era la loro invidia. Tutti quelli delle classi superiori facevano la fila per corteggiarla, ma lei li teneva a debita distanza. E questo mi faceva impazzire.
Aveva un "no" calibro 36. Ti sparava a bruciapelo, diretto un colpo al cuore. Non avevo speranza con Sara. Questo, un giorno, mi diede il coraggio di parlarle. Così diventammo amici. Sì perché io avevo una dote. Avevo qualcosa che mi faceva diventare sempre un grande amico delle ragazze. Mi aiutó una passione in comune. Entrambi leggevamo libri. Certo una passione da sfigati per un ragazzo della mia età, ma un buon vantaggio sugli altri. E spesso discutevamo di John Fante o di Jerome David Salinger. Poi cominciammo a vederci più spesso. A lei piaceva molto parlare con me (lo capivo da come mi guardava, credetemi). Mi raccontava dei suoi genitori divorziati, della sua vita a casa di suo padre. Io cercavo di inventarmi problemi altrettanto seri, ma non ero poi così bravo e alla fine scoppiavamo entrambi dal ridere. Ricordo ancora quel sorriso. Era profondo e terminava in quei suoi occhi lucidi. E azzurri. Aveva uno sguardo che ti prendeva a schiaffi. Alla fine, come gli altri, mi innamorai seriamente di lei. E quando dico seriamente intendo in modo patologico. Andò avanti così finché non arrivò il mio più acerrimo nemico. Un uomo con una BMW decappottabile. Capelli neri. Naso a punta. Ogni giorno con un vestito diverso. Non conoscevo il suo nome, la sua età, da dove venisse. Una volta mi avvicinai abbastanza da sentire il suo odore. Sentiva, non lo so, avete presente la pianta della lavanda? Cristo, chi è che usa un profumo alla lavanda! Così mister Lavanda iniziò a presentarsi all’uscita del liceo finché un giorno Sara salì sulla BMW; ho quell'immagine di lei che si allontanava mentre mi salutava con la manina. Dio che mani che aveva Sara. Sentivo che mancava poco alla vittoria di mister Lavanda. Così la disperazione mi spinse a fare qualcosa che, per diversi anni, segnò la mia vita. La mattina seguente, senza pensarci troppo, le proposi di venire con me al festival letterario di Ventotene. Non indossavo un giubbetto anti-proiettili, ma ero già pronto al suo no calibro 36. Sara buttò di getto un va bene. Passato il mio entusiasmo, pensai a quella risposta. Forse l’aveva fatto per amicizia o per un senso di colpa, non lo so, ma ne fui ugualmente contento. Sabato mattina arrivammo col traghetto a Ventotene. Non avevo molti soldi. Per mia fortuna i tempi in cui pagava tutto il maschio erano morti insieme al femminismo diversi anni prima. E forse si erano estinti anche i maschi. Camminammo dal porto fin su per la scalinata gialla che portava alla chiesa. Di fianco a lei, la gente mi guardava e io mi sentivo importante. Sara indossava un paio di jeans rosa e una maglietta a maniche lunghe color serpente corallo. Mi parlava e rideva. Amava prendermi in giro e io glielo lasciavo fare. Era così dolce. Ormai ne ero certo. L’amavo. E in un paio di occasioni mi sfiorò l’idea di dirglielo. Ma il mio orgoglio ebbe la meglio. 
Il paese non era molto grande. Le vie erano strette ma accoglienti. Giravamo tra i negozi che davano sulla strada e ogni volta che mi sfiorava sentivo un brivido su per la schiena. C’era molta gente, ma era ben distribuita nello spazio attorno a noi e ci lasciava momenti di intimità in cui progettavo silenziosamente di baciarla. In un paio di occasioni ci andai molto vicino, ma mi bloccai davanti a suoi occhi azzurri e bagnati dal vento. Ve l'ho detto, erano occhi da schiaffi. La giornata stava mutando in sera e nervosamente mi accorsi di non avere più molte occasioni. Scrutavo le persone e calcolavo tutte le combinazioni possibili in cui potevo parlarle senza essere sentito dalla gente. Probabilmente questo pudore era vergogna mista al senso di colpa causati da un overdose di Azione Cattolica somministratami in tenera età. Finché si presentò l’occasione perfetta. Eravamo arrivati nella piazza del comune e Sara si era fermata davanti alla libreria dell'isola. Feci un grosso respiro. Mi avvicinai a lei. Contai fino a tre poi dissi il suo nome, pronto a dirle ti amo. Il suo urlo coprì le mie parole. Aveva appena visto una copia di Charles Bukowski. Maledetto Bukowski, sei sempre stato un gran rompipalle e lo sei anche da morto. Era il suo preferito. Li aveva letti tutti. Tranne quello. Anche io li avevo letti tutti. Tranne quello. Lo guardò, sfogliò e divorò la prefazione. L'incipit non era un granché perché non lo comprò. Io, che non avevo letto l'incipit, avrei voluto comprarlo per lei. Non so perché. Non lo feci. Avevamo un traghetto da prendere. La strada era innondata di luci. Erano passati due giorni dalla giornata più lunga dell'anno, ma il vento si era rinforzato. Sembrava che il tempo volgesse, improvvisamente, verso la pioggia. Il freddo era calato sulla sera. Il silenzio lentamente ci avvolse. Vi giuro: l’atmosfera era incredibile. Le sue mani erano riparate dentro le lunghe maniche della sua maglietta; ad un