Tumgik
#piedi viscidi
greenlim · 11 months
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I got bored at work and decided to do some sketches of a possible redesign of Bob. I eventually decided for a "smooth" design opposed to when he lits up to cast abilities. He also turns blue- greenish when he casts healing spells because why not
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liliaesse · 2 months
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e poi vorrei
...
Essere diversa. Essere un vetro,completamente trasparente e senza aloni, e non uno sporco e pesante macigno scomodamente pesante che contiene chissà quali oggetti vecchi, lerci e marci. Essere una farfalla,leggera,bella,senza paura. Quell'animale che un sacco di persone incidono sulla loro pelle. Quel tatuaggio sdoganato in mille corpi perché è una figura delicata,ammirevole e particolare. No,non vorrei proprio essere uno stagno. Sporco, pieno di esseri viscidi dove nessuno va ad immergere i piedi per rinfrescarsi. Dove,pur essendoci le ninfee, si notano solo gli steli di erbacce piene di uova di qualche lurido anfibio abitante della mia stessa anima. Non è facile accettarsi dopo essersi resi conto di avere delle schegge di traumi trafitti sulla schiena, delusioni marchiate sul cuore e dover comunque andare avanti facendo forza su delle ginocchia troppo stanche e sbucciate. Senza avere un muro dove poterti appoggiare,una spalla su cui piangere, un abbraccio dover poter crollare e uno spazio dove poter urlare e vomitare tutti i tuoi mali interni.
..mi è difficile riuscire a stare al mondo.
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ofgio · 2 years
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AMORE PER VOI
L'eterno insoddisfatto, incapace di sapersi regolare. Servo dell'inerzia creativa.
trovo diamanti e non capisco: di quanto talento c'è bisogno per esprimersi?
e poi non sembra essercene affatto la necessità.
Certi grugni inguaiati, incattiviti come animali dentro la persona.
Ignoranti, voi feroci che palpeggiate il telefono come un genitale aspettando il momento in cui un po' vi emozionerete: esprimetevi! ché ancora non ne ho abbastanza dei vostri umori che sanno di pigiama e pasta di biscotti tra i denti. Quanto siete fisici, impantanati nella materia come grossi fagioli di carne senza spirito.
fanculo le vostre dimensioni languide, viscidi giovani imprenditori che immortalate solo i momenti in cui non provate niente per sembrare ricchi agli occhi degli annoiati.
/O' laureatə, poverə animə persə nel percorsino tra le istituzioni. Siccome avete imparato qualcosa, ditemi! vi prego, parlate di quello che vi appassiona e che avete studiato, perché non me ne faccio un cazzo dei vostri disperati tentativi di sembrare ganzə e mi fa cacare merda quella grottesca parata che organizzate per dar sfoggio della vostra impeccabile educazione civica sui social. Esprimersi come dei distributori automatici è diventato il pass-partout per entrare in questi circoli virtuali di personə impauritə che si autoattribuiscono la targhetta d'essere quellə giustə e che si autoproclamano come quellə dotatə dell'Intelligenza necessaria per farsi ascoltare dalle folle, senza però ammettere a se stessə che in realtà stanno solo replicando atteggiamenti e inflessioni apprese da altrə per semplice imitazione, proprio come farebbero le scimmie .
Che non sarebbe neanche questo il male: osservare e riprodurre va benissimo. Il male è la superbugia ingannevole che vi fa credere liberə un po' come Kerouac, bellə e intensə come la forma che date a chi ritenete possedere un'indole artistica, direttə e un po' velenosettə come chi ha sempre la risposta pronta e non si fa mettere i piedi in testa da nessunə. In qualche serata arrivate addirittura a credere di sentirvi un po' come i folli geni, i maledetti, i mistici. Ma razza di barboncinə acconciatə dalla mediocre cultura borghese europea, vi rendete conto della preoccupante dissociazione con cui state soffocando la vostra umanitá? Talmente spaventatə dal non trovare nulla nell'Amore che adesso avete finito per vederne solo l'assenza, il suo buio spaventoso e nel vasto perdonare scorgete solamente una patetica sconfitta che trema alle gambe fin nella voce e Nessuna catarsi è il motto del nuovo giorno che arriva grigio e deve finire vuoto perché anche oggi eviteremo di comunicare a noi stessə che non abbiamo controllo su niente, che viaggiamo a centosettemila chilometri all'ora su una pallina di sterco fertile nei recessi dell'Universo infinito e che non sappiamo perché ma si muove un organo in noi capace di pompare un liquido presente nel nostro corpo sin dalla nascita attraverso intricati canali di membrana semirigida e non sappiamo come riusciamo a generare il sangue e non sappiamo perché questi atomi e molecole continuano a comportarsi in un certo modo che preserva la nostra vita senza che assolutamente niente di ciò che fanno sia in nostro controllo. Pensiamo allo stomaco come una sacca da riempire quando brontola senza mai soffermarci ed essergli gratə per permetterci di nutrirci di tutti gli oggetti che "scegliamo" rivendicando continuamente la nostra ridicola libertà di sapere comunque spostare alcuni arti. Non si può scegliere di digerire più o meno rapidamente oppure stabilire che "Mh no, stavolta dal pranzo preferisco assimilare soprattutto le proteine, di carboidrati ne trattengo pochi. Giusto due o tre". Non si può scegliere di fare passare l'aria che respiriamo solo da determinati alveoli che riteniamo essere i migliori per noi nella data attività x e y, accade e basta punto. Non sappiamo niente e constatare che il nostro insignificante quanto gradevole passaggio su questo pianeta sfiorato dai venti cosmici sia soltanto un modo per godere del nostro atto di esistere, dovrebbe aiutare a comprendere il potenziale rischio di scomparire nell'illusione di essersi sentitə qualcosa di speciale, di diverso dal resto. Ma invece che parlare di come la vanagloria -questo affanno nel doversi dimostrare di essere abbastanza- stia torturando le nostre vite, preferiamo costruire dinamiche mentali e regoline ossessive per darsi il meno fastidio possibile l'un con laltrə e rispettando l'ego dell'umanità tutta nel nome del vacuo morire schizziamoci addosso le nostre invidie di nascosto credendoci gran furbə al passo coi tempi e poi spruzziamoci i nostri patetici traguardi negli occhi fino a farli lacrimare. Sguardi esiliati nella disperazione del non pianto e del bruciore. Persi nelle fiamme di un orgoglio che lentamente acceca e distrugge l'umano essere.
Dopodiché neanche si alienarono in un universo di sofferenza e terrore, bensì rinchiusə in legnose ottusità del cervello rettile continuarono a fingersi sovranə di questo loro nulla esperienziale.
ma adesso torniamo pure a ridere
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shambelle97 · 2 years
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Thor era intento ad osservare le onde del mare, infrangendosi sulla scogliera della costa norvegese.
Passarono cinque e dolorosi anni: la dipartita di Loki, fu un fardello troppo pesante da portarsi a carico.
Nonostante fosse il Signore dei Fulmini e un valoroso guerriero dell'ormai defunta Asgard...il dolore, la perdita, il rammarico e la vendetta pervasero ogni angolo del suo cuore, pronto a consumarne l'animo.
Non aveva mai dimenticato quel terribile giorno neppure un istante...di recente aveva sconfitto il Macellatore Degli Dei, ma c'era un tassello mancante a cui non smetteva mai di rivolgere i propri pensieri.
Fu proprio quella mattina che accadde qualcosa di assolutamente straordinario...il sole splendeva, portando con sé un nuovo giorno.