certo punto le avvolse attorno al mio braccio. Appoggiò la testa sulla mia spalla. Sembrava stanca e felice. La sensazione fu indescrivibile. Non poteva esserci occasione migliore. Pensai: adesso mi chino e la bacio. Il mio cuore batteva fortissimo. Mi preoccupai che potesse sentirlo. Mi arrabbiai con me stesso per non averle preso quel libro. E combattevo contro il mio orgoglio e la mia vigliaccheria. Dentro di me era in corso una guerra dove tutti erano contro tutti. Alla fine non vinse nessuno e io non feci niente. Quel giorno fu l’ultima volta che la vidi. Le vacanze estive mi avevano rubato tutte le occasioni per incontrarla. Era il giorno dopo ferragosto quando appresi la notizia. La BMW decappottabile è una macchina veramente bella, ma senza le cinture ed un volante a cui aggrapparti può essere molto pericolosa. Mister lavanda non si fece niente. Sara la ritrovarono a venti metri dalla macchina, senza vita. Non dissi niente. E non ebbi la forza di piangere. È vero, non avevo molte possibilità con lei. Forse nessuna. Ma sono sicuro che se quel giorno non ci fosse stato Bukowski, la storia sarebbe finita diversamente. Era la mia migliore amica. La mia unica amica. L'amore della mia vita. Mia madre, mia sorella. Era tutti. Da quel giorno cominciai ad abbracciare l'idea di lasciami andare. Sprofondare nella voragine nera che si era aperta dentro di me. C'è una canzone di Vasco che dice: domani verrà lo stesso. Domani arrivò. Era il giorno del funerale. Non entrai in casa sua. Mi mancava il coraggio. E non entrai in chiesa. C’era troppa gente. Di fianco a me "Zip" con un gruppo di amici. Parlavano di mister lavanda. Insinuavano che in quel momento fosse in giro a divertirsi. E parlavano di prendere e andare a dargli una lezione. Che gruppo di deficienti, pensai. Non ebbi il coraggio di aspettare la fine della funzione; nemmeno di accompagnarla fino alla sua nuova casa di marmo e sassi bianchi. Semplicemente, presi un respiro forte. E me ne andai.
 No. Non chiedetemi il titolo di quel libro. Di quel vecchio bastardo. Se passo davanti a una libreria, leggo tutte le copertine in vetrina. Ma se lo trovo, come allora, non ho il coraggio di entrare e comprarlo.
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giangig-blog · 7 years
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Tutte le donne sono pazze (Prefazione + Capitolo 1 Jessi)
La prima domanda che mi hanno fatto è stata: "Perché diavolo hai scritto questo libro?"
Perchè cazzo l'ho scritto?
Perchè è da quando sono nato che la vita mi prende per il culo.
Per qualche insano motivo ha deciso che devo stargli sulle palle. Allora da sempre mi manda disgrazie e accidenti che rendono la mia esistenza al quanto difficle. E intanto da lontano la sento ridacchiare: "AHAHA guarda in che situazione di merda è quel coglione".
E io cosa cazzo possa fare? Sono bullizzatto dal destino!
Devo subire e stare zitto. Lasciarla scorrere e aspettare il momento adatto per dirle: "Stronza questa volta te l'ho messo nel culo io!"
E sapete come si fa a prendere in giro una persona ferendola gravemente nell'anima?
Le si fa credere che ce la stia facendo a raggiungere l'obbiettivo che si era prefissato. Glielo si fa toccare con un dito e poi...si distrugge tutto quello che ha creato. Però lasciandogli solo il minimo necessario per non morire completamente, dandogli una minuscola speranza che ancora non è tutto perduto e che si possa ricominciare da capo. Questa è la vera bastardata!
Poi il procedimento si ripete e si ripete come un loop, finché non sarà direttamente la morte a reclamarti a se, facendo finire questa straziante agonia.
E come sempre da lontano, la puttana ti guardare crescere, cadere, rialzarti e cadere. Ridendo di te ad ogni caduta. Perchè, alla fine, tutti siamo destinati a cadere.
Nel mio caso la vita ha deciso di ferirmi particolarmente facendomi incontrare ragazze completamente folli che stanno straziando la mia anima.
Questo cazzo di libro che andrete a leggere è la fottuta storia di un ragazzo appena ventenne e della sua impossibile e complicata lotta contro l'amore e la vita.
Per la cronaca quel ragazzo sono io.
Nella propria esistenza o si subisce o si reagisce combattendo. Io ho deciso di combattere e sto perdendo miseramente come un coglione. Ma non posso fare nient'altro che sfidarla la vita finchè non sarà uno dei due a perire.
Sono consapevole che sarò io a perdere alla fine, sono rassegnato ormai. Ma voglio farlo con il dito medio alzato e con un vaffanculo stampato sul sorriso.
Ovviamente la storia che ho scritto è più o meno veritiera.
Ho dovuto cambiare i nomi dei personaggi, i luoghi, le vicessitudini, gli scenari (sennò in parecchi mi avrebbero denunciato per quelle cazzo di leggi sulla privacy), ma fondamentalmente i fatti sono tutti veri.
Quindi se durante la lettura vi chiederete: "Ma questo tizio ha veramente fatto questa determinata cosa?"
Tecnicamente sì l'ho fatta, ma non nel modo in cui la state leggendo voi.