I suoi occhi fissarono il cielo di un azzurro così intenso da lasciarlo colmo di ammirazione, a causa della sua bellezza. 
Un rumore di passi felpati attraversarono l'erba: la misteriosa figura si avvicinò a costui, poggiandogli una mano sopra la spalla.
Il Tonante sgranò gli occhi per la sorpresa...dinnanzi a lui si trovava Loki in carne ed ossa.
 Avrebbe voluto abbracciarlo, ma non riusciva a credere che fosse vivo dopo tutto quel tempo a disperarsi per la sua scomparsa. 
Lo aveva ingannato ancora una volta, però si celava una buona ragione per aver compiuto una mossa simile.
Come spiegargli che era rimasto a lungo in esilio su un pianeta remoto dell'Universo? Come spiegargli che ovunque andasse recava dolore, sofferenza e morte?
Togliersi dall'equazione fu una decisone sofferta per il famigerato Dio dell'Inganno...doveva salvarlo dalle grinfie del Titano Folle.
L'altro lo squadrò da capo a piedi: era esattamente come lo ricordava...gli abiti neri, misti ad un verde color bosco e i lunghi capelli corvini scompigliati.
 Non indossava più il suo iconico elmo d'oro a fasciargli il capo, ma solo l'aderente tuta sakaariana ormai logora e alcune cicatrici sul volto, tra cui il taglio sul sopracciglio.
Thor provò a lanciargli una lattina per verificare se fosse solo un'illusione provocata dal subconscio, ma non fu così...il minore l'afferrò al volo senza problemi.
Le iridi dell'Ingannatore erano spente: il guizzo brillante e sagace non esisteva più. 
il Dio non poté far a meno di notarlo: entrambi avevano condotto una vita triste, basata sulla solitudine.
Inoltre, Thor era stato in giro con i Guardiani Della Galassia a fronteggiare viscidi criminali di mezza tacca, prima di compiere il suo imminente ritorno a Midgard.
Dopo minuti interminabili a fissarsi, Loki proferì parola per primo.
"Comprendo perfettamente cosa stai provando, fratello...ma se sono giunto fin qui è per un'unica ragione."
Thor scosse la testa in un cenno di disappunto: aveva patito un atroce dolore...una terribile tribolazione, lasciandosi andare alle più disparate bassezze.
"Come osi palesarti, dopo ciò che ho passato per tutto questo tempo? Come osi ancora rivolgermi la parola?"
Chiese il Dio del Tuono, aggredendolo in maniera feroce...avrebbe voluto scagliargli Stormbreaker con tutta la furia che possedeva in corpo.
Gli occhi del maggiore presero ad illuminarsi: dai palmi delle proprie mani, fuoriuscirono varie saette...una lacrima gli arenò sul viso.
 Lingua D'Argento ebbe la stessa reazione.
"Ti prego, fermati! Posso spiegarti."
Gli supplicò, attivando un campo di forza dai riflessi verdastri. 
Il secondo non demorse...anzi continuò imperterrito, provando ad acciuffarlo.
Loki del resto era agile e scaltro...affrontarlo si rivelava sempre un'impresa ardua.
"Ora basta!!!"
Gridò il Fabbro di Menzogne, ormai stanco della faccenda...scatenò il pieno potere del Seiðr, colpendo il fratellastro. 
Egli cadde al suolo: ma per sua fortuna non perse i sensi.
Gli corse incontro preoccupato, senza indugiare troppo...si inginocchiò verso di lui, riservandogli un abbraccio. 
Thor sfogò le proprie lacrime, ricambiando il gesto.
"Credo sia meglio rientrare...abbiamo molto di cui discutere."
Precisò il primogenito di Odino e Frigga: Loki nel frattempo gli tese la mano per aiutarlo a rialzarsi.
Ma prima di giungere verso casa, Loki pronunciò una frase...una promessa lontana e mantenuta con onore, nonostante le diverse vicissitudini.
 Loki rivolse gli occhi al cielo, tornando infine a guardare la vasta distesa d'acqua che si ergeva dinnanzi ai due Asgardiani.
"Avevo ragione, fratello...il sole avrebbe brillato nuovamente su di noi."
Rispose con una nota orgogliosa nella voce.
Questa è la storia di come due divinità alla deriva riuscirono finalmente a ricongiungersi, compiendo una scelta di eterna fratellanza.
 Nessun destino avrebbe più spezzato il loro legame.    
                                                𝕱𝖎𝖓𝖊
One Shot:
~ The Sun Will Shine On Us Again ~
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quegliocchiblucielo · 5 months
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Mi chiamo Giulia, ho 22 anni e dovrei laurearmi a breve.
Sin da quando ero ancora bambina, la lettura, e in particolar modo la scrittura, è il mio rifugio preferito quando qualcosa mi tormenta, perché mi aiuta a tradurre in parole lo scarabocchio confuso che ho in testa in quel preciso momento. Non sono solita rendere pubblico quello che penso e scrivo, ma stavolta è diverso. Rileggete la prima frase.
Mi chiamo Giulia, ho 22 anni e dovrei laurearmi a breve.
Quello che è successo nei giorni scorsi, è capitato a una ragazza che, alla fine, avrei potuto essere tranquillamente io, che si chiamava Giulia, che aveva 22 anni e che si sarebbe dovuta laureare a breve. Che era donna. Questa è una cosa che mi inquieta, che innesca un brivido di orrore che si estende fino ai piedi.
La fuga di quello che le faceva i biscotti e quindi non le avrebbe mai fatto del male, è stata fermata a solo un’ora di macchina da dove abito io, in Germania.
Giulia avrei potuto essere io, ma a differenza sua, io sono fortunata, perché la vita non ha posto, almeno per ora, sulla mia strada un Filippo Turetta, un Salvatore Parolisi, un Antonio Logli o chiunque altro si sia tacciato dell’orrore che, troppo spesso, tarpa le ali a tante donne.
Oggi mi è capitato di vedere un post che ricordava tutti gli uomini uccisi per mano di donne. Il post recitava: “L’omicidio è omicidio, la violenza è violenza, riguarda tutti, non esiste distinzione tra uomo e donna”. Che a me non sembra tanto diverso dai commenti deresponsabilizzanti che ho letto sotto i post di Giulia. “Eh ma Filippo Turetta non mi rappresenta”, “Eh ma non tutti gli uomini sono così”, “Ci sono poche mele marce”. Tutte frasi che riflettono una scarsa capacità di introspezione, di interrogarsi a fondo, di ammettere l’esistenza di una piaga sociale e culturale che assume forme diverse, ma dallo stesso nome: il patriarcato.
Non tutti gli uomini, vero, ma tutte le donne.
Tutte le donne che sul contratto di lavoro vedono una paga inferiore a quella del collega maschio. Tutte le donne che sul treno cercano di non stare da sole nel vagone. Tutte le donne che stanno attente a come vestirsi perché “non possono pretendere che certe cose non succedano se si vestono provocanti”. Tutte le donne che si sentono fischiare per strada, manco fossero animali da avvicinare. Tutte le donne che per strada, da sole, velocizzano il passo per arrivare più rapidamente dietro al portone e sentirsi finalmente al sicuro.
E infine, la forma più grave, tutte le donne stuprate, picchiate o addirittura uccise in tutti questi anni per mano del patriarcato. Roberta Ragusa, Sofia Castelli, Chiara Poggi, Melania Rea, Giulia Tramontano, Elisa Claps e adesso Giulia. E finisco qua solo perché non ci starei a livello di spazio.