Può sembrare complicato o una presa per il culo, ma ho deciso di scriverlo così quindi...attaccatevi!
In questa storia descriverò l'idea dell'amore ai giorni nostri, delle delusioni per aver incontrato una stronza, di speranza, di odio, di falsa redenzione, di depressione, di suicidio, di sesso scontato e banale, di varie volgarità inutili, di rassegnazione e di un profondo disprezzo per tutto.
Se qualcuno dovesse scandalizzarsi del fatto che usi tantissime parolacce o che descriva nel modo più pratico e volgare l'atto sessuale, chiedo scusa, ma mi sembrava il modo migliore e più adatto per mandare determinati messaggi, sensazioni o emozioni.
Sappiate che in realtà sono una persona parecchio profonda.
Ma penso che se hai uno scopo non è molto importante come cazzo lo raggiungi. Quando ce l'avrai fatta potrai girarti indietro e mandare a fanculo tutti.
Ovviamente non ho scritto tutte queste cazzate solo il gusto di scrivere cazzate, anche se devo dire che mi piace farlo. Ma non siate banali o per benisti, dietro tutte queste vicende c'è un messaggio profondo che vi farà riflettere e pensare. Come nelle migliori storie scritte da tizi con le palle.
Quindi, dopo aver fatto il punto della situazione e dopo avervi detto le avvertenze all'uso, godetevi la lettura, capite il messaggio e vedete di apprezzarla perché mi sono fatto il culo per scriverla al meglio.
Buon divertimento stronzetti.
 JESSI
Prima dei 20 anni avevo una visione dell'amore davvero semplice e banale.
Una persona qualunque cresce con l'obbiettivo di farsi una famiglia, non avere problemi economici, amare, invecchiare e morire felice senza rimpianti.
Ma è davvero sicuro che sia questo l'unico modo per trovare la felicità?
Prendete me per esempio, ero all'ultimo anno di superiori e stavo con una ragazza.
Ero più che convinto di amarla ed ero sicuro che lei amasse me.
Si chiamava Jessi, era bellissima. Lunghi capelli biondi, occhi tremendamente azzurri e il sorriso più timido che abbia mai visto. Era intelligente, legata alla propria famiglia. Una ragazza con cui passare il resto della vita insieme, non si poteva trovare di meglio.
Si, aveva i suoi difetti, ma chi non ne ha? Per esempio Jess era fastidiosamente credente. Faceva parte di una non so quale setta religiosa dove i preti si possono sposare e invece di pregare cantano con una vera e propria band in chiesa.
Roba che se la sentisse mia nonna scomunicherebbe tutti.
Aveva un infinito timor di Dio.
Qualsiasi cosa facesse si preouccapava del giudizio divino, viveva nel terrore più puro, soprattutto in campo sensuale.
Sono più che favorevole al fatto che le persone debbano credere in qualcosa, senza una guida che ti illumina la via, chiunque sarebbe perso. Prendete me per esempio, che sono completamente allo sbando. Uno dei più grandi peccatori non pentiti al mondo. Non penso che il Signore stia a giudicare qualsiasi cazzata che una persona possa fare. Anche lui avrà i suoi problemi o comunque qualcosa di meglio a cui pensare.
Per me Dio è il più grande scrittore di sempre, il più fantasioso, quello che ha creato il racconto più incredibile che sia mai esistito. Devo dire che ultimamente ha un po' perso il filo della storia, ci sono un po' di buchi qua e la e qualche ridondanza nella trama, ma da lui mi aspetto un gran finale con il botto.
Scusate lo sproloquio...dicevo...Jess aveva paura del giudizio divino soprattutto in campo sessuale e potete capire che io in quel periodo (come ora tra l'altro) avevo gli ormoni che giravano a duemila e lei poi era proprio una bellissima ragazza con un corpo sexy, forse un po' troppo magra ma comunque sexy (a me piacciono le formose). Mi arrapava tantissimo e soprattutto era la mia ragazza cazzo!
Secondo voi che cosa desideravo da lei più di qualsiasi altra cosa? Ovviamente che me la desse!
Ma la sua opinione era che fare l'amore prima del matrimonio fosse uno dei peccati più grandi che ci possa essere.
Ne discutevamo in continuazione! Cosa dovevo fare io aspettare? Le palle mi sarebbero diventate blu! Allora ne parlammo a lungo e arrivammo ad un compromesso: potevamo masturbarci a vicenda. (Anche se secondo lei la masturbazione personale è un grave peccato. Fa diventare cechi e forse è per questo che ci vedo malissimo)
Mentre stavamo insieme io andai in vacanza a Praga. Capite che la città ceca è la capitale della perversione e io ebbi svariate occasioni di tradirla, ma la amavo e non l'avrei mai fatto. Fatto sta che al mio ritorno Jessi fu strafelice di vedermi, le mancai così tanto che decisi che era pronta. Potevamo fare l'amore! Ero più felice io di lei!
Non me lo feci ripetere due volte, non si sa mai cambiasse idea.
Eravamo soli a casa sua, la buttai sul letto e cominciammo a pomiciare di brutto.
La spogliai completamente e le ciucciai le tette, poi passai alla fica. Gliela leccai così tanto che cacciò un urlo forte che i suoi cani cominciarono ad abbaiare all'impazzata. Per sicurezza l'avevo fatta finire. C'era l'opportunità che il dopo andasse male. Era da tanto che non scopavo. Avrei potuto deluderla.
Fu direttamente lei a sbottonarmi i pantaloni e prendere il mio uccello in bocca e ciucciava di gusto posso assicurarvelo. Decisi che era il momento, la presi sopra di me e le dissi: "Facciamolo". Lei tutta titubante annui.
Potei finalmente aprire quel preservativo che tenevo nel portafoglio per le emergenze. Ancora un paio di mesi e sarebbe scaduto.
Glielo infilai dentro piano piano, ma era strettissima, non voleva entrare. Con pazienza riuscì a metterlo dentro e la santarellina godeva come pochi. Pompai e pompai.
Era troppo stretta quella fica, dopo poco venni.
Entrambi ci sdraiammo sul letto abbracciandoci esausti.
Jessi disse: "Vado un attimo in bagno".
Mi accorsi che dopo 5 minuti non era ancora tornata.
Potevo capirla, era la sua prima volta, si poteva prendere tutto il tempo di cui necessitava. Ma dopo altri 5 minuti che aspettavo nudo sul letto, mi preoccupai ed andai a vedere.
Aprii la porta del cesso e la trovai rannicchiata in un angolo del pavimento mentre stava piangendo.
"Cosa è successo piccola?" le chiesi preoccupato.
Mi guardò terrorizzata con quegli occhi blu pieni di lacrime.
"Ti rendi conto di cosa abbiamo fatto! Ti rendi conto di cosa ho fatto! Andrò all'inferno per questo! Dio perdonami ti prego!" urlò guardando in alto.
Segui il suo sguardo e vidi solo il soffitto.
Non potevo quasi crederci che fosse seria.
Con tutta la pazienza e l'amore che provavo per lei, le sedetti accanto sul pavimento del cesso e l'abbracciai. Nudo come un verme.
"Tranquilla amore...ti perdonerà".
Come se non bastasse il giorno dopo mi svegliai con un forte dolore che proveniva dal mio pene. Controllai ed era diventato incredibilmente gonfio e rosso, un male che non vi dico. Andai dal dottore e mi disse che avevo preso una qualche malattia venerea. Dovevo fasciare il mio amico e impomatarlo per bene.
Jessi andò a nozze con questa notizia quando gliela comunicai.
"Lo vedi! E' la punizione divina! Abbiamo peccato!" sbraitò.
Intanto stronza la punizione me la sono presa io.
Il mio uccello guarì nel giro di un mesetto e di fare l'amore con la mia ragazza ovviamente neanche se ne parlava. Una volta Dio mi aveva mandato una malattia venerea, alla seconda che avrebbe fatto? Me lo avrebbe tagliato?
Allora decidemmo di continuare a toccarci, leccarci, strofinarci. Quello non era peccato secondo lei.
L'estate passo e io mi diplomai.
Era una mattina di settembre quando mi arrivo un messaggio di Jessi che mi chiedeva se potessi andare da lei.
Arrivai a casa sua e la baciai, lei sorrise e poi cambiò espressione.
"Devo parlarti di una cosa..." disse.
"Dimmi pure amore!" Sentivo la tensione scendere prepotentemente nella sala da pranzo dove eravamo.
"Beh non so come dirtelo, ma...dobbiamo lasciarci..."
Alll'improvviso mi si annebbiò la vista, le gambe cominciarno a tremare e il cuore smise di battere.
"Co..cosa?Perché?" balbettai.
"Beh...ho conosciuto un ragazzo e...mi sono accorta che mi piace. Ma non posso stare con lui finchè sto con te e io voglio stare con lui...quindi dobbiamo lasciarci..."
Che cosa cazzo stava dicendo? Era diventata scema? Ero diventato scemo io?
"Ma che cazzo dici?" dissi perplesso.
"Te l'ho detto...ho conosciuto uno e mi piace. Vorrei stare con lui, ma non posso stare con lui perchè sto con te..."
Non aveva senso la sua frase. Cioè aveva senso tecnicamente...ma che cazzo!
Urlai la prima cosa che mi venne in mente. "Mi hai tradito?"
"No no! Non ti tradirei mai! Sai che non faccio queste cose!" si difese "Ma se sto con te, non posso stare con lui. Invece se ti lascio posso stare con lui e non passare male agli occhi di Dio..."
...vi giuro che non sapevo cosa cazzo fare!
"Ma sei uscita di testa? Ti sei drogata?"
"No macchè! Ma se sto con te non posso stare con lui..."
"Ho capito!" urlai interrompendola bruscamente "E questo chi cazzo è ora? Da dove è uscito fuori?" almeno volevo delle spiegazioni.
"Beh...è...è Peter...lo conosci...il portiere della squadra di calcio della scuola..."
Peter era un cazzo di ragazzone con 20 cm circa in più di me in altezza, tutto muscoli e sicuramente più attraente fisicamente di me...oggettivamente parlando, lui era più bello...ma che cazzo!
"Da quanto mi stai tradendo?" chiesi disperato.
"Non ti sto tradendo te l'ho detto! Se sto con te..."
"Si ho capito cazzo!! Da quanto lo frequenti o lo senti, qualsiasi cazzo di cosa tu ci stia facendo insieme?"
"Da un paio di settimane...gliel'ho detto che sono fidanzata, ma lui ha insistito...ci siamo visti e mi sono trovata bene..,meglio che con te...non ho intenzione di ferirti, ma non voglio neanche prenderti in giro..."