Il patriarcato è tutto questo, parte dal semplice fischio in strada e può sfociare nelle coltellate che uccidono.
Il patriarcato è anche quando hanno detto a voi maschi di non piangere, perché gli uomini non piangono mai e non si mostrano mai vulnerabili agli occhi degli altri. Oppure, quando vi hanno obbligato ad andare ad allenamento di calcio piuttosto che a lezione di danza classica perché quella “è roba da femminucce”.
E ora, voi che ancora non volete ammettere l’evidenza, fatevi queste domande. Quante volte avete sentito una donna che urla commenti viscidi, sudici diretti a voi per strada? Quante volte vi sentite impauriti a camminare da soli per strada per paura che una donna vi insegua o addirittura vi stupri? Quante volte state attenti a come vi vestite per paura che una donna vi molesti? Avete mai sentito un racconto di qualche nonna che vi raccontava di come sottomettesse il marito, di come lei si riposava sulla poltrona mentre il marito lavava i piatti, faceva i letti, stendeva i panni, faceva da mangiare? E si doveva anche impegnare anche a mettere qualcosa di buono in tavola, altrimenti la moglie lo avrebbe preso a botte.
E se anche avete sentito queste storie, se anche vi è capitato di sentirvi in pericolo per colpa di una donna, chiedetevi: la radice di tutto ciò è una visione sociale distorta in cui la donna prevarica e assoggetta l’uomo, oppure si tratta piuttosto di casi isolati, che nulla hanno a che fare con una concezione ideologica secolare che considera le donne uno strumento a favore dell’uomo?
Interrogatevi, riflettete, fatevelo ogni tanto un esame di coscienza, anche tutti voi che non avete mai ucciso nessuno, che non siete rappresentati da Filippo Turetta, che non siete una di quelle mele marce. Perché queste maledette mele marce, solo nel 2023 hanno già tarpato le ali a 105 vittime.
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Prima lettera per papà
Eppure mi sta bene così, lasciar pezzi di stoffa d'abiti leggeri impigliati qua e là lungo il cammino. Certe volte mi perdo e cerco riparo. Seguita da ombre e viscidi viandanti. Scappavo via, a più non posso. Le gambe svelte avanzavano esperte sopra il terreno boschivo, e lunghe mani cercavano di afferrarmi in mezzo a quel buio fitto. Era crudele. Un labirinto.
Mentre scendevo le scale scivolavo con le piccole scarpette rosa tenue e disperatamente tentavo d'agrapparmi a qualcosa per rimettermi in piedi, ma viscide mani toccavano i miei capelli finendo per sfilarmi i fiocchetti che li fissavano alle punte.
Correvo per quel corridoio angusto che portava dalla mia camera al bagno cercando di capire dove trovare un'uscita, una via di scampo dai due aguzzini. Svoltavo a destra attraversando il bagno, a destra di nuovo ed arrivavo in cucina.
Sai, ricordo ancora, le mani tremanti, il terrore di fare il minimo rumore, il minimo movimento sbagliato. In quel momento sembrava una buona idea, sai? Prendere la sedia ed avvicinarla al bancone della cucina su cui si trovavano i coltelli, ma vedi, padre, avresti dovuto aiutarmi.
Sedevi a tavola fumando una delle tue sigarette con il bicchiere di vino davanti e la bottiglia ormai vuota. Tenevi le gambe larghe, come ad importi, come ad aver deciso. Non è così?
Prendevi il mano il bicchiere nel mentre la disperazione si imposessava di me. L'abito bianco ormai era sporco, mi dispiaceva. Era quello che mi aveva cucito la mamma prima di partire e non decidersi mai più di ritornare.
Mi chiedo ancora perché non hai chiamato il nome degli altri due prima che prendessi in mano il coltello, non me l'hai mai spiegato. A dire il vero non mi hai mai spiegato nulla, né della mamma, né tantomeno delle sue lacrime che continuavano a prosciugarla.
Sai, non mangiava più, ormai da un po'. Ricordi quando mi dicevi che ero uguale a lei? Devo ammetterlo, un po' avevi ragione.
Intanto, padre, torniamo a noi. Parliamo di una storia che non è mai esistita. Così l'hai catalogata nel verbale che hai steso il giorno dopo, nel pomeriggio non è così?
Dicevo, mi avevi lasciato il tempo di prendere il coltello ed io ricordo: il mozzicone che buttasti in terra guardandomi negli occhi per poi esordiente con un sono "è qui".
Tu non lo sai cosa succese, padre.
Mentre urlavo implorando il tuo aiuto, un ghigno di soddisfazione si dipinse sul tuo volto ed il sorriso languido che mi lanciasti tolsero il volume alle mie urla.
Ormai sussurravo. Pregavo Dio in silenzio, piangendo e singhiozzando tremante dinanzi alla realtà.
Mi portarono nella casa accanto, padre, ci separava un muro sottile di cemento, fragile da poterlo rompere accidentalmente don una gomitata. Ricordi?
Mi chiedo, padre, le mie urla ti hanno raggiunto? Sentivi il mio corpo dimenarsi mentre i miei abiti venivano strappati? Sentivi i loro gemiti? Le risate e lo scambio di idee sul da farsi ogni volta che un desiderio veniva soddisfatto? Dimmi, dolce mio papà, sentivi mentre i loro pugni spezzare le mie costole? Mentre legavano le mie mani alla testiera del letto, sentivi cadere in terra il coltello da cucina? Oh, padre, caro mio padre, sentivi la mia voce flebile che si arrendeva? Sentivi le mie lacrime cadere in terra infrangendosi sul pavimento come onde alte sugli scogli?
Mi chiedo spesso se sentivi lo sfrigolio dei fiammiferi sulla mia pelle? Le mie urla soffocate dalla cintura che mi bloccarono tra i denti e la faccia premuta contro il cuscino. In qualche modo respiravo, padre, non riuscivo a smettere di farlo, non riuscivo a morire, mi dovrai scusare.
Devo sapere, padre, dopotutto, perché pur guardandomi dalla finestra, nel mentre divoravano la mia care, nel mentre tiravano le mie trecce ed i miei occhi da bambina diventavano più cupi e sempre più vacui, perchè nel mentre le mie braccia cedettero inerme sul letto sfatto e le mie gambe cadevano esanime, che cosa facevi padre in quel momento con le mani basse infilate nei pantaloni ed il respiro corto? Perché, tu, padre, non aiutasti me? Perché?
Mi chiedo ancora, perché così tanti perché da non finire più? Perché così tante poche risposte? Perché tutti questi silenzi? Chiediti perché, padre. Fallo al posto mio, io non riesco più.
Oh, padre, aspettami ancora, aspettami così, abbiamo ancora fin troppe cose da dirci, fin troppi dubbi da colmare, fin troppi vasi di pandora da scoperchiare.
Perciò aspettami, nelle notti più pesanti, io, tornerò ancora a parlarti.
Per ora ti saluto, ti mando il mio dolore ed una lacrima perduta.
Con tutto il mio affetto,
la tua dolce Charlotte.