Mi sembava già che mi stesse prendendo in giro.
Ci furono diversi secondi di silenzio assordante.
"Ti prego di qualcosa?" mi gurdò con aria preoccupata, come se volesse il mio consenso.
Quel viso dolce che avevo tanto amato improvvisamente diventò la cosa che più odiavo al mondo.
Reflettei due secondi e dissi: "Non ho niente da dire...se non che sei una troia!" sbraitai.
"Non mi sembra il caso di offendermi! Non ho fatto niente di male io!" disse con la voce rotta dal pianto.
Sbottai.
"Non hai fatto niente di male?! All'improvviso mi lasci per stare con un altro e credi di essere nel giusto perchè se fai così Dio non può giudicarti in errore! Ti sembra normale?!"
Lei iniziò a piangere e singhiozzare. Non me ne importò niente.
"Spero che Dio ti punisca per quello che hai fatto, come quando mi ha mandato quella cosa al cazzo che mi hai passato tu puttana!" Decisi di andarmene "Vaffanculo troia!" presi la porta e me ne uscii.
Mentre uscivo di casa lei mi urlò dietro "Fanculo tu coglione!".
Mi girai più furioso che mai.
"Spero che il Signore non venga mai a sapere che ti piaceva succhiare questo!" presi il mio uccello sotto i jeans con le mani e glielo mostrai. "Troia di merda" sbattei la porta più forte che potei e andai via.
La sentii piangere.
Ero incazzato da morire, non riuscivo neanche a credere che si potesse fare un ragionamento simile. Con che razza di persona ero stato tutto questo tempo?
L'incazzatura piano piano svanì e fece posto al dolore più disarmante. Avevo forse esagerato?
Per due mesi mi crogiolai nelle mie stesse pene.
Jessi mi mancava da morire, ma ormai stava con un altro più alto e bello di me e io l'avevo anche trattata di merda.
Provai a scriverle, ad andare sotto casa sua, a chiamarla, ma lei non voleva più saperne di me.
Il sangue continuava a sgoragare dalle ferite del mio cuore ed ad innondare la mia anima.
L'amore fa schifo, anzi chi ama è stupido! Fanculo l'amore! Fanculo Jess! Fanculo tutti!
Pensai a diversi modi per allienare il mio dolore, per uscire dal tunnel nero di odio profondo in cui ero entrato. La via più pratica e veloce era farla finita, suicidarsi. Uccidersi per problemi di cuore come nelle migliori tragedie shakespeariane, ma era una cosa stupida da fare in quel momento. Avevo ancora paura della morte a quei tempi.
Potevo mettermi con un'altra, ma chi aveva la forza di uscire e provarci con sconosciute.
Forse avevo bisogno di un viaggio.
Il mio sogno era sempre stato quello di girare il mondo come artista di strada. Suonare la mia chitarra nei vicoli più dispersi del globo.
Potevo trasferirmi per un po' ed intraprendere una nuova avventura.
Ma dove?
Spagna? Il tempo era sicuramente simile a quello italiano, ma il cibo è troppo piccante e io ho problemi digestivi. Germania? No, non ho mai capito un cazzo di tedesco, troppo difficile. Francia? Troppo snob, non fa per me.
Ma si certo! La scelta più ovvia sarebbe stata Londra. Parlavo bene inglese, tutti i miei idoli musicali si erano formati nella capitale britannica e so anche che è pieno di fiche bionde che sono in grado di farmi scordare una bionda che mi ha triturato il cuore.
Okey Londra era la soluzione migliore.
E così feci, prenotai immediatamente il biglietto. Sarei partito in Gennaio con la mia chitarra, i miei sogni, l'odio per l'amore e un cuore pieno di cerotti che aveva bisogno di guarire.
Il mio entusiasmo era alle stelle, ma non ero consapevole che quello sarebbe stato solo l'inizio della mia fine...
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thelastking7 · 7 years
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Primissima cosa: sono lesbica. Quindi al massimo dentro ci va qual cos'altro. seconda cosa: sono al secondo anno di giurisprudenza quindi so quello che dico. Terza cosa: io sono andata alla fonte. E la fonte chi ha pubblicato il testo, con annessa prefazione sei tu.
Leggobdi leggi e di giurisprudenza e poi quando parli fai uscire dalla tua bocca solo merda. Non me ne frega un tubo che tu sia lesbica o meno, però so solo che con il mio post tu e le tue parole non centri un cazzo. Mi stai accusando da 3 ore di una cosa che io non ho mai detto o fatto. Stai invitando tutte le ragazze e ragazzine ad essere favorevoli all'aborto e già per questo dovrebbero prenderti a calci in culo, perché non è sempre giusto abortire, ci sono anche casi in cui la ragazza o il ragazzo non hanno usato le dovute precauzioni e sono andato incontro ad una cosa del genere. Per come parli tu allora anche in questo caso l'aborto sarebbe giusto? no perché inizierebbero a farlo tutti e non se ne fregherebbero delle conseguenze. Abortire non è sempre sbagliato, ma va fatto solo in un caso grave e non quando hai trombato con il tipo del quale eri innamorata senza usare le dovute precauzioni e senza preoccuparti minimamente delle conseguenze.
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becomixdatabase · 5 years
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[L’eros di Epoxy: la chimica dei colori nell’Antica Grecia](https://blog.becomix.me/epoxy-colorazione/ "https://blog.becomix.me/epoxy-colorazione/")
articolo di Francesco Iesu
Il fumetto francese durante la metà degli anni ’60 ha vissuto un momento di fermento. L’onda di trasgressione e sperimentazione grafica di serie quali Barbarella di Jean Claude Foreste Jodelle di Guy Pellaert lo rivoluzionarono nel profondo.
Paul Cuvelier dopo il successo di Corentin voleva abbandonare la moralità che caratterizzava il personaggio, uno dei cardini della rivista Tintin. L’opportunità si concretizzò durante un aperitivo a base di Rhum e ananas con il suo vicino di casa Jean Van Hamme (come raccontato nella prefazione al volume italiano). Tra le numerose confidenze quali le aspirazioni pittoriche di Cuvelier e il vedere il fumetto solo come una fonte di reddito, si parlò della possibilità di fare un’opera dove la carica erotica e trasgressiva fossero il centro del racconto. Van Hamme, all’epoca impiegato per la USS chemicals, colse la palla al balzo per lavorare con un suo idolo d’infanzia e entrare in un mondo che lo affascinava. L’influenza del mondo della chimica è manifesta a partire dalla scelta di utilizzare nomi di composti chimici per i personaggi creati ex-novo a partire da Epoxy, la protagonista di questo viaggio nella mitologia ellenica.
Epoxy è una ragazza che durante una gita in barca viene investita e catturata dallo yacht di Koltar, uno spregevole individuo rintanato in una sfera che ha passato la sua vita alla ricerca della comprensione del linguaggio delle sensazioni (un modo come un altro per dire che ha passato la sua vita a cercare schiave sessuali). La maledizione di un vecchio prigioniero (probabilmente il proprietario della barca ) che tira in ballo la grandezza degli dei a cui Koltar non si piegava porta al naufragio. Epoxy si risveglia nell’antica Grecia, in balia di eventi più grandi lei.
Uscita per la prima volta nel maggio del 1968 per Eric Losfeld con una colorazione in linea alle scelte cromatiche che si stava imponendo nel periodo, nel corso degli anni ha subito diverse ristampe con variazioni della colorazione. La versione originale vede una bicromia con variazioni del colore aggiuntivo a seconda dell’episodio in cui si trova la protagonista.
La ristampa Horus del 1977 e la ristampa Marcus del 1981 abbandonano la bicromia per il bianco e nero, appiattendo così il disegno. Tra le due edizioni si nota, come la resa di stampa abbia in parte ingrossato il tratto di Cuvelier. In entrambi i casi, la linea chiara di Cuvelier spogliata della bicromia non permette la distinzione dei diversi livelli degli oggetti e il centro dell’azione, mancando dei chiaro scuri e dei tratteggi. La casa editrice olandese Blue Circle nel 1985 ritorna alla bicromia ma scegliendo una singola tonalità caffè.
Confronto tra le diverse versioni in quest’ordine: Losfeld,Horus,Marcus,Blue Circle,Lombard La riproposta del 1997 da parte dell’editore Lefrancq con i colori di François Craenhals è un buco nell’acqua. Una paletta di colori troppo sgargianti e un gusto nella colorazione dozzinale peggiorano la resa dei disegni di Cuvelier.
a sinistra la versione Lefrancq mentre a destra la Lombard L’editore Lombard per la sua edizione del 2003 considera la bontà di una nuova colorazione. Infatti all’origine Epoxy era stata pensata a colori. Cuvelier aveva inviato per la proposta a Losfeld due tavole acquerellate. Una di queste è stata pubblicata nel libro Corentin et les chemins du merveilleux di Philippe Goddin pubblicato nell’84 dallo stesso Lombard.
Questa è diventata la colorazione di riferimento per le ristampe estere successive. Questo ci ha fatto perdere l’esplosività e l’elettricità della bicromia portando ad un risultato che rende il disegno a quando piatto o portando l’occhio a concentrarsi su altri particolari rispetto alla versione originale.
La scelta di cambiare il colore d’accompagnamento ai sempre presenti bianco e nero serviva a spezzare, fare da virgola e pausa per respirare, dato che la narrazione non era composta da un unicum, bensì da episodi scollegati fra loro. Con la colorazione attuale e la mancanza di pagine divisorie tra i capitoli si evidenziano ancora di più le problematiche di ritmo forsennato che la storia presenta. Soprattutto, si rafforza la sensazione che manchi sempre un raccordo tra alcune scene che in origine erano separate e pensate esclusivamente per la lettura in rivista.
Non è un caso se a fine lettura ci si trovi ancora di più sballottati dalle vicende del racconto come la protagonista.
In Italia Epoxy arriva nelle edicole dopo cinquantuno anni in un’edizione economica in allegato alla Gazzetta dello Sport nella collana Avventura. La versione stampata non è quella originale ma la versione ricolorata nel 2003 per l’editore Lombard senza la presenza delle pagine che separato i capitoli. Scelta dovuta principalmente per la reperibilità del materiale di stampa e per l’appetibilità che la colorazione standard ha rispetto alla bicromia agli occhi del lettore medio e casuale che segue di norma le pubblicazioni in allegato ai quotidiani. Infatti sebbene la stessa Lombard, all’epoca, ha parlato di una ristampa di lusso in bicromia in uscita nel 2009, ai fatti è stata pubblicata un’edizione in bianco e nero.