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rk-tmblr · 1 year
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“February 3rd” -Geto Suguru
Era ritornato nella camera del dormitorio esausto. La missione che Yaga-sensei gli aveva affidato non era affatto stata di un certo livello, ma si era presentata comunque piuttosto complessa: troppe, erano state decisamente troppe, uno stormo di maledizioni di cui pareva impossibile trovarne l'origine per poter dare loro una fine. E così si era ritrovato con le spalle pesanti, distrutte dalla fatica, le gambe addolorate, stanche dei kilometri fatti a piedi, la testa vittima di una terribile emicrania ed il cuore stretto dalla morsa di un'angoscia non sua. Per non parlare del terribile gusto della saliva in bocca che costantemente gli dava il voltastomaco, facendogli sentire l'esofago bruciare per i succhi gastrici. Una dopo l'altra, aveva perso il conto di quante maledizioni era stato costretto ad ingerire. Stretti gli occhi e tappato il naso, aveva spalancato le fauci fino a quando non n'erano rimaste più. Ora addosso aveva tutte quelle sensazioni orripilanti e nemmeno l'acqua calda della doccia riuscì a ripulirlo da quella melma di malessere. Era stanco, ma sapeva bene che non avrebbe trovato pace nell'addormentarsi sul letto e questo lo infastidiva ancora di più. Dalla tasca della divisa blu-notte, che aveva ripiegato con cura e poggiato sulla sedia affianco alla scrivania, tirò fuori il pacchetto di sigarette assieme all'accendino. Sbuffò in una leggera risata alla vista di quel piccolo arnese rosa chic: l'aveva preso in prestito da Shoko, e in realtà anche le sigarette erano sue. Gli ritornarono in mente le lamentele e gli insulti che la mora aveva borbottato arrabbiata dopo che le aveva sottratto quella malsana dose di nicotina. Malsana. Era per questo che non voleva che ne avesse il vizio e lei prontamente gli rinfacciava la sua ipocrisia. Ma non riusciva a confessarle il vero motivo per il quale ne faceva uso. Non era ipocrita, avrebbe tanto voluto farne a meno... ma era l'unico modo per rimuovere dalla lingua quel gusto di vomito che gli chiudeva lo stomaco, che lo privava del sonno, che lo divorava dall'interno ogni giorno, a fine missione. Poggiò la sigaretta fra le labbra e l'accese. Inspirò a pieni polmoni e poi con mani tremanti la allontanò per espirare una nuvola grigia. Deglutì a fatica, fece qualche passo verso la finestra sopra la testata del letto e, subito dopo averla aperta, si sedette sul davanzale. Era notte inoltrata, l'intero Istituto dormiva e avrebbe dovuto farlo anche lui se il giorno dopo non voleva risvegliarsi ancora più distrutto. Aspirò nuovamente e lasciò cadere un po' di cenere picchiettando un lato della cartina. C'erano poche nuvole quella sera, si potevano guardare le stelle brillare di splendida fine. La luna invece gli ricordò se stesso: era uno scarno spicchio pallido, che forse si sentiva vuoto proprio come lui. Sorrise triste. Con la mano libera si coprì un attimo gli occhi, tirò indietro i capelli sciolti e sospirò. La sua tecnica maledetta era davvero dura da tollerare, di certo non poteva negarlo. Raccoglieva dentro di sé l'essenza del male, assimilandone ogni stato d'animo, ogni angoscia, ogni paura, ogni dolore, ogni sofferenza, ogni rabbia, ogni rancore... per poi manipolarla a proprio piacimento: dall'esterno poteva anche sembrare figo, ma viverne i processi era davvero uno schifo. La sua mente vagava ed intanto la sigaretta si bruciava da sé, ogni tanto la nicotina si mescolava al sapore amaro della sua saliva e ricordò quei giorni lontani in cui era solo un bambino. Un brivido di freddo lo costrinse a drizzare ogni vertebra della sua colonna. «No, ti prego...» sussurrò strizzando gli occhi, provando a cancellare quei pensieri. Ma più si rifiutava più questi apparivano lucidi e vividi, spaventosamente reali.
Era solo un bambino, non aveva idea di cosa fossero quei mostri: alcuni erano buffi e bizzarri, innocui lo guardavano coi loro occhi strabici e stralunati; altri erano deformi e ripugnanti, malvagi lo terrorizzavano inseguendolo con i loro arti viscidi e le unghie affilate, bavosi lo minacciavano di ingoiarselo vivo in un boccone fra le loro zanne. All'inizio agiva d'istinto pur di sopravvivere. Quando poi avevano scoperto la sua tecnica, il suo dono, gli avevano ignorantemente spiegato come fare e perché. Loro non sapevano che cosa significasse avere quel dono. Nessuno avrebbe mai potuto sapere, eccetto lui, Geto Suguru, che cosa significava nascere e convivere con quella maledizione. Allora era solo un bambino, oggi era solo un ragazzo... eppure nonostante tutti quegli anni passati, continuava comunque a sentirsi sempre come all’inizio. La sigaretta gli cadde dalle dita, le gambe si mossero da sole balzando giù dal cornicione e correndo verso il bagno, le ginocchia si piegarono in due dinanzi alla tazza del water e le mani fecero in tempo a tirare su i capelli, mentre il capo era chino verso il basso. Non era riuscito a trattenersi. Quella volta, nemmeno le sigarette erano riuscite ad alleviare quella pena. Ripulì il tutto e ancora debole si sciacquò il viso e lavò i denti al lavandino, evitando di alzare gli occhi verso il riflesso nello specchio. Non voleva vedere il fantasma di sé ch'era in quel momento. Aveva timore di trovarvi specchiata qualche illusione e non avrebbe retto per una seconda volta di fila di rimettere l'anima nello scarico del water. Legò i capelli in uno chignon basso e morbido, malfatto, giusto per levarsi dal viso i fastidiosi ciuffi corvini. Barcollante si trasportò nuovamente in camera e si lasciò cadere sul materasso. Dimenticò la finestra aperta, non ebbe la forza per alzarsi e richiuderla, quindi si crogiolò sotto le lenzuola abbracciando le ginocchia al petto. Chiuse gli occhi e pregò di riposare almeno un po' quella sera.