Leggi altri articoli di Francesco Iesu Scheda database
L'originale è stato pubblicato su [https://blog.becomix.me/epoxy-colorazione/](https://blog.becomix.me/epoxy-colorazione/ "Permalink")
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spazioliberoblog · 6 years
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di GIANCARLO LUPO ♦
Nuova Zelanda, Isola del Nord, Mordor, prima parte
A mo’ di prefazione:
Non sono mai stato un appassionato di Tolkien e del Signore degli Anelli, neppure ho mai provato a leggere la storia dei nove compagni d’arme che vogliono distruggere il più potente Anello del Potere, arma che darebbe la forza, al suo malvagio creatore Sauron, di dominare tutta la Terra di Mezzo.
Forse sono state motivazioni più o meno ideologiche legate al presunto nazifascismo dell’autore che mi hanno fatto desistere dalla lettura della voluminosa opera. Tra l’altro, intimorito dalla lunga durata, ho mosso resistenze non solo alla lettura, ma anche alla visione della trasposizione cinematografica di Peter Jackson, regista neozelandese. Dopo essermi arreso alle mode e essermi sorbito quasi 10 ore di saga cinematografica, ho trovato alquanto monotona l’esile trama della trilogia filmica.
In fin dei conti tutta la storia si riassume così: un gruppo di scout, più o meno colorito, chiamato, senza troppa fantasia, “la Compagnia dell’Anello”, marcia per arrivare in cima a un vulcano e buttare nella sua cavità il succitato anello.
Non c’è la tragedia edipica di guerre stellari, non c’è nessuno zigzagare kitch, tra pianeti e galassie lontane lontane, non c’è neppure tanta epica, solo folletti, qualche nano, orchi e maghi abbastanza longevi.
L’inizio del viaggio
Detto questo, trovandomi a oltre 18 mila km e 30 ore di volo da casa, in nuova Zelanda, sono rimasto incuriosito da uno dei trekking più famosi del mondo (in Nuova Zelanda ci sono 9 “great walks”, cinque nell’isola nel sud e quattro nell’isola del nord): la scalata al Tongariro, ovvero il monte Doom della terra di Mordor di tolkieniana memoria, una terra oscura circondata da nere montagne, coperta da nuvole e abitata dai servi di Sauron. Tongariro, per l’appunto nell’isola del nord, è dove Jackson ha girato parte delle scene dei suoi film.
Per arrivare a Taupo, tra Auckland e Wellington, percorro strade più moderne di quelle incontrate nell’isola del sud: a quattro corsie e con una buona illuminazione. I paesaggi visibili dal finestrino del bus sono molto simili a quelli del sud: una infinità di pecore e vacche bianche e nere, oppure bianche a chiazze nere, su distese di verde prato.
  Verso sera arrivo a Hobbiton, uno dei set cinematografici del Signore degli Anelli. In ogni piccolo o grande paese della Nuova Zelanda, davanti alla stazione dei bus, c’è un I-site, un punto informazioni. A Hobbiton l’ I-site è a forma di casa di nano. Attorno c’è il centro storico, che in Nuova Zelanda di solito è un centro commerciale.
Dopo una trentina di minuti di attesa ripartiamo. Ancora paesaggi monotoni e tranquilli: mandrie di vacche nere vagano insieme a pecore bianche per i pascoli di erba verdissima, accompagnate dal suono dei campanacci. Vedo qualche cervo ogni tanto. Intanto nuvole grigie ammassate incombono, a coprire il cielo. Le strade diventano di nuovo a due corsie, ai lati si affastellano sparute case e villette tutte uguali. In lontananza si vedono monti coperti di neve, sembrano altissimi, in realtà 1900 o 2000 metri, non sono cifre esagerate. La cima più alta della Nuova Zelanda è monte Cook nell’isola del sud a 3724 metri. Passiamo su ponti sopra fiumi e la strada incrocia ferrovie, paesaggi innevati, poi di nuovo verdi.
Arriviamo a Taupo, cittadina in riva al lago. Le attività sono tantissime: paracadutismo, zorb (ovvero rotolarsi con una palla gigante da una collina), rafting, kayak e skydiving.
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L’ostello è in un vialetto, una casa grande, di legno, con enormi vetrate puritane che danno sulla cucina. La solita scritta kia ora (“benvenuto” in lingua maori) ovunque. Il gestore mi mostra una delle camerate dell’ostello e la Spa all’aperto. Ci sono quattro posti letto, ma non è stagione turistica, quindi non dividerò la camerata con nessuno.
Esco fuori per vedere le Huka Falls, una delle grandi attrazioni della Nuova Zelanda: cascate di schiuma. Il sole splende alto in cielo. Imbocco Spa road e cammino un’ora fino a dove ci sono i lanci di bungee jumping. Giovani e meno giovani si lanciano spericolati, appesi a una semplice corda elastica bene imbragata al dorso, fino a lambire con le mani, circa una quarantina di metri in basso, il fiume Waikato. Credo che la sorgente del Waikato sia a Rotorua. Ogni volta che vedo i tuffi carpiati di questi impavidi mi viene voglia di cambiare strada.
Passeggio lungo le rive delle acque terse del fiume, osservando gabbiani, anatre e piccioni.
A un certo punto vedo le acque termali scendere giù dalle rocce, altro che Spa all’ostello. Mi spoglio (fortunatamente avevo indossato il costume, prevedendo il ritorno veloce all’ostello) e mi infilo, tentennando tra le rocce, per affidarmi alla corrente impetuosa del Waikato. L’acqua è meravigliosa, calda e fumosa. Appena mi allontano un poco dalla sorgente termale sento lambirmi il freddo del fiume.