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Si svegliò e mugolò infastidito, senza però schiudere le palpebre. Percepiva i raggi del sole riscaldargli la pelle ed un leggero venticello accarezzargli i capelli. Stirò le gambe verso il basso e al contempo le braccia verso l'alto, girò poi sull'altro fianco risistemandosi meglio sul cuscino. Desiderava dormire ancora un altro po', voleva lasciarsi cullare dal pensiero che, fino a quanto non avesse aperto gli occhi, non era ancora arrivato il giorno. Ma nella stanza il suo respiro quieto non era il solo a rimbombare. Corrucciò la fronte assieme alle sopracciglia, pur non volendo il suo cervello si attivò nell'identificazione di quella seconda presenza. Sentì una risata malcelata soffiargli contro il viso e lo riconobbe, a conferma della sua energia maledetta. «Buongiorno, splendore!» cantilenò a gran voce l’albino. Afferrò con un pugno il cuscino sotto la testa e glielo lanciò addosso facendolo cadere all'indietro sulla schiena. Il tonfo dovuto alla sua goffaggine fu seguito dalla sua fragorosa risata. Intanto Geto imprecò con la voce impastata dal sonno, voltandosi dall'altro lato verso il muro, coprendosi il viso con le mani. Si chiese come avesse fatto ad entrare nella sua camera e, ricordandosi di aver lasciato la finestra aperta, pregò che non si fosse introdotto arrampicandosi da quella adiacente della propria stanza. «Sei un idiota...» bofonchiò insultandolo ancora. «Come hai detto, scusa?» balzò seduto e poggiò il mento sul bordo del letto, fissandogli la schiena coperta malamente dal lenzuolo azzurrognolo. «Vattene, Satoru» lo cacciò, mentre cercava di coprirsi meglio. «Abbracciami, Satoru?» esclamò storpiando propositamente le sue parole. «No! Non ho detto-» provò a fermarlo ma quello già si era lanciato sul letto e gli aveva circondato il busto con le braccia, «Oi! Che diavolo stai facendo!? Mollami! Satoru!» si dimenò invano. L'albino continuava a ridere divertito contro la pelle del suo collo, il naso immerso nei suoi lunghi capelli corvini, il petto contro la sua schiena. Forse se fosse rimasto fermo e in silenzio, avrebbe addirittura potuto sentire il suo cuore martellargli all'interno della cassa toracica come un tamburo di parata. «Aw! Ma quanto siamo affettuosi oggi!» lo prese in giro e giustamente si beccò una gomitata sulla bocca dello stomaco, «OUCH!». Riuscì ad allontanarlo quel tanto che bastava per girarsi nella sua direzione e spingerlo giù dal letto con tutti e quattro gli arti, ma lui prontamente lo afferrò per un braccio e fece cadere entrambi sul parquet. E rideva ancora con le lacrime agli occhi, mentre il corvino cercava di dargli una lezione a suon di sberle. «Oi-» la voce monocorde di Shoko interruppe momentaneamente quella lite. La mora restò impalata sulla soglia, un’espressione impassibile in viso, annoiata e rassegnata dal comportamento infantile dei due, con un sopracciglio sollevato li squadrò in quella posizione alquanto equivoca in cui li aveva ritrovati. «Va beh, ti farò gli auguri dopo, una volta che avete finito qui» proferì senza dare loro il tempo di replicare e richiuse la porta dietro di sé lasciandoli spiazzati. «Levati!» si liberò dalla sua presa il corvino, mettendosi seduto. Gojo rotolò al suo fianco e lo imitò per poi fissarlo e scoppiare nuovamente a ridere. «Sei tutto rosso in viso!» lo additò sporgendosi nella sua direzione così da imbarazzarlo maggiormente. «Piantala, Satoru! Che cosa ho fatto di male per essere torturato così di primo mattino?» mugolò accovacciando le gambe e nascondendo il volto contro le ginocchia. «Suguru... sono le undici passate» lo corresse con un filo di voce. Non voleva metterlo a disagio, sapeva quanto fossero frustanti i postumi della sua tecnica, ma non poteva restare in silenzio quando si accorgeva dei loro sintomi. Anche se aveva spalancato gli occhi, in quella posizione, non poté vedere lo sguardo compassionevole dell'albino: non lo stava giudicando, né stava provando pietà nei suoi confronti, desiderava solo fargli capire che era lì, assieme a lui.
«Fa lo stesso, non importa» farfugliò nel disperato tentativo di farsi scivolare di dosso quella sensazione indesiderata di disagio. «Già, ma solo perché oggi è il tuo giorno, Suguru!» gli sorrise afferrandogli il capo e baciandogli una guancia. «Ma che-!?» con lo sguardo accigliato lo vide alzarsi in piedi ed incamminarsi vero la porta. «Datti una mossa! Hai già saltato la tua fantasmagorica colazione, quindi dobbiamo rifarci con il pranzo migliore che tu abbia mai mangiato!» lo riprese, fallendo miseramente nel risultare in qualche maniera autoritario ai suoi occhi, «Avanti, su! Ci sono tantissime sorprese che ti aspettano oggi per il tuo compleanno, Suguru! Ti aspettiamo nel giardino sul retro!» disse entusiasta uscendo dalla camera e lasciandolo da solo, seduto a terra, con la bocca spalancata per la confusione. «Auguri... compleanno...? Ma che giorno è oggi!?» brontolò sollevandosi per afferrare il cellulare abbandonato sulla scrivania «Si può sapere che cosa è preso a tutti!? Oh, diavolo!» lesse l'ora e la data indicata dal display scuro.
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Non aveva mai osato immaginare una cosa simile, anche perché non ne aveva mai avuto motivo. Era assurdo, sul serio incredibile, a tratti esilarante, ma senza ombra di dubbio insostenibile. Stare al passo dell'albino era impossibile: era una trottola, non stava fermo nemmeno un momento, un attimo era al suo fianco, quello seguente alle spalle del povero Nanami con in mano un cappellino a punta tutto colorato con tanto di elastico glitterato, poi era in mezzo a Shoko e Utahime giusto per infastidirle un po', immediatamente dopo con Haibara e Mei Mei ad ordinare l'intero menu dei dolci. Lo guardava intontito, sinceramente non aveva ben capito come si fosse ritrovato in quel ristorante ma soprattutto come tutti loro sapessero che quel giorno era il suo compleanno quando lui era stato il primo a dimenticarlo. Un leggero sorriso gli incurvò le labbra nel vederlo dibattere con la più grande su chi avesse dovuto pagare il conto e scommise che, per tutta quella sua energia, aveva per forza fatto scorta di zuccheri la sera prima. Con una mano si coprì metà viso, mentre rideva silenziosamente all'immagine di Gojo appisolato con una guancia schiacciata sul legno della scrivania, piena di dolciumi e cartine colorate, i capelli arruffati a coprire lateralmente gli occhi chiusi, gli occhialini tondi poco distanti abbandonati malamente, le braccia al penzoloni, seduto scomodamente. «Perché ridi, Geto-senpai?» gli chiese Nanami con il suo solito tono serioso, reso ridicolo dal cappellino in testa che scompigliava appena i sottili capelli biondi. Si trattenne dal sorridere apertamente a quel suo buffo aspetto: era tutta colpa dell’albino, come sempre ne sapeva una più del diavolo. «Satoru» rispose semplicemente, additando l’amico. «Già, gli scemi sono sempre comici» commentò alzando gli occhi al cielo. «Nanamin!» lo richiamò il diretto interessato, storpiando il suo nome ed infastidendolo ancora di più, «Dovresti portare rispetto al tuo senpai preferito!» gli ricordò saccente, prendendo il posto accanto a quello del corvino. «Infatti»asserì monocorde il minore. «Infatti cosa? HEY!» provò ad impedirgli di allontanarsi nuovamente, ma quello oramai si era definitivamente incamminato verso l'uscita del locale per raggiungere Haibara, che aveva seguito Shoko e Utahime fuori. «Ah, queste nuove generazioni di sciamani!» brontolò come un anziano lasciandosi cadere comodamente sullo schienale del divanetto color caffè. «Non sono più quelle di una volta, vero?» lo incalzò sarcastico e scosse il capo rassegnato, quando l'albino annuì serio. «Allora?» Non capì quel quesito pronunciato sottovoce, gli si rivolse confuso con lo sguardo accigliato, in attesa che si spiegasse meglio. «Come ti senti, festeggiato?» riformulò Mei Mei, appoggiando i gomiti sul tavolo e sporgendosi verso di lui, «Il tempo scorre e gli anni passano... hai già pensato come finalizzare economicamente la tua carriera?» Batté un paio di volte le palpebre, totalmente preso alla sprovvista, ma d’altronde dalla ragazza dalla lunga treccia turchina non poteva aspettarsi altro che argomenti inerenti al business: aveva un incomprensibile amore per il denaro, una passione innata per l'economia e la finanza, adorava far fruttare i propri guadagni e massimizzarli così da poter uscire assieme alle altre due amiche a fare compere. «Beh, ecco... non proprio» alzò le spalle, imbarazzato. L'espressione incredula, che le cancellò il sorriso ammiccante dalla tinta vermiglia, e le lunghe ciglia spalancate sul suo candido viso, lo fecero sentire ancora di più in difetto.
 «Il tempo è denaro, Geto-kun! Dobbiamo rimediare al più presto, se non vuoi ritrovarti sotto i ponti a perire la fame ed il freddo!» esclamò catastrofica. «Oh, me! Mei-chan! Non traviarmi Suguru con tutti i tuoi calcoli fiscali e la tua mania per i numeri! Sciò sciò!» la rimproverò l'amico, scacciando via l'argomento con un gesto non curante della mano. Lei non ebbe modo di replicare poiché una sfilza di camerieri fecero a turno per riempire i loro tavoli di quella che al corvino parve l'intera pasticceria del locale. «Non credi di aver esagerato un po'?» sollevò un sopracciglio, scettico all'idea che sarebbero riusciti a mangiare il tutto, anche se erano effettivamente in sette. «No, perché lo chiedi?» domandò curioso con già in mano un cucchiaino di cheese-cake alla crema e fragola e le guance piene. Tra tutti e sei, l'albino era l'unico ghiotto di zuccheri, ma a quanto pare era anche l'ignaro di turno. E Geto lo lasciò fare, non comprendendo appieno tutta quella sua gioia ma non volendola guastare in nessun modo. Mei Mei richiamò per messaggio i compagni fuori, avvisandoli della tavola imbandita e poi fece da giudice per la gara fra Gojo ed Haibara, che si sfidarono per determinare chi fosse in grado di ingerire quanti più piattini di tiramisù. I rimanenti si divisero per le scommesse. «Tanto sei solo bravo a strafogarti di schifezze, Gojo!» sminuì la sua vittoria Utahime, che per l'antipatia naturale provata per questo aveva semplicemente puntato contro di lui senza riflettere più di tanto. «Ha! Io sono bravo in tutto, Utahime-chan!» si pavoneggiò di tutta risposta. «Saresti più credibile, se non avessi il naso sporco di cacao» lo ribeccò Geto e tutti scoppiarono in una fragorosa risata quando l’albino mise su un broncio a mo’ di bambino.
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Che cos'è il fallimento? Il mio mancato successo nel mondo letterario mi ha devastato, ma mi ha insegnato una grande lezione: che non ero io a sbagliare, ma la letteratura stessa. E che per reclamare il mio posto nel mondo avrei prima dovuto distruggerlo interamente. E cosi feci. Una società fatta di viscidi osservatori anonimi non può fiorire, proprio come un uomo con le dita dei piedi in cancrena non può saltare. Ciò che separa l'uomo dalle macchine, è che le macchine non hanno un pensiero proprio. Inoltre sono fatte di metallo. Mentre l'uomo è fatto di carne. Se sei un soldato, non combattere per la mia libertà, combatti per la libertà del soldato che combatte al tuo fianco. Questo renderà il mondo più stimolante per entrambi. Una brava persona segue le regole, una grande persona segue sè stessa. I bulli non sono altro che burberi e bugiardi. Al centro dell'industria c'è solo polvere. Non possono crocifiggerti, se la tua mano è stretta in un pugno. Se ti trovassi a contorcerti per adattarti a un sistema, caro lettore, fermati e domandati se sei davvero tu a dover cambiare, o è il sistema. Cit. Scissione - Regia di Ben Stiller
https://www.youtube.com/watch?v=-K4Wdhlz7lM
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sorrisicollaterali · 2 years
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Gourmet - la paura fa novanta
Premessa: Siamo a Ottobre ed è il periodo di Halloween e i racconti dell’orrore, per questo motivo ho deciso di provare a scrivere di un genere che solitamente non mi piace proprio. Il testo non è adatto ai minori di 14 anni e soggetti troppo suscettibili. Non fa spaventare, quello è un livello troppo alto.
Miranda ha gli occhi fissi sulle Converse rosse, a penzoloni su di un’altalena che fa avanti e indietro. Quasi l’alba o quasi il tramonto, ha dimenticato lo scorrere del tempo…in che giorno ci troviamo oggi? Mercoledì 13! Peccato è il giorno sbagliato, uno di quelli che non portano sfortuna. Lei ha sempre amato i Venerdì, eppure si dice che chi nasce di Venerdì non può essere toccato. Un grande paradosso. In effetti la storia va al contrario, lei tocca senza essere sfiorata. Lei ti entra nelle viscere e ti corrode l’anima, la fa a pezzetti per renderla il suo pranzo. I piedi toccano il suolo con un balzo giù dall’altalena, dritti in una pozzanghera di sangue e fango; adesso anche le suole delle scarpe sono tinte di rosso, non vi è più nulla di quell’originale colore bianche. La purezza non è un gioco da ragazzi, se la mangiano i deboli e i più viscidi. Per la prima volta dopo ore i suoi occhi scrutano l’orizzonte, neri come la pece più scura. Se n’è andata anche l’anima, è corsa a rifugiarsi in un luogo più accogliente. Non si gela ma c’è freddo, che ti tocca le ossa e ti cosparge la schiena di brividi. Eppure le sue mani non la tradiscono nemmeno per un secondo, neanche il più piccolo dei tentennamenti la percorre. Se potessimo controllare più da vicino, diremmo quasi che non respira. I passi che fa avanti sono tonfi sordi, talmente leggeri da non lasciare nemmeno l’impronta sul terreno bagnato. Anche quei piccoli fiorellini che spiccavano lì qualche ora prima adesso sono inermi al suolo. Il suo sguardo ricade – assente – su di un braccio lacerato a pochi passi da lei. La carne sta già andando in putrefazione e i brandelli di pelle non sono che striscioline pronte a cedere. Del resto del corpo rimane poco e nulla: la testa è scomparsa e il torace è aperto in due, i vari arti sono disseminati in giro…un piede da una parte e una mano dall’altra. Una scarpa è appoggiata su di una panchina, intatta; a guardarla si potrebbe pensare che qualcuno l’abbia dimenticata lì per puro caso. Con un movimento calmo miranda raccoglie un contenitore, la mano esile sulla plastica blu. Ha tutto il tempo del mondo, per un momento sembra che mai nessuno dovrà spuntare per queste strade. La pelle è macchiata di sangue ormai secco, non si prende nemmeno la briga di coprirlo mentre s’incammina lungo la via che la porterà a casa. Solo il vento le fa compagnia, senza portare sollievo. Casa sua è un’abitazione anonima: tre scalini davanti una porta nera, due piani arredati in modo austero e le tende delle finestre sempre chiuse. Solo le lampadine dai toni caldi danno quel poco di luce che illumina le stanze. Mentre entra in casa – come abitudine – fa attenzione a non sbattere la porta, ma i vicini non si lamenterebbero mai. Il tavolo della cucina è al centro della stanza, abbastanza da occupare tutto lo spazio e rendere il passaggio complicato. Vi poggia su il contenitore che tiene ancora ben stretto in mano, prima di dirigersi verso il lavandino e gettare le mani sotto l’acqua corrente. Il sapone sfrega sulla pelle tirando via ogni cosa. Perfino le bolle coi riflessi arcobaleno scoppiano all’istante in quell’atmosfera tetra. Da un cassetto scorrevole tira fuori uno strofinaccio pulito, l’odore dell’ammorbidente è inebriante; si asciuga le mani e lo poggia sul tavolo, pronto per svolgere il ruolo di tovaglia. Le posate che dispone lì sopra sono d’argento, talmente lucide da potercisi specchiare. Infine, può finalmente sedersi. Sta per gustarsi il suo ultimo pasto, non è rimasto più nessuno.