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  Torno verso l’ostello a sera inoltrata. Nella cucina comune, mentre mi appresto a mangiare un kiwi, una inserviente sdentata, di nome Kris, chiede perché lo stia sbucciando, in Nuova Zelanda a quanto pare non si usa… e loro sanno bene come mangiare un kiwi visto che sono kiwis.
“Kiwi” è sia il nome del frutto, sia il nome dell’uccello incapace di volare, buffo, stupido e inutile, in via di estinzione. I 200 mila soldati neozelandesi in forza durante la prima e la seconda guerra mondiale vennero chiamati kiwis per analogia.
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Seguo il consiglio della ragazza e in effetti trovo più buono il frutto con la buccia. Lei sorride, sfoderando i quattro denti che ha, appena lo dico.
Sulle pareti ci sono stampe di Charles Frederick Goldie, un pittore colonialista vissuto a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, che dipinse in modo iper realistico volti e tatuaggi di una razza, quella maori, a suo dire, inferiore: le donne dei ritratti hanno tutte tatuaggi nel mento, detti ta moko, che attestano il fatto di essere donne libere; gli uomini dei ritratti invece hanno piume in testa se sono capi tribù. I ta moko sono fatti con l’uhi, un particolare scalpello ricavato dalle ossa di albatros, e sono ancora oggi un segno di identità culturale. Al tempo dei ritratti Goldie aveva lavorato prevalentemente su vecchi maori perché pensava che la razza inferiore si stesse estinguendo.
Kris si lamenta del fatto che i maori abbiano molte agevolazioni da parte dello stato, nonostante siano molto pigri. Esiste anche un partito Maori, il Mana Motuhake. Gli indigeni non sono attivi solo a livello politico, ma anche culturale ed accademico: pubblicano varie riviste, da “Mana” alla “Maori Law Review”, e la lingua viene insegnata in varie università e a scuola, come noi impariamo il latino. Lei parla poco la lingua dei maori. Sa solo che kaipo significa fantastico e ay significa sì.
Non appena sarà possibile vuole andare in Aussie (Australia) a tagliar lana alle pecore per far soldi. Le paghe in Australia sono ottime e lei non deve competere coi maori che hanno i posti migliori garantiti dallo stato, come quelli di informatori turistici agli I-site. I toni del suo discorso sono abbastanza razzisti. Dice che è difficile ci possano essere storie d’amore tra bianchi e maori.
La conversazione con Kris si sta esaurendo, la saluto e leggo qualcosa sulla storia dei maori. Secondo una leggenda, Hawaiki era un’isola dell’oceano Pacifico da cui sono partite tante waca, canoe di 35 metri che le popolazioni usavano per andare in guerra. Da Hawaiki gli abitanti di quei luoghi avrebbero creato colonie ovunque, per esempio Samoa, le isole Fiji, le Haway, Rapa Nui e la Nuova Zelanda.
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L’eroe leggendario della nuova Zelanda è Maui, un trickster (l’imbroglione dei miti), a cui viene attribuito il merito di aver catturato un pesce gigante usando un amo preso dalla bocca di sua nonna; il pesce gigante sarebbe diventato l’isola del nord della Nuova Zelanda, conosciuta come Te Ika-a-Māui. In alcune tradizioni, la waca (canoa) di Maui sarebbe diventata l’Isola del Sud, conosciuta come Te Waka a Māui. L’ultimo, fatale scherzo di Maui era ai danni della dea Hine-nui-te-pō; nel tentativo di rendere immortale l’umanità trasformandosi in un verme, Maui entrò nella vagina della dea e, mentre usciva dalla sua bocca, fu schiacciato con i denti di ossidiana che erano nella vagina.
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Altri miti maori presentano leggende sorprendentemente simili ai miti egizi (con Geb e Nut) e greci (con Urano e Gea), riguardo la creazione del mondo: il Cielo (entità maschile, Rangi) e la Terra (entità femminile, Papa) erano strettamente uniti (a ricordare tale unione rimane la pioggia). I figli, sebbene fossero divenuti molto numerosi, non conoscevano la differenza tra luce e tenebre poiché erano rimasti nascosti nel seno dei propri genitori, che decisero di separare. Tane-mahuta, dio degli alberi, facendo puntello fra di loro, sollevò il Cielo sopra la Terra. Così uscirono i dodici dei della natura di grado più elevato, noti complessivamente come Atua: Tangaroa, dominatore del mare e dei pesci e capostipite dei capi; Tane-mahuta, il signore dei boschi, degli alberi e degli insetti; Tu, colui che è instabile, signore della guerra; Rongo, il dio della pace e delle piante coltivate; Haumia, signore delle piante selvatiche; Tawhiri, divinità del vento e delle forze della natura.
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Caratteristico della cultura maori è il rispetto nei confronti di tutto ciò che è considerato tabù (in maori tapu) ovvero dotato di forza misteriosa e sovrumana.
10 luglio 2013
GIANCARLO LUPO
  SULLE ORME DI SAM PECK – NEW ZEALAND (PARTE – 1) di GIANCARLO LUPO ♦ Nuova Zelanda, Isola del Nord, Mordor, prima parte A mo’ di prefazione: …
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