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yellowinter · 3 years
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Togliti gli scudi, rimaniamo nudi in questi sguardi profondi mondi assurdi condivisi per istanti, ma è sempre troppo tardi se ti fidi cadi e copri di lividi visi troppo pallidi, occhi troppo lucidi che ora solo più chiudi piangi, in cosa credi? i secondi scorrono e ti chiedi dove trovare motivi validi per stare in piedi, dove li trovi? dentro a modi rapidi per cancellare i fastidi viscidi che strisciano tra i ricordi che nascondi, lì sotterrati sotto a lapidi che citano RIP, ma non esiste riposo, tu ancora ti mordi le labbra perché altrimenti gridi e prendi acidi e bevi liquidi e perdi fluidi, è sangue per stare meglio ma pretendi troppo procedi nel dolore e attendi quella pace tra poco ti uccidi.
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greenlim · 11 months
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Piedi Viscidi holding Mestolo
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arreton · 3 years
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Oggi, noi di tautologiedialettiche, siamo riusciti a librare in alto come una meravigliosa libellula colorata, o un tenerissimo pettirosso. E abbiamo visto sia la libellula, sia un delizioso pettirosso che ci ha ricolmato il cuore di gioia.
Tutto questo per dire che, malgrado le nostre aspettative oltremodo pessimistiche legate al paese-merda dove viviamo e alle nostre sempreverdi insicurezze, siamo riusciti ad andare a “correre” e siamo stati... bene. Ci hanno sorprese molte cose, nel mentre. Ecco, prima tra tutte l’accogliere così entusiasticamente l’atto in sé del correre: appena varcato il cancello della villa comunale ci siamo messi a correre come se dovevamo raggiungere qualcosa, il nostro passo aveva un che di disperato. Tentammo più volte, in passato, ma il corpo non era pronto e nemmeno la testa. Ora invece oltre che ad essere pronti ne sentiamo il bisogno fisiologico: di sentire il petto che brucia, sentire il corpo che si muove in maniera intensa; sentiamo il bisogno di scaricare. Non sappiamo bene cosa, nello specifico: si manifesta con un perenne stato ansioso e pensieri ossessivi, ma crediamo che sia più una rabbia profonda che man mano sta salendo in superficie e ciò ci fa paura perché non sappiamo come gestirla. Siamo come i chihuahua: ci tiene in piedi l’ansia, l’isteria; ed in qualche modo dobbiamo sfogare tutto questo. Ci ha spinti, anche il sentire il corpo incriccato, dolorante, proprio perché non si muoveva bene, si muoveva poco; oltre che alla necessità di sentirci, banalmente, di buon umore: l’abbattimento e la tristezza, in questi giorni, sono stati così profondi, con picchi di sconforto dal sapore eterno ed infinito che ci siamo detti che era meglio scuotersi un po’, prima di rischiare di stare male sul serio. Abbiamo, quindi approfittato della bella giornata e abbiamo provato. E ci è piaciuto moltissimo! Il nostro animo, poi, è sciocchino come l’animo di molti, malgrado il nostro atteggiarci da persona profonda: come ci sentivamo sprint e liberi quando nelle orecchie suonava Adios dei KMFDM (che si riconfermano ottimi, per la corsetta)! Cercavamo Los niños del parque e credevamo fosse nell’album Adios, invece no; però era divertente sentire: Dosvidanija ciao adieu| Hasta la vista I'm on my way| Goodbye sayonara| Auf nimmerweidersehen| Over and out| And down the drain. Ci sentivamo intoccabili, come se la merda di cui siamo circondati non ci potesse toccare. Simbolicamente è molto liberatorio, pure se sappiamo, appunto che è da ingenui e persone semplici. Tra l’altro finalmente riusciamo a passare davanti ad un gruppo - ristretto - di ragazzi (sì, tutti maschi) senza vergognarci sentendoci degli obbrobri viscidi, ma con lo sguardo alto e concentrato sulla “corsa”. Sappiamo di non essere tutta questa bellezza - né in generale, né tanto meno mentre corriamo: comunque il nostro passo risulta abbastanza pesante, nonostante noi non lo sentiamo faticoso - però ecco riusciamo a non sentirci inferiori, solo un poco intimoriti da un eventuale giudizio o presa per il culo; ma se non altro non ci frena come timore, come in passato.  In un paio di giorni ci vediamo cresciuti: al di là della pozzanghera. Una l’abbiamo finalmente superata. 
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francesca-fra-70 · 3 years
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Mattarella,Pd,5S...Viscidi come scarafaggi, sempre intenti a piegare la schiena per baciare i piedi  a Renzi un deficiente che vi tiene in pugno con un 2% di preferenze..Merdacce!😏
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mementomorish · 4 years
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Everything In Its Right Place
 It's another beautiful day, in a sad grubby world.
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  La prima cosa che Kris vede quando apre gli occhi dopo averli chiusi per l’ultima volta, è il cielo.
  È un cielo bello e pulito, con un paio di nuvole e il profumo del mare e l’odore del pesce appena pescato nell’aria. Kris sente i muscoli rilassati, il calore della sabbia cotta dal sole dietro la schiena, prende un respiro profondo: e si sentirà in pace. Improvvisamente invaso dalla certezza che questa è la sua ricompensa, in fondo, e che in fondo morire non è affatto male quando finisci in Paradiso. 
  Un bastone gli pungola un fianco con una risata familiare e un “Tirati su, pigro!” e il viso di Nonna Bijoux gli compare davanti.
    Passa una settimana. Un mese. Forse di meno, forse di più. Kris è con la sua famiglia, e non solo quella che ha conosciuto, ci sono tante persone, venute prima, che verranno poi, e piano piano le memorie della Terra e della vita iniziano a scomparire.
  È seduto in riva al mare con i piedi immersi nell’acqua, quando improvvisamente sente una fitta al cuore. Quando guarda in basso, una grossa chiazza nera gli copre il  petto proprio all’altezza di quel dolore, ed è ancora preso a contemplare quell’accadimento quando dei legacci neri e viscidi sbucano fa sotto la sabbia, gli strattonano le braccia, le gambe, lo trascinano sottoterra, e il sogno diventa un incubo.
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  Da allora, non c’è più luce. Per un tempo indefinito è solo quel dolore al petto e la sensazione di essere imprigionato, legato, nel buio, nel freddo. Poi, il dolore passa. 
  Kris è rannicchiato in posizione fetale, la sensazione di essere sott’acqua, ma senza bisogno di respirare. È tiepido, profuma di pepe di Cayenne, pennyroyal, franchincenso, sa di sale. Non è sgradevole. Non è gradevole. Semplicemente, è.
  Il tempo perde di significato.
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bbsblogrn · 5 years
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Mi ricordo di quella volta che andammo in gita
Era la prima sera in città, eravamo stanche, ma allo stesso tempo gasate, come in ogni gita.
Ci siamo incontrati nella hall dell'hotel alle 23 circa, noi ragazze ovviamente in ritardo, mentre i ragazzi sbuffavano sul divano.
Non ricordo precisamente cosa indossavo.
Sicuramente i miei tronchetti costati un occhio della testa, ma comodissimi.
Una volta in strada ci è toccata una bella e lunga passeggiata, ad occhio direi sui 3 km.
Arriviamo in uno dei quartieri più famosi per la movida della città.
Era di domenica, ma era decisamente deserto.
Ovviamente c'erano gli immancabili, gli irriducibili, quelli che sono davanti ai bar 24 ore al giorno, 7 giorni su 7.
Noi agghindate, coi tacchi che fanno "clap clap" sui sampietrini.
Ovviamente, tutti a fissarci.
Ovviamente, in quei vicoli angusti, tutti a venirci addosso, a squadrarci, a fissarci come io guardo quel bellissimo tacco di bottega veneta in vetrina, che però non potrò mai avere ai miei piedi.
Però lo ruberei.
Allo stesso modo loro, sapevano che non ci saremmo mai avvicinate di nostra spontanea volontà.
Però ci avrebbero prese.
Ci avrebbero portate in qualche vicolo cieco.
Ci avrebbero spogliate delle nostre gonne, le nostre maglie a incrocio, i nostri pantapalazzo, i miei comodissimi tronchetti.
I nostri ragazzi devono aver percepito il nostro disagio, la nostra paura.
I nostri ragazzi ci hanno preso a braccio, due ognuno perché loro erano in minoranza, si sono messi attorno a noi, hanno provato a coprirci il più possibile, a farci passare inosservate, e far sì che quegli sguardi viscidi non cadessero sui nostri top di Zara, sulle nostre pellicce eco di Stradivarius.
I nostri ragazzi ci hanno difeso da quello che dobbiamo affrontare sempre, ogni giorno, che sia nel quartiere più famoso della città, o nel piccolo centro di paese, che sia in Converse o con i miei comodissimi tronchetti, che sia triste o felice.
Prima di tutto sono donna, sono femmina, sono un oggetto.
Prima di laurearmi, di divertirmi, di trovarmi un hobby, devo dare piacere all'uomo, che sia sessuale o meno.
Prima di essere mia, devo essere di un altro.
Perché è questo che pensano gli uomini.
Forse i nostri ragazzi dovrei chiamarli Uomini, con la U maiuscola, perché a 18 anni saper di dover difendere le tue compagne di classe dagli sguardi viscidi di uomini, con la u minuscola, millimetrica, che invece di anni ne hanno 20, 30, ma anche 50, 60, fa di te un uomo, fa di te qualcosa che l'età non ti darà mai se non ce l'hai all'interno.
Jane Eyre, o meglio, la Bronte, diceva che non sono gli anni che hai a fare la persona, ma come li hai vissuti.
Ebbene, se hai 30 anni ma ne hai passati la metà a fischiare le ragazze, a inseguirle, a squadrarle, fidati che sei una persona di merda.
E noi ragazze? Noi donne? Noi bambine?
Riporto la frase della mia professoressa di matematica "non ho figli, ma se un giorno dovessero arrivare spero siano maschi, perché nascere femmina è una condanna"
Condannate ad avere sempre paura, a dover pensare "stasera prendo il treno, non posso mettere la gonna", a dover fare i giri più lunghi per arrivare a casa perché "per la strada corta c'è quel vicoletto buio, non si sa mai".
Condannate a non poter vivere.
Se mai un giorno avrò una figlia, spero di poterle leggere questo e dirle "sai, quando mamma era giovane non era mica così, siete fortunate voi di quest'epoca"
Ma una parte di me sa che gli sguardi viscidi non finiranno mai, e dovrai sempre cercare qualcuno che ti dia il braccio per passare nei vicoletti angusti.
. BAC
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gregor-samsung · 5 years
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Il negro non sospettava di nulla. Non si avvedeva di esser comprato e rivenduto ogni quarto d'ora, e camminava innocente e felice, tutto fiero delle sue scarpe d'oro lucente, della sua uniforme attillata, dei suoi guanti gialli, dei suoi anelli e dei suoi denti d'oro, dei suoi grandi occhi bianchi, viscidi e trasparenti come occhi di polpo. Camminava sorridendo, la testa inclinata sulla spalla e gli occhi perduti nel vagar remoto di una nuvola verde nel cielo del color del mare, tagliando, con la candida forbice dei suoi denti aguzzi, la frangia azzurra che orlava i tetti, le gambe nude delle ragazze appoggiate alla ringhiera dei terrazzi, i garofani rossi sporgenti dai vasi di terracotta sui davanzali delle finestre. Camminava come un sonnambulo, assaporando con delizia tutti gli odori, i colori, i sapori, i suoni, le immagini che fanno dolce la vita: l'odore delle frittelle, del vino, dei pesci fritti, una donna incinta seduta sulla soglia di casa, una ragazza che si gratta la schiena, un'altra che si cerca una pulce nel seno, il pianto di un bambino in culla, il riso di uno 'scugnizzo', il lampo del sole nel vetro di una finestra, il canto di un grammofono, le fiamme dei Purgatorii di cartapesta dove i dannati bruciano ai piedi della Vergine, nei tabernacoli agli angoli dei vicoli, un ragazzo che col coltello abbagliante dei suoi denti di neve trae da una curva fetta di cocomero, come da un'armonica, una mezzaluna di suoni verdi e rossi scintillanti nel cielo grigio di un muro, una fanciulla che si pettina affacciata alla finestra, cantando 'ohi Marì' e mirandosi nel cielo come in uno specchio. Il negro non si accorgeva che il ragazzo che lo teneva per mano, che gli accarezzava il polso, parlandogli dolcemente e guardandolo in viso con occhi mansueti, ogni tanto cambiava. (Quando il ragazzo vendeva il suo black a un altro 'scugnizzo', affidava la mano del suo negro alla mano del compratore, e si perdeva tra la folla.) Il prezzo di un negro al 'mercato volante' era calcolato sulla sua larghezza e facilità nello spendere, sulla sua golosità nel bere e nel mangiare, sul suo modo di sorridere, di accendere una sigaretta, di guardare una donna. Cento occhi esperti e avidi seguivano ogni gesto del negro, contavano le monete ch'egli traeva di tasca, spiavano le sue dita rosee e nere, dalle unghie pallide. V'erano ragazzi espertissimi in questo minuto e rapido calcolo. (Un ragazzo di dieci anni, Pasquale Mele, comprando e rivendendo negri al 'mercato volante', s'era guadagnato in due mesi circa seimila dollari, con i quali aveva acquistato una casa nei pressi di Piazza Olivella.) Mentre vagabondava di bar in bar, di osteria in osteria, di bordello in bordello, mentre sorrideva, beveva, mangiava, mentre accarezzava le braccia di una ragazza, il negro non si accorgeva di esser diventato una merce di scambio, non sospettava neppure di esser venduto e comprato come uno schiavo. Non era certo dignitoso, per i soldati negri dell'esercito americano, "so kind, so black, so respectable", aver vinto la guerra, essere sbarcati a Napoli come vincitori, e trovarsi ad essere venduti e comprati come poveri schiavi. Ma a Napoli queste cose accadono da mille anni: è quel che è capitato ai normanni, agli angioini, agli aragonesi, a Carlo VIII di Francia, a Garibaldi stesso, allo stesso Mussolini. Il popolo napoletano sarebbe morto di fame già da molti secoli, se ogni tanto non gli capitasse la fortuna di poter comprare e rivendere tutti coloro, italiani o stranieri, che pretendono di sbarcare a Napoli da vincitori e da padroni.
Curzio Malaparte, La pelle, Edizioni “Aria d'Italia”, Roma-Milano, 1957 [1ª ed.ne 1949]; pp. 29-31.
